Fëdor Dostoevskij

L’idiota

foto © SF/Bernd Uhlig

Mieczysław Weinberg, L’idiota 

Salisburgo, Felsenreitschule, 23 agosto 2024

(video streaming)

★★★★★

Dostoevskij a Salisburgo, #2

Le seconda incursione dostoevskiana del Festival di Salisburgo include il romanzo L’idiota. In fuga, incalzato dai debiti, tormentato dagli attacchi di epilessia, morbosamente attratto dal gioco: è in queste condizioni che Fëdor Dostoevskij scrive il suo grande capolavoro iniziato sul lago di Ginevra nel settembre del 1867, proseguito a Milano e terminato nel gennaio del 1869 a Firenze. Il suo romanzo “polifonico” è messo in musica e costituisce la settima e ultima opera di Mieczysław Weinberg, il compositore russo-polacco di cui si è conosciuto e apprezzato La passeggera, lavoro terminato nel 1968 ma messo in scena solo nel 2010.

Anche L’idiota, scritto da Weinberg nel 1986/1987, ha dovuto attendere il 9 maggio 2013 per vedere la prima assoluta, a Mannheim, diciassette anni dopo la morte dell’autore, diretto da Thomas Sanderling, amico del compositore. Il testo in quattro atti e dieci scene del musicologo e librettista Alexandr Medvedev, lo stesso de La passeggera, condensa abilmente le vicende del lungo e complesso romanzo in una narrazione dal taglio quasi cinematografico in cui le scene talora si sovrappongono.

Atto primo. Scena I. Incontro in treno. Di ritorno da un lungo soggiorno in un sanatorio in Svizzera, dove ha trascorso diversi anni a causa della sua salute cagionevole per curare le sue crisi epilettiche, il principe Myškin o “l’Idiota” come viene chiamato da alcuni, un giovane appartenente ad un’altolocata ma ormai decaduta famiglia nobile, sta per arrivare a San Pietroburgo dopo aver attraversato l’Europa in treno. Sul treno incontra Rogožin e Lebedev. Nonostante le differenze sociali e le storie di vita incomparabili, Myškin, e Rogožin stringono subito una sincera amicizia. Rogožin gli racconta del suo amore sfrenato per Nastas’ja Filippovna. Lebedev, un personaggio che apparirà più volte in quest’opera per introdurre o commentare gli sviluppi della storia, sostiene di conoscere tutti e offre i suoi servizi a Rogožin. Scena II. A casa degli Epančin. Il Principe non conosce nessuno a San Pietroburgo. Va a trovare la famiglia Epančin. La madre è una lontana parente che non ha mai incontrato. Lei e suo marito hanno tre figlie: Aleksandra, Adelaida e Aglaja. Il generale Epančin e Totskij discutono del loro progetto segreto. Totskij, un uomo di mezza età, ha cresciuto Nastas’ja, un’orfana che ha reso sua amante qualche anno fa. Ora vuole sposare una donna con una buona reputazione. Dal canto suo, Nastas’ja ha promesso di rendere pubblica la sua decisione la sera della sua festa di compleanno: accetterà di sposare Ganja Ivolgin, un giovane a cui Totskij ha dato una grossa somma di denaro per convincere la giovane donna. L’altro piano di Totskij è quello di sposare la figlia più giovane di Epančin, Aglaja. Con grande sorpresa di Epančin, quando Ganja gli mostra una fotografia di Nastas’ja, il principe non solo rimane affascinato dal suo viso, ma dice di conoscerla per nome grazie a un certo Rogožin incontrato sul treno. Il principe racconta poi alla signora Epančin e alle sue figlie del suo soggiorno in Svizzera e sottolinea l’importanza fondamentale per lui dei bambini e delle montagne. In cima alle montagne si trova la verità, dice. Gli Epančin sono tutti sorpresi e affascinati dalla personalità del giovane. Da parte sua, Rogožin, con l’aiuto di Lebedev, cerca di raccogliere più denaro possibile per convincere Nastas’ja, alla sua festa, a partire con lui e non con un altro.
Atto secondo. Scena III. A casa degli Ivolgin. Il Principe riflette sulla bontà e sul male. Si è trasferito dagli Ivolgin e cena con i coniugi, il figlio Ganja e la figlia Varya. Tutti attendono la decisione di Nastas’ja Filippovna, che Varya detesta a causa della sua reputazione e dei suoi rapporti poco chiari con gli uomini. Con grande sorpresa di tutti, Nastas’ja Filippovna visita casa Ivolgin senza essere invitata. Per la prima volta, il Principe si trova faccia a faccia con Nastas’ja Filippovna. È profondamente commosso. Arrivano Rogožin e i suoi usurai. Rogožin attacca Ganja. Assicura a Nastasya che raccoglierà una somma molto più grande del suo rivale. Indignato, il Principe interviene e chiede a Nastas’ja Filippovna se non si vergogna del suo comportamento e di aver accettato di essere trattata come una merce volgare. Colpita dalle parole del Principe, Nastas’ja Filippovna si avvicina alla madre di Ganja, le bacia la mano e se ne va. Scena IV.
Il giorno del Santo. A casa di Nastas’ja la festa è in pieno svolgimento. Tutti attendono l’annuncio della decisione di Nastas’ja. Anche se nessuno lo aspettava, né la padrona di casa né i suoi ospiti, appare il Principe. Dice a Nastas’ja che tutto ciò che la riguarda è perfetto. La donna è divertita da parole che non le sono mai state rivolte prima. Nastas’ja chiede al Principe se deve accettare di sposare Ganja. Lui risponde: «No». Nastas’ja dice agli ospiti che ora è una donna libera. Rogožin arriva con un’enorme somma di denaro. Scopre che l’uomo che gli impedisce di sposarla non è più Ganja, ma il Principe. Il Principe dice a Nastas’ja che la ama, che è una donna onesta che ha sofferto e che vuole prendersi cura di lei. C’è una nuova sorpresa per tutti: un documento che il Principe ha ricevuto e portato alla festa afferma di essere l’erede di una notevole fortuna. Nastas’ja ripete che nessuno le ha mai parlato come il Principe. Ma alla fine decide di lasciare la festa con Rogožin e di sposarlo. Dice che il Principe è così innocente che lei lo macchierebbe. Non vuole essere per lui quello che Totskij è stato per lei. Per lei, il Principe deve sposare Aglaja. Prima di partire con Rogožin, getta nel fuoco il denaro raccolto da Rogožin. Se ne vanno. Epančin dice al Principe che è una donna perduta. Lui risponde che deve essere salvata.
Atto terzo. Scena V. Dai Rogožin. Cinque mesi dopo. Veniamo a sapere che Nastas’ja e Rogožin dovevano sposarsi, ma poco prima della cerimonia lei fuggì dal Principe, chiedendogli di salvarla. Poi ha lasciato il Principe per tornare da Rogožin a San Pietroburgo. Per questo motivo il Principe si reca in visita a Rogožin. Il Principe vuole dirgli che questo futuro matrimonio sarebbe un disastro, sia per Nastas’ja che per lui, Rogožin. Gli dice che non è un suo rivale, perché lui, il Principe, ama Nastas’ja non per amore ma per pietà. Rogožin sostiene che entrambi amano la stessa donna, ma che lei lo odia e che è scomparsa da cinque giorni. Dichiara che la pietà del Principe per Nastas’ja è maggiore, ma peggiore, del suo amore per lei. Aggiunge che Nastas’ja è innamorata di lui ma che non lo sposerà perché non vuole rovinargli la vita. Su invito di Rogožin, i due uomini si scambiano le croci che portano al collo. Alla fine annuncia che si arrende, che Nastas’ja deve andare con il Principe, che è il suo destino. Una volta in strada, il Principe è sopraffatto dalla forza dell’amore di Rogožin per Nastas’ja. Dice che arriverà a capirla, che anche lui proverà pietà per lei. La compassione, dichiara, è la più potente delle leggi. Il Principe ha un attacco epilettico proprio quando Rogožin appare con un coltello. Di fronte al Principe a terra, Rogožin fugge. Scena VI. Il povero cavaliere. Il Principe è immerso in un sogno. Si sta riprendendo da una violenta crisi epilettica. Lebedev gli dice che Nastas’ja ha paura di Aglaja. A casa Epančin. Davanti ai genitori, alle sorelle e al principe, Aglaja canta il poema del povero cavaliere, che parla di un uomo e dell’ideale che persegue. Conclude con le lettere N. F. B., che stanno per Nastas’ja Filippovna Baraškova, una provocazione al Principe. Egli dice ad Aglaja che lei è la sua luce e la sua gioia, ma lei risponde che non lo sposerà mai. Il principe è confuso perché non le ha mai chiesto di sposarlo. Aglaja scoppia a ridere e porta il principe a un concerto. La signora Epančin parla delle sue tre figlie nubili e delle sue preoccupazioni per loro. Scena VII. Due incontri. Il Principe ha ricevuto una lettera da Aglaja che gli chiede di incontrarla per discutere di una questione che lo riguarda. Una volta insieme, lei gli dice innanzitutto che sta cercando un senso alla sua vita, che sogna di studiare. Il Principe le dice ancora che per lui lei è la luce. Questo provoca un violento rimprovero da parte di Aglaja, che rivela di sapere che il Principe ha vissuto in segreto con Nastas’ja per un mese intero. Il Principe reagisce dicendole che non ama Nastas’ja, ma che prova un’infinita pietà per lei. Aglaja allora gli dice che Nastas’ja le ha scritto, implorandola di sposare il Principe. Aggiunge che è sicura che il Principe sia l’unico uomo che Nastas’ja ama, ma che sposerà Rogožin e si ucciderà se lei, Aglaja e il Principe si sposeranno. Il Principe le dice che è pronto a dare la vita per salvare Nastas’ja, ma che non può più amarla. Aglaja minaccia di rivelare al padre l’esistenza di queste lettere e dice di essere pronta a far rinchiudere Nastas’ja. Il Principe è sconvolto. Si sente incapace di portare gioia al mondo. All’improvviso appare Nastas’ja. Si inginocchia davanti a lui, gli chiede se è felice e giura che il giorno dopo sparirà dalla sua vita. Rogožin appare e vuole sapere perché non ha risposto alla domanda di Nastas’ja. Il Principe risponde che no, non è felice.
Atto quarto. Scena VIII. La confessione di Lebedev. Gli Epančin discutono dei meriti di Aglaja che sposa il Principe. La signora Epančin si oppone fermamente. Davanti ai genitori e alle sorelle, Aglaja provoca il Principe e gli chiede quando finalmente le farà la proposta. Il Principe è sconcertato, le dice che lei è l’unica persona per cui prova amore. Lebedev rivela al Principe che Aglaja ha deciso di incontrare Nastas’ja. Il Principe è sconvolto e dichiara di aver intuito che il destino sarebbe intervenuto e che Nastas’ja sarebbe apparsa all’ultimo momento. Scena IX. I rivali. A casa di Rogožin. Le due coppie sono nella stessa stanza. Aglaja dice a Nastas’ja che le deve delle risposte alle sue lettere. Accusa violentemente Nastas’ja di egoismo e le proibisce di amare il Principe. Aglaja sostiene di sapere come dargli l’amore di cui la sua anima unica ha bisogno. Nastas’ja le risponde violentemente, dicendo che è gelosa e spaventata e le chiede di andarsene. Se non se ne va, Nastas’ja dichiara che chiederà immediatamente al Principe di lasciare Aglaja per sempre e dice a Rogožin che non ha più bisogno di lui. Il Principe è sconvolto. «È così infelice», dice di Nastas’ja. Aglaja se ne va, convinta che la sua relazione con il Principe non sia più possibile. Anche Rogožin se ne va. Nastas’ja e il Principe rimangono soli. Lebedev commenta ciò che accadrà in seguito. Il matrimonio previsto tra il Principe e Nastas’ja non ha avuto luogo. Poco prima della cerimonia, Nastas’ja scappò con Rogožin, che aveva notato tra la folla, gridando: «Salvami! Portatemi via! Dove vuoi tu!». Scena X. La riconciliazione. Il Principe vuole rivedere Rogožin. Si reca a casa sua. Non ha più visto Nastas’ja da quando ha abbandonato la cerimonia nuziale. Rogožin gli dice che Nastas’ja è a casa sua. Il Principe capisce cosa gli sta dicendo Rogožin: ha ucciso Nastas’ja. Il Principe viene poi a sapere che Rogožin l’ha uccisa usando lo stesso coltello che avrebbe usato per uccidere lui, il Principe Myškin. Rogožin e il Principe decidono di passare la notte accanto al corpo di Nastas’ja.

