Mese: luglio 2022

Orfeo ed Euridice

 

foto © Iko Freese/drama-berlin.de

Christoph Willibald Gluck, Orfeo ed Euridice

Berlino, Komische Oper, 7 luglio 2022

★★★★☆

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Orfeo ed Euridice, una storia di coppia

«Le origini del mito sono molto lontane. Ciò che è decisivo per me è la sua componente di vita reale; mi chiedo cosa colleghi questi miti alla nostra vita di oggi. Penso che questo sia il motivo per cui questa storia è stata scritta: è stata scritta per condividere esperienze di vita» scrive Damiano Michieletto, e continua: «al centro di quest’opera c’è una fedeltà d’amore, l’esperienza del viaggio di Orfeo. Nel corso del viaggio, i personaggi trovano l’amore e si ritrovano l’un l’altro. La crisi dell’inizio porta presto alla morte di Euridice e quando Orfeo la ritrova, è come se questa crisi continuasse e si risolvesse poco prima della fine. Cerco di sviluppare questa storia come la storia di una coppia, piuttosto che come le gesta di un singolo eroe».

Non c’è il mito nella intensa lettura di Orfeo ed Euridice del regista veneziano, ma una storia borghese, molto contemporanea. Se è il senso di colpa che spinge Orfeo a salvare Euridice, è però Amore il terzo personaggio, motore della vicenda anche se non è nel titolo: «Il trionfo dell’amore alla fine deriva dall’esperienza della finitezza della vita. Questo pensiero è difficile da sopportare. Il senso del motivo del viaggio e delle avventure di cui parlano numerosi miti è, a mio avviso, il tentativo di mostrare, con mezzi artistici, il vissuto di un’esperienza di vita veramente significativa. Si tratta della possibilità di cambiare, di incontrarsi di nuovo, di amare di nuovo e forse anche in modo diverso», dice ancora il regista.

Al levarsi del sipario, dopo l’ouverture, vediamo una coppia in crisi seduta a un tavolo in abiti degli anni ’50 (costumi di Klaus Bruns). Entrambi sono nervosi, lui con una valigia pronta, che poi afferra e se ne va. Rimasta sola, sconvolta, lei si taglia le vene dei polsi. Non è il morso di un serpente a distruggere l’armonia tra Orfeo ed Euridice, ma la mancanza di comunicazione, la constatazione di non aver più nulla da dirsi, la perdita dell’amore. Nella scena seguente il coro intona il mesto «Ah! se intorno a quest’urna funesta» non in un «solitario boschetto di allori e cipressi», ma in una corsia di ospedale: Euridice è su un lettino in pericolo di vita, Orfeo chiama il suo nome e intona poi la sua prima aria rivolgendosi agli altri degenti. Nel culmine della disperazione prende la pistola di una guardia e se la punta alle tempia, ma viene fermato da Amore, un prestigiatore in cilindro e marsina piuttosto male in arnese, che gli promette di fargli ritrovare l’amata a condizione che… beh, lo sappiamo. Nel frattempo un parallelepipedo è sceso dall’alto e ha inglobato il lettino di Euridice e tutti i degenti: ora Orfeo è solo e inizia il suo viaggio nell’aldilà tra tuoni e lampi (luci bellissime come sempre quelle di Alessandro Carletti). Lo scenografo Paolo Fantin prevede ora una camera a prospettiva forzata che avanza dal fondo e le cui linee conducono a una porticina che dà su un nulla nero. In scena un grumo di figure nere e senza volto si agita minaccioso: è la «turba infernale» che impedisce il passaggio ad Orfeo. Ci vorrà il suo canto per raddolcirli: le figure nere si liberano del tessuto nero e diventano gli spiriti celesti. Orfeo cerca inutilmente tra quegli stracci l’amata, finché sul fondo si vede una larva nera che si contorce e ne escono le membra della donna. I due coniugi finalmente si ritrovano, ma l’angoscia di non poterla vedere in faccia e l’insistenza di lei per uno sguardo porta alla tragedia: inutilmente Orfeo ha cercato di bendarsi gli occhi con quegli stracci, cede e perde un’altra volta Euridice, che viene fagocitata da quella massa nera. Cambio di scena, siamo di nuovo nell’ospedale, il lettino della donna è vuoto e sono ancora i degenti ad ascoltare il lamento di Orfeo, «Che farò senza Euridice». Si ripete la scena di prima: Orfeo prende la pistola della guardia, la punta alle tempia ed è nuovamente Amore, questa volta in un completo scintillante di paillettes, a fermare il gesto e annunciargli che gli viene resa la sposa. Ma non è finita per Orfeo: durante le danze del finale altre alter ego di Euridice sembrano voler mettere alla prova il suo amore. L’ultima scena è come la prima: un tavolo, i due coniugi, la valigia, ma questa volta è l’amore che vince e i due vivranno felici e contenti, «Trionfi Amore, | e il mondo intero | serva all’impero | della beltà».

