Mese: ottobre 2019

Jenůfa

Leoš Janáček, Jenůfa

★★★★☆

Brno, Janáčkovo Divadlo, 2 ottobre 2019

(video streaming)

Janáček interpretato da chi ha nelle vene il suo stesso sangue

Leoš Janáček a Brno è come Giuseppe Verdi a Parma: una gloria cittadina a cui dedicare un festival annuale. Ma le analogie finiscono lì perché la città morava al suo illustre figlio ha intitolato anche un nuovo teatro che si aggiunge al glorioso vecchio teatro d’opera – cosa che manca alla cittadina emiliana.

Jenůfa è il lavoro che ha fatto conoscere Janáček al mondo ed è la sua opera più eseguita. La collaudata produzione di Martin Glaser torna ora sulle tavole dello Janáčkovo Divadlo (Teatro Janáček) e la sua stilizzata messa in scena disegnata da Pavel Borák ben si adatta alle linee moderne e tese della sala. Se il primo atto ancora risente di una certa tradizione illustrativa, seppure depurata dagli eccessi decorativi e realistici – l’ambiente rurale è suggerito dalla folta chioma di alberi in alto e dalla miriade di mele sparse sul palcoscenico pronte per essere trasformate in sidro – il secondo, ambientato nella casa della Kostelnička, è una serie di asettiche stanzette replicate tutte uguali in cui vivono personaggi che non comunicano tra loro. La serialità è spinta all’eccesso: quando una porta viene chiusa o aperta in una stanza, l’analoga porta viene aperta o chiusa in tutte le altre. Un crocifisso, un’icona della Madonna, una sedia, un tavolo con un piatto di frutta (mele!), una tazza per il sonnifero e una mensola vuota sono gli unici arredi. Dietro la porta di fondo si intravede la culla del bambino. Ancora più essenziale la scenografia del terzo atto: una grande tavola incorniciata da una struttura di legno serve per il matrimonio di Jenůfa e Laca, ma nel finale, su quello struggente motivo ondulante dell’arpa, il tutto scompare inghiottito nel pavimento lasciando i due giovani completamente soli sul grande palcoscenico.

L’asciuttezza è la caratteristica vincente di questo allestimento che lavora per sottrazione pur senza piegare la drammaturgia a significati estranei. Pochi i colori e solo nei bei costumi di Markéta Oslzlá-Sládečková che danno il giusto tocco folklorico alla vicenda e sono utilizzati in senso espressivo: il rosso di Karolka, Števa, del sindaco e della moglie; il nero di Jenůfa, Laca, della nonna e della Kostelnička; il bianco delle ragazze incinte nel primo atto e delle damigelle nell’ultimo. I ruoli sociali sono così chiaramente denotati.

Il direttore Marko Ivanović a capo dell’orchestra del teatro dà della partitura una lettura di grande lucidità ma anche sensibilità, non trascura gli strani impasti strumentali sperimentati dal compositore e i colori lividi di certi momenti. Lo asseconda un cast navigato che ha nelle interpreti femminili il meglio: Pavla Vykopalová è una intensa Jenůfa, e Szilvia Rálik la Kostelnička, qui meno inquietante del solito e molto umana. Un po’ troppo stentoreo talora il Laca di Jaroslav Březina, giustamente fatuo lo Števa di Tomáš Juhás, entrambi vocalmente generosi.

È comunque un’emozione ascoltare Janáček interpretato da chi ha nelle vene il suo stesso sangue.

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JANÁČKOVO DIVADLO

Janáčkovo Divadlo

Brno (1965)

1383 posti

Sede del Teatro Nazionale Ceco di Brno, l’edificio monumentale, circondato da un parco cittadino, fu progettato per grandi spettacoli di opera e balletto del repertorio classico e moderno e fu inaugurato il 2 ottobre 1965. La struttura portante è costituita da uno scheletro monolitico in cemento armato con muratura di riempimento, l’auditorium e il palcoscenico sono ricoperti da capriate d’acciaio.