La presente produzione salisburghese de L’idiota è quella che potrebbe confermare il nome di Weinberg nella trilogia dei russi della seconda metà del Novecento, assieme a Prokof’ev e Šostakovič cioè. Lo fanno prevedere la qualità dello spettacolo affidato per la parte visiva a un altro polacco, Krzysztof Warlikowski che ambienta la vicenda nella Russia del passato presente. La scenografia della moglie Małgorzata Szczęśniak copre le arcate della Felsenreitschule con una lunghissima parete di legno in cui si inserisce uno schermo per la proiezione dei video di Kamil Polak e un ambiente aggettante chiuso, per le scene più intime. Pochi altri elementi occupano lo spazio immenso del palcoscenico che permette la compresenza di scene diverse. Concepito prima dell’invasione dell’Ucraina, lo spettacolo ha assunto un ulteriore significato, come scrive il regista: «Dostoevskij è una figura pericolosa. Non ha mai nascosto il suo lato antisemita, razzista, nazionalista, panslavo e, alla fine della sua vita, zarista. È la grande mente dietro l’immagine della Russia eterna, forte, dominante e oscura. Oscura e in conflitto con i valori dell’Europa occidentale. Sorprendenti sono le analogie con quanto sta accadendo dal 24 febbraio 2022, o più precisamente dall’occupazione di parte del Donbass e della Crimea nel 2014. Se il genio di Dostoevskij non fosse stato al servizio del nazionalismo, forse i russi non sarebbero diventati gli autori di tutto ciò che hanno commesso nel corso del XX secolo e di ciò che vediamo oggi in Ucraina». 

A contrasto di tutto ciò è la figura dell’“idiota”, che non ha nulla in comune con gli altri, che siano persone fondamentalmente oneste o irrimediabilmente malvagie. Candido, incorrotto, incapace di mentire, Myškin è convinto di poter cambiare le persone e salvare il mondo: «Non entro in gioco», scriverà a un certo punto sulla lavagna e dirà che la bellezza non è morta, è solo passata di moda. La sua diversità solitaria è la stessa del compositore, ebreo polacco perseguitato sia dal nazismo che dallo stalinismo, un uomo che a causa delle proprie vicissitudini ha ragionato sulle questioni esistenziali e filosofiche poste dal romanzo di Dostojevskij. «L’idiota è Cristo?» si chiede Warlikowski, e prima di lui molti altri. La risposta è positiva secondo il regista, che a un certo punto mostra il Principe dopo un attacco della sua malattia disteso come Il corpo di Cristo morto nella tomba nel realistico dipinto di Hans Holbein il Giovane del 1521. 

Nell’opera di Weinberg i cantanti non hanno a disposizione arie o ariosi, tutto è affidato a un canto declamato e di conversazione e alla qualità attoriali degli interpreti che sono adeguatamente guidati dal regista, com’è il caso del viscido e inquietante Lebedev, anche prestigiatore e onnipresente in scena, a cui il baritono ucraino Iurii Samoilov presta la sua sorprendente personalità. Personalità che non manca neppure a Ausrine Stundyte, una intensa Nastas’ja Filippovna, in cui il soprano lituano ha sviluppato un suo particolare stile espressivo perfettamente consonante con il personaggio di femme fatale, ma anche fragile donna che sarà uccisa dal suo uomo. Un vero tour de force è quello di Bogdan Volkov, tenore russo di bellissimo timbro e grande resistenza in quanto quasi sempre in scena nella sofferta parte del titolo. Il ruvido personaggio di Rogožin trova un efficace interprete nel baritono bielorusso Vladislav Sulimskij. Il basso inglese Clive Bayley e il mezzosoprano russo Margarita Nekrasova formano la coppia degli scafati Epančin, la cui figlia Aglaja deve al mezzosoprano australiano Xenia Puskarz Thomas le noti dolenti della “ballata del cavaliere povero”. Ben caratterizzato vocalmente e attorialmente il Ganja del tenore slovacco Pavol Breslik, mentre il tenore ucraino Alexander Kravets dà voce al surreale personaggio dell’arrotino, un’invenzione del librettista.