Ho raccontato fedelmente lo spettacolo per un motivo: questa era l’ultima ripresa, dopo Berlino questa produzione giacerà nei magazzini fino all’estate del ’24, quando andrà in scena a Spoleto. Fino ad allora rimarrà solo nella memoria degli spettatori che hanno assistito alle recite di gennaio e alle due riprese di luglio.

La pulizia visiva ottenuta dal regista e dal suo scenografo non sembra abbia un corrispettivo nella direzione un po’ disordinata di David Bates che non rende la trasparenza dell’orchestrazione e sceglie tempi estremi, e negli strumentisti dell’orchestra del teatro, incerti tra esecuzione storicamente informata e slanci romantici. La versione scelta è quella viennese, in italiano, senza l’aria “spuria” del finale atto primo («Addio, o miei sospiri») e la scena seconda dell’atto secondo (Euridice e coro) ma con le danze dell’atto terzo, quei famosi nove lunghi minuti che Carsen aveva tagliato a Roma e che qui sono realizzati con i movimenti coreografici di Thomas Wilhelm.

Buono il coro ospite, il Vocalconsort Berlin, validamente impegnato anche scenicamente. Nadja Mchantaf è un’intensa Euridice dalla voce insolitamente drammatica per la parte, ma qui del tutto coerente con la lettura registica. Efficace nei suoi due interventi risolutori l’Amore di Susan Zarrabi, soprano dotato di voce sicura e valida presenza scenica.

E infine c’è l’Orfeo di Carlo Vistoli, il quale con questa performance non si conferma soltanto tra i migliori controtenori di oggi, ma tra i migliori interpreti della scena lirica tout court. Michieletto lo vuole sempre presente e lo sottopone a ogni forma di fatica: su e giù sul palcoscenico, tirato per i piedi, trascinato, portato in spalla, si rotola negli stracci e poi nelle “ceneri” di un’urna, viene investito da un secchio d’acqua… Con questa prova si rivela attore a tutto campo con una attorialità solidissima e una prestazione vocale di qualità superlativa. Dimentichiamoci i timbri sbiancati, le voci esili di certi controtenori: qui il suono è corposo, riempie il teatro, si piega a ogni possibilità espressiva pur mantenendo una linea di canto stilisticamente ineccepibile con abbellimenti, trilli, variazioni magistralmente eseguiti. La sua è una definizione del personaggio complementare a quella realizzata con Carsen, ma con un approccio di fondo che si rivela simile, ossia quello di svelare la verità di un personaggio che ha perso l’aurea eroica del mito e che si è fatto umano, molto umano. Il pubblico presente l’ha capito e ha tributato grandiose ovazioni nei suoi confronti.

Káťa Kabanová

foto © Jaro Suffner – Komische Oper

Leoš Janáček, Káťa Kabanová

Berlin, Komische Oper, 5 juillet 2022

★★★★☆

 Qui la versione italiana

L’enfer de la famille

Les opéras de Janáček, qui ont été si mal accueillis par le public à leur époque, sont aujourd’hui presque constamment à l’affiche. Quelle sacrée revanche pour le vieux Leoš que de voir son œuvre si appréciée aujourd’hui ! Kát’a Kabanová est l’un de ses titres les plus populaires : l’histoire est de celles qui accrochent toujours et la musique du compositeur morave fait tout pour rendre plus fort ce drame bourgeois au dénouement tragique…

la suite sur premiereloge-opera.com

Káťa Kabanová

foto © Jaro Suffner – Komische Oper

Leoš Janáček, Káťa Kabanová

Berlino, Komische Oper, 5 luglio 2022

★★★★☆

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L’inferno della famiglia

Le opere di Janáček, che con tanta difficoltà erano state accolte dal pubblico ai loro tempi, ora sono quasi una costante nei cartelloni dei teatri. Una bella rivincita per il vecchio Leoš vedere così apprezzato il suo teatro oggi. Kát’a Kabanová è uno dei titoli più frequentati: la vicenda è di quelle che fanno sempre presa e la musica del compositore moravo fa di tutto per rendere più intrigante questo dramma borghese dal finale tragico.

Come l’omonima e quasi contemporanea Katerina Izmailova del racconto di Leskov (1865, Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk, che sarà messo in musica da Šostakovič),  anche la Káťa (Caterina) Kabanová del dramma di Aleksandr Ostrovskij (1859, L’uragano in italiano anche se si tratta solo di un temporale nell’originale) è una “mal marià”, come si dice dalle mie parti, ha cioè un ma­rito imbelle in partenza per un viaggio il quale la lascia in balia delle tentazioni e nelle grinfie di una suocera qui (là di un suocero) che non vedono l’ora di rende­re la vita ancora più grama alla povera nuora.

La Caterina protagonista dell’o­pera di Janáček, andata in scena nel 1921 a Brno, non arriva all’omicidio come la omologa russa, ma in preda al senso di colpa, che manca totalmente all’altra Caterina, per l’adulterio consumato, durante un temporale si getta nel Volga lì vicino. Káťa è ossessionata dal peccato, come un po’ tutti gli abitanti del villaggio. La soggezione religiosa è infatti molto forte nel dramma del compositore moravo, che aveva avuto la sua istruzione in un convento di Brno, mentre in quello del russo l’unico accenno alla religione è nella figura del prete orto­dosso ubriacone e lascivo.

Musicalmente troviamo anche in questo lavoro la cura di Janáček per la parola. Nel suo caso “frase musicale” ha un significato ancora più profondo: Janáček ha metodicamente trascritto in notazione musicale il parlato di chi ascoltava, trasformando cioè la prosodia della lingua nei ritmi e nella melodia della musica, così da far diventare il significante musica. Questa “melodia linguistica” sembra del tutto chiara all’ascolto della Káťa Kabanová diretta da Giedrė Šlekytė, un altro arrivo dalla Lituania e un’altra donna che si insedia con sicurezza sul podio delle maggiori orchestre, come hanno fatto precedentemente Simone Young, Emmanuelle Haïm, Oksana Lyniv o Joana Mallwitz, solo alcuni dei talenti femminili scoperti recentemente.

La superiore maestria della giovane direttrice diventa chiara fin da quell’inizio quasi wagneriano che però presto si innerva di un battito che diventa subito idiomatico su cui si inserisce il malinconico canto del fiume. Il colore cupo domina nell’orchestra e bene ha fatto la regista Jetske Mijnssen – un’altra donna! – a tenere chiuso il sipario nero durante l’esecuzione del preludio, il che ha messo ancor più in evidenza la preziosità dell’inizio di questo lavoro che si rivela con un carattere quasi aforistico data la brevità – i tre atti assieme durano meno di un atto unico straussiano. L’esecuzione senza interruzioni ha poi permesso di mantenere una forte tensione narrativa prima di arrivare a quel finale fulmineo in cui in pochi secondi si conclude l’infelice parabola della povera donna. Finale che è impossibile mettere in scena realisticamente: in poco più di un minuto d’orologio lei si getta nel fiume, annega e il corpo viene portato a riva! A Janáček non interessa la verosimiglianza, interessa concentrare il dramma in poche efficaci battute. Il gesto preciso e coinvolgente della Šlekytė ha ottenuto dall’orchestra un suono di grande pulizia che ha esaltato più del solito le raffinatezze strumentali – il rabbrividente intervento dei violini, lo struggente violoncello, i nostalgici corni – che punteggiano questa magnifica partitura.

In scena non c’è nessun cantante di lingua madre, ma un cast di grande qualità che ha supplito a una dizione non sempre esemplare con ottime doti interpretative. Prima fra tutti la protagonista, Annette Dasch, che si è calata con grande sensibilità nella parte e con una vocalità attenta alle minime espressioni, tanto che il pubblico alla fine le ha riservato delle vere e proprie ovazioni. Molto festeggiati anche Jens Larsen, il trucido Dikoj; Magnus Vigilius, il nipote bistrattato Boris; Stefan Rügamer, il marito alcolizzato e succubo della madre, qui una figura neanche troppo antipatica a cui ha fornito efficacemente la figura e la voce il mezzosoprano austriaco Doris Lamprecht. Una ventata di spensieratezza viene dalla Varvara di Karolina Gumos dal bel timbro, e dal Kudriaš di Timoty Oliver, gli unici due personaggi che riescono a sfuggire a quell’inferno borghese.

La regista olandese Jetske Mijnssen punta a una lettura iperminimalista, neanche la gente del paese si vede, il coro canta fuori scena e tutta la vicenda è vissuta claustrofobicamente in un interno disegnato da Julia Katharina Berndt formato da tre ambienti identici, pressoché intercambiabili, senza finestre, con porte comunicanti e sulla parete di fondo un doppio portone che si apre su un nulla nebbioso. Altro che notte estiva, fluire del fiume: una triste prigione rinchiude i personaggi e per quanto le camere scorrano, molto lentamente, davanti ai nostri occhi, si ripropone sempre lo stesso ambiente: la tavola minuziosamente preparata con la tovaglia che in un momento di spensieratezza di Kát’a diventa un velo bianco. Anche i costumi anni ’50 di Dieuweke van Reij non fanno sperare una via di fuga dalle angherie di Dikoj nei confronti del nipote e di Marfa Ignatjevna con la nuora. Nella drammaturgia di Simon Berger tutto viene condensato nelle tre stanzette: vediamo dunque Kudriaš dare lezione al giovane Kuligin sul tavolo, la notte folle dei vecchi Dikoj e Marfa consumarsi grottescamente sotto il tavolo dell’altra stanza mentre in quella di fianco Kát’a comincia a cedere alla tentazione del “peccato”. Nel finale la donna non si getta nella Volga ma si avvelena e muore accasciata al suolo assieme a Boris che non è partito. La vecchia Kabanová non rigrazia i compaesani, che non ci sono come detto, ma si rivolge direttamente al pubblico con un effetto altrettanto rabbrividente. Poi si apparta nell’altra stanza e sembra crollare per il dolore. In fondo è una povera donna anche lei e sembra meritare la compassione della regista.

Lucia di Lammermoor

Gaetano Donizetti, Lucia di Lammermoor

New York, Metropolitan Opera House, 21 maggio 2022

★★★☆☆

(live streaming)

Al Met una Lucia splatter che piacerebbe a Quentin Tarantino

Il prezioso manoscritto della partitura della Lucia di Lammermoor andata in scena a Napoli nel 1835 e  custodito nella biblioteca Angelo Mai di Bergamo varca l’oceano la prima volta per essere esposto all’Istituto Italiano di Cultura di New York dove il 21 aprile è stata tenuta una tavola rotonda con la partecipazione di Riccardo Frizza che ha diretto al Metropolitan Opera House l’opera nella nuova produzione di Simon Stone, per la prima volta nel teatro americano, l’ultima delle centinaia rappresentazioni di questo titolo particolarmente frequente al Met. L’ultima delle repliche è stata trasmessa live nei cinema aderenti al progetto “The Met Live in HD”, ed è quella a cui si riferisce questa recensione.

Che la vicenda di Walter Scott abbia ultimamente abbandonato le originali brume della Scozia non fa notizia nei teatri che la mettono in scena in Europa, ma il Metropolitan di New York non si è sempre dimostrato molto aperto a una rivisitazione dei classici della lirica, preferendo regie tradizionali. Già i costumi Ottocento del precedente allestimento di Mary Zimmermann avevano fatto arricciare il naso ad alcuni spettatori, ma ora Simon Stone trasporta «Lucia, closeups of a cursed life» (Lucia, primi piani di una vita infelice) come si legge all’inizio, nella attualità di un desolato paese della Rust Belt. Ed ecco le dichiarazioni del regista: «La Lucia originale si svolge nella Scozia del XVIII secolo con la caduta dell’aristocrazia: è molto importante l’idea che la fine di quest’epoca gloriosa dell’aristocrazia scozzese abbia portato con sé ogni tipo di povertà e decadenza, utilizzando le donne per riconquistare un certo tipo di potere. Cerco sempre di ambientare ogni opera che faccio nel Paese in cui la metto in scena perché voglio parlare in qualche modo al pubblico che la guarda e in questo caso ho cercato di trovare un luogo in America che riflettesse un’epoca gloriosa passata e il posto più suggestivo che ci è venuto in mente è stata la Rust Belt», quell’area degli Stati Uniti dove il declino delle industrie ha lasciato spazio a declino economico e decadenza urbana.