Per le superfici esterne e interne sono stati utilizzati materiali come pietra, legno, acciaio, vetro e alluminio. Le piastrelle sono realizzate in granito, sienite nera e pietra calcarea. I pannelli in legno sono realizzati in olmo e noce. L’edificio ospita un auditorium per 1383 spettatori, progettato come un anfiteatro a gradoni con una corona di palchi. Nel primo seminterrato sotto la hall si trovano un ristorante, una caffetteria e un club di artisti.

Costruito tra il 1960 e il 1965 con materiali di qualità molto bassa, è stato necessario prevedere un restauro della sala,  del palcoscenico e del  tetto, oltre alla costruzione di un garage sotterraneo. I lavori sono iniziati nel 2007 e il nuovo teatro è stato consegnato alla città pochi anni dopo. È il teatro più capiente della Repubblica Ceca.

 

Quartett

Luca Francesconi, Quartett

Milan, Teatro alla Scala, 5 October 2019

★★★★☆

   Qui la versione italiana

Libertine cynicism in music

In his epistolary novel Les liaisons dangereuses (Dangerous Liaisons) Choderlos de Laclos gives an account of the libertine cynicism of the depraved French aristocracy in 1782, seven years before the storming of the Bastille.

Two centuries later, the German playwright Heiner Müller rewrites the text by stressing its verbal defiance and making it a cruel game of sex and death between two characters (the Viscount of Valmont and the Marquise of Merteuil) who at a certain point also play the other two personas of the novel (madame Tourvel and the young Céleste Volanges) – hence the title of the piece, Quartett

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Quartett

Luca Francesconi, Quartett

Milano, Teatro alla Scala, 5 ottobre 2019

★★★★☆

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Cinismo libertino in musica

Nel 1782 Choderlos de Laclos con il suo romanzo epistolare Les liaisons dangereuses (Le relazioni pericolose) racconta il cinismo libertino della corrotta nobiltà francese a sette anni dalla presa della Bastiglia.

Due secoli dopo, il drammaturgo tedesco Heiner Müller riscrive il testo esasperando i toni di sfida verbale e facendolo diventare un crudele gioco di sesso e morte con due soli personaggi (il visconte di Valmont e la marchesa di Merteuil) che a un certo punto interpretano anche gli altri due personaggi nel romanzo (madame Tourvel e la giovane Volanges) – da qui il titolo della pièce, Quartett.

Nell’aprile 2011 a Luca Francesconi è stato commissionato di comporre un’opera sul testo di Müller con il medesimo titolo, andata poi in scena alla Scala in prima mondiale. Il libretto in inglese dello stesso compositore si sviluppa in un atto unico suddiviso in 12 scene e un finale preso da Die Hamletmaschine, sempre di Müller, in cui la protagonista distrugge la sua casa-prigione. L’autore qui esaspera la dimensione claustrofobica della vicenda tra la marchesa e il visconte in un dialogo serrato. Il loro confronto è del tutto razionalista, non esistono i sentimenti, neanche l’amore. «L’amore è il dominio dei domestici. Come potete considerarmi capace di un impulso così volgare» dice la marchesa, e più avanti il visconte: «Che la plebe si monti negli angoli. Il loro tempo è prezioso». Qui i rapporti umani sono giocati come in una partita a scacchi secondo una spietata strategia di guerra: il visconte di Valmont ha deciso di conquistare la castissima Madame de Tourvel e confida il suo progetto alla Marquise de Merteuil, sua ex amante e sfrenata libertina, che lo guida a distanza imponendogli di rispettare il codice libertino e consigliandogli innanzitutto di conquistare la timida Cécile de Volanges, appena uscita di convento e promessa a un uomo di cui la marchesa si vuole vendicare.

Scena 1. Mentre attende il Visconte di Valmont, la Marchesa di Merteuil riflette sul ritorno di fiamma che l’amante di un tempo ha di recente manifestato nei suoi confronti. Quanto a lei, dichiara freddezza ma rivela una profonda ambiguità di sentimenti.
Scena 2. Entra Valmont. Il Visconte e la Marchesa si provocano a vicenda con sarcasmo: Valmont dice alla Merteuil che !a crede di nuovo innamorata, la Merteuil chiede al Visconte quale donna egli desideri al momento. Alla notizia che l’oggetto dei desideri di Valmont è la signora di Tourvel, la Marchesa reagisce con stizza: istiga il Visconte alla gelosia, affermando che il suo nuovo amante è bello e, soprattutto, giovane.
Scena 3. La gioventù perduta di entrambi diviene argomento di reciproco scherno e provocazione. La Marchesa è irritata dal fatto che Valmont miri a sedurre la signora di Tourvel; preferirebbe che si interessasse piuttosto alla giovane Volanges, vergine e inesperta, che invece Valmont sembra considerare una troppo facile preda.
Scena 4. Valmont accetta di sedurre la giovane Volanges e chiede alla Marchesa quando avrà occasione di avvicinarla. Anziché esserne soddisfatta, la Merteuil replica attaccando ancora Valmont e affermando che, in generale, l’uomo non è per la donna che il veicolo inanimato del suo piacere. A questo punto, il Visconte si dichiara annoiato dalla brutalità della conversazione.
Scena 5. La Marchesa esprime il suo terrore per il decadimento dei corpi; poi dice a Valmont che potrà incontrare la giovane Volanges l’indomani, all’Opera.
Scena 6. Ha inizio ii gioco delle parti. La Marchesa parla come se fosse il Visconte, in un discorso di seduzione rivolto alla signora di Tourvel in cui Valmont si finge pentito del suo passato di libertino; il Visconte le risponde come se fosse la Tourvel, dubitando della sincerità di quei discorso.
Scena 7. Continua, ora più serrato, il dialogo della scena precedente: la signora di Tourvel (cioè Valmont) sospetta che i buoni propositi del Visconte (impersonato dalla Merteuil) non siano altro che finzione e inganno.
Scena 8. La scena di seduzione prosegue e giunge al culmine: il Visconte (cioè la Merteuil) sembra aver ormai vinto le resistenze della signora di Tourvel (impersonata da Valmont), dopo aver contrapposto l’amore casto ispiratogli appunto dalla signora di Tourvel a quello libidinoso verso cui è indotto dalla giovane Volanges.
Scena 9. II Visconte e la Marchesa, improvvisamente dubbiosi, interrompono il gioco delle parti e smettono per qualche istante di recitare.
Scena 10. Incomincia quindi un nuovo gioco delle parti: ora Valmont inizia la seduzione della giovane Volanges, impersonata dalla Marchesa. Anche questa scena di seduzione giunge al culmine, quando la giovane appare ormai perduta.
Scena 11. Il Visconte, che annuncia la caduta della signora di Tourvel, e la Marchesa interrompono per la seconda volta il gioco delle parti e ritornano a confrontarsi direttamente in uno scontro sempre più duro, di distruzione di sé e dell’altro.
Scena 12. Il gioco delle parti è ormai in pezzi: in un’estrema finzione Valmont prende il ruolo della signora di Tourvei, decisa a darsi la morte per la vergogna di essersi concessa al Visconte. La Marchesa offre al Visconte un bicchiere di vino avvelenato: a questo punto cessano il gioco delle parti e la recitazione e Valmont muore sotto gli occhi della Marchesa.
Scena 13. La Marchesa fa sul palcoscenico quello che Ofelia dice in Hamletmaschine: «Faccio a pezzi gli strumenti del mio imprigionamento lo Scranno il Tavolo il Letto. Distruggo il campo di battaglia che fu la mia Dimora. Strappo le porte dai cardini perché il vento e il grido del Mondo possano entrare. Mando in frantumi la Finestra. Con le mani insanguinate strappo le fotografia degli uomini che ho amato e che mi hanno usata sul Letto sul Tavolo sulla Sedia sul Pavimento. Do fuoco alla mia prigione. Getto i miei vestiti nel fuoco. Scavo fuori dal petto l’orologio che era il mio cuore. Vado per strada, vestita del mio sangue».

Ora, dopo 76 rappresentazioni in 17 teatri con sette produzioni diverse, Quartett ritorna alla Scala nella versione originale di Àlex Ollé de La Fura dels Baus. Come nella pièce di Müller l’ambientazione non è definita: «un salotto prima della Rivoluzione francese, un bunker dopo la Terza guerra mondiale», dice il libretto. All’apertura del sipario vediamo Parigi a volo d’uccello. Poi la vista scende sui tetti e sulla facciata di un nobile palazzo, inquadra una finestra ed entriamo nella camera. Scopriremo trattarsi di un parallelepipedo magicamente sospeso nel vuoto da fili quasi invisibili. Nella scenografia di Alfons Flores è una scatola-prigione, una casa di bambola in cui i due personaggi si sbranano verbalmente. Nei loro cuori aridi non c’è spazio per i sentimenti, per qualcosa che non arrivi direttamente dall’autodifesa, essendo totalmente estranei a quello che avviene fuori nel mondo. Nei video di Franc Aleu un muro di sfalda e si ricompone per nascondere gli altri. Come nel romanzo di Laclos i nobili persi nel loro bavardage salottiero non sentivano le grida del popolo affamato. Il regista suggerisce che neanche noi sentiamo il tumulto del resto del mondo che reclama un posto nella storia.

Magistralmente calati nelle loro parti ci sono gli stessi interpreti della produzione di otto anni fa: Allison Cook, mezzosoprano che dà voce alla Marquise de Merteuil, e il baritono Robin Adams, il Vicomte de Valmont. Entrambi strepitosi, le loro voci toccano tutti i possibili registri, utilizzano tecniche diverse, dal canto appassionato al declamato alla coloratura, quella maschile arrampicandosi spesso su quella di falsetto come quando gorgheggia nel ruolo della marchesa. Gravoso e impegnativo il ruolo dei due cantanti che devono sostenere una recitazione volutamente e consapevolmente manierata («La brutalità della nostra conversazione mi annoia. Dovremmo far recitare le nostre parti a delle bestie») che va dal blasfemo all’osceno all’ironico, come quando i due personaggi si scambiano i rispettivi ruoli («Penso che potrei abituarmi a essere una donna») dice Valmont nella parte della marchesa, al che lei: «Io vorrei riuscirci».

Il giovane Maxime Pascal, un habitué della Scala e specialista di partiture contemporanee, gestisce con abilità i diversi piani sonori in cui si sviluppa l’opera: un primo livello interno cameristico che dà voce agli aspetti psicologici dei personaggi, un secondo livello intermedio di voci riprese e prolungate da voci registrate che interagiscono con quelle in scena e un terzo livello per grande orchestra e coro registrati che rappresentano il mondo esterno, una parte che era eseguita in diretta otto anni fa. La realizzazione della parte elettronica è affidata a Serge Lemouton dell’IRCAM di Parigi che mescola suoni registrati e reali in un gesto teatrale e spaziale di grande impatto.

Dopo un tale viaggio, impegnativo e catartico, il pubblico sembra ancora una volta soggiogato dal lavoro e risponde festeggiando gli artisti con insolito calore.

Les pêcheurs de perles

Sketch for the scenery

Georges Bizet, Les pêcheurs de perles (The Pearl Fishers)

★★☆☆☆

Turin, Teatro Regio, 3 October 2019

   Qui la versione italiana

Turin opens its operatic season with naivety and glitter

In France the taste for exoticism was all the rage when in 1863, after his stay in Italy with the scholarship awarded to him by the Prix de Rome, a new opera was proposed to Georges Bizet.

People were hooked on travel and exotic places because they were regarded as a form of getaway from the moralistic constraints of the bourgeois society of the nineteenth century: nude odalisques in paintings, in literature the tale of depraved oriental satraps were admired with a frisson

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Les pêcheurs de perles

Bozzetto dell’impianto scenografico

Georges Bizet, Les pêcheurs de perles

★★☆☆☆

Torino, Teatro Regio, 3 ottobre 2019

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Torino apre la sua stagione operistica con le illustrazioni glitterate

Quando dopo il soggiorno in Italia con la borsa di studio assegnatagli dal Prix de Rome a Georges Bizet venne proposta una nuova opera, in Francia, di pari passo con l’espansione del colonialismo, dominava il gusto per l’esotismo. Il pubblico si appassionava ai viaggi e ai luoghi esotici anche perché rappresentavano una forma di evasione dai vincoli moralistici della società borghese dell’Ottocento: in pittura il nudo delle odalische e in letteratura le vicende di depravati satrapi orientali venivano fruiti con un frisson peccaminoso… In musica i librettisti di Bizet raccontavano di questo strano triangolo amoroso in cui il tenore e il baritono, innamorati della stessa donna, invece di essere rivali sono legati da una tenera amicizia.

Prima ancora di diventare una maniera dello stile Secondo Impero, il linguaggio musicale de Les pêcheurs de perles si affiancava al melodismo dell’opera italiana in uno strano connubio che costituiva il fascino di questo lavoro giovanile di Bizet che piacque al pubblico ma non alla critica e le 18 repliche che seguirono alla prima del 1863 non furono sufficienti a decretare il successo dell’opera che scomparve dalle scene per poi riapparire solo decenni più tardi. Nuova vita il lavoro di Bizet la dovette al paese che lo aveva ospitato in gioventù: nel 1886 al Teatro alla Scala I pescatori di perle furono rappresentati in una traduzione italiana con la quale da Milano passò poi non solo agli altri teatri italiani, ma anche all’estero, compresa la città che non aveva apprezzato il lavoro, la Parigi dell’Esposizione Universale del 1889 durante la quale l’opera fu rappresentata proprio nella versione italiana!

In quell’occasione il finale era stato modificato per rendere più tragica la conclusione della vicenda con la morte di Zurga e questa è la versione che viene comunemente messa in scena. Non qui a Torino: per l’inaugurazione della stagione, che comprende ben due titoli di Bizet, è stata scelta la versione originale di trent’anni prima in cui Léïla e Nadir si salvano fuggendo con l’aiuto di Zurga, che rimane solo e sconsolato. Il titolo sui manifesti è in italiano, forse per ribadire il debito pagato da Bizet all’opera italiana di cui aveva assimilato le caratteristiche, una linea di canto quasi belliniano e un accompagnamento orchestrale leggero spesso affidato a uno strumento solista, qui realizzati dall’orchestra del teatro alla cui guida Ryan McAdams ha offerto una lettura fluida che mette in evidenza la matura scrittura strumentale raggiunta dal giovane compositore. È l’uso del fascinoso tema del duetto maschile alle parole «Oui, c’est elle! | C’est la déesse plus charmante et plus belle!» – una idée fixe che ritornerà innumerevoli altre volte nel corso dell’opera a stregare i protagonisti come un frammento del passato – a rendere struggente quest’operina dall’incongruo libretto e dalla tenue vicenda.

In scena c’è un cast non omogeneo che ha l’apice nella Léïla di Hasmik Torosyan, soprano belcantista dal timbro argentino e dalle infallibili agilità che ben si adattano ad un personaggio che sembrerebbe Norma, la sacerdotessa che rompe i suoi voti di castità, se non fosse per il tono qui molto meno tragico. Incolore la prestazione del tenore francese Kévin Amiel che dell’aria di Nadir «Je crois entendre encore» – portata alla notorietà da voci come quelle di Enrico Caruso, Alain Vanzo, Beniamino Gigli, Alfredo Kraus o Nicolai Gedda – ha offerto una versione modesta e ridotta, seppure espressa con le mezze voci richieste dall’autore. Migliore si è dimostrato Pierre Doyen che ha sostituito all’ultimo momento l’interprete titolare indisposto. Uno Zurga dal timbro chiaro di cui ha reso con eleganza la nobiltà d’animo dell’uomo che salva l’amico dalla morte e lo lascia fuggire con la donna che ha sempre amato. Con questi due interpreti perlomeno si è ascoltato un francese impeccabile e non quello piuttosto approssimativo del coro. Ha completato il quartetto di interpreti il vocalmente sgradevole Nourabad di Ugo Guagliardo.

La messa in scena di Julien Lubeck e Cécile Roussat oscilla pericolosamente tra il kitsch e il naïf. Trascurata un’idea registica che tratti la vicenda in modo da dare maggiore spessore e umanità ai personaggi, i due registi tuttofare hanno scelto un decorativismo di maniera che sembra preso da quelle cartoline natalizie con i lustrini incollati sui bordi delle figure. Cornici sinuose inquadrano una scena da diorama inondato di luce irreale, soprattutto blu, rossa e oro, in cui si muovono personaggi bidimensionali. L’idea di utilizzare poi dei mimi per ricreare le pantomime così alla moda ai tempi di Bizet sui boulevard di Parigi si scontra col gusto moderno e quando l’alias di Léïla volteggia attorno ai due cantanti durante uno dei più bei duetti d’opera mai scritti, vien voglia di chiudere gli occhi per non vedere. Altri momenti toccano ingenuità da recita scolastica di fine anno con gli uccelli, anche loro adeguatamente glitterati, mossi da figuranti durante l’aria di Léïla del primo atto. Per non dire degli onnipresenti ballerini acrobati. Applausi da minimo sindacale hanno salutato il termine dello spettacolo.

Korngold and His World

AA.VV., Korngold and His World

Daniel Goldmark and Kevin C. Karnes ed.

2019 Princeton University Press, 329 pagine

Questo recentissimo volume dimostra l’interesse per un compositore la cui fortuna ha avuto alti e bassi vertiginosi. La fortuna che sta riscoprendo il compositore Erich Korngold in questi ultimi anni – con le sue opere messe in scena nei teatri di tutto il mondo, prima fra tutte Die tote Stadt, ma anche Das Wunder der Heliane e Violanta – non si deve solo alla curiosità di un autore la cui carriera ha dovuto prendere una via ben diversa da quella progettata a causa degli eventi storici che l’hanno portato ad abbandonare la Germania per trasferirsi in California e lì scrivere apprezzate colonne sonore per i film di Hollywood, ma proprio per la specificità della sua musica. Una musica ricca di fascinose idee melodiche che hanno fatto presa su un pubblico che si è scoperto meno tollerante alla sperimentazione atonale, dodecafonica, seriale e minimalista con cui si sono espressi i compositori per il teatro musicale per buona parte del Novecento.

È testimonianza di questa rinascita il folto numero di testi a lui dedicati, soprattutto in lingua inglese. Come questa raccolta di saggi appena pubblicata e curata da Daniel Goldmark, professore alla Case Western Reserve University di Cleveland e autore di testi sulla musica dei film di animazione, e Kevin C. Karnes, della Emory University di Atlanta e autore di libri su Brahms, Arvo Paart, Wagner e la musica viennese di fine secolo.

Il libro contiene i seguenti saggi:

  • Korngold Father and Son in Vienna’s Prewar Public Eye (David Brodbeck);
  • “You must return to life”: Notes on the Reception of Das Wunder der Heliane and Johnny spielt auf (Charles Youmans);
  • Acoustic Space, Modern Interiority and Korngold’s Cities (Sherry Lee and Sadie Menicanin);
  • Korngold and Jewish Identity in Concert (Lily E. Hirsch);
  • New Opportunities in Film: Korngold and Warner Bros. (Ben Winters):
  • “The caverns of the human mind are full of strange shadows”: Disability Representation, Henry Bellaman, and Korngold’s Musical Subtexts in the Score for Kings Row (Neil Lerner);
  • American and Austrian Ruins in Korngold’s Symphony in F-sharp (Amy Lynn Wlodarski).

Seguono altrettante pagine dedicate ai documenti: note, interviste, articoli dell’epoca. Conclude il libro una coda: Before and After Auschwitz, Korngold and the Art and Politics of the Twentieth Century (Leon Botstein).

I saggi non costituiscono una esaustiva biografia del musicista, ma fanno luce sui vari aspetti della sua carriera, soprattutto come compositore di musiche da film, quello di maggior interesse per il pubblico americano.