La musica di Weinberg ricorda quella del maestro Šostakovič, ma con una personalità distinta. Tonalità, atonalità, politonalità, complessità di ritmi, sono abilmente utilizzate dal compositore per costruire una partitura ricca di momenti teatralmente spiazzanti come l’assolo alla tastiera di Lebedev o le note dell’ambulanza nella musica che accompagna l’attacco epilettico del Principe, mentre le pagine più turgide stanno accanto a quelle più rarefatte per costruire una sicura tensione narrativa. Una paletta di colori e sensazioni messe in chiara evidenza e perfetto controllo dalla bacchetta della giovane lituana Mirga Gražinytė-Tyla alla guida dell’orchestra dei Wiener Phiharmoniker. Appropriati sono risultati gli interventi del coro maschile del Konzertvereinigung Wiener Staatsopernchor istruito da Pawel Markowicz. Il grande successo di pubblico fa sperare che lo spettacolo possa essere ripreso altrove. La registrazione video è disponibile su medicitv.

Il giocatore

foto © SF/Ruth Waltz

Sergej Prokof’ev, Il giocatore

Salisburgo, Felsenreitschule, 22 agosto 2024

★★★★☆

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Dostoevskij a Salisburgo, #1

Due le opere in programma quest’anno al Festival di Salisburgo tratte da Dostoevskij: L’idiota di Weinberg e Il giocatore di Prokof’ev, entrambe rappresentate nel particolare spazio della Felsenreitschule.

Opera scritta nel momento sbagliato e per un pubblico sbagliato, quella di Prokof’ev è entrata in repertorio solo due decenni dopo la morte del suo autore e non è mai stata messa in scena, lui vivente, nel suo paese. Scritta con ansia febbrile dal novembre 1915 al gennaio 1917 non può essere presentata a causa della Rivoluzione Russa e dell’arresto a marzo del direttore dei teatri imperiali. Dieci anni passano e Prokof’ev ne appronta una versione per essere messa in scena da Vsevolod Mejerchol’d al Teatro dell’Accademia di Stato di Mosca, ma la produzione viene cancellata. Il compositore accenta con riluttanza l’offerta del Théâtre Royal de la Monnaie di Bruxelles e il 29 aprile 1929 vede finalmente la prima, anche se in lingua francese (1). Le critiche non furono positive e nessun altro teatro fu disposto a metterlo in cartellone. A parte una suite in cinque parti (Quattro ritratti e un finale da “Il giocatore” op. 49, 1931), l’opera fu ascoltata in Russia in forma orchestrale solo nel 1963, cinque anni dopo la morte di Prokof’ev, e nel 1975 finalmente messa in scena al MET di New York dal Bol’šoj Teatr, ma lo stesso MET ne montò una sua produzione solo nel 2001, lo stesso anno in cui fu data la prima volta a Mosca diretta da Gennadij Roždestvenskij. Ha ragione quindi il regista Peter Sellars a dire nel programma di sala della produzione salisburghese che «Stiamo ancora imparando ad ascoltare questo lavoro: ormai è sicuramente musica del nostro presente, ma forse per la nostra generazione incombe ancora come musica del futuro». 

Ed è Timur Zangiev, il giovane direttore che all’ultima Dama di picche della Scala aveva egregiamente sostituito Valerij Gergiev, allora allontanato dal teatro perché politicamente esposto col leader russo, a dare vita a questa partitura, una stilizzata musica da cartoni animati per sequenze comiche evocanti l’età d’oro della musica del teatro d’avanguardia, sferragliante ad imitazione della meccanicità, del roteare delle roulette, dei clicchettii delle palline. Un ritmo che incalza l’azione come nelle accelerate pellicole dei film muti. Con la sua concertazione puntuale e appassionata i Wiener Philharmoniker diventano una macchina che non perde un colpo, che avanza inesorabile alternando brevi oasi liriche a momenti di grande umorismo, con gli scintillanti colori che il sapiente gioco di luci di James F. Ingallis echeggia visivamente.

 

L’elemento visivo dello spettacolo congegnato da Peter Sellars è affidato al sempre geniale George Tsypin che trasforma lo spazio scenico della Felsenreitschule in una sala da gioco che più che la Roulettenburg della Germania del 1865 sembra un’allucinata Las Vegas di oggi, ma con roulette che alzandosi ed abbassandosi diventano una flotta di astronave aliene da videogame di un tempo. rutilanti di luci. Un ulteriore tocco straniante è dato dalle chiazze di muschio che coprono il pavimento, le arcate dello sfondo, ma anche le “astronavi”, rispecchiando il senso di tragica irrealtà in cui è immersa la vicenda: raramente la consonanza tra musica e aspetto visivo ha raggiunto un risultato così felice come in questo allestimento. Peter Sellars con la sua consumata abilità gestisce i cammini incrociati di un generale russo indebitato fino al collo, della vecchia straricca ma presto indigente per la frenesia del gioco, dell’ambiguo Marchese des Grieux, della spregiudicata M.lle Blanche, della figliastra Polina e del precettore Alexei Ivanovich. Tutti dominati dalla sete di denaro e dalla vanità, tanto da sacrificare affetti e amori. I personaggi sono persone di oggi, negli abiti contemporanei di Camille Assaf, e si muovono freneticamente sul vasto spazio del palcoscenico ma con fluidità e con gustosi effetti umoristici.

Affiatatissimo il cast: Peixin Chen è un Generale dalla voce autorevole, solo un pochino monotona; Sean Panikkar (Alexeij Ivanovič) riempie con facilità la strana sala con la grande proiezione del suo mezzo vocale; Asmik Grigorian ritorna nella parte di Polina dopo averla cantata nella produzione del marito al Teatro Nazionale Lituano e riesce a dare significato a un personaggio così complesso con la sua magnetica presenza scenica e il nervoso fraseggio; il Marchese di Juan Gatell è giustamente caratterizzato così come il Mr.Astley di Michael Arivony e il Barone Wurmerhelm di Ilia Kazakov, mentre Nicole Chirka delinea efficacemente l’arrivista Blanche. Menzione a parte per Violeta Urmana, che calamita l’attenzione fin dalla sua prima apparizione come la Babulenka che sperpera al tavolo da gioco il suo ricco patrimonio. Il palcoscenico si affolla all’inverosimile con l’arrivo dei tanti giocatori al quarto atto e qui la Konzertvereinigung Wiener Staatsopernchor preparata da Pawel Markowicz si dimostra perfettamente all’altezza della situazione nel frenetico bailamme degli interventi solistici.

Grande è il successo dello spettacolo con particolari ovazioni per Grigorian, Urmana, Panikker e il direttore Zangiev.

(1) Due anni fa l’opportunità di conoscere questa versione è stata data dal Festival di Martina Franca.

Da una casa di morti

 

Leoš Janáček, Z mrtvého domu (Da una casa di morti)

Roma, Teatro dell’Opera, 23 maggio 2023

★★★☆☆

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L’Opera di Roma cerca di recuperare la lunga latitanza di Janáček dai suoi cartelloni 

Metti un’opera di enorme violenza espressiva, un vero pugno nello stomaco per la brutalità di vite che scontano nella più crudele delle situazioni – punizioni corporali, umiliazioni, solitudine, paura – la loro colpa, grande o piccola che sia.

Metti un regista che della forza espressiva, del pugno nello stomaco dello spettatore, ha fatto la sua cifra stilistica. Sembrerebbe il più adatto a mettere in scena l’ultima opera di Leoš Janáček. Invece… in questi casi less is more, la semplicità è preferibile alla complessità. Infatti, è proprio questo a creare la debolezza di questa produzione: per l’eccesso di iperattività e distrazioni visive i personaggi diventano indistinti, si perdono i dettagli degli individui, soprattutto si perde la concentrazione per la musica. E la musica merita molta attenzione, mai come in questo caso.

Janáček inizia a comporre Da una casa di morti quando ha 72 anni, lavorandoci intensamente per un anno e mezzo spinto da una premonizione: nel 1927 scrive in una lettera «sto terminando un grande lavoro e a dire il vero mi sembra che possa essere la mia ultima opera». Il compositore morrà infatti nell’agosto 1928 lasciando in parte incompleto il terzo atto e il lavoro verrà rappresentato postumo nel 1930 in una versione rimaneggiata. Il valore profetico dell’ultima opera di Janáček è stato messo ben in evidenza dallo scrittore ceco Milan Kundera: «I tre maggiori monumenti d’arte che il mio paese ha creato in questo secolo rappresentano le tre pale del quadro dell’inferno futuro: il labirinto burocratico di Kafka, la stupidità militare di Hašek [Il buon soldato Švejk], la disperazione concentrazionaria di Janáček. Sì, da il Processo a Da una casa di morti, a Praga era stato detto tutto e la Storia non aveva che da entrare in scena per mimare ciò che la finzione aveva già immaginato».