La vicenda è dunque giustamente adattata: non è da un «impetuoso toro» che Lucia viene salvata, ma da un tentativo di rapina sventato da Edgardo, come vediamo durante il preludio; il racconto del fantasma della fontana, che è un impianto idroelettrico abbandonato, è l’omicidio di una giovane ragazza di colore; Edgardo, lavorante in un fast food, deve partire soldato; Enrico è un trafficante di droga e prostituzione i cui affari però vanno male; la lotta fra le casate è la lotta fra gruppi mafiosi; le lettere fra i due giovani sono i messaggi sui social; il «simulato foglio» è una fake news sul cellulare; la torre di Wolferang è un pick up parcheggiato davanti al supermercato e al banco dei pegni. E la scena dell’uccisione è in pieno stile splatter con Arturo ammazzato con un estintore. Ma non è niente in confronto a Lucia che sembra uscita da una doccia di sangue: nella gara a chi ne fa più uso, al momento questa la vince su tutte e l’horror confina col grottesco quando un esercito di zombie con le fattezze di Arturo salta fuori prima della cabaletta «Spargi d’amaro pianto». Prima ancora la festa di nozze era finita in una rissa tra gli invitati e a torte in faccia. Tutto ha una sua logica ma qui, più che altre volte, il contrasto fra le parole che ascoltiamo – il registro letterario dei versi di Cammarano – e le immagini di prosaica contemporaneità è insanabile. Ma c’è da dire che questo problema non riguarda gli spettatori americani che non conoscono l’italiano e hanno a disposizione dei sovratitoli con una traduzione molto libera del libretto.

La piattaforma rotante, di cui Stone è sempre stato un fedele utilizzatore e vero marchio di fabbrica degli allestimenti di oggi, è presente anche in questa scenografia di Lizzie Clachan: si passa quindi con continuità nei paesaggi degradati di motel, parcheggi, diner, cinema drive-in, squallidi cortili con le volgari decorazioni delle nozze. Su uno schermo in alto si vedono i primi piani degli interpreti ripresi da una onnipresente steady-cam, un’idea non originale e che funziona male nella trasmissione video in cui il regista insiste sui primi piani dei protagonisti e si perde l’incessante roteare della piattaforma.

Magnifica la concertazione di Riccardo Frizza, sempre rispettosa delle voci, con tempi giusti, con tutti i tagli di tradizione riaperti e l’uso della glasharmonika nella scena della pazzia. Nadine Sierra è una Lucia notevole per potenza vocale, agilità dipanate con maestria, variazioni nelle riprese e puntature fulminanti. Sempre in primo piano nella ripresa televisiva, si dimostra grande attrice ed è bravissima a non uscire dal personaggio durante gli interminabili applausi a scena aperta. Javier Camarena ha voce leggera e timbro chiaro che lo  connotano come l’innocente capitato in un mondo crudele. Inizialmente più Nemorino che Edgardo, prende quota nel corso della rappresentazione e negli acuti la voce esce fuori in tutta la sua potenza e drammaticità. Artur Ruciński è un Enrico trucido e vocalmente brutale, senza sfumature. Pieno di tatuaggi come un criminale o un affiliato della Yakuza, sniffa coca, si attacca alla bottiglia e ha sempre la sigaretta sulle labbra e il coltello in mano. Christian van Horn sostituisce Matthew Rose con grande autorevolezza nella parte di Raimondo. Ottimo come sempre l’apporto del coro.

Numerosi applausi a scena aperta, ovazioni e standing ovation finale ai quattro protagonisti principali. Qui al Met è importante dare al pubblico quello che si aspetta: immagini forti e acuti.

Die Teufel von Loudun

Krzysztof Penderecki, Die Teufel von Loudun

Monaco, Nationaltheater, 27 giugno 2022

★★★☆☆

(video streaming)

L’opera horror di Penderecki ha perso un po’ della sua forza

A 53 anni dalla prima di Amburgo il 20 giugno 1969, Die Teufel von Loudun (I diavoli di Loudun) di Penderecki arriva alla Bayerische Staatsoper di Monaco in una sontuosa produzione che vede Vladimir Jurowski alla guida dell’orchestra e Simon Stone alla regia.

Sono del tutto dimenticate le reazioni ostili che l’opera aveva suscitato al tempo nei vari teatri che l’avevano messa in scena quasi contemporaneamente – nel giro di pochi mesi era stata vista ad Amburgo, Stoccarda, Santa Fe, mentre in Polonia ci arriverà solo nel 1975 – e il pubblico acclama gli artefici dello spettacolo che va in scena un po’ fortunosamente: essendo risultato positivo al Covid, all’ultimo momento Wolfgang Koch è stato sostituito nella parte di Grandier da due interpreti, un cantante in orchestra per la parte cantata e un attore in scena per la parte recitata, evidentemente a disagio per l’esiguità di prove. Il risultato è a tratti imbarazzante e la recita è salva ma a prezzo di incertezze e intoppi. Nelle recite successive si dovrà trovare una soluzione migliore. (1)

Simon Stone ambienta la vicenda ai giorni nostri con evidenti incongruenze storiche: il cardinale Richelieu, il Re di Francia, l’abbattimento delle mura della città. Nella visione di Stone perde peso il contrasto tra potere locale e potere centrale e l’accento è posto sulle ossessioni sessuali/demoniache delle monache. Nel collocare l’azione al presente il regista solo in un punto diventa del tutto convincente: nel rituale di espulsione del diavolo, le suore si trasformano in attiviste che scrivono slogan femministi sui loro corpi. I fondamentalisti religiosi rivendicano ancora il potere sul corpo femminile, dice Stone. Per il resto si narra, senza altre attualizzazioni, una storia vera del 1634 in cui il carismatico Grandier, pastore e donnaiolo, un liberale che gode della vita con tutti i sensi, entra nei sogni proibiti di Jeanne, priora in un convento di suore, che si innamora di lui e nella sua frustrazione sessuale si lascia andare a un delirio religioso accusando Grandier di compiere fornicazioni diaboliche nel monastero e lo condanna così alla tortura e al rogo. Sempre attuale comunque è il fatto che se si vuole distruggere la carriera di una persona basta accusarla di molestie sessuali. Funziona sempre.

Nella scenografia di Bob Cousins una costruzione cubica di cemento grezzo rotante ingloba i vari ambienti in cui si svolge la vicenda: il monastero con le scale, la cappella, la cella di Jeanne, il confessionale di Grandier, ma anche il gabinetto del chirurgo, la chiesa di San Pietro per l’esorcismo di Jeanne, la stanza per le torture di Grandier. Non mancano particolari grotteschi (la pompa da giardino per il clistere di Jeanne…) e tanto sangue, tanto che nei saluti finali qualcuno scivola sul pavimento cosparso del liquido rosso.

Vladimir Jurowski domina una partitura dal tono inquietante, non per nulla la musica di Penderecki è stata spesso usata come colonna sonora di film in cui è alta la tensione – The Shining, The ExorcistShutter Island, Demon, Twin Peaks… Rumori, suoni rabbrividendi degli archi, percussioni minacciose, cluster dissonanti: un’orchestra enorme diventa agile strumento sotto la direzione del maestro moscovita che aggiunge «la fantasia sgargiante, quasi rock’n’roll, con cui gli eventi sono realizzati musicalmente… C’è di tutto, dalla musica gregoriana alle campane registrate, dai sassofoni baritoni ai bassi elettrici alla sega amplificata. Vengono messe in luce tutte le sfaccettature dell’uso della voce nel teatro moderno: il semplice canto di chiesa, il canto d’opera, il parlato a metà, la declamazione scenica, ma anche esperimenti quasi circensi come quello di Jeanne, che in uno stato di ossessione inizia improvvisamente a parlare con la voce di Leviathan, una voce maschile innaturalmente profonda che può essere realizzata con trucchi teatrali. Il coro crea paesaggi sonori con i suoi cluster a più voci, spazi acustici come nuvole sospese sull’azione. L’orchestra è grande, ma sempre utilizzata in modo mirato e al posto dei soliti gruppi di 1° e 2° violino, ci sono venti voci individuali, che rendono la parte strumentale incredibilmente varia quasi come la colonna sonora di un film». Appunto.

Dopo L’angelo di fuoco di Prokof’ev, Aušrine Stundyte ritorna a indossare i panni di una “indemoniata” depressa sessualmente e la sua Jeanne sprizza un’energia vocale che si esprime in mille sfumature. Nella buca d’orchestra Jordan Shanahan fa di tutto per far dimenticare l’alienante situazione di un personaggio in scena “ventriloquo” quando canta, e querulo quando recita, ruolo in cui l’attore Robert Dölle non sembra del tutto a suo agio. Nello sterminato cast si fanno notare Wofgang Ablinger-Sperrhacke come Baron de Laubardemont, lo spietato messo reale mentre Martin Winckler è l’ambiguo esorcista.

(1) La seconda rappresentazione è stata cancellata per altri casi di positività.