Henri Meilhac

Les brigands


foto © Agathe Poupeney

Jacques Offenbach, Les brigands

Parigi, Opéra Garnier, 21 giugno 2025

★★★★☆

(registrazione video)

Un Offenbach che sa di aglio e sudore

Sono pochi i titoli di Offenbach creati per Palais Garnier o l’Opéra Bastille negli ultimi cinquant’anni, da quando cioè il compositore è entrato in repertorio con Les contes d’Hoffmann nella produzione di Chéreau del 1974. La tradizione delle opéras-bouffes di Offenbach si è infatti cementata intorno alla coppia Marc Minkowski e Laurent Pelly all’Opéra de Lyon, con indimenticabili spettacoli di cui rimangono preziose registrazioni in CD e video. Per rimediare, l’Opéra de Paris affida a Stefano Montanari e a Barrie Kosky il compito di far rivivere le deliranti vicende di Les brigands.

È un Offenbach «che sa di aglio e di sudore», dice il regista di questa sua produzione, e per recuperarne l’originaria impertinenza e carica provocatoria, la ambienta in un universo queer popolato da una variopinta mafia malavitosa in cui regna la fluidità del genere e dove il capo dei briganti Falsacappa ha le fattezze di Divine, la drag queen dei film di John Waters, all’inizio nel famoso abito rosso di Pink Flamingos, accessoriato di pistola, e poi in una varietà di outfit rigonfi e con paillettes. Il travestimento è d’altronde uno degli elementi determinanti in questa vicenda dove i briganti si travestono prima da mendicanti, poi da cucinieri, quindi da nobili spagnoli, infine da carabinieri, e dove il ritratto della promessa sposa al Principe di Mantova, il regno “confinante” con quello di Granada (!), viene scambiato con il ritratto della figlia del capo dei briganti.

Nella lettura di Kosky i dialoghi, spregiudicatamente riscritti, hanno molte allusioni all’attualità politica della Francia. La scenografia fissa di Rufus Didwiszus, un salone grigio sbiadito con modanature Secondo Impero, è arricchita da 11 tele dipinte con paesaggi. Nel secondo atto l’arrivo della principessa di Granada e della sua corte dà luogo a uno spettacolare tableau vivant grondante d’oro. Con i costumi di Victoria Behr, Kosky mette in campo tutti i mezzi dell’Opéra di Parigi per allestire un corteo degno di una produzione particolarmente sontuosa, ad esempio del Don Carlos, in cui i membri della corte spagnola avanzano come in una processione della Semana Santa. La principessa è alla testa del corteo, in un abito ampio e rigido ispirato all’Infanta Maria Teresa di Vienna ritratta da Velazquez, mentre le sue dame di compagnia hanno tutte costumi di alta moda disegnati individualmente. Gli uomini arrivano su cavalli da tiro a rotelle in farsetti, gorgiere e pantaloni d’oro. Le ballerine indossano i trajes de luces ricamati in oro dei toreador e tutti hanno i capelli di un vivace colore arancione. In fondo un Cristo in grande scala, quasi nudo e palestrato, ondeggia lentamente affiancato da due vergini dei dolori in nero, su piedistalli d’oro, una circondata da candele, l’altra da gigli. Se tra il pubblico si era alzato qualche sopracciglio al primo atto, questo quadro mette tutti d’accordo per la teatrale e ironica opulenza degna del miglior Kosky.

Anche nelle altre scene il palcoscenico brulica di un numero enorme di persone – solisti, coro, ballerini, figuranti – ma ognuno ha sempre qualcosa di speciale da fare, anche solo dimenare il fondoschiena verso il pubblico. Tutti quei movimenti frenetici e brulicanti della folla, avanti e indietro, mentre si indossano nuovi travestimenti, sono minuziosamente gestiti nella loro finta stravaganza. Si aggiungano le coreografie da cabaret di Otto Pichler per completare uno spettacolo trasgressivo e allegramente oltraggioso.

Coerente con la visione del regista è la recitazione degli interpreti, primo fra tutti il monumentale Marcel Beekman quale Falsacappa/Divine, che mescola registri diversi in una tessitura allungata e androgina. La figlia Fiorella ha le fattezze e la voce di Marie Perbost, soprano agile e corposo, mentre il mezzosoprano Antoinette Dennefeld delinea il vivace amante Fragoletto. Mathias Vidal (Principe di Mantova) dimostra ancora una volta la perfezione del suo stile unita a una sana dose di autoironia. Philippe Talbot era presente nella produzione del 2011 de Les brigands e qui ritorna nella stessa parte del Comte de Gloria Cassis, quello che canta i versi più famosi dell’opera: «Y’a des gens qui se dis’nt Espagnols | et qui n’sont pas du tout espagnols». Cast di lusso anche per le parti secondarie affidate ai veterani delle vecchie produzioni di Pelly/Minkowski: Yann Beuron come Le Baron de Campo-Tasso apporta il suo fraseggio elegante e la sua solita verve; Laurent Naouri affronta con gusto la parte del capo dei carabinieri, qui flic parigini col kepì; l’inconfondibile Franck Leguérinel si fa riconoscere come Barbavano (fu Pietro nel 2011) ed Eric Huchet (allora Falsacappa) come Domino.

Nella ripresa delle recite di giugno, Stefano Montanari è sostituito da Michele Spotti che aveva concertato Barbe-Bleu a Lione e che anche qui si adatta alla perfezione allo spirito dell’Opéra-Bouffe di Offenbach con tempi appropriati e grande gusto strumentale.

Manon

foto © Daniele Ratti

Jules Massenet, Manon

Torino, Teatro Regio, 16 ottobre 2024

(cast alternativo)

La presenza di quattro nuovi cantanti è il pretesto per ritornare al bellissimo spettacolo della Manon del Regio per qualche osservazione in più sulla messa in scena, ma anche sui personaggi e sulla musica stessa di Massenet che si conferma di strepitosa sapienza orchestrale. Si pensi anche soltanto al ritmo incalzante che prelude alla scena del gioco nell’Hôtel de Transilvanie, nel quarto atto, su quelle figure pulsanti di clarinetto e fagotto sul pizzicato degli archi di cui forse si ricorderà Prokof’ev nel suo Giocatore tanti anni dopo.

La regia di Arnaud Bernard anche alla seconda visione si conferma riuscitissima, con alcune finezze che erano sfuggite la prima volta, come le immagini che accompagnano il preludio all’atto primo, dove l’Allegro moderato iniziale di tutta l’orchestra ricrea la folla che entra nell’aula del tribunale col suo brusio per poi passare all’Andante moderato quando, dopo un rallentando, entra il clarinetto in si♭solo con un tema lamentoso, che ritornerà come Leitmotiv nell’opera, prescritto in partitura «bien chanté et soutenu». E vediamo allora apparire la figura un po’ spaventata di Dominique, la ragazza accusata di omicidio, qui un’indimenticabile Brigitte Bardot ventiseienne in uno dei film più importanti della sua carriera.

Dei vari piani su cui si sviluppa la messa in scena di Bernard si apprezza la coerenza drammaturgica tra il film, che vediamo in ampi spezzoni, e quanto viene agito dal vivo nella scena divisa in due, con le sapide ma non distraenti controscene, come le reazioni dei magistrati in alto nei loro scranni a quanto viene “rivissuto”, come flashback della protagonista, nella parte bassa. Rispetto all’analoga opera di Puccini, qui il Settecento è meno ingombrante e infatti al regista riesce molto meglio la trasposizione in tempi moderni, come se Massenet ne rendesse più facile l’attualizzazione. Merito è certamente dei librettisti francesi che hanno lavorato con più serenità al testo ricavato da Prévost di quanto sia successo invece per l’affannato iter di quello italiano affidato a un numero inverosimile di mani.