Con la sovrintendenza di Francesco Giambrone e la direzione musicale di Michele Mariotti, il vecchio Leoš riprende il posto che gli è dovuto nei cartelloni del teatro romano: prima della Káťa Kabanová dell’anno scorso bisogna risalire infatti al 1972 e prima ancora al 1952 per trovare un altro suo titolo, Jenůfa, l’unica sua opera eseguita nella capitale. La produzione ora in scena per sei rappresentazioni è quella nata a Londra nel 2018 e poi trasferita a Bruxelles. La messa in scena è affidata a uno dei registi del momento, Krzysztof Warlikowski per la prima volta in Italia, di cui si ricordano buone prove – il Wozzeck di Amsterdam, la Lady Macbeth del distretto di Mcenskdi Parigi – ma anche tante altre produzioni molto meno convincenti. Con la drammaturgia di Christian Longchamp e la scenografia e i costumi di Małgorzata Szczęśniak, Warlikowski ambienta la vicenda in una prigione dei nostri giorni. 

La critica del filosofo francese Michel Foucault al sistema carcerario – che a suo dire, non solo non educa il delinquente, ma è economicamente improduttivo, ma viene mantenuto perché aumenta la delinquenza e la minaccia di questa è un fattore di accettazione dei controlli polizieschi nelle nostre democrazie – è espressa in un’intervista del 1976 che vediamo proiettata durante la ouverture. Tra sottotitoli in due lingue e immagini si perdono le note che Janáček predispone al suo dramma e le cose non migliorano nella prima scena, con l’arrivo di Gorjančikov e la sua prima gratuita salva di frustate – quante frustate! si contano a migliaia nell’originale di Dostoevskij Memorie dalla casa di morti da cui deriva il libretto dell’opera. Si percepisce appena che cosa succede in quell’angolo della gabbia che funge da ufficio del direttore della prigione, distratti come si è da quello che avviene nel resto della scena occupata da un campo da pallacanestro in cui un giovane si sta allenando mentre gli altri detenuti bighellonano. Anche al monologo di Skuratov nessuno presta ascolto, se non il pubblico. 

Il pietismo cristiano di Dostoevskij è del tutto assente nella lettura del regista polacco. Non c’è speranza di redenzione per i personaggi che vediamo in scena. Il messaggio di libertà affidato all’aquila che alla fine riesce a spiccare il volo, un’invenzione bellissima di Janáček, qui è affidato a un pallone che un giovane, dopo la convalescenza in carrozzella, riesce a mettere nel canestro. Un finale del tutto coerente con la lettura del regista e a suo modo efficace, ma lontano sia dal messaggio dello scrittore russo sia da quello del compositore moravo. Cosa lecita, certo, nella lettura di un testo teatrale, ma in questo caso è più quello che si perde di quello che si acquista. 

È poi difficile immedesimarsi nelle inumane condizioni di carcerazione che sia Dostoevskij che Janáček volevano condannare se la prigione in cui avviene la vicenda è a suo modo ariosa, ben riscaldata, le tute sono pulite, c’è la televisione sempre accesa sui programmi sportivi, ci si distrae con la breakdance. La triste pantomima del secondo atto diventa qui uno spettacolo di burlesque con costumi sgargianti, una prostituta scosciata, degli acrobati, del travestimento, delle bambole gonfiabili e fiumi di champagne. La stessa prostituta sarà poi sempre presente anche durante il racconto di Šiškov trasformando questo allucinato e angoscioso monologo in un’altra, inutile, pantomima.

Se la rappresentazione visiva dello spettacolo soffre di questo realistico iper-immaginario, l’esecuzione musicale è invece da lodare. La concertazione del giovane direttore Dmitrij Matvienko, per la prima volta alle prese con la musica di Janáček, è di grande efficacia nel ricreare la straordinaria invenzione timbrica e i colori di una partitura di cui si conosce la vera versione solo da pochi anni. L’esecuzione è vigorosa ma precisa e attenta ai dettagli e cerca di equilibrare al meglio il volume della buca orchestrale con le voci in scena, voci di grande livello per tutti i numerosi interpreti. Come il nobile Mark S. Doss, l’aristocratico imprigionato per le idee politiche che conserva la sua umanità insegnando a leggere al giovane tartaro Aljeja, il disinvolto Pascal Charbonneau. Štefan Margita è Filka Morozov, che col nome di Luka Kuzmič muore con la maledizione del rivale Šiškov, un intenso Leigh Melrose. Skuratov ha la voce e la presenza scenica di Julian Hubbard, mentre Erin Caves è il Grande Prigioniero. Il detestabile direttore della prigione trova la giusta rappresentazione con Clive Bayley. Uno dei pochi cantanti italiani del cast è Marcello Nardis, indiavolato Kedril. In Da una casa di morti le uniche donne sono quelle del passato dei detenuti, le infelici Luiza e Akulka, ma Janáček ha voluto inserire le poche battute di una anonima prostituta, qui Carolyn Sproule.

I novanta ininterrotti e intensi minuti sono stati accolti dal pubblico romano con favore. Sono addirittura mancati i dissensi nei confronti del regista. L’Opera di Roma ha così finalmente recuperato la lunga assenza dal suo palcoscenico di uno dei maggiori autori del teatro moderno. Gli altri sette titoli della sua produzione aspettano di trovare ora nuova vita anche qui.

Z mrtvého domu / Glagolská Mše

 Leoš Janáček

Z mrtvého domu (Da una casa di morti)

Glagolská mše (Messa glagolitica)

Brno, Janáčkovo divadlo, 2 novembre 2022

★★★☆☆

(live streaming)

A Brno un connubio poco convincente

Non è facile trovare che cos’abbiano in comune due lavori così diversi come la Messa glagolitica, che Janáček aveva scritto per celebrare l’indipendenza della allora Cecoslovacchia nel 1926, e Da una casa di morti, presentata postuma nel 1930. Lavori che appartengono sì all’ultimo periodo creativo del compositore moravo, ma non convince che Jakub Hrůša e Jiří Heřman, rispettivamente direttore e regista, accostino le due musiche nello spettacolo che inaugura l’ottava edizione del Festival Janáček di Brno, la città natale di Janáček. La serata si divide in due parti: nella prima il primo e secondo atto di Da una casa di morti, dopo l’intervallo il terzo atto e la Messa.

Janáček non ebbe il tempo di terminare la sua ultima opera: nell’estate del 1928 portò la partitura del terzo atto a Hukvaldy, ma si ammalò di polmonite e morì il 12 agosto. Il suo lavoro rimase così incompiuto e gli allievi direttori d’orchestra Břetislav Bakala e Osvald Chlubna si occuparono del completamento della strumentazione e di piccoli adattamenti delle parti cantate. Fu apportata una modifica anche alla cupa conclusione, quando dopo la partenza di Goriančikov le guardie ricacciano i prigionieri e la vita nella casa dei morti continua implacabile. Negli anni successivi si è tornati al finale originario e, per la prima volta nella Repubblica Ceca, la produzione del festival presenta una nuova edizione critica a cura di John Tyrrell, che ricostruisce l’opera il più fedelmente possibile vicina alla forma che Janáček aveva previsto.

Come nel caso de L’affare Makropulos di Čapek, a prima vista Memorie da una casa di morti di Dostoevskij non sembra un tema adatto per un’opera: lo scrittore russo aveva trascorso quattro anni in una prigione siberiana in compagnia di assassini, rapinatori e persone semplicemente traviate da una sfortunata congiuntura e aveva attinto dalle sue esperienze in quel luogo per creare quest’opera letteraria, una cupa sequenza di racconti sulla vita quotidiana e sui destini dei singoli detenuti, con analisi psicologiche e riflessioni filosofiche, ma quasi senza dialoghi, senza un eroe centrale né personaggi femminili. Nonostante tutti gli orrori descritti, Dostoevskij scrisse al fratello: «Credimi, c’erano tra loro nature profonde, forti e belle, e spesso mi dava grande gioia trovare l’oro sotto una scorza ruvida». Anche Janáček vedeva qualcosa di più profondo e umano nei singoli personaggi. Questa volta lavorò direttamente con l’originale russo di Dostoevskij e la sua copia è piena di note e parti del testo sottolineate. Il libretto non è mai stato trovato, tranne una breve bozza, e si ritiene che Janáček lo abbia scritto direttamente sulla partitura. E questo non fu un compito facile e gioioso, come si può intuire dalle sue lettere a Kamila Stösslová: «Mi sembra di scendere dei gradini sempre più in basso, fino al fondo, dove abitano i più poveri dell’umanità. Ed è un cammino difficile».

L’origine della Messa glagolitica si intreccia in parte con la sua ultima opera: «Ho voluto catturare qui la fede nella sicurezza della nazione non su base religiosa, ma su base morale». Nelle intenzioni degli autori della produzione la versione teatrale della Messa glagolitica, come continuazione dell’opera, impregna entrambe le opere di una nuova testimonianza sulla forza della fede nell’uomo anche se il compositore fu un ateo convinto e fortemente critico della chiesa organizzata ceca che considerava «una chiesa piena di morte». Sulle note finali dell’opera si sente una campana suonare e attacca la fanfara del primo movimento, Úvod (Introduzione). Seguono cinque numeri cantati secondo il tradizionale “Ordinarium missæ” – Gospodi pomiluj (Kyrie), Slava (Gloria), Věruju (Credo), Svet (Sanctus), Agneče Božij (Agnus Dei) – un postludio per organo solo e un ultimo brano puramente strumentale a conclusione di un lavoro molto particolare non solo per la scelta della lingua, lo slavo arcaico, ma soprattutto per la peculiare cifra stilistica della materia sonora messa in campo dal Musorgskij moravo, secondo la definizione di Fedele D’Amico. Un organico atipico (soli, coro misto, orchestra e organo) e un’espressione terrena, quasi pagana caratterizzano questa «Sagra del cristianesimo, per parafrasare un altro tributo della modernità alla ritualità arcaica. […] Il contrasto tra asciutta trasparenza e tesa massa sonora in alcuni punti è di tagliente violenza. La scultorea essenzialità delle line fa pensare a profondi “intagli” nel vuoto o alla “costruttività del colore” nei pittori Fauve e al loro disinteresse per il chiaroscuro». (Franco Pulcini)

Se sulla carta non convince del tutto l’operazione di abbinamento dei due lavori, è la realizzazione che desta le maggiori perplessità: mentre Da una casa di morti ha una sua drammaturgia ben sfruttata dal regista che mette in scena uno spettacolo di grande forza drammatica e con idee teatrali efficaci – come le catene che scendono dall’alto, la presenza del Cristo/aquila simbolo di libertà, i fluidi movimenti scenici di Tomáš Rusín, i congrui costumi di Zuzana Štefunková-Rusínová – si rivela problematica quella della Messa, pezzo di natura oratoriale, consistente negli artificiosi movimenti delle masse e dei solisti vestiti di bianco che si muovono in processione sul palco. Qui il coro femminile e le cantanti soliste, che abbiamo visto nell’opera come i muti personaggi di Akulina, la moglie ammazzata nel racconto di Šiškov, e della prostituta, si trasformano in voci angeliche dispensanti il perdono e la redenzione eterna ai criminali incontrati prima. Nel finale il giovane Aljeja corre verso il fondale che da paesaggio ghiacciato si è trasformato in un verde e idilliaco panorama: libertà qui sulla terra o pace nell’aldilà? Sia Dostevskij che Janáček non propendono per una visione così ottimistica come quella prospettata dalla spiritualità di Jiří Heřman.

Musicalmente le cose vanno molto meglio con Jakub Hrůša, moravo anche lui e che diventerà Direttore Musicale della Royal Opera di Londra nel ’25, che qui si dimostra perfettamente a suo agio con un’orchestra che dirige per la prima volta con risultati eccellenti: i toni rabbrividenti degli archi, gli scoppi degli ottoni, i timpani che diventano personaggi in scena, con i percussionisti vestiti come le guardie carcerarie, tutto concorre a esaltare al meglio la musica di Janáček. Anche tra i cantanti vi sono delle eccellenze: Pavol Kubáň (Šiškov), Peter Berger (Skuratov), Kateřina Kněžíková (soprano), Jarmila Balážaková (Aljeja). Particolare il caso di Gianluca Zampieri (Luka/Filka), tenore veneziano di casa nei teatri della Repubblica Ceca.

Le joueur

 

foto © Clarissa Lapolla

Sergej Prokof’ev, Le joueur

★★★★☆

Martina Franca, Cortile Palazzo Ducale, 24 juillet 2022

 Qui la versione italiana

Ouverture du Festival della Valle d’Itria avec la version française du Joueur de Prokofiev

Près de 450 ans se sont écoulés depuis ce 14 janvier 1573 où la Camerata de’ Bardi s’est réunie pour la première fois à Florence pour expérimenter une nouvelle forme d’art alliant musique et scène. Ainsi est né l’opéra tel que nous le connaissons aujourd’hui.

Sebastian Schwarz, le nouveau directeur du Festival della Valle d’Itria (qui fête cette année sa 48e édition) se propose d’offrir un tour d’horizon de quatre siècles d’opéra, lequel s’ouvre par un opéra du XXe siècle, Le joueur de Sergueï Prokofiev, présenté ici dans la version française dans laquelle l’œuvre a vu le jour à la Monnaie de Bruxelles le 29 avril 1929, treize ans après sa composition : la première prévue au théâtre Mariinsky de Saint-Pétersbourg en 1917 avait en effet été annulée et le compositeur avait quitté son pays peu après…

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Il giocatore

 

foto © Clarissa Lapolla

Sergej Prokof’ev, Le joueur

★★★★☆

Martina Franca, Cortile Palazzo Ducale, 24 luglio 2022

bandiera francese.jpg  Ici la version française

Inaugurazione del Festival della Valle d’Itria con la versione francese de Il giocatore

Quasi 450 anni sono passati da quel 14 gennaio 1573 in cui per la prima volta a Firenze si riuniva la Camerata de’ Bardi per sperimentare una nuova forma d’arte che riuniva musica e scena. Nasceva così l’opera come la conosciamo noi oggi.

E una carrellata di quatto secoli d’opera è quella approntata da Sebastian Schwarz, nuovo direttore del Festival della Valle d’Itria giunto quest’anno alla sua 48esima edizione. Inaugura la manifestazione un’opera del Novecento, Le joueur (Il giocatore) di Sergej Prokof’ev, presentata qui nella versione in francese con cui il lavoro aveva visto la luce alla Monnaie di Bruxelles il 29 aprile 1929, ben tredici anni dopo la sua composizione: il previsto debutto al Mariinskij di San Pietroburgo nel ’17 era infatti saltato e poco dopo il compositore avrebbe abbandonato il suo paese. Questa seconda versione de Il giocatore non poteva non risentire delle esperienze compiute da Prokof’ev con L’amore delle tre melarance e soprattutto con L’angelo di fuoco che nel frattempo aveva composto. «L’esperienza dell’Angelo di fuoco ebbe anche una benefica influenza sull’andamento delle parti vocali, che divennero nella seconda versione del Giocatore più liriche, flessibili, agili, spontanee, nel momento in cui prendevano le distanze dalle asperità del modernismo gratuito e alla moda», scrive Franco Pulcini sul programma di sala, «la coscienza dello stile e dell’espressione drammatica portarono Prokof’ev ad attenuare il peso dell’orchestra e a disegnare con maggior precisione lirica i profili di un canto sempre più protagonistico».

Un’umanità disperata – amanti non riamati, solitudini, cambiali incombenti, debiti di gioco, carriere interrotte – pone tutte le sue speranze sulla fortuna al gioco, ma non nelle carte com’è nella Dama di Picche di Puškin/Čajkovskij, bensì nell’ancora più aleatorio movimento della pallina della roulette che però non salva dal fallimento amoroso con un’inaspettata enorme vincita, mentre produce il tracollo finanziario della vecchia nonnetta che si è lasciata tentare dal gioco, ne è rimasta prigioniera e ha definitivamente deluso le aspettative di chi contava sulla eredità che avrebbe lasciato alla sua morte per risolvere i propri problemi finanziari.

Il racconto di Dostoevskij da cui è tratto il libretto si sarebbe potuto intitolare “La giocatrice”, essendo la figura della vecchia al centro della vicenda. Ed è anche la figura di svolta nell’opera: è infatti con il suo ingresso che cambia anche la musica, fino ad allora sviluppata sull’accompagnamento di un generico declamato. È come se Prokof’ev avesse bisogno di uno stimolo per rinnovare il tono del suo lavoro e da quel momento è tutta un’altra musica, un crescendo inarrestabile fino alla fragorosa fanfara che accompagna l’apparizione in scena della fantomatica roulette, fino a quel momento evocata ma sempre assente dalla nostra vista. Il motivo del gioco diventa puro vitalismo ritmico che tocca qui un vertice di pura follia musicale, scandito dal movimento inesorabile della pallina, dai richiami del croupier, dal nervoso commento dei giocatori.

Tutto è reso con efficacia da Jan Latham-Koenig alla guida dell’ottima orchestra del Teatro Petruzzelli di Bari. Le linee febbrili e talora dissonanti scaturiscono con sicurezza e fluidità, i momenti grotteschi si alternano felicemente a quelli lirici, i colori acidi e gli spigoli della complessa partitura sono resi con maestria e la non facile concertazione dei cantanti in scena non ha intoppi. La voce migliore di tutti è quella del soprano Maritina Tampakopoulos, una Pauline di bel timbro, bella proiezione vocale e sicura presenza scenica. L’interprete più in tono con l’aspetto satirico e caricaturale dell’opera è invece il tenore Paul Curievici, un Marquis che sembra uscito da una farsa di Labiche. Ottima anche la Grande-Mère di Silvia Beltrami, poi anche la donna che sospetta frodi al tavolo da gioco. Sergej Radčenko, l’Agrippa dell’L’angelo di fuoco della Dante a Roma, qui è un Alexis talora in difficoltà vocali, ma bisogna dire che la parte è veramente impegnativa. Manca di sonorità nel registro grave il Général/Directeur di Andrew Greenan e incomprensibile è la Blanche di Xenia Chubunova, ma in generale la dizione del francese non si può certo dire sia il punto di forza di questa produzione. Tra i tanti altri personaggi ricordiamo almeno il Mr. Astley di Alexander Ilvakhin e il Croupier di Joan Folqué.

Come rendere visivamente l’ossessione del gioco che domina quest’opera? Sir David Pountney e la scenografa Leila Fteita costruiscono un ambiente a cuneo le cui pareti convergenti riportano la gigantografia di una roulette. Uno specchio a 45° riflette la scena e i personaggi che si muovono nervosamente, come burattini, tutti vittime della ludopatia. Belli i costumi e i tessuti delle sedie disegnati dalla stessa Fteita che gioca con motivi del futurismo russo mentre le luci di Alessandro Carletti che inonda la scena di colori primari – rosso, blu, verde. Il successo della serata, oltre che dalla parte musicale, è stato garantito anche dall’aspetto visivo dello spettacolo.

  

Siberia

 

Umberto Giordano, Siberia

Florence, Teatro del Maggio Musicale, 13 julliet 2021

★★★☆☆

 Qui la versione italiana

L’opéra Siberia de Giordano rencontre un joli succès à Florence, grâce à une interprétation musicale inspirée

Pour la deuxième fois en peu de temps, la scène du Teatro del Maggio Musicale Fiorentino accueille les steppes glaciales de Russie, mises en musique par des compositeurs du début du XXe siècle : l’année dernière, c’était avec Risurrezione (1904) de Franco Alfano, aujourd’hui c’est au tour de Siberia (1903) d’Umberto Giordano, l’opéra qui devait ouvrir la saison du Regio de Turin alors que Gianandrea Noseda en était encore le directeur musical. Les choses se sont passées autrement, mais c’est cependant le même chef qui propose à Florence cet opéra auquel il semble tenir beaucoup…

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Siberia

 

Umberto Giordano, Siberia

Firenze, Teatro del Maggio Musicale, 13 luglio 2021

★★★☆☆

bandiera francese.jpg Ici la version française

Siberia di Giordano a Firenze. Un’occasione riuscita a metà.

Per la seconda volta in poco tempo il palcoscenico del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino ospita le gelide lande russe messe in musica da compositori dell’inizio del XX secolo: l’anno scorso fu il caso di Risurrezione (1904) di Franco Alfano, ora è la volta di Siberia (1903) di Umberto Giordano, l’opera che doveva inaugurare la stagione del Regio di Torino quando ancora Gianandrea Noseda ne era direttore musicale. Poi le cose sono andate diversamente e ora è lo stesso direttore a riproporre qui a Firenze un’opera a cui sembra tener molto.

Dopo il successo di Fedora (1998) Giordano cerca di replicare con un altro dramma di ambientazione russa. C’è Dostoevskij alla fonte del libretto che gli appresta Luigi Illica, sia per il tema dei deportati in Siberia (Memorie da una casa di morti) sia per quello della donna perduta che si redime col sacrificio – e qui sono le varie Katjuša, Anna, Sonja, Grušenka degli altri suoi romanzi a offrire il modello per Stephana. Illica spinge sul tema politico e sociale, Giordano propende invece per il dramma passionale e il testo proposto dal librettista viene sforbiciato per raggiungere una concisione drammatica che sarà ancora maggiore nella seconda versione del 1927 – quella scelta da Noseda – che seguirà a quella della prima del 10 dicembre 1903 alla Scala di Milano.

Atto I. La donna. A Pietroburgo, all’alba della festa di S. Alessandro. Mentre in lontananza si ode un malinconico canto di mugiki, nella “Rotonda”, la palazzina che il principino Alexis ha regalato a Stephana, sua amante, la fedele Nikona e il servo Ivan attendono con ansia la loro padrona, che non è ancora rincasata. Giunge Gléby, primo amante di Stephana che ha fatto di lei una cortigiana: Nikona prova a convincerlo che la giovane è indisposta, ma questi insiste, deve assolutamente parlarle di un affare d’oro. Bussa alla porta della camera e poiché Stephana non gli risponde comprende che ha passato la notte fuori di casa. Avrà trovato “un amante del cuore”, commenta sarcastico. In quel momento Ivan annuncia l’arrivo di Alexis, seguito da una schiera di amici, fra cui il capitano Walinoff e il banchiere Miskinsky. Nikona è disperata, ma Gléby non perde la calma e si dice sicuro di salvare la situazione. Quando Alexis chiede di Stephana, Nikona risponde che sta dormendo: allora Gléby propone di intonare, invece che una serenata, una “mattinata”, così da dare il tempo alla giovane di prepararsi: il principe e i suoi amici accompagneranno il canto col tintinnio delle loro spade, Gléby con quello di due rubli. Finita la canzone, Gléby propone una partita di baccarà e tutti entrano nella sala da gioco. Giunge Stephana, che ha sentito tutto, e rivela a Nikona ciò che l’angoscia: il suo nuovo amante non deve mai sapere chi sia in realtà e quale genere di vita abbia condotto fino ad allora. L’amore che prova per lui l’ha fatta rifiorire a nuova vita, finalmente libera dal suo passato. Ritorna Gléby e svela alla giovane l’affare che intende combinare: nella sala da gioco c’è un ricco cliente, disposto a pagar bene per i favori di Stephana, la quale però rifiuta decisamente: non si venderà più per danaro. Gléby ribatte che per gente come loro, nati poveri, non c’è altra via per raggiungere una vita agiata. Poi insinua cinicamente che “l’amante del cuore”, se povero, non l’ami davvero, ma calcoli i vantaggi che può ottenere dalla loro relazione. Giunge Alexis: il suo amore per Stephana, dice, è ogni giorno più intenso e ardente e le offre uno splendido braccialetto. In quel mentre Ivan annuncia che un giovane ufficiale chiede di Nikona: è Vassili, il figlioccio della donna, da poco giunto a Pietroburgo e in procinto di partire per la guerra contro i Turchi. Le confessa di essersi innamorato di una ricamatrice, povera ma onesta, come lui. Mentre sta per andarsene, entra Stephana. Vassili è stupito riconoscendo in lei il suo grande amore. La donna, sgomenta nel vederlo nella ricca casa in cui abita, lo aggredisce, ripensando alle parole di Gléby: dunque Vassili sapeva chi era e aspettava l’occasione per entrare a casa sua. Mentre Nikona tenta di farlo andar via, Vassili dichiara nuovamente il suo amore per Stephana: è lei il suo “destin soave” che deve amare. Quando Nikona rivela che il giovane è il suo figlioccio venuto a trovarla, Stephana commossa, comprendendo di averlo accusato ingiustamente, gli chiede perdono, ma lo invita ad andarsene e a dimenticarla. La  passione di Vassili però è troppo forte: non potrà mai scordarla, perché nel suo cuore è scolpito l’amore per lei e l’amerà anche sapendo chi è in realtà. Alexis sorprende i due abbracciati e Stephana gli confessa che si tratta del suo amante: il principino l’insulta e Vassili si scaglia su di lui. I due si battono e Alexis viene ferito.
Atto II. L’amante. Alla frontiera fra Siberia e Russia. Alla poloo-tappa (tappa della fame) da Omsk a Kolyan, contadini e rivenditori attendono l’arrivo della colonna dei forzati per tentare di vendere i loro prodotti. Vi è anche una fanciulla che chiede se i condannati siano vicini: insieme al fratellino spera di poter vedere per l’ultima volta il padre, destinato alle miniere. Un cosacco la rassicura: i forzati stanno per arrivare. Per riconoscenza, la fanciulla offre al cosacco qualche moneta, ma questi, commosso, rifiuta: “Tienle per tuo padre”, le dice. Da lontano si ode un canto triste: è la catena vivente dei condannati che si avvicina. Appare poi una troika sulla quale sta una donna sola: è Stephana, che chiede del condannato 107. Ma subito lo scorge, è Vassili, deportato in Siberia per aver ferito Alexis. La donna prorompe in esaltate frasi d’amore: è decisa a rimanere sempre accanto a lui, per redimersi dalla sua vita dissoluta. Ha donato ai poveri la sua ricca casa e adesso vuol condividere la sorte del suo amato, non lasciarlo più. Invano Vassili tenta di dissuaderla, descrivendole gli orrori della “maledetta” Siberia: Stephana ribatte che il suo destino è vivere vicino a lui e che il suo amore l’ha redenta. Vassili, commosso, le confessa che credeva finita la vita e la speranza, ma l’amore di lei gli dà nuova forza. I due tacciono all’udire il canto disperato dei forzati, dopo essersi promessi di rimanere sempre insieme.
Atto III. L’eroina. L’interno della “Casa di forza” nelle miniere del Trans-Baikal. È il Sabato Santo e un coro di donne saluta la luce primaverile che concede un po’ di calore. Un vecchio invalido, dopo aver scambiato qualche parola con le donne, che si preparano allo spettacolo teatrale di Pasqua, riferisce a Stephana che un condannato la sta cercando, ma la donna ribatte che non vuol parlare con nessuno. Poi dà qualche moneta all’invalido. Di nuovo il coro di donne si rallegra per una giornata che darà sollievo al loro soffrire, quando Stephana e Vassili intrecciano un duetto d’amore: sognano la libertà e inneggiano all’amore che, pur nella sofferenza, allevia le loro sciagure. Dopo l’arrivo del Governatore, Gléby si presenta a Stephana: è caduto in disgrazia ed è stato condannato anche lui alla Siberia. Ha trovato un modo di evadere, attraverso un pozzo: ha provato il percorso, ma il ricordo di lei l’ha riportato indietro. Le propone dunque, con parole appassionate, di fuggire insieme. Stephana rifiuta recisamente, ma Gléby insiste: se tornerà con lui, riavrà una vita gioiosa, piena di feste e di splendore. La donna ribatte che egli le ricorda un passato di vergogna, mentre nella Siberia, colma di miserie e dolori, ella respira “il trionfo dell’amore”. Ama Vassili e rimarrà con lui. Gléby se ne va minacciandola, mentre il Governatore annuncia un giorno di riposo dal lavoro. Ma Gléby torna ben presto e dopo aver schernito Vassili, racconta agli altri forzati la storia sua e di Stephana: l’aveva conosciuta quando aveva appena quindici anni ed era povera ma bellissima. L’aveva dunque avviata ad una vita da cortigiana, piena di feste e avventure. Vassili vuole avventarsi contro di lui, ma Stephana lo trattiene. Però le parole di Gléby lo hanno ferito: il ricordo del passato dell’amata, le sue relazioni con altri uomini lo torturano. Quel passato torna per volere di Dio, che nega il perdono, e la sua sola speranza è la morte. Stephana reagisce chiamandolo falso amante: anche se avesse in fronte tutto il fango del mondo, aggiunge, per il suo pianto Dio la perdonerà. Vassili si pente delle sue parole e le chiede perdono, mentre Stephana afferra Gléby per il collo e rivolta a Vassili prorompe in un grido: Gléby è stato il suo primo amante e l’ha venduta; un amore puro l’ha redenta, ma ecco ritornare con lui il “vile destino” della sua vita. Il vero nome di Gléby? Usura e falso! Mentre Stephana sviene, il Governatore e i forzati inneggiano a Cristo risorto; quindi iniziano i preparativi dello spettacolo teatrale. Stephana propone allora a Vassili di fuggire attraverso il pozzo; il giovane è perplesso ma viene convinto a tentare dall’amata. Si odono grida di “All’armi” e colpi di fucile: Stephana è riportata dai cosacchi ferita a morte, mentre Vassili è arrestato. Il Governatore lo fa liberare, mentre Stephana si rivolge affettuosamente all’amato: la sublime parola “libertà” le nasce finalmente in cuore; muore felice di sentirsi redenta e sarà sempre con lui, sul suo cuore. Mentre i forzati intonato un triste coro, Vassili chiama disperato Stephana.

Giordano ha sempre considerato Siberia il suo capolavoro, in effetti il lavoro ha un taglio moderno e teatrale, soprattutto il secondo atto. La partitura impiega temi popolari russi tra cui la canzone dei battellieri del Volga che torna a più riprese a mo’ di Leitmotiv. Diversamente dall’Andrea Chénier non ha ariosi orecchiabili, si sviluppa in un’alternanza di declamato e cantabile con momenti più melodici come la “mattinata” a 4 voci o la “quasi romanza” di Stephana «Io l’amai | per l’esistenza | rinnovata: | pura in me» dell’atto primo o le «Orride steppe» con cui Vassili mette in guardia la donna da quello che la aspetterà in Siberia. L’opera inizia in maniera insolita: la voce di un mugiki nel silenzio e fuori scena canta il fatalistico dolore di vivere, il vero tema di Siberia: «Godi dunque il suo sole, se c’è sole; | godi la luna, se la luna c’è; | è vita anche la tua ché, se Dio vuole, | c’è ultima la morte anche per te».

Il libretto di Luigi Illica, qui senza l’essenziale collaborazione di Giuseppe Giacosa – che era il vero versificatore della rinomata ditta Illica&Giacosa dei capolavori pucciniani – gioca con rime («fondo-tondo-mondo, malori-dolori, languire-soffrire, penare-tremare, Siberia-miseria), allitterazioni consonantiche che sono quasi degli scioglilingua («bara mesta di tetri scheletri») e copiosità di attributi (difficilmente un sostantivo è accompagnato da meno di tre aggettivi), senza arrivare a una efficace drammaturgia.

Gianandrea Noseda, che finalmente realizza il suo progetto, legge la partitura come se fosse di uno degli autori russi da lui prediletti. Non c’è finezza strumentale che non sia messa in evidenza, che siano i toni cupi degli ottoni e dei bassi del tema di «Volga, Volga» o l’orchestra di balalaike del terzo atto, qui ricreate con cetra, mandolini e… pianoforte preparato! Il vigore e l’entusiasmo con cui Noseda dirige l’orchestra del teatro trovano i momenti migliori nelle pagine sinfoniche, come lo splendido preludio al secondo atto. Il volume sonoro, le dimensioni dell’immensa buca orchestrale e la non ottimale acustica del teatro fanno sì però che spesso le voci siano coperte dagli strumenti anche se in scena ci sono voci ragguardevoli. Così è perlomeno quella di Sonya Yoncheva, non cantante “verista” ma interprete di temperamento per la figura di Stephana, «la bella orientale». Il soprano bulgaro, che da Händel e Monteverdi è passata a Verdi e Puccini, debutterà alla Scala l’anno prossimo nei panni di un’altra russa maliarda, la Fedora, sempre di Giordano. Qui oltre al bel timbro e ai facili acuti fa mostra anche di una buona dizione e una magnetica presenza scenica. Acuti invece un po’ al limite per Giorgi Sturua, ma la parte di Vassili, creata per il particolare strumento di Giovanni Zenatello, cantante all’epoca dai mezzi vocali smisurati, è tutt’altro che agevole, ma il tenore georgiano ne esce con onore. Più a suo agio nel suo ruolo è il rumeno George Petean, che si trova a dover rendere plausibile una parte come quella di Gléby senza caricarla di eccessiva malignità. Di buon livello i comprimari, dal principe Alexis di Giorgio Misseri alla Nikona di Caterina Piva e tutti gli altri.

Visivamente l’allestimento di Roberto Andò parte bene: la scena altoborghese e realistica all’apertura di sipario di Gianni Carluccio si trasforma in uno studio cinematografico dove si girano le pellicole del realismo socialista di epoca staliniana: un finto operatore e un finto microfonista intervengono a tratti e talora gli interpreti si cambiano costume o aspettano la loro battuta ai lati della scena. Su due schermi che scendono dall’alto vengono proiettate le immagini degli attori che interpretano la vicenda nel mezzo filmico, o spezzoni di cinegiornali d’epoca – compresa la faccia di Stalin stesso che appare alle parole «Cristo è risorto» nella scena della Pasqua del terzo atto. Ma l’idea non ha un’effettiva necessità e la mancanza di regia attoriale trasforma la performance in una esecuzione tradizionale con i cantanti al proscenio rivolti al pubblico e con i soliti gesti. Ci voleva probabilmente un regista come Livermore per sfruttare la lettura cinematografica con maggior convinzione. Peccato, così la riproposta di Siberia è stata un’occasione riuscita a metà.

Il giocatore

Sergeij Prokof’ev, Il giocatore

Vilnius, Lietuvos nacionalinis operos ir baletos teatras, 12 febbraio 2020

★★★☆☆

(video streaming)

Nevrosi in musica a Vilnius

Non è il giardino del Grand Hôtel di Roulettenburg quello che vediamo in scena a  Vilnius nel Teatro Nazionale Lituano in questa coproduzione con Basilea, bensì il locale lavanderia di un condominio (come nel Fidelio di Graham Vick del 2002): generali e marchesi qui sono borghesi in felpa e brache camouflage nella messa in scena del giovane Vasilij Barkhatov. Non siamo ai tavoli di una roulette reale, ma a quelli virtuali del gioco on line. Polina è una ragazza madre, il marchese un giovane balordo prestasoldi, il generale un pensionato e la “baboulinka” (nonnetta) una tipa vispa che sembra più giovane del nipote.

La vicenda di baroni, baronesse, principi, ranghi, duelli, scandali, eredità si adatta con difficoltà agli ambienti moderni e popolari e i personaggi stilizzati e straniati di Prokof’ev qui hanno un realismo incongruo con il grottesco della vicenda di Dostoevskij (lui stesso un giocatore sul lastrico al momento della scrittura del romanzo), grottesco vieppiù esaltato dal compositore russo. Ben risolto è comunque il secondo quadro del quarto atto, «la sala da gioco fortemente illuminata» che abbacina Aleksej, qui un insieme di schermi video con i vari giocatori mentre all’ultimo piano dei tre della scenografia disegnata da Zinovy Margolin ci sono i croupier reali.

Nome di richiamo della produzione è Asmik Grigorian, moglie del regista e gloria locale, che ritorna in patria dopo i trionfi all’estero. Il soprano lituano affronta con profonda convinzione l’ardua parte di Polina, ardua non per le difficoltà vocali, ma perché non ha mai una linea melodica, non diciamo un’aria, in cui prorompere, però è quasi sempre in scena e quindi deve far valere le doti di attrice. Il timbro magnifico e la personalità rendono il personaggio empaticamente umano, l’unico personaggio positivo della vicenda.

Incomparabilmente più impegnativo è il ruolo tenorile di Aleksej, qui uno splendido Dmitrij Golovnin la cui gamma vocale è ben padroneggiata dal cantante russo che si dimostra anche scenicamente sorprendente e a suo agio nei tantissimi primi piani del viso. Efficaci gli altri interpreti, chi più chi meno.

Il direttore Modestas Pitrėnas dimostra buona padronanza del materiale musicale alla guida dell’orchestra del teatro dipanando l’ansiogena partitura fino al travolgente quarto atto in un crescendo implacabile.

 

Z mrtvého domu

 

Leos Janacek, Z mrtvého domu  (Da una casa di morti)

★★★☆☆

Monaco, Nationaltheater, 26 maggio 2018

(live streaming)

L’opera profetica di Janáček nel collage surreale di Castorf

Per l’ultima opera di Leoš Janáček i superstiziosi avrebbero materia per le loro ossessioni: a parte il titolo, c’è il fatto che dopo averci lavorato per due anni il compositore morì all’improvviso nell’agosto 1928 senza poter rivedere l’orchestrazione del terzo atto, così che l’opera fu rappresentata postuma a Vienna nel 1930 in una versione piuttosto rimaneggiata da Břetislav Bakala e Osvald Chlubna. Alla stesura originale si arriverà solo quarant’anni dopo: se ancora nelle edizioni discografiche di Bohumil Gregor (1965) e Václav Neumann (1980) vennero mantenute alcune delle pesanti interpolazioni dei revisori, è solo nel 1974 che Václav Nosek dirige l’opera a Brno senza aggiungere nulla a quanto già esisteva nei manoscritti originali. Analogamente si sono comportati John Tyrrel e Charles Mackerras per l’edizione digitale del 1980. «Se l’opera è stata avvolta per decenni nel morbido involucro della romantica revisione Bakala-Chubna – come il Boris Godunov di Musorgskij nella versione di Rimskij-Korsakov – qualche ragione vi sarà stata, e non è stato un gran male: il nostro tempo è molto più adatto di quello passato ad accogliere Da una casa di morti nella sua scheletrica ferocia e nel suo scabro e spietato espressionismo», scrive Franco Pulcini.

Autentico testamento artistico e potente messaggio di pietà per quel frammento di umanità civilmente morta – oltre che opera profetica dei gulag staliniani e dei lager nazisti – Da una casa di morti è talora messa a confronto col Wozzeck di Berg (1926) che però Janáček non vide mai né poté studiarne la partitura; ebbe solo la possibilità di ascoltarne i frammenti eseguiti in concerto da František Neumann a Brno il 3 aprile 1927. Il lavoro di Janáček è molto più realisticamente crudo e spietato di quello di Berg, anche se entrambi danno dignità operistica alle voci di diseredati e oppressi.

E sia ai gulag sia ai lager si ispira la scenografia di Aleksandar Denić qui al Teatro Nazionale di Monaco di Baviera, anche se poi la sua struttura rotante, una vera macchina infernale, utilizza poster cinematografici e un’insegna luminosa della Pepsi oltre a una caotica giustapposizione di oggetti di varie epoche. Conigli in gabbia rispecchiano quella di filo spinato in cui è racchiuso questo microcosmo maschile di criminali, grandi e piccoli, ma tutti degni di compassione, se non di cristiano perdono.

Il sessantaseienne regista Frank Castorf non frequenta molto l’opera lirica, essendo i suoi interessi volti maggiormente al cinema (ha girato tra l’altro I demoni di Dostoevskij, autore di cui si confessa ossessionato) e al teatro di prosa (ha in scena quasi in contemporanea il Don Giovanni di Molière, lo stesso del siparietto del secondo atto nell’opera di Janáček). Il regista tedesco nei suoi spettacoli fa sempre grande uso della musica, ma qui l’horror vacui della sua messa in scena contrasta troppo con l’essenzialità di suoni dell’opera e col suo messaggio etico. Come se tutto ciò non bastasse, a tratti scende uno schermo su cui vengono proiettate immagini di film o scene captate in vari altri punti della struttura, dialoghi sono aggiunti come pure un passaggio del Vangelo in spagnolo. Più che un carcere siberiano il palcoscenico sembra un affollato rifugio di anime perse.

A capo dell’orchestra del teatro l’australiana Simone Young si dimostra un’esperta janáčekiana nella sua lettura drammaticamente livida di questa intensa partitura che viene eseguita senza soluzione di continuità.

Cantato in quella lingua meravigliosamente concisa («abbiamo ottenuto il resto della giornata libera e il permesso di fare teatro questa sera» è la traduzione in italiano di «bude prazdnik, i těatr»!) che Janáček aveva condito di espressioni russe o dialettali, il testo è magistralmente reso da interpreti di varie nazionalità. Citiamo almeno i tre personaggi a cui si devono i tre grandi monologhi: il Luka di Aleš Briscein, lo Skuratov di Charles Workman e lo Šiškov di Bo Skovhus, tutti eccellenti in modo diverso. Gorjančikov è Peter Rose e Aljeja il soprano Evgeniya Sotnikova, che nella lettura di Castorf veste le piume dell’aquila su un costume scintillante di lamé che la trasformano in una paradisea. La costumista Adriana Braga Peretzki si sbizzarrisce con calzemaglie che imitano pelli tatuate o gli scheletri del día de Muertos, piuttosto incongrui nella steppa siberiana e che sembrano avanzati dalla precedente produzione de Les vêpres siciliennes sempre qui alla Bayerische Staatsoper.

Foto © Wilfried Hösl