Contemporanea

Partenope

foto © Salvatore Laporta

Ennio Morricone, Partenope

Napoli, Teatro di San Carlo, 12 dicembre 2025

Cristina Voena è stata alla Partenope di Napoli. Ecco il suo resoconto.

Morricone lontano dal cinema: Partenope tra attese tradite e teatro immobile

Presentata come evento simbolo di Napoli Millenaria, l’unica opera di Ennio Morricone delude le attese. La scrittura d’avanguardia e la forma oratoriale spiazzano il pubblico, mentre la regia statica di Vanessa Beecroft riduce il mito di Partenope a un tableau immobile. Ne risulta uno spettacolo freddo, accolto con applausi di cortesia.

Doveva essere una grande occasione, una di quelle destinate a entrare nella memoria culturale di una città. Nell’ambito di Napoli Millenaria, il vasto contenitore di eventi pensato per celebrare i 2500 anni dalla fondazione di Neapolis, il cartellone del Teatro annunciava infatti un titolo dal forte valore simbolico: Partenope, l’unica opera lirica composta da Ennio Morricone. Un evento presentato come storico, impreziosito da un libretto firmato da due figure molto amate dal pubblico della musica colta, Sandro Cappelletto e Guido Barbieri, e caricato di un’aura quasi leggendaria dal fatto che lo spettacolo, nato nel 2008 per il Piccolo Festival di Positano e rappresentato allora in forma di concerto, non fosse mai stato realmente messo in scena. A suggellare l’operazione, una regia affidata a una personalità di grande notorietà come Vanessa Beecroft, artista che ha costruito la propria fama internazionale nel campo della performing art.

Anche sul piano degli interpreti, le premesse sembravano promettere un esito di alto profilo. La protagonista è affidata a una voce sdoppiata, incarnata da due autentiche “sirene” del canto contemporaneo: Maria Agresta, salernitana doc, e Jessica Pratt, australiana di nascita ma napoletana per scelta di vita e sensibilità artistica. A dare corpo e parola al mito in vernacolo è Mimmo Borrelli, attore, regista e drammaturgo profondamente radicato nella tradizione teatrale partenopea, mentre il tenore Francesco Demuro, il mezzosoprano Désirée Giove e il direttore Riccardo Frizza provengono dalla Medea di Cherubini allestita in contemporanea sullo stesso palcoscenico, creando un curioso cortocircuito produttivo e simbolico tra due mondi musicali diversi.

Dopo il saluto del sovrintendente e dei due librettisti, tuttavia, già alle prime battute musicali iniziano a manifestarsi le incertezze di una parte consistente del pubblico. Chi si aspettava il Morricone delle celebri colonne sonore cinematografiche, quello delle melodie immediatamente riconoscibili e della forza evocativa diretta, si trova di fronte tutt’altro compositore: l’autore d’avanguardia, l’allievo geniale di Goffredo Petrassi, il membro storico dell’ensemble Nuova Consonanza. È lo stesso Morricone a chiarire l’impianto della partitura: «Considerato l’argomento, Napoli e la mitologia classica, la partitura è organizzata tutta su due tetracordi discendenti e sei suoni. La modalità è la libertà assoluta». Una dichiarazione che rivendica con orgoglio la radicalità della scrittura, ma che contribuisce anche ad alimentare un senso di spaesamento tra gli spettatori meno preparati a questo versante della sua produzione. In sala, quasi impercettibile ma reale, inizia a serpeggiare una forma di panico.

Neppure l’impianto scenico viene incontro alle attese. Lo spettacolo assume infatti la forma di un oratorio: i cantanti restano perlopiù immobili a leggii disposti ai lati del palcoscenico; solo il narratore, e in un’unica occasione il tenore, si spostano verso il centro della scena per rivolgersi direttamente al pubblico. Il ruolo di Partenope è affidato simultaneamente ai due soprani, che recitano e cantano in contemporanea, come se il personaggio fosse costantemente scisso tra due nature, mentre Persefone è evocata esclusivamente attraverso la voce registrata del mezzosoprano, presenza lontana, sottratta allo sguardo, coerente con la sua condizione di prigionia negli Inferi.