La recita del 16 ottobre è l’unica in cui sono presenti quattro nuovi interpreti nelle parti principali. Avevamo già ammirato Martina Russomanno come principessa Eudoxie ne La Juive su questo stesso palcoscenico e ora ne ritroviamo la brillantezza del registro e le fluide agilità piegate a un ruolo più complesso, che Massenet e i suoi librettisti Meilhac e Gille trasformano in personaggio eterno. Alla sua prima esperienza in un ruolo eponimo, Russomanno dimostra la pienezza di un’interpretazione dalle mille sfaccettature, fin dalla sua prima apparizione in cui la giovane quindicenne che vede il mondo per la prima volta (« Je suis à mon premier voyage!») ne è stordita («Je suis… encor… tout étourdie…» ma anche affascinata («j’admirais, de tous mes yeux […] Les voyageurs… jeunes et vieux…»). La stessa ammirazione che avrà per le sue simili che non devono rinchiudersi in un convento («Combien ces femmes sont jolies!…») e soprattutto per le loro «riches toilettes»: la fascinazione per i gioielli è un carattere dominante nella personalità di Manon («ces parures si coquettes les rendaient plus belles encor!…») fino alla fine, quando anche in punta di morte rivela innocentemente la sua civetteria guardando una stella che si è accese nella sera: «Ah! le beau diamant!… Tu vois… je suis encore coquette!». Con grande sensibilità il soprano delinea il momento di riflessione della ragazza quando si piega alla triste realtà, «Voyons, Manon!… plus de chimères […] Laisse ces désirs éphémères à la porte de ton couvent!», pur tuttavia «combien ce doit être amusant… de s’amuser… toute une vie!…». Manon nel secondo atto intona uno struggente canto alle semplice gioie della vita, «Adieu, notre petite table», per poi nel terzo lanciarsi in un irrefrenabile inno alla gioia: «Profitons bien de la jeunesse, | Des jours qu’amène le printemps; | Aimons, rions, chantons sans cesse, | Nous n’avons encor que vingt ans!». Ed è ancora di Manon uno dei momenti più trascinanti dell’opera di Massenet, quel «N’est-ce plus ma main que cette main presse?» che sarà ripreso nel finale da Des Grieux.

In Armand Des Grieux si ascolta questa sera il tenore Andrei Danilov, artista che dopo il debutto al Teatro di Irkutsk (Russia siberiana) è diventato membro dell’ensemble della Deutsche Oper specializzandosi in ruoli brillanti quali il Duca del Rigoletto, Rinuccio nel Gianni Schicchi, Tamino nel Flauto magico ma anche più drammatici quali Edgardo in Lucia di Lammermoor o Paolo nella Francesca da Rimini. Dotato di squillo e grande proiezione, il suo timbro non è molto ricco di armonici e pur dotato di belle mezze voci tende a risolvere con interventi vocali dove domina la forza momenti in cui si preferirebbe una maggiore intimità. Riesce comunque a instaurare un bel rapporto con il soprano italiano e a rendere appassionati i duetti d’amore tra i due personaggi.

Il Lescaut blouson noir di Bernard trova in Maxim Lisiin una efficace caratterizzazione anche se sul piano vocale al giovane baritono gioverebbe un maggior controllo dei fiati e una sonorità più adatta a forare l’orchestra. Il Des Grieux padre di Massenet ha molte somiglianze col Germont padre di Verdi: stessa apparizione nella sala da gioco e prima, nel parlatorio di Saint-Sulpice, il suo «Épouse quelque brave fille» richiama infallibilmente «Di Provenza il mar, il suol», non nella musica ma nelle intenzioni. Il basso franco-italiano Ugo Rabec, già membro dell’Atelier Lyrique dell’Opera di Parigi, delinea con efficace autorevolezza il personaggio.

Davanti a una platea che numericamente equivaleva a quanti agivano in scena, i cantanti hanno dato il meglio e sono stati premiati dai convinti applausi dei pochi presenti. Ora si spera che questo bello spettacolo possa avere nuova vita in qualche altro teatro o possa essere ripreso in una futura stagione, magari proprio con gli interpreti che hanno avuto questa sola magra occasione.

Manon

 

foto © Daniele Ratti

Jules Massenet, Manon

Torino, Teatro Regio, 5 ottobre 2024

★★★★☆

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Manon in mille sfumature di grigio

Dopo un interessantissimo convegno al Teatro dal Verme a Milano su “Puccini in scena, oggi” organizzato dall’Associazione Nazionale Critici Musicali, seconda giornata dopo quella di Lucca, in cui l’argomento è stato discusso da tre compositori (tra cui Francesco Filidei che debutterà alla Scala con la sua nuova opera Il nome della rosa con la regia di Michieletto), tre sovrintendenti (compreso il nostro Mathieu Jouvin) e tre registi (tra cui Valentina Carrasco che qui al Regio sei mesi fa aveva messo in scena La fanciulla del West), si torna a Torino per la seconda puntata di “Manon Manon Manon”. 

È la volta del «coeur trois fois féminin» della Manon di Massenet, la “meno infedele” all’originale di Prevost, quella con cui si confronterà direttamente, nove anni dopo il debutto nel 1884, Puccini con la sua Manon Lescaut. L’ascolto ravvicinato delle due versioni permette di comprendere il diverso approccio dei due musicisti, accomunati da una felice vena melodica e proprio per questo fino a non molto tempo fa considerati, assieme a Čajkovskij, con mal celato sussiego da certa critica.

La Manon Lescaut di Puccini è il frutto di un compositore 35enne che dopo due tentativi non entusiasmanti trovava la sua strada. La Manon di Massenet era la 14esima opera in una carriera già affermata di un musicista insignito della onorificenza della Légion d’Honneur e rispettato professore di contrappunto che aveva superato il più anziano Saint-Saëns nell’elezione all’Institut de France. Invidie e incomprensioni non gli permisero di far mettere in scena a Parigi la sua Hérodiade, che prese la strada di Bruxelles e che debutterà nella capitale francese solo nel 1884, un mese dopo la prima di Manon la quale si risolse in un successo prodigioso. In questo i due lavori “gemelli” di Puccini e Massenet hanno qualcosa in comune: entrambi aprono definitivamente le porte al successo ai rispettivi autori. Il francese consoliderà la sua fama con Le Cid, Werther, Thaïs, Chérubin, Don Quichotte e nella sua prolifica carriera coprirà la maggior parte dei generi e sottogeneri dell’opera: il grand opéra, l’opéra comique, l’opéra romanesque, la comédie-lyrique, il conte de fées, la farce musicale, la comédie chantée, l’operetta.

Diversi sono i caratteri dell’eroina di Prévost messi in luce dai due compositori. In Puccini Manon è una ragazza ribelle, psicologicamente immatura e incapace di rinunciare, di affrontare il dolore di una perdita, ma nello stesso tempo la sua è la passione disperata di chi si sente irrimediabilmente solo. Probabilmente la Manon di Puccini è quella che più riflette i tormenti del suo autore. La Manon di Massenet incarna invece l’archetipo della femme fatale, volubile e priva di senso morale, continuamente oscillante tra frivolezza e nostalgia.

Su questi tratti si basa la scelta cinematografica di Arnaud Bernard nel secondo pannello del trittico che precede la stagione del Teatro Regio torinese. È infatti la figura iconica di Brigitte Bardot nel film La vérité (1960), anche questo di Henri Georges Clouzot, a fare da filo conduttore alla sua lettura registica. Vediamo infatti le prime immagini della pellicola in bianco e nero mostrarci il tribunale in cui la bella Dominique Marceau è accusata dell’omicidio di Gilbert Tellier, il suo ex fidanzato. Sotto gli sguardi ostili dei giurati e del pubblico, ha inizio il racconto della vita della giovane in numerosi flashback che vediamo rappresentati sul palcoscenico del teatro. Il triplice sipario nero scopre la scena che Alessandro Camera suddivide in due parti: in basso i vari ambienti della vicenda, in alto, sempre presenti, giudici e avvocati magistrati nella loro tribuna. 

