
★★☆☆☆
«E tutta Napoli | pien di Pistacchi | in breve spazio | si troverà»
Sempre aggiornato il nostro Donizetti su quanto succedeva nei teatri! Il campanello di notte o Il campanello dello speziale o semplicemente Il campanello (titoli alternativi di questa sua farsa in un atto del giugno 1836) è tratto da La sonnette de nuit, “comédie-vaudeville” di Léon Lévy Brunswick, Mathieu-Barthélémy Troin e Victory Lhérie che era andata in scena a Parigi al Théâtre de la Gaité appena sei mesi prima. Per non perdere tempo Donizetti scrive lui stesso il libretto: Coffignon diventa Don Annibale Pistacchio, Cabassol Spiridione, David Enrico, M.me Coquard Madama Rosa e solo Serafina (Séraphine) mantiene il suo nome anche se qui è orfana poiché il compositore elimina il personaggio di M. Coquard, il marito inetto di M.me Coquard. Donizetti trasferisce poi la scena da Batignols a Napoli. Ed è qui che avviene la prima rappresentazione, al Teatro Nuovo. Per salvare una compagnia dal fallimento il compositore molto generosamente rinuncia al suo compenso e il gesto viene apertamente lodato dalla stampa dell’epoca.
Alcuni dialoghi parlati sono in dialetto napoletano, ma l’anno successivo il compositore li trasformerà in recitativi in italiano. In quell’occasione Donizetti aggiungerà anche il duetto tra Don Annibale ed Enrico assente nell’originale francese.
Le sedici scene dell’originale sono abbastanza fedelmente conservate nel libretto, ma Donizetti dimostra una verve umoristica di prim’ordine nel trasformare David camuffato da vecchia popolana logorroica nell’Enrico travestito da vecchio marito della povera Anastasia che «è tisica e diabetica, | è cieca e paralitica, | patisce d’emicrania, | ha l’asma e sette fistole, | spine ventose e sciatica, | tumore nell’occipite; | ha il mal della podagra, | che unito alla chiragra | penare assai la fa».
A questo surreale elenco di accidenti segue una ricetta che mai nel teatro d’opera raggiungerà un effetto così esilarante e che merita citare nella sua interezza: «Si prenda l’acqua celebre | del gran monsù Maurizio, | con l’altra capo-cefalo; | e poi la fagiadenica. | Con questa poi mischiateci | l’aceto con l’aregheto; | sia questa rinforzata | con l’acqua canforata, | col balsamo copaibe, | col dolce elettuario, | di cedro imperiale, | che giova e non fa male. | Vi unite a queste cose | benigne e portentose, | per fare il tutto eccelso, | con l’elisir d’Elmozio, | pur quel di Paracelso. | Mischiate e rimischiate, poi pillole formate». «Ma questi sono liquidi!» obietta Don Annibale, ma l’altro implacabile: «Recipe, | l’ombélico di Venere, | butirro d’antimonio, | il zolfo col diascorio | del dotto Fracastorio, | l’arsella e l’assafetida; | il thè che sia d’America, | rob antisifilitico, | l’estratto di cicuta; | papaveri, la ruta; | l’etiope minerale, | sciroppo cordiale. | Aggiungi poi la polvere | di Marco Cornacchione, | e di Giovanni Procida | l’empiastro in fusione, | la cassia fistulata, | la pomice pestata… | bollite et fiat bibita». «Che bibita!» protesta lo speziale, ma l’altro inesorabile cambiando la ritmica dei versi: «Semifreddi, ente di Marte, | del Cadet l’emulsione, | cascarilla, simarubba, | del tabacco di Macubba, | dulcamara, talamacca, | legno quassio, cera lacca; | aggiungete ottanta rane, | venti fave americane, | ruta secca, dragonaria, | terebinto, serpentaria, | manna emetica, castoro, | raschiatura di fior d’oro; | eppoi l’erbe tritolate | che qui appresso son notate. | Erba spugna, polmonaria, | il ceraunio, il capripodio, | il vitucchio ed il poligalo, | blasia, quassia e polipodio, | il rastio d’unto al vitrice | con la carice, lo sparago, | il briol… la calega, | la veronica, la statice, | l’anserina, la piombaggine | con un mazzo di lattuga, | che mollifica, che asciuga. | Malva d’Ischia, malva rosa, | vera polvere di corno».
I travestimenti di Enrico sono infatti quelli di uno spasimante che vuol rovinare la prima notte di nozze al suo rivale in amore: la giovane e bella Serafina viene promessa in sposa allo speziale Don Annibale Pistacchio, con gran dispetto dell’innamorato di Serafina (ricambiato), il giovane Enrico. Nonostante i tentativi di impedire il matrimonio, la cerimonia viene fissata per il giorno precedente la partenza di Don Annibale per Roma, ove lo speziale deve assolutamente recarsi per presenziare all’apertura del testamento di una sua zia defunta e dove si fermerà per più di un mese. Appreso questo fatto Enrico, con la complicità di Serafina, cerca in tutti i modi di impedire che il matrimonio venga consumato quella notte, così da guadagnar tempo per un successivo tentativo di farlo annullare. Lo speziale è obbligato in forza di legge a fornire i suoi prodotti medicinali a chi ne faccia richiesta anche di notte e quindi il campanello esterno alla bottega, sita sotto l’abitazione dello speziale, sarà lo strumento di Enrico per disturbare la prima notte di nozze di Don Annibale. Presentandosi via via sotto spoglie diverse (un francese ammalato, un cantante rauco e un vecchio). Enrico continuerà a farsi ricevere da Don Annibale, suonando appunto il campanello, con i pretesti più strampalati finché, giunta l’alba, lo speziale dovrà partire in diligenza per Roma lasciando Serafina illibata a casa.
Si tratta dunque di un umorismo amaro, quasi da commedia nera, con cui Donizetti reagisce alle disgrazie della sua vita privata (in quel periodo gli erano morti entrambi i genitori e la moglie aveva dato alla luce una bimba morta) e alla chiusura dei teatri in segno di lutto per la morte della regina Maria Cristina di Savoia. In questa operina manca il tocco patetico che troviamo nell’Elisir o nel Don Pasquale e la musica è precisa, tagliente, dominata dall’ossessivo tintinnare metallico del campanello nel breve preludio, dagli stringati pezzi d’assieme, dai commenti del coro, dai brindisi in forma di valzer, dai duetti spiritosi. Frequenti buffe parodie si prendono gioco sia di Rossini («Assisa al piè di un gelso») sia dello stesso Donizetti.
Al Teatro Bellini di Adrano, nei pressi di Catania, nel dicembre 2009 Francesco Ledda direttore e Pietro Ballo regista allestiscono uno spettacolino tradizionale nelle scene e nei costumi in cui l’unica trovata curiosa è aver vestito Serafina e la madre in kimono, trattandosi di interpreti giapponesi, ma la cosa non aggiunge e non toglie nulla allo spirito della vicenda e rimane una trovata fine a sé stessa.
Nessuno degli interpreti è di grande fama, ma tutti suppliscono con buona volontà, soprattutto l’Enrico di Luciano Miotto, che si rivela spigliato e vocalmente adeguato. Qualche scollatura con l’orchestra e il coro non pregiudica l’andamento della serata.
Immagine in 4:3 e traccia sonora di qualità modesta.
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⸪