Manon Lescaut


 

foto © Simone Borrasi

Giacomo Puccini, Manon Lescaut

Torino, Teatro Regio, 1 ottobre 2024

★★★☆☆

bandiera francese.jpg  ici la version française sur premiereloge-opera.com

Cinéma Lescaut

L’omaggio del Teatro Regio di Torino a Puccini nel centenario della sua morte continua con Manon Lescaut, la sua terza opera dopo Le Villi e l’Edgar e la sua prima grande affermazione. Il lavoro debuttava con un clamoroso successo proprio in questo teatro il 1° febbraio 1893 e da allora è spesso presente nei suoi cartelloni. L’ultima volta fu nella stagione 2016-2017 diretta da Gianandrea Noseda con la regia di Borrelli che riutilizzò le scenografie di Thierry Flamand dello spettacolo del 2006 affidato al regista cinematografico Jean Reno. Alla Scala invece l’ultima fu la produzione di David Pountney (quella dei treni…) con la direzione di Riccardo Chailly nel 2019.

L’Histoire du chevalier des Grieux e de Manon Lescaut dell’abate Prevost (1731) aveva già ispirato la Manon Lescaut di Daniel Auber nel 1856 e la Manon di Jules Massenet nel 1884, per non parlare di un meno conosciuto lavoro del compositore irlandese Michael William Balfe (l’autore di The Bohemian Girl) dal titolo The Maid of Artois del 1836, che ebbe come protagonista Maria Malibran. Una curiosità del lavoro di Balfe è che lì c’è un lieto fine: la coppia nel deserto viene salvata. Nel Novecento c’è invece la riscrittura moderna di Hans Werner Henze, Boulevard Solitude (1952), la sua prima opera, in cui il fulcro della vicenda è però Armand des Grieux.

Note sono anche le vicissitudini del libretto, che alla fine è risultato avere ben sette padri, oltre ai citati Illica, Oliva e Praga ci misero mano anche Leoncavallo, Adami, Ricordi e lo stesso Puccini, tanto che nell’edizione a stampa è riportato «testi di autori vari», ma talora è indicato invece «di anonimo». Quello che ne è uscito fuori è piuttosto raffazzonato e con stucchevolezze settecentesche (il «senso dell’antico» sono state bonariamente definite) che i registi di oggi evitano come la peste. Vedi ad esempio la produzione di Jonathan Kent a Londra o di Hans Neuenfels a Monaco e prima ancora quella di Graham Vick a Venezia, anche allora diretta da Renato Palumbo. Così però l’ambientazione moderna fa a pugni con i cocchi, gli ostieri, i tricorni, i calamistri, la cerussa, il minio, la giunchiglia ecc. citati nel libretto…

E infatti è anche quello che fa Arnaud Bernard in questo particolare progetto “Manon Manon Manon” voluto dal sovrintendente del Regio Mathieu Jouvin di presentare in immediata successione le tre più note opere tratte dal testo di Prévost. 

Si parte dunque da quella di Puccini per risalire a quella di Massenet e infine a quella di Auber, allestite in una mini stagione che precede quella ufficiale che partirà il 23 novembre. Le tre opere hanno interpreti e direttori differenti, ma sono tutte affidate per la messa in scena allo stesso Bernard, che ha scelto come chiave di lettura il cinema, in particolare il cinema francese, in tre epoche diverse. Per la Manon Lescaut di Puccini sono i film degli anni ’30-’40, quelli del “realismo poetico” come Quai des brumes (Il porto delle nebbie, 1938) di Marcel Carné; Les enfants du paradis (Amanti perduti, 1945) ancora di Carné; La bête humaine (L’angelo del male, 1938) di Jean Renoir e ovviamente Manon (1949) di Henri-Georges Clouzot.

I riferimenti cinematografici nella messa scena di un’opera oggi non sono certo una novità: ricordiamo fra le tante le regie di Alessandro Talevi per La Cenerentola, di David Livermore per il geniale Ciro in Babilonia e il felliniano Il turco in Italia, La fanciulla del West di Robert Carsen o di Valentina Carrasco.  Ma lì era ricostruito il mondo della celluloide, lo spirito, più che la mera citazione di immagini cinematografiche – che occorre dosare giudiziosamente perché nella percezione la visione è preponderante sull’udito, ha una maggiore immediatezza e cattura prima l’attenzione dello spettatore.