La trama rielabora liberamente il mito del ratto di Persefone da parte di Ade, che la rinchiude nel regno dei morti. La sorella Partenope, animata da un amore assoluto, chiede agli dèi delle ali per andare alla sua ricerca e si trasforma in sirena. Nonostante il voto di castità, Dioniso le consente la discesa agli inferi solo attraverso il tramite del vino e della carne, elementi dionisiaci per eccellenza. La sirena sposa Melanio, che la vince nel canto, ma lo sposo viene ucciso dai pastori traci in preda all’ubriachezza. Disperata, Partenope decide di togliersi la vita; Dioniso interviene e la colloca in cielo, nella costellazione della Vergine. Ma il mito non si chiude qui: la fanciulla si getta in mare per continuare la ricerca di Persefone, e il suo corpo senza vita approda sulle coste della Campania, dove diventa la dea protettrice della città nuova, Neapolis.

Il testo poetico procede per allusioni, simboli e immagini liriche. Da un lato Partenope si trasfigura in una figura quasi mariana, vergine e madre insieme; dall’altro il narratore riporta il mito a una dimensione popolare, quotidiana, terragna. Il coro, composto esclusivamente da voci femminili, ha il compito di narrare e commentare la vicenda, ma la rarefazione del linguaggio e la densità simbolica rendono spesso difficile seguire con chiarezza il filo del racconto.

Il problema principale della serata, oltre al fraintendimento sul carattere della musica, si rivela però la sostanziale staticità della messa in scena di Vanessa Beecroft. Celeberrima per i suoi tableaux vivants basati sui corpi femminili, l’artista trasporta in palcoscenico uno dei suoi dispositivi più riconoscibili, “poltrona fantasma” inclusa. L’apertura del sipario è indubbiamente suggestiva: la graduale apparizione del coro e delle performer, mentre una nebbia luminosa si dirada, crea un’immagine di forte impatto visivo. Ma, di fatto, l’azione sembra esaurirsi lì.

Luci fisse, cantanti immobili, movimenti del coro ridotti al minimo; una ballerina che accenna pochi gesti coreografici, un paio di ali divise tra due figuranti come unico elemento scenico realmente leggibile. Il teatro, però, è altra cosa rispetto alla performing art e richiede almeno un minimo di sviluppo drammatico. Così i 55 minuti complessivi di durata finiscono per apparire molto più lunghi. Allestito in un piccolo festival, come previsto in origine, o inserito in una stagione concertistica, lo spettacolo avrebbe probabilmente incontrato il suo pubblico naturale. In questo contesto, invece, l’esito è stato un’accoglienza fredda, stemperata solo da qualche applauso di cortesia in un teatro strapieno.

Sweeney Todd

foto © Klara Beck

Stephen Sondheim, Sweeney Todd

Strasburgo, Opéra, 17 giugno 2025

★★★

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Il demoniaco barbiere di Fleet Street


Barrie Kosky firma alla Komische Oper di Berlino un Sweeney Todd cupo e ironico, ambientato in una Londra postbellica. La partitura di Sondheim, tra musical e opera, diventa un inquietante affresco sulla vendetta e l’alienazione sociale. Scott Hendricks è un barbiere tormentato, Natalie Dessay una Mrs. Lovett surreale e irresistibile. Direzione efficace di Bassem Akiki, successo pieno di pubblico.

Condannato ingiustamente ai lavori forzati da un giudice corrotto che gli ha violentato la moglie e obbligato la figlia a diventare la sua pupilla in attesa di farne la sua sposa, il barbiere Benjamin Barker ha avuto 15 anni di tempo per pensare alla vendetta contro il giudice e contro la società borghese di Londra. Ritornato a Fleet Street con il nome di Sweeney Todd, ritrova i suoi rasoi nella vecchia bottega sopra il chiosco dove Mrs. Lovett stenta a vendere le sue torte salate di carne e assieme i due intraprendono un florido commercio avendo a disposizione abbondante materia prima: i corpi dei clienti passati dal rasoio del barbiere al forno di Mrs. Lovett grazie a una poltrona appositamente meccanizzata. (1)

Sweeney Todd, “il demoniaco barbiere di Fleet Street”, è il personaggio di un penny dreadful, romanzi stampati su carta a buon mercato molto apprezzati dal ceto popolare in epoca vittoriana. Vi si potevano trovare storie gotiche e sensazionalistiche che riflettevano le angosce sociali e psicologiche legate alla rivoluzione industriale. Il romanzo era apparso nel 1846 in un feuilleton anonimo intitolato The String of Pearls (La collana di perle). Ma è solo nel Novecento che sulla scena lirica questi temi macabri prendono piede e così dopo il Jack lo squartatore di Berg (Lulu) e il Barbablù di Bartók, un altro serial killer diventa protagonista del teatro in musica.