Diciamo subito che questa volta l’interazione con il mezzo filmico è riuscita molto meglio, non solo non distrae dalla musica, infatti la precede, ma la completa in maniera molto efficace. L’immedesimazione della protagonista cantante con la figura dell’attrice francese è sorprendente e anche le scelte scenografiche sono azzeccate. Il cortile della locanda di Amiens del primo atto non è molto diverso da quello visto nell’analogo primo atto di Puccini, ma qui la molteplicità di personaggi e di scene non nuoce perché il regista prende a prestito dalla tecnica cinematografica il ralenti e il fermo immagine per isolare le azioni dei singoli personaggi mentre il resto rimane sospeso nel tempo. La scena che manca nella Lescaut italiana, ossia quella dell’intimità domestica dei due giovani, qui costituisce il secondo atto mentre il primo quadro del terzo atto, la passeggiata del Cours-la-Reine è genialmente reso dal regista ambientandolo in un atelier di moda con vetrine di abiti e accessori e una passerella per la sfilata dei modelli, uno dei quali indossato proprio da Manon. Gli eleganti costumi sono disegnati da Carla Ricotti utilizzando le infinite sfumature del grigio.

Molto riuscito è anche il quadro del parlatorio di Saint-Sulpice, dove le severe boiserie del tribunale qui rappresentano la sacrestia in cui Manon va e riprendersi il suo uomo, nel frattempo diventato abate. Nuovamente affollato e movimentato l’atto quarto che si apre sulla sala da gioco dell’Hotel de Transilvanie. Qui Guillot de Morfontaine, scaricato dalle tre ragazze Poussette, Javotte e Rosette si sfoga con Manon fino ad abusarne sessualmente e sarà questo il motivo, assieme all’accusa di barare al gioco, che spinge Manon a ucciderlo con una rivoltella – così come aveva fatto la Manon pucciniana con Geronte di Ravoir – copiando fedelmente quello che avviene nel film di Clouzot, dove vediamo BB in prigione in attesa di giudizio tagliarsi le vene del polso con un pezzo di specchio. L’ultima scena in teatro vede un lettino di ospedale con Manon in procinto di esalare l’ultimo respiro. Stavolta non ci sono più i giudici nella parte superiore, la scena è tutta per Manon e Des Grieux, il quale inutilmente cerca di rianimare la ragazza: «N’est-ce plus ma main que cette main presse?», la stessa frase che Manon aveva usato per strappare il giovane all’abito talare. E con questa frase struggente termina «l’histoire… De Manon… Lescaut!…». 

Questo non è il solo tema ricorrente nella partitura che Evelino Pidò rende con attenzione ai colori strumentali ma senza eccedere in esasperati languori, rispettandone comunque gli slanci passionali. I momenti lirici e quelli brillanti sono realizzati con grande equilibrio e senso del teatro e molto curata è l’attenzione alle voci, qui appartenenti a buoni cantanti che si impegnano con convinzione e coerentemente alle scelte drammaturgiche del regista con la figura della Manon di Ekaterina Bakanova fedelmente ricalcata su quella della Bardot. Vocalmente esordisce con una fresca «Je suis encore toute étourdie» con cui delinea felicemente la freschezza e ingenuità del personaggio unitamente alla sua iniziale rassegnazione a essere rinchiusa in un convento. Il canto si fa più sentimentalmente intenso nell’addio alla «petite table» del secondo atto, poi un po’ di fatica si insinua nei suoi interventi successivi quando la voce deve raggiungere le vette acute di un canto in bilico tra tono brillante e appassionato. Il tenore brasiliano Atalia Ayan parte con qualche lieve difficoltà, poi prende quota e riesce a gestire belle mezze voci espressive nei duetti con Manon, arrivando a delineare con autorevolezza il personaggio di Des Grieux grazie al bel timbro e alla proiezione della voce. Björn Bürger è un vivace Lescaut, così come Thomas Morris si dimostra efficace attore nella parte dell’odioso Guillot de Morfontaine, mentre Roberto Scandiuzzi è un Conte Des Grieux talmente nobile ed elegante da rasentare l’astrazione. Nelle altre parti minori sono impiegati proficuamente membri del coro del teatro che dimostra di aver fatto tesoro del coach fornito: la dizione del francese è incommensurabilmente migliorata negli ultimi tempi. Anche di questo dobbiamo rendere grazie al sovrintendente.

Pubblico non numerosissimo, ma estremamente prodigo di applausi e unanimi i giudizi raccolti tra gli spettatori: «Questa Manon è molto meglio dell’altra»…

Carmen

    

La locandina dello spettacolo

Georges Bizet, Carmen

Londra, Royal Opera House, 1 maggio 2024

★★★★☆

(diretta streaming)

La Carmen di Michieletto conquista Londra 

Nietzsche ne era stato folgorato e dalle brume wagneriane si era così convertito alla solarità mediterranea. Dopo aver assistito alla prima della Carmen il 27 novembre 1881 a Genova, era rimasto entusiasta di quello che avrebbe poi considerato il simbolo della nuova e vera musica. «Evviva! Amico! Di nuovo ho conosciuto qualcosa di bello, un’opera di François [sic] Bizet (chi è costui?)… Carmen. Sembrava di ascoltare una novella di Merimée, piena di spirito, intensa, talora anche toccante. Un autentico talento francese dell’opéra comique, niente affatto disorientato da Wagner, al contrario, il vero allievo di H. Berlioz. Non pensavo che qualcosa del genere fosse possibile!» scrive sull’onda di un entusiasmo che gli fa storpiare il  nome del compositore. È una conversione che arrivava dopo un periodo di “purificazione” dalle scorie soffocanti della musica romantica,  «quest’arte ambigua, tronfia e soffocante, che toglie allo spirito rigore e vivacità e fa proliferare ogni sorta di torbida nostalgia, di tumida brama», come aveva scritto per la prefazione al secondo volume di Umano, troppo umano. Un libro per spiriti liberi uscito nel 1879.

Nel 1888, ai tempi de Il caso Wagner, Nietzsche sarebbe stato ancora più drastico: «Per la ventesima volta ho ieri assistito al capolavoro di Bizet e l’ho udito ancora con la stessa reverenza. […] È malvagia, perversa, raffinata, fantastica, eppure avanza con passo leggero e composto; la sua raffinatezza non è quella di un individuo, bensì di una razza. Si sono mai uditi sulla scena accenti più tragici, più dolorosi? E come sono ottenuti? Senza smorfie, senza contraffazioni di alcun genere, in piena libertà dalle bugie del “grande stile”. […] Io invidio a Bizet il coraggio di questa sua sensibilità eccezionale, che prima di adesso non aveva trovato mezzo per esprimersi nella musica colta d’Europa; il coraggio di questa sensibilità meridionale, brunita, arsa dal sole… Ah finalmente l’amore, l’amore ricondotto verso la natura!».

Nella sua lettura dell’opera più rappresentata al mondo nella scorsa stagione (fonte:  statistiche di OperaBase), Damiano Michieletto sembra volersi riferire proprio a quella meridionalità soffocante e arsa dal sole. Soffocante e arsa anche nei sentimenti, forti, violenti di una Spagna rurale postfranchista che non ha però il carattere gioioso e irriverente dei film di Pedro Almdodóvar, ma piuttosto quello neghittoso dei western di Sergio Leone o del balletto di Matthew Bourne The Car Man. Ad apertura di sipario la scena di Paolo Fantin ci mostra un assolato dehors con sedie di plastica e gente intorpidita dalla calura che passa il tempo a sventagliarsi e a guardare l’altra gente che passa. Un edifico di cui vediamo due pareti angolari ruota su sé stesso mostrando di volta in volta l’interno oppure l’esterno: nel primo atto è la stazione di polizia, nel secondo il night club di Lilas Pastia, nel terzo il magazzino dei contrabbandieri e nel quarto il camerino dei toreri. Una efficace soluzione già sperimentata nella sua produzione di Cavalleria e Pagliacci nove anni fa sempre qui al Covent Garden. I tocchi western sono dati dai tumblweeds (i cespugli rotolanti) e dai costumi da cowboy dei bambini nei loro giochi anche violenti quando i più grandicelli bullizzano i più piccoli. I bambini sono infatti protagonisti in questa produzione non solo perché richiesti nel primo e quarto atto, ma utilizzati anche negli entr’actes per indicare il passare del tempo: ogni bambino con una delle lettere che formano le frasi «Quelques mois plus tard», «La nuit suivante»… 

Michieletto utilizza in maniera mirabile la loro presenza, soprattutto nel primo atto, ma si sarebbe volentieri fatto a meno di loro nell’intermezzo all’atto terzo – che Bieito nella sua produzione aveva realizzato in maniera mirabile con il “bagno di Luna” del torero – e soprattutto prima del drammatico quarto atto dove il giochino delle lettere disordinate induce sì al sorriso ma distrae dalla tragedia imminente.

Un personaggio non previsto ma spesso evocato nel libretto è quello della madre di don José, che Michieletto introduce fisicamente in scena abbigliata nella sua luttuosa mantilla, quasi uscita da La casa di Bernarda Alba. È lei che mescola le carte, tra cui quella fatale della Morte, e che appare per «legare il figlio a sé, costringendolo a obbedire, dirottando la sua volontà e mantenendo un controllo su di lui. La sua forza si manifesta attraverso il personaggio di Micaëla e la tragedia finale si trasforma così in uno scontro metaforico tra due modelli femminili opposti», scrive il regista. Anche in questo caso le sue iterate apparizioni non sembrano così essenziali.

Nella scarna scenografia di Paolo Fantin una griglia con cento fari rende il sole accecante oppure la luce lunare,  ma nel finale si inclina per fare da sfondo all’ultimo teso incontro di Carmen e don José. Con i costumi come sempre appropriati di Carla Teti e il magnifico gioco luci di Alessandro Carletti, Damiano Michieletto costruisce uno spettacolo di grande suggestione teatrale e di attento lavoro attoriale dove i sub plot sono efficaci, come il rapimento di Zuniga da parte dei contrabbandieri e conseguente pagamento del riscatto. A parte le riserve espresse, ne viene fuori una pietra miliare nella drammaturgia del lavoro di Bizet che a Londra sostituisce il discusso allestimento di Barrie Kosky ed è facile prevedere che rimarrà per molti anni in scena. Si potrà comunque vedere alla Scala che l’ha coprodotto assieme al Real di Madrid.

Un altro italiano è artefice di questa felice produzione: alla guida dell’orchestra del teatro c’è infatti Antonello Manacorda che della preziosa partitura rende al meglio le preziosità strumentali e il travolgente senso teatrale, con dinamiche ben equilibrate, esaltate ma mai spinte all’eccesso. Suo è anche il merito di aver aperto qualche taglio soprattutto nel primo atto, e aver utilizzato la versione con i dialoghi parlati, seppure opportunamente accorciati.  Il cast è internazionale con  pochissimi cantanti di madrelingua francese, e si sente. I quattro interpreti principali provengono rispettivamente dalla Russia, Ucraina, Polonia e Lituania!

Il mezzosoprano Aigul Akhmetshina è una Carmen di splendida voce dal timbro caldo e sontuoso ma a suo agio negli acuti e di ottima dizione. Cantante di grande personalità, delinea una Carmen meno femme fatale del solito, ma pienamente credibile nella psicologia del personaggio, forte e fragile allo stesso tempo, una donna che non vuole rinunciare alla sua libertà di scelta in totale contrasto con la figura dimessa della fresca e lirica Micaëla del soprano Olga Kulchynska, cantante apprezzata nel repertorio belcantistico (Mozart, Bellini…) e russo.

Ritorna in una parte che ha già frequentato il tenore Piotr Beczała e il suo don José ha le qualità che conosciamo: magnifico timbro, grande proiezione, acuti luminosi e sotto la guida di Michieletto riesce ad essere anche scenicamente convincente. Le qualità sceniche compensano solo in parte la dizione eccepibile e il timbro morchioso del baritono Kostas Smoriginas, un Escamillo tutt’altro che memorabile. Molto ben caratterizzato è il quartetto formato da Frasquita, la canadese Sarah Dufresne; Mercédès, la lituana Gabrielė Kupšytė; il Dancairo, il belga Pierre Doyen,  e il Remendado, il francese Vincent Ordonneau. Ben definito il Moralès dell’armeno Grisha Martosyan, mentre non vocalmente a suo agio lo Zuniga del congolese Blaise Malabata. Magnifici i cori del teatro e quello di voci bianche.

La proiezione è avvenuta a Torino in una sala cinematografica dalla perfetta resa sonora ma resta inspiegabile come in  una città di quasi un milione di abitanti e migliaia di abbonati al teatro lirico, solo una dozzina di spettatori abbiano scelto –  in un giorno festivo! – di assistere all’avvenimento. Che tristezza.

Die Fledermaus

Johann Strauß figlio, Die Fledermaus

Monaco, Bayerische Staatsoper, 31 dicembre 2023

★★★★☆

(video streaming)

Uno scatenato Pipistrello

Tempo di feste, tempo di Die Fledermaus, l’operetta che festeggia i 150 anni, essendo stata eseguita la prima volta al Theater an der Wien nel 1874 diretta dallo stesso autore, Johann Strauß figlio. Almeno quattro sono le produzioni nei teatri europei in questo periodo: Bologna, Vienna (Staatsoper ovviamente), Zagabria (video disponibile su Operavision) e Monaco di Baviera (disponibile su Arte). Sulla carta quest’ultimo era il più promettente e si è rivelato tale anche nella realtà con Vladimir Jurovskij alla direzione d’orchestra, Barrie Kosky alla regia e un cast di rilievo.

Si tratta del terzo Pipistrello in tempi moderni alla Bayerische Staatsoper dopo quello di Leander Haußmann degli anni ’70 soppiantato da quello di Otto Schenk nel 1997 e ora da quello del regista australiano-tedesco che, dopo l’operetta tedesca e Offenbach, ha affrontato la regina delle operette viennesi con il suo teatralissimo e irriverente approccio che gioca con il travestimento: il principe Orlofski, il più delle volte interpretato da una cantante femminile in vesti maschili, qui è invece un controtenore in versione drag-queen sgargiante, drappi turchesi e sete smeraldo su crinoline esagerate mentre il coro del secondo atto è vestito nei colorati e genderfluid costumi di Klaus Bruns, con piume a profusione.

Lo spettacolo inizia con il sonno di Gabriel von Eisenstein infestato da pipistrelli ballerini nella sua camera da letto al centro di una piazza attorniata da facciate di vecchi palazzi viennesi, la Judenplatz – un’allusione all’ebraismo in qualche modo nascosto del compositore e a quello invece dichiarato del regista. Nella scenografia disegnata da Rebecca Ringst, dalle porte escono ed entrano a ritmo incalzante personaggi spesso ignari gli uni degli altri come in una pochade di Feydeau.

Il secondo atto con il ballo dal principe Orlofsky fonde coristi e ballerini in un’atmosfera dove l’identità di genere svanisce tra piume di struzzo, glitter e paillettes. La festa culmina con un balletto sulle irresistibili musiche di Unter Blitz und Donner, prima del trascinante finale in cui tutti intonano l’inno al piacere «Ha, welch ein Fest, welche Nacht voll Freud’! | Liebe und Wein gibt uns Seligkeit! | Ging’s durch das Leben so flott wie heut, | Dann wäre jede Stund’ der Lust geweiht! (Ah, che festa, che notte piena di gioia! L’amore e il vino ci danno la beatitudine! Se la vita andasse così veloce come oggi, allora ogni ora sarebbe dedicata al piacere!). Irriverenti quanto mai, e quindi esilaranti , le coreografie di Otto Pichler.

Il terzo atto, il più breve, è arricchito da Kosky di sorprese. Il carceriere non è uno: ci sono ben sei Frosch diversi. Uno che parla, quattro che danzano e un sesto che si rivela ballerino di tip tap sulle note del Pizzicato Polka. Ma è il direttore della prigione nel suo dopo sbornia a rivelare gli aspetti più sfrontati, con un Martin Winkler che spinge al limite la sua performance scenica presentandosi in tacchi a spillo, perizoma glitterato e copri capezzoli con nappe. Evidenti residui di una serata sopra le righe. Ma si sa, la colpa è tutta dello champagne!

Kosky si impegna al massimo nella direzione dei personaggi, li  ridefinisce e reinterpreta la trama satirica della società e dei costumi viennesi creando uno spettacolo a metà strada tra il burlesque e il vaudeville, ma con risvolti meno superficiali: mentre si dipana la storia di intrighi e mascherate, le facciate si trasformano per mostrare le tenui strutture metalliche che le sorreggono e poi si sgretolano, come il matrimonio borghese degli Eisenstein. Mentre l’atmosfera utopica di fraternizzazione del secondo atto lascia il posto a un finale sgargiante su cui scende una batteria di lampadari scintillanti da cui si appende Eisenstein.

La vivacità della messa in scena trova il corrispettivo sonoro della direzione di Vladimir Jurovskij, un miracolo di verve, rubati, temi seducenti realizzati da quel meraviglioso strumento che è l’orchestra del teatro e da un cast di livello. Georg Nigl è un Gabriel von Eisenstein di collaudata presenza scenica e indiscusse doti vocali, del Frank di Martin Winkler si è già detto, così come del Principe Orlofsky di Andrew Watts che si sarebbe preferito un po’ più sfrontato. Breve ma succulenta la parte di Sean Panikkar, il galante Alfred punto debole di Rosalinde, qui una Diana Damrau, ex splendida Adele, con qualche stanchezza negli acuti. Quasi perfetta invece l’Adele di Katharina Konradi, bel talento di attrice e cantante dotata di grande tecnica vocale. Markus Brück (Dr. Falke) e Kevin Conners (Dr. Blind) completano il cast.

Il prossimo appuntamento è a Zurigo, dove a marzo Kosky metterà in scena La vedova allegra con Michael Volle, Marlis Petersen e ancora Katherina Konradi. Tempi felici per l’operetta.

Carmen

Georges Bizet, Carmen

Rouen, Théâtre des Arts, 30 settembre 2023

(diretta streaming)

Una sera al museo

Il 3 marzo 1875, al Théâtre National de l’Opéra-Comique, il pubblico parigino veniva sconvolto da un’opera che poi sarebbe diventata il titolo francese più eseguito nel mondo, ma intanto che scandalo aveva provocato Carmen, con quella musica dai colori abbaglianti, quella storia cruda, quei caratteri sanguigni, e soprattutto quella donna…

Centocinquant’anni dopo come far rivivere al pubblico di oggi l’emozione di quella sera? Utilizzando un’estetica più vicina ai nostri tempi, come ha fatto egregiamente Calixto Bieito oltre dieci anni fa con la sua fortunata produzione che continua a essere presentata sui palcoscenici dei maggiori teatri. Certo non proponendo con la maggior fedeltà possibile lo spettacolo del 1875, come ha fatto la coproduzione Palazzetto Bru Zane France–Centre de musique romantique française, l’Opéra di Rouen Normandie e l’Opéra Royal–Château de Versailles Spectacles, quasi a voler replicare alla recente polemica che oppone i difensori del Regietheater ai partigiani della tradizione assoluta, quelli cioè che deplorano il fatto che il pubblico popolare stia perdendo interesse per la lirica e rimpiangono l’epoca d’oro in cui le opere del repertorio erano rappresentate in ambienti figurativi che rispettavano il tempo e il luogo delle trame, per quanto assurde. Per queste persone, l’opera è puro intrattenimento, che racconta belle storie in bei costumi. Il dibattito che sta attraversando il mondo dei melomani ha probabilmente molto da imparare dalla Carmen di Rouen. Questo spettacolo non li mette certo d’accordo ma serve soprattutto a confrontare per liberare dalla polvere le messe in scene tradizionali che ancora – giustamente – si vedono in giro.

Affidata al giovane regista Romain Gilbert, questa Carmen è innanzitutto un’impresa, senza precedenti a questo livello,  di “archeologia operistica” con cui si è voluto ricostruire, nel modo più rigoroso possibile, quello che vide il pubblico parigino presente all’Opéra-Comique la sera della prima del capolavoro di Georges Bizet. Il corpus documentale pazientemente assemblato in due anni da Alexandre Dratwicki e dai musicologi del Palazzetto Bru Zane è stato fornito dai taccuini degli allestimenti, i livret de mise en scène,  conservati nella biblioteca dell’Opéra national de Paris. Sono stati analizzati brandelli di stoffa dei costumi originali e studiate le incisioni e le foto delle rappresentazioni  della sua prima trionfale tournée mondiale. M uno degli scopi di questa produzione è stato quello di valorizzare gli antichi mestieri ora minacciati di estinzione dai moderni allestimenti, quelli di modiste, parrucchieri e pittori di scene a tempera, che qui hanno potuto veder onorata le loro abilità. Costumisti e disegnatori di oggetti di scena sono riusciti a illustrare ogni parola del libretto: nel secondo atto lo shako, la sciabola e la giberna elencati da Meilhac e Halévy sono effettivamente presenti in scena; le carte con cui le zingare prevedono il futuro sono autentiche come autentiche sono le navajas usate nel duello del terzo atto, veri coltelli spagnoli con il manico inciso e prima della corrida i venditori ambulanti hanno realmente nei loro cesti di vimini i ventagli «pour s’éventer», le arance «pour grignoter», il programma «avec les détails», vino, acqua, sigarette. Partendo dalle incisioni ottocentesche Christian Lacroix ha poi disegnato i costumi con una cura meticolosa per l’autenticità di fogge, dettagli, tessuti e colori – e le giacche gialle dei soldati finalmente giustificano l’epiteto ingiurioso di “canarino” che una furiosa Carmen lancia a Don José: «Tu es un vrai canari, d’habitat e de caractère»! 

E poi ci sono le scenografie meticolosamente ricreate da Antoine Fontaine con un occhio all’autenticità storica: realizzate nei laboratori dell’Opéra di Rouen da scenografi che proseguono la tradizione della tempera all’italiana, le immense tele dipinte e gli scorci architettonici dei quattro atti suscitano l’ammirazione nel pubblico a ogni apertura di sipario. Molto meno per lo spettatore della ripresa televisiva, con l’obiettivo che oltre ai primi piani dei protagonisti svela l’effetto sfocato delle pitture, efficaci solo se viste da lontano, dal pubblico in sala. Hervé Gary col suo disegno di luci calde e soffuse ricrea l’effetto dell’illuminazione a gas originale.

A questo punto ci si chiede quali margini di libertà siano rimasti al regista di uno spettacolo così strettamente codificato. In un’intervista, il metteur en scène Romain Gilbert ha affermato che i taccuini portati alla luce dagli archivi dell’Opéra di Parigi, che contengono anche le indicazioni dei movimenti e delle posizioni in scena del coro e dei cantanti, costituiscano solo il 40% del suo lavoro. Nel 60% disponibile Gilbert replica gli atteggiamenti stereotipati dei tableaux d’insieme, con il coro posizionato convenzionalmente ad arco dietro i solisti che cantano rivolti verso il pubblico. Il cambio della guardia, la lotta delle sigaraie e la sfilata della quadriglia – finalmente si capisce che cosa sono gli alguazil, i chulos, i chubs, i banderilleros e i picadors! – sono comunque tutti coreografati con precisione. Qui viene ripristinata anche la pantomima del vecchio marito geloso all’inizio del primo atto, che oltre a rimpinguare la parte cantata da Morales, ci fa riscoprire uno stile recitativo certamente superato, ma che era molto in voga e apprezzato dal pubblico del XIX secolo. Il regista ci mette del suo nei tocchi psicologici dei personaggi, soprattutto di quel mammone di Don José che oscilla patologicamente tra brutalità e tenerezza e i cui tormenti edipici sono delicatamente suggeriti in due momenti: nel primo atto, quando José chiede di sua madre a Micaëla e si siede ai piedi della fidanzata appoggiando la testa sul suo grembo, nell’atteggiamento di un bambino che cerca il conforto della mamma. Nell’atto successivo, alla fine di «La fleur que tu m’avais jetée», José si inginocchia nuovamente ai piedi di Carmen, appoggiando la testa sul suo grembo e invitandola ad accarezzargli i capelli con la mano. Qualunque sia la donna che ama, José cerca una figura materna, fino a diventare violento, come un bambino a cui viene negato un capriccio.  La sua psiche fragile si evidenzia di nuovo alle porte dell’arena: abbandonato da Carmen, José prima volge il coltello su sé stesso in un ricatto che non smuove la zingara, poi la uccide mentre lei gli volta le spalle, non osando  più affrontarne lo sguardo.

Il teatro di Rouen è riuscito a riunire sul suo palcoscenico un cast di giovani cantanti quasi tutti al debutto nelle rispettive parti, una scelta saggia, perché gli artisti dovevano essere liberi da qualsiasi idea preconcetta o tic recitativo che avrebbe potuto interferire con il tentativo di autenticità dello spettacolo. Così è infatti per Deepa Johnny, mezzosoprano omanita-canadese, Carmen dal timbro di colore magnifico, sensuale, dal bel fraseggio e dalla magnetica presenza scenica. Si fatica a credere che la sua sia una prise de rôle tale è la sicurezza, la bellezza della dizione, la facilità nel gestire le esigenze vocali. Stanislas de Barbeyrac, che dopo la prima ha sostituito Thomas Atkins, è un Don José che nasconde sotto un fare manesco la sua fragilità.  Mozartiano nell’anima, il tenore francese porta nella sua performance eleganza e  sobrietà rispettando fedelmente l’agogica prevista dalla partitura. Il soprano rumeno Iulia Maria Dan ha già cantato Micaëla e ne conserva qui il candore e la purezza della linea di canto. Una vera delusione è invece Nicolas Courjal, basso grandemente ammirato in tutte le sue prestazioni precedenti, qui come Escamillo mostra la corda di una voce tesa in modo innaturale, i suoni sono eccessivamente vibrati e malgrado la perfetta dizione la dimensione smargiassa del personaggio non esce fuori. Davvero un peccato. Di ottimo livello l’aitante Morales di Yoann Dubruque, la Frasquita di Faustine de Monès, la  Mercédès di Floriane Hasler, lo Zuniga di Nicolas Brooymans e il duo particolarmente buffo del Remendado (Thomas Morris) e del Dancaïre (Florent Karrer). Bene anche i cori, Accentus e del teatro, diretti da Christophe Grapperon e le voci bianche istruite da Pascal Hellot.

Ben Glassberg, direttore stabile dell’Opéra de Rouen, fornisce una lettura ritmicamente esaltante della partitura nella versione Choudens con i recitativi cantati di Giraud. Non era il caso invece di mantenere quelli parlati dell’originale in questo allestimento storico?

La Périchole

  

Jacques Offenbach, La Périchole

Parigi, Théâtre des Champs Élysées, 15 novembre 2022

★★★★☆

Dopo un quarto di secolo si ricostituisce il team Minkowski/Pelly per Offenbach

Recensendo il DVD del 2004 de La Grande-duchesse de Gérolstein scrivevo: «Terza produzione offenbachiana della premiata ditta Minkowski & Pelly dopo Orphée aux enfers e La Belle Hélène, ci aspettiamo ora al­meno La Périchole fra le tante operette del Mozart degli Champs-Élysées che ancora mancano all’appello».

Molto tempo dopo, sulle tavole del Théâtre des Champs-Élysées si realizza quell’auspicio e si rinnova quel glorioso sodalizio – delle vere “nozze d’argento”, essendo passati 25 anni dal 1997 dell’Orphée – che ha visto Marc Minkowski alla direzione, Laurent Pelly alla regia e ai costumi, Agathe Mélinand ai dialoghi e Chantal Thomas alle scenografie.

Nel 1829 Prosper Mérimée aveva pubblicato su “La Revue de Paris” la pièce in un atto Le Carrosse du Saint-Sacrement ispirata a un personaggio reale, Micaela Villegas, un’attrice del XVIII secolo divenuta amante del viceré del Perù Don Maluel da cui si era fatta regalare una carrozza con cui andare in chiesa con grande scandalo dei benpensanti. Chiamata dal suo spasimante perra chola (cagna di meticcia), da cui il nome Périchole, divenne la protagonista dell’opéra-bouffe su testo di Ludovic Halévy e Henri Meilhac che Jacques Offenbach presentò il 6 ottobre del 1868 al Théâtre des Variétés di Parigi in una versione in due atti che divennero tre nella nuova versione del 25 aprile 1874. In entrambe le edizioni la protagonista fu Hortense Schneider.

Atto I. A Lima, il Viceré del Perù (Don Andrès) esce per intrattenersi in incognito, o per lo meno lo crede, con i suoi uomini che sono stati pagati per adularlo. Due cantanti di strada, La Périchole e il suo amante Piquillo, cercano invano di guadagnare il denaro necessario per sposarsi. Mentre Piquillo si allontana, La Périchole si addormenta per alleviare la fame. Il Viceré, affascinato dalla sua bellezza, le offre di essere la sua damigella d’onore. La Périchole non vulle farsi ingannare, ma in preda alla fame, accetta e scrive una lettera di addio a Piquillo. La lettera lo getta nella disperazione e vuole impiccarsi. Fortunatamente, viene salvato dal primo gentiluomo di corte che sta cercando un marito per la futura favorita del Viceré per mantenere le apparenze. Dopo essersi saziati e notevolmente ubriacati, Piquillo e La Périchole si sposano, senza che il giovane cantante si renda conto dell’identità della moglie.
Atto II. Il giorno dopo il matrimonio, smaltita la sbornia, Piquillo fa sapere alla “moglie” di amare un’altra donna, ma il galateo esige che prima presenti ufficialmente la sua sposa al Viceré. Quando scopre che La Périchole è diventata la sua amante e la sua favorita, scoppia in un’esplosione di rabbia, insulta il monarca e viene immediatamente mandato nella prigione per i mariti recalcitranti.
Atto III. Prima scena. La Périchole viene a visitare Piquillo in prigione. Dopo una scenata da parte di lui, la donna lo informa di non aver ceduto alle avance del Viceré. Il suo piano di fuga è semplice: corrompere il carceriere. Il carceriere si presenta, ma non è altro che il Viceré travestito, che fa rinchiudere insieme i due colpevoli. Ma un vecchio prigioniero permette loro di fuggire attraverso un tunnel che ha scavato. Nella seconda scena Piquillo e La Périchole si trovano in città, ma vengono individuati da una pattuglia. Al Viceré la Périchole e Piquillo cantano le loro disgrazie, commuovendo il monarca che, magnanimo, permette loro di vivere liberi e felici.

Con La Périchole Offenbach si allontana dal solco dell’opéra-bouffe fino a quel momento tracciato per affrontare il cammino che lo porterà ai Contes d’Hoffmann. Il compositore, che si era specializzato nel mettere la musica in burla, sa anche avvicinarsi alle rive del lirismo con una storia di amori contrastati dalla miseria e dal potere tiranno dove la malinconia tinge le inquietudini e i tormenti della Périchole e del suo amante Piquillo. Questo è il motivo per cui il pubblico dell’epoca rimase perplesso davanti a un lavoro che si avvicinava più all’opéra-comique che al turbine satirico de La Belle Hélène o de La vie parisienne. Quello del 1868 fu un mezzo fiasco: una donna ubriaca in scena e un matrimonio con entrambi gli sposi ubriachi furono gli elementi che indispettirono parte del pubblico e il successo di alcune pagine – furono particolarmente apprezzati i couplet «On sait aimer quand on est espagnol!» e la lettera firmata «La Périchole | qui t’aime mais qui n’en peut plus!…» – non bastarono a mantenere il lavoro in repertorio. Il contesto politico poi si era fatto particolarmente critico col conflitto franco-prussiano e solo dopo il 1870 Offenbach potè riprendere la sua operetta. La versione del 1874 si arricchiva di un atto, dei 19 numeri del 1868 cinque venivano eliminati, il primo atto rimaneva immutato, il secondo atto si concludeva con l’ensemble dei “maris récalcitrants”, il terzo comprendeva la scena della prigione che richiamava ironicamente l’analoga scena de L’Africaine di Meyerbeer qui arricchita dallo spassoso duetto di Miguel de Panatellas e Pedro de Hinoyosa e della lunga aria del tenore «Voilà donc le lit de l’honnête homme».

È questa la versione scelta da Minkowski e Pelly i quali separatamente hanno già affrontato il capolavoro offenbachiano: Minkowski nel 2018 in una registrazione a Bordeaux per Palazzetto Bru Zane e Pelly nel 2003 all’opera di Marsiglia. Ed è la terza produzione de La Périchole a Parigi quest’anno (!) dopo quella al Théâtre du Gymnase (Gossaert/Coudray) a gennaio e quella all’Opéra-Comique (Leroy/Lesort) a maggio.

Per questa nuova produzione Pelly ha sottolineato i due aspetti complementari di questo lavoro, quello comico/satirico e quello serio/drammatico: qui c’è una donna che si prostituisce per fame mentre un uomo abusa del suo potere. Il personaggio del viceré è sì burlesco, ma è pur sempre un predatore e l’ambientazione è ai giorni nostri poiché la figura del dittatore libidinoso non ha mai smesso di essere attuale. Nettamente distinte sono le ambientazioni dei vari quadri: la piazza della città, con la facciata di un condominio proletario e un immenso poster del faccione del viceré, c’è un chiosco di fast food e tavoli per la mescita di alcolici a buon mercato; il palazzo è tutto specchiere dorate, divani di velluto, donne in crinoline d’argento e uomini in polpe argentate; la prigione è una grande gabbia metallica che prende tutto il palcoscenico; nella scena finale il poster del viceré è danneggiato e coperto di scritte. La regia di Pelly è come sempre attentissima alla musica, con i movimenti che seguono i suoni con grande fluidità e una cura attoriale maniacale, dove ogni singolo personaggio in scena ha il suo ruolo in un meccanismo preciso. I dialoghi attualizzati dalla Mélinand rendono ancora più vivace e piccante la vicenda.

Alla testa dell’agile compagine dei Musiciens du Louvre formata da 37 eccellenti strumentisti, Marc Minkowski riprende la lettura leggera e trasparente che ha consegnato su disco. Cesellati sono i preludi strumentali, le dinamiche sono varie, i tempi lenti languorosi, quelli vivaci briosi ma senza eccesso, il volume sonoro quello previsto da Offenbach per le orchestre che aveva a disposizione mentre il diapason a 440 Hz fornisce un suono brillante. Le migliori condizioni per una compagnia di canto perfetta nei personaggi secondari, se secondario si può considerare il ruolo di Don Andrès de Ribeira, uno strepitoso e vocalmente autorevole Laurent Naouri che del viceré offre un ritratto completo, dai fremiti libidinosi, ai moti di dispetto per la sconfitta alla versione clemente del monarca che dona la libertà ai due giovani evasi – ma non al vecchio prigioniero il quale neanche più si ricorda perché è in galera ma è contento di ritornarci per continuare il suo decennale lavoro di scavo per evadere. Efficaci caratteristi sono Rodolphe Briand e Lionel Lhote, Comte Miguel de Panatellas e Don Pedro de Hinoyosas rispettivamente, così come le scatenate «trois cousines», e poi altezzose cortigiane, Chloé Briot, Alix Le Saux, Éléonore Pancrazi. Nei ruoli parlati del Marquis de Tarapote e del vecchio prigioniero si distingue l’attore Eddy Letexier. Salvatore Caputo dirige il sempre vivace e preciso coro dell’opera di Bordeaux.

Nella parte della Périchole si avvicendano Antoinette Dennefeld e Marina Viotti. Alla seconda recita è il turno della cantante francese. Il mezzosoprano strasburghese ha bella voce, anche se non grandissima, ottima presenza scenica ed elegante fraseggio, ma manca di quella verve che ci si aspetta da un personaggio talmente caratterizzato, così che sono i momenti lirici che convincono maggiormente rispetto a quelli più ironici. Lo stesso si può dire per il Piquillo di Stanislas de Barbeyrac, che per di più accusa qualche leggera difficoltà nel registro acuto e nelle agilità pur in una linea vocale di grande eleganza e simpatica presenza scenica. Il pubblico ha apprezzato e ha risposto con calorosi applausi. Ancora una volta, evviva Offenbach!

Carmen

Georges Bizet, Carmen

Torino, Cortile dell’Arsenale, 21 giugno 2022

Carmen in formato tascabile nel cortile dell’Arsenale

Nell’ambito della 28ª edizione della Festa della Musica, il Teatro Regio di Torino porta en plein air le ultime produzioni della sua stagione, essendo inagibile la sala in cui si stanno ultimando i lavori di adeguamento e rinnovamento dell’impianto scenico.

Dopo Cavalleria rusticana, nel cortile dell’Arsenale va in scena Carmen, in una versione che la drammaturgia di Sebastian Schwarz, direttore artistico del teatro, riduce nei personaggi e nei numeri musicali come l’anno scorso era stato fatto con Madama Butterfly e prima ancora col Flauto Magico al Festival Mozart in piazza San Carlo. Se là un narratore impersonava Schikaneder per raccontare la storia e cucire i vari momenti musicali, qui è Yuri d’Agostino, un attore nei panni di un Georgs Bizet non a suo agio con la lingua francese, a presentare la sua ultima creazione – Bizet morirà infatti nel 1875 non ancora trentasettenne a tre mesi dalla prima – partendo dalla novella di Prosper Mérimée adattata a libretto da Henri Meilhac e Ludovic Halévy. L’impossibilità di portare nella sua integralità la versione originale di Carmen in uno spazio come questo, ha spinto per la realizzazione di un qualcosa di diverso, ossia proporre al pubblico un’illustrazione dell’opera secondo un intento quasi didattico: ecco allora una selezione delle arie più celebri introdotte dal suo autore nella sua casa di Bougival all’epoca della prima, poi ci si sposta agli inizi del Novecento e anche oltre: nella regia di Paolo Vettori nel finale saltano fuori i telefonini per i selfie con il cadavere di Carmen.

Il tutto avviene in uno spazio delimitato dalle semplici scenografie di Claudia Boasso: una parete di maxi azulejos con al centro lo stemma della città di Siviglia per i primi atti, pannelli con disegni di tauromachia per l’ultimo. Laura Viglione veste di nero il coro, mentre la protagonista del titolo ha pantaloni e maglietta a righe bianche e blu: l’abito rosso a balze che ci aspetteremmo resta sempre buttato su una sedia e anche la giacca del traje de luz del torero Escamillo gliela vedremo indossata solo nei saluti finali, questo a marcare la distanza da una lettura folcloristica di una vicenda di grande modernità in cui José rappresenta il maschio che non si arrende alla scelta di libertà della sua donna. Carmen rimane comunque debitamente uccisa nel finale, qui non ci sono gli stravolgimenti a cui abbiamo talora assistito. Il Bizet in scena aiuta a comprendere sia gli aspetti sociologici e psicologici della vicenda sia le particolarità musicali di una partitura quasi dimezzata, senza i dialoghi – né parlati come nella versione originale per l’Opéra-Comique, né cantati come nella versione per Vienna – e con i personaggi ridotti a quattro. Dopo l’ouverture, suonata come se uscisse da un disco posto sul grammofono, si ascolta subito il coro delle sigaraie, la Habanera di Carmen, il duetto di Don José con Micaëla e con la Seguidilla termina il primo atto. Anche nel secondo atto di otto numeri musicali ne rimangono quattro, essendo del tutto assenti Frasquita, Mercedes, il Dancairo, il Remendado e Zuniga. Nel terzo atto mancano gli ensemble e nel quarto il coro iniziale. Ridotto così all’essenziale il dramma di Carmen risalterebbe con ancor maggior forza se l’interprete protagonista avesse più carisma e più incisive qualità vocali, ma il mezzosoprano georgiano Ketevan Kemoklidze, anche se ha portato in scena il personaggio numerose volte, non riesce ad affascinare: la sensualità è affidata alle doti sceniche più che a quelle canore, con un registro basso poco sonoro e una proiezione vocale non delle migliori e ulteriormente penalizzata dalla non ottimale acustica dell’ambiente. Benedetta Torre è una Micaela sensibile che dà il meglio nel primo atto, mentre l’aria del terzo atto («Je dis que rien ne m’épouvante») ha un che di sfocato e irrisolto. Decisamente insufficiente la prova del giovane Zoltán Nagy, un Escamillo vocalmente sbiadito e senza personalità.

Vola a tutt’altra altezza invece Jean-François Borras, uno dei migliori frutti della scuola tenorile francese d’oggi. Il suo Don José sfoggia magnifico fraseggio, dizione (ovviamente) impeccabile e una presenza vocale non stentorea e gridata: la resa della romanza «La fleur que tu m’avais jetée» è memorabile per  eleganza e resa in maniera superlativa con i colori e le intenzioni giuste, tra le migliori mai sentite. E finalmente si ascolta il finale in pianissimo (c’è sì una doppia forcella sulla ai di «je t’aime» ma “sempre pp” prescrive la partitura, una sola p in meno dell’orchestra che suona ppp), sulla linea di un Vickers, certo non in quella di un Del Monaco che inseriva oltre all’acuto forte pure il singhiozzo. Così forse non si sollecitano i facili entusiasmi del pubblico, ma così l’ha scritto l’autore e così va cantata. Punto. Peccato che gli spettatori non l’abbiano capito, tributando la stessa dose di applausi indifferentemente ai quattro interpreti.

Sesto Quatrini dà una lettura all’insegna della sobrietà, molto trasparente, con tempi rilassati e volumi sonori contenuti. Forse non l’ideale per un’esecuzione all’aperto, ma ci ha risparmiato le atmosfere bandistiche e i colori rutilanti di certe esecuzioni. Comunque, non vediamo l’ora di ritornare a godere dell’opera al chiuso.

Die Fledermaus

Johann Strauss figlio, Die Fledermaus

★★★☆☆

bandieraitaliana1.gif   Qui la versione in italiano

Milan, Teatro alla Scala, 21 January 2018

Fledermaus debuts at La Scala but misses some sparkle

The Temple of Opera has opened its doors to operetta. For the first time the Teatro alla Scala is staging Johann Strauss’ Die Fledermaus, a work which launched a successful sequence of stageworks.

German language operetta was a genre that adjusted Offenbach’s and Suppé’s French works to the tastes of the Austro-Hungarian Empire. The perfect balance of panache and glamour, the melodic easiness, the stylish parody of opera seria models, the use of dances and popular themes were appreciated by Mahler himself who wanted to insert the work in the playbills of German theaters and personally directed it in Hamburg in 1894...

continua su bachtrack.com

Manon

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Jules Massenet, Manon

★★★★☆

New York, Metropolitan Opera House, 26 ottobre 2019

(diretta streaming)

Al MET il felice ritorno di Manon

La produzione di Manon di Laurent Pelly del 2012 (quella con Anna Netrebko) è ripresa al MET con uno dei soprani più acclamati dal suo pubblico, Lisette Oropesa. La affianca come Des Grieux un altro loro beniamino Michael Fabiano. Entrambi sono accolti in scena dagli applausi dei 4000 spettatori e la serata si conclude tra le acclamazioni.

Lo spettacolo li merita comunque, a iniziare dalla messa in scena di Laurent Pelly che ambienta la vicenda ai tempi della composizione (1882), una Parigi Belle Époque da pittura impressionista – soprattutto quella nitida di Gustave Caillebotte, la più influenzata dalla fotografia, e di Edgar Degas, con una ballerina in tutù che attraversa il Cours la Reine – ma guarda già a certo cubismo, con i piani in sbieco dell’Hôtel de Transilvanie o della cappella di Saint-Sulpice. Il disegno scenografico di Chantal Thomas è tutt’altro che cartolinesco e non tende ad addolcire la cruda vicenda, anzi, le colonne pendenti della chiesa e la tetra illuminazione del quinto atto della strada di Le Havre gettano una luce sinistra sul tratto discendente della parabola di Manon Lescaut.

Nella lettura di Pelly è ben sottolineato il ruolo degli uomini nella rovina della donna: questi si muovono in branchi come animali predatori e il loro costume formale – vestono rigorosamente in redingote e frac e hanno il cappello a cilindro – non ne nasconde la libidine, sia quella sfrontata di Guillot de Morfontaine, sia quella più ipocrita di Monsieur de Brétigny o quella travolgente del Chevalier Des Grieux.

La freschezza e l’eleganza del soprano cubano-americano sono i punti di forza di un’interpretazione che ben delinea il personaggio: la giovanile ingenuità e innocenza che diventano seducente civetteria e il tono tragico del finale sono ottenuti con sottigliezza, per sottrazione e più che «sphinx étonnant» è la «charmante personne» che viene in mente nel suo caso. Vocalmente si ammirano il timbro luminoso, la impeccabile dizione e l’agilità. Solo a tratti c’è un quasi impercettibile sbandamento nell’intonazione degli acuti. Non delicato, ma energico e testosteronico il Des Grieux di Michael Fabiano. Mezze voci e ricerca di colori si affiancano a un’intensità espressiva che non si riscontra spesso in questo personaggio. Dei due è lui quello più emotivamente compromesso e in fin dei conti teatralmente più efficace. Apparentemente affabile ma crudelmente calcolatore e spietato il fratello Lescaut trova in Artur Ruciński un interprete efficace ma a scapito di una pessima dizione. Carlo Bosi come Guillot de Morfontaine dimostra la sua proverbiale presenza scenica, Brett Polegato e Kwanchul Youn, rispettivamente Brétigny e Comte Des Grieux, completano un cast di grande livello. La concertazione di Maurizio Benini pone in primo piano la bellezza delle melodie e la preziosità della strumentazione. Coro come sempre inappuntabile quello del Metropolitan.

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