Nella messa in scena di Bernard dominano, ovviamente, i bianchi e neri nei costumi di Carla Ricotti e nella scenografia di Alessandro Camera illuminata dalle luci di Fiammetta Baldiserri. Nel primo atto il piazzale di Amiens è l’interno di una movimentata stazione di autolinee con il confuso via vai dei tanti viaggiatori e qui l’incontro dei due giovani si perde nella molteplicità di scene e controscene sull’affollatissimo palcoscenico. Il secondo è l’elegante salone della casa di Geronte dove non c’è il letto con le “trine morbide”, ma uno schermo cinematografico per la proiezione di spezzoni di Les enfants du paradis e l’arrivo addirittura di Jean-Louis Barrault “Pierrot”per intrattenere la giovane annoiata.

Poi però le cose cambiano con l’intermezzo orchestrale del terzo atto, durante il quale le immagini di Jean Gabin, che bacia appassionatamente le sue innumerevoli partner cinematografiche, riempiono lo schermo mentre l’orchestra dipana le struggenti note. Tra il terzo e il quarto atto navi in balia delle onde rappresentano il viaggio verso l’America dei due sfortunati giovani, un intermezzo muto per lo meno pleonastico. Che poi la visione del mare in tempesta possa indurre un po’ di nausea nel pubblico non è da sottovalutare, ma di certo sembra avere avuto un effetto devastante su Manon, la quale lascia la piattaforma che rappresenta il deserto col video sul fondo di dune sabbiose a perdita d’occhio, avanza sola verso il proscenio ma appena intona una delle arie più strazianti del mondo dell’opera, riappare lo schermo su cui viene proiettato il film di Clouzot e la musica di Puccini si declassa a colonna sonora delle vicende interpretate dal giovane Des Grieux di Michel Auclair e dalla Manon bionda di Cécile Aubry. Una visione che è dir poco definire distraente: con la loro forza visiva l’attenzione dello spettatore è calamitata a scapito della prestazione del povero soprano al buio e schiacciato dalle immagini. Di certo non il miglior tributo alla musica di Puccini. 

Musica che viene eseguita da Renato Palumbo con tono trascinante, una concertazione precisa nelle animate scene di insieme e intensa negli ampi squarci sinfonici così come nei momenti più drammatici. La non felice acustica del teatro esalta il suono dell’orchestra a scapito delle voci e fa sembrare più sonoramente presente di quanto sia effettivamente la sua lettura, con i cantanti che talora faticano a farsi sentire. Non il Geronte di Carlo Lepore, che ha frequentato spesso la parte che risolve con eleganza, sottile ironia e mezzi vocali di prim’ordine. Il Des Grieux di Roberto Aronica non aveva convinto del tutto cinque anni fa alla Scala e ora il suo timbro non è migliorato e maggiori sono gli sforzi a raggiungere le note acute. Intatto invece è il generoso slancio con cui affronta il personaggio. Erika Grimaldi è una seria professionista con eccellenti doti vocali e intelligenza interpretativa con cui supera senza intoppi una parte altamente impegnativa, ma l’interpretazione manca di sensualità e passione e il suo «Sola… perduta… abbandonata!» non commuove. Sarà magari stata colpa del film che viene proiettato in contemporanea. 

Nel resto del cast si distinguono positivamente il sanguigno Lescaut di Alessandro Luongo, Giuseppe Infantino (Edmondo), Didier Pieri (lampionaio e maestro di ballo), l’Artista del Regio Ensemble Janusz Nosek (Oste e Sergente), Lorenzo Battagion (Comandante di marina), i madrigalisti e il coro istruito da Ulisse Trabacchin.

Pubblico caloroso con tutti gli artefici dello spettacolo e in special modo con la protagonista. Sabato sarà la volta della Manon #2, quella francesissima di Massenet. Riferimento cinematografico: Brigitte Bardot!