Esaurita la stagione spensierata dei musical di Richard Rogers – Oklahoma! (1943), Carousel (1945), South Pacific (1949) – il genere aveva assunto un tono più serio e maturo che rifletteva i turbamenti di un’America scossa dalla guerra in Vietnam, la contestazione sociale, le contro-culture. I numeri musicali diventano più complessi, l’orchestrazione più raffinata, così come la narrazione e la scelta dei temi dettati da una generazione disincantata e in crisi esistenziale. Librettista di West Side Story, Stephen Sondheim scrive Sweeney Todd, The Demon Barber of Fleet Street intendendo la vicenda come una metafora degli abusi del capitalismo industriale che portano gli individui alla disumanizzazione e al cannibalismo per sopravvivere. Con il libretto di Hugh Wheeler e i testi delle canzoni dello spesso Sondheim, la prima avviene all’Uris Theatre (ora Gershwin Theatre) di New York il 1° marzo 1979. A seguito del successo, da Broadway Sweeney Todd arriva anche nel West End londinese l’anno successivo.

Il lavoro per molti aspetti si avvicina al genere dell’opera lirica: l’argomento drammatico, il finale tragico, la presenza di temi conduttori che rafforzano l’unità, la mancanza di balletti veri e propri, l’orchestrazione non solo di arie, duetti e ensemble, ma anche di molti dialoghi tra i numeri musicali. In totale oltre l’80% del testo di Sweeney Todd è musicato, comprese le transizioni orchestrali tra certe scene. Quello che ne deriva è un musical thriller declinato in diversi registri: il tragico, il grottesco, il satirico, l’umorismo nero, il grand-guignol, il dramma psicologico, la commedia romantica… L’ossessione vendicatrice che consuma il personaggio principale si traduce con il ritorno inesorabile della “ballad of Sweeney Todd” intonata più volte dal coro, la prima volta come ouverture e l’ultima come epilogo, in modo analogo al teatro epico di Kurt Weill e Bertolt Brecht in Die Dreigroschenoper (L’opera da tre soldi) a cui sembra maggiormente ispirarsi Sondheim. In questa leggenda nera il tema angoscioso della ballata col suo cupo, lugubre e ripetitivo ritorno evoca la meccanicità degli assassinii di Sweeney nella sua implacabile voglia vendicatrice. In tal modo la “dark operetta” di Sondheim assume una portata tragica e universale. Nel 2007 ne esce la versione cinematografica di Tim Burton con Johnny Depp e Helena Bonham Carter.

Creata nel novembre 2024 alla Komische Oper di Berlino, non è certo la prima incursione di Barrie Kosky nel genere: A Fiddler on the Roof e West Side Story sono state entrambe già presentate sul palcoscenico alsaziano. Questa terza produzione coniuga perfettamente la teatralità e lo humour del regista australiano-tedesco che vi spiega la sua vena migliore. Con le semplici scenografie, una costruzione su una piattaforma rotante, e i costumi di Katrin Lea Tag e le luci di Olaf Freese, Londra qui diventa una triste e depressa città del Novecento, più espressionista che vittoriana. Uno scenario dove si svolge il dramma solitario del protagonista, vittima di una società oppressiva. Nella lettura di Kosky il crescendo macabro diventa un irresistibile pezzo di teatro, una tragedia di marionette dove la bravura degli interpreti ben si adatta allo dark humour del testo. Se la vicenda del barbiere e della pupilla del vecchio che la vuole impalmare non può non richiamare quella del Barbiere di Siviglia, Kosky suggerisce anche Hänsel und Gretel per la faccenda del forno in cui viene alla fine cotta anche Mrs. Lovett.

Se la prima produzione americana aveva Angela Lansbury com eprotagonista femminile e quella berlinese di Kosky la localmente popolare Dagmar Manzel, entrambe attrici dunque, qui a Strasburgo si è optato per una cantante come Natalie Dessay che aveva iniziato la sua carriera come attrice per poi diventare il soprano coloratura più acclamato dagli anni ’90 fino al suo ritiro dalle scene dei teatri d’opera nel 2013, quando ha continuato la sua attività artistica in forma di recital o in ruoli vocalmente non impegnativi. Come questo in cui riversa tutta la sua irresistibile verve per renderci simpatica la pasticciera di Fleet Street a cui dà un tono deliziosamente surreale, come nel duetto che conclude il primo atto in cui si discutono le qualità delle carni delle varie professioni: «How about rear Admiral? Too salty, I prefer General…».

Il baritono Scott Hendricks interpreta il demoniaco barbiere con misura, lasciando alle parole il loro forte impatto. Il ruolo non è particolarmente esigente dal punto di vista vocale, ma la complessa psicologia del personaggio richiede comunque una certa varietà di espressioni che il cantante texano risolve efficacemente. Più adