foto © Agathe Poupeney
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Jacques Offenbach, Les brigands
Parigi, Opéra Garnier, 21 giugno 2025
(registrazione video)
Un Offenbach che sa di aglio e sudore
Sono pochi i titoli di Offenbach creati per Palais Garnier o l’Opéra Bastille negli ultimi cinquant’anni, da quando cioè il compositore è entrato in repertorio con Les contes d’Hoffmann nella produzione di Chéreau del 1974. La tradizione delle opéras-bouffes di Offenbach si è infatti cementata intorno alla coppia Marc Minkowski e Laurent Pelly all’Opéra de Lyon, con indimenticabili spettacoli di cui rimangono preziose registrazioni in CD e video. Per rimediare, l’Opéra de Paris affida a Stefano Montanari e a Barrie Kosky il compito di far rivivere le deliranti vicende di Les brigands.
È un Offenbach «che sa di aglio e di sudore», dice il regista di questa sua produzione, e per recuperarne l’originaria impertinenza e carica provocatoria, la ambienta in un universo queer popolato da una variopinta mafia malavitosa in cui regna la fluidità del genere e dove il capo dei briganti Falsacappa ha le fattezze di Divine, la drag queen dei film di John Waters, all’inizio nel famoso abito rosso di Pink Flamingos, accessoriato di pistola, e poi in una varietà di outfit rigonfi e con paillettes. Il travestimento è d’altronde uno degli elementi determinanti in questa vicenda dove i briganti si travestono prima da mendicanti, poi da cucinieri, quindi da nobili spagnoli, infine da carabinieri, e dove il ritratto della promessa sposa al Principe di Mantova, il regno “confinante” con quello di Granada (!), viene scambiato con il ritratto della figlia del capo dei briganti.
Nella lettura di Kosky i dialoghi, spregiudicatamente riscritti, hanno molte allusioni all’attualità politica della Francia. La scenografia fissa di Rufus Didwiszus, un salone grigio sbiadito con modanature Secondo Impero, è arricchita da 11 tele dipinte con paesaggi. Nel secondo atto l’arrivo della principessa di Granada e della sua corte dà luogo a uno spettacolare tableau vivant grondante d’oro. Con i costumi di Victoria Behr, Kosky mette in campo tutti i mezzi dell’Opéra di Parigi per allestire un corteo degno di una produzione particolarmente sontuosa, ad esempio del Don Carlos, in cui i membri della corte spagnola avanzano come in una processione della Semana Santa. La principessa è alla testa del corteo, in un abito ampio e rigido ispirato all’Infanta Maria Teresa di Vienna ritratta da Velazquez, mentre le sue dame di compagnia hanno tutte costumi di alta moda disegnati individualmente. Gli uomini arrivano su cavalli da tiro a rotelle in farsetti, gorgiere e pantaloni d’oro. Le ballerine indossano i trajes de luces ricamati in oro dei toreador e tutti hanno i capelli di un vivace colore arancione. In fondo un Cristo in grande scala, quasi nudo e palestrato, ondeggia lentamente affiancato da due vergini dei dolori in nero, su piedistalli d’oro, una circondata da candele, l’altra da gigli. Se tra il pubblico si era alzato qualche sopracciglio al primo atto, questo quadro mette tutti d’accordo per la teatrale e ironica opulenza degna del miglior Kosky.
Anche nelle altre scene il palcoscenico brulica di un numero enorme di persone – solisti, coro, ballerini, figuranti – ma ognuno ha sempre qualcosa di speciale da fare, anche solo dimenare il fondoschiena verso il pubblico. Tutti quei movimenti frenetici e brulicanti della folla, avanti e indietro, mentre si indossano nuovi travestimenti, sono minuziosamente gestiti nella loro finta stravaganza. Si aggiungano le coreografie da cabaret di Otto Pichler per completare uno spettacolo trasgressivo e allegramente oltraggioso.
Coerente con la visione del regista è la recitazione degli interpreti, primo fra tutti il monumentale Marcel Beekman quale Falsacappa/Divine, che mescola registri diversi in una tessitura allungata e androgina. La figlia Fiorella ha le fattezze e la voce di Marie Perbost, soprano agile e corposo, mentre il mezzosoprano Antoinette Dennefeld delinea il vivace amante Fragoletto. Mathias Vidal (Principe di Mantova) dimostra ancora una volta la perfezione del suo stile unita a una sana dose di autoironia. Philippe Talbot era presente nella produzione del 2011 de Les brigands e qui ritorna nella stessa parte del Comte de Gloria Cassis, quello che canta i versi più famosi dell’opera: «Y’a des gens qui se dis’nt Espagnols | et qui n’sont pas du tout espagnols». Cast di lusso anche per le parti secondarie affidate ai veterani delle vecchie produzioni di Pelly/Minkowski: Yann Beuron come Le Baron de Campo-Tasso apporta il suo fraseggio elegante e la sua solita verve; Laurent Naouri affronta con gusto la parte del capo dei carabinieri, qui flic parigini col kepì; l’inconfondibile Franck Leguérinel si fa riconoscere come Barbavano (fu Pietro nel 2011) ed Eric Huchet (allora Falsacappa) come Domino.
Nella ripresa delle recite di giugno, Stefano Montanari è sostituito da Michele Spotti che aveva concertato Barbe-Bleu a Lione e che anche qui si adatta alla perfezione allo spirito dell’Opéra-Bouffe di Offenbach con tempi appropriati e grande gusto strumentale.
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