foto © Gianfranco Rota
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Gaetano Donizetti, Roberto Devereux
Bergamo, Teatro Donizetti, 15 novembre 2024
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Tra letto e trono
Che si consideri una trilogia oppure no – ci sarebbe anche l’Elisabetta al castello di Kenilworth ma è un melodramma a lieto fine – quello dedicato alle regine Tudor costituisce un unicum nel corpus della settantina di melodrammi scritti dal compositore bergamasco. Roberto Devereux (1837) è comunque l’ultimo della serie iniziata con Anna Bolena nel 1830 e proseguita con Maria Stuarda nel 1835.
Come succederà nel Don Pasquale, anche Roberto Devereux è un’opera sulla l’inesorabilità del tempo: a dispetto del titolo, protagonista principale qui è Elisabetta, la regina che nel 1601, anno della morte del conte di Essex, aveva 67 anni. Sopravviverà ancora due anni prima di lasciare il trono a Giacomo I, come recitano gli ultimi due versi del libretto del Cammarano: «Non regno… non vivo… Escite… Lo voglio… | Dell’anglica terra sia Giacomo il re». Il senso della caducità degli uomini e delle cose è evidente nella storia della regina che ci viene mostrata vecchia e stanca nell’ultimo suo ciclo di vita a combattere inutilmente contro una rivale bella e giovane – quasi come la Marschallin del Rosenkavalier, che però non fa tagliare la testa al suo Octavian…
Con la tradizionale ripartizione tra le quattro voci di soprano, mezzosoprano, tenore e baritono, la vicenda si avviluppa sulla passione senile della monarca per un 34enne innamorato invece della moglie del suo miglior amico. Il potere di sovrana e la vulnerabilità come donna formano un conflitto fonte di continui contrasti emotivi che fanno del personaggio della regina un banco di prova e di esibizione per le grandi personalità della lirica. Leila Gencer, Beverly Sills, Montserrat Caballé, Edita Gruberová, Mariella Devia: ognuna di loro ha fatto di Elisabetta il proprio rôle fétiche.
Jessica Pratt ritorna al Donizetti Opera, arrivato alla decima edizione, dopo aver lasciato la sua personale impronta nella Rosmonda d’Inghilterra e ne Il castello di Kenilworth, rispettivamente nel 2016 e nel 2018. Definita da qualcuno l’Elektra del belcanto, Roberto Devereux dà agio alla prima donna di mostrare un temperamento scenico – l’analogo operistico della Bette Davis cinematografica! – e una tecnica vocale piegata a tutte le esigenze virtuosistiche del belcanto italiano. Il soprano australiano, al debutto nella parte, si dimostra sicuramente all’altezza esibendo una linea di canto dispiegata su un’ampia gamma. La Pratt in questa fase della sua carriera ha sviluppato una sfumatura di colore che ben si adatta a un ruolo scritto per un soprano d’agilità ma anche drammatico: il registro mediano è di grande proiezione e solidità, i legati e i filati sono sostenuti da fiati controllatissimi, i pianissimi eterei. Agli estremi della gamma non tutto funziona alla perfezione: le note gravi non sono il forte della cantante, qualche acuto non è di purezza cristallina e le variazioni sono caute, ma convincente è la definizione del personaggio nella sua tormentata umanità.
Nel Devereux Roberto, il conte di Essex, si dimostra estremamente improvvido, gestendo al peggio la relazione con le due donne – ma come si fa a regalare alla seconda l’anello avuto dalla prima o farsi scoprire con la sciarpa avuta dall’altra? – e ricambiando l’amicizia dell’unico che crede alla sua innocenza insidiandogli la moglie. Eppure, il tenore John Osborn riesce nel miracolo di renderci simpatico il personaggio non tanto per il suo particolare timbro, ma vestendo la sua presenza di note rese con sensibilità ed eleganza che raggiungono il culmine dell’empatia emotiva al terzo atto nella scena IV del carcere, «Io ti dirò, fra gli ultimi | singhiozzi, in braccio a morte», e in quella seguente «Bagnato il sen di lagrime, | tinto del sangue mio», qui però guastata da una pessima trovata registica di cui parleremo.
Il personaggio di Sara trova una validissima interprete nel mezzosoprano Raffaella Lupinacci impegnata in una tessitura molto alta che dopo la “belliniana” aria di sortita «All’afflitto è dolce il pianto…» affronta con sicurezza pagine via via più drammatiche, fino al violento duetto col marito, il duca di Nottingham, ruolo nobile in tutti i sensi a cui Simone Piazzola presta la sua bella voce e l’elegante espressività.
C’è un quinto personaggio nel Devereux: è lo Stato, rappresentato da Lord Cecil, da Sir Gualtiero Raleigh e dal coro, i quali fanno di tutto per sbarazzarsi dell’ambizioso Conte che minaccia il loro status quo. Il timbro luminoso di David Astorga dà insolito rilievo alla parte di Cecil, mentre per Raleigh è stato scelto un allievo della Bottega Donizetti, il giovane basso-baritono Ignas Melnikas. Ancora un basso, Fulvio Valenti, dà voce a Un famigliare di Nottingham e a Un cavaliere. Intonato e preciso si dimostra il coro dell’Accademia del Teatro alla Scala istruito da Salvo Sgrò.
Il bresciano Riccardo Frizza è figura di riferimento per il Donizetti Opera, è il suo Direttore Musicale e qui ha diretto innumerevoli titoli. La sua scelta è per l’edizione originale del Devereux, quella napoletana del 20 ottobre 1837, senza la sinfonia che cita l’inno inglese God Save the Queen – da pochi mesi sul trono d’Inghilterra era salita Victoria – aggiunta per la presentazione a Parigi del 27 dicembre 1838. Qualche differenza è anche nel duetto tra Elisabetta e Roberto, in questa prima versione più breve. La partitura del Devereux ha la raffinatezza dei lavori francesi che seguiranno, con una più attenta scelta degli strumenti per cui ne viene fuori un colore scuro che è proprio di quest’opera e che Frizza sottolinea fin dalle prime note che introducono il dramma in media res. Senza mai eccedere negli effetti, l’orchestra riesce a comunicare quel senso di dramma che rende questo un lavoro particolare, più moderno e a suo modo lontano dal modello di melodramma tradizionale del suo tempo.
La regia di Stephen Langridge è ricca di buone intenzioni quanto di cadute di gusto che rendono lo spettacolo complessivamente poco convincente. L’ambientazione utilizza una scenografia minimalista e costumi, entrambi disegnati da Katie Davenport, che suggeriscono l’epoca storica. Due praticabili semoventi formano le tribune dei Lordi (così nel libretto) o le pareti del castello dei duchi di Nottingham. Unici due pezzi d’arredamento sono un letto e un trono, entrambi rossi, rappresentanti simbolicamente l’intreccio di conflitti personali e di potere. Il tutto è incorniciato in un rettangolo luminoso la cui luce diventa abbagliante nei momenti clou dell’opera, praticamente tutte le arie. Un effetto gratuito e fastidioso, mentre puramente decorativo è l’espediente di proiettare i testi delle poesie di Essex, nella loro grafia originale, sulle pareti. Nella sua lettura il regista inglese introduce alcuni elementi disturbanti quali un burattino in scala reale di una Elisabetta scheletro, che a un certo punto si unisce sessualmente con un giovane alter-ego di Essex, e l’infantile “gioco dell’impiccato” mentre Roberto affronta l’aria più bella dell’opera, una caduta di gusto del tutto incomprensibile. Come poco comprensibile sia far apparire incinta Sara. Di chi poi? Boh.
Questi particolari non hanno impedito comunque allo spettacolo di suscitare gli entusiastici applausi del pubblico convinto dalle interpretazione dei cantanti e dalla direzione orchestrale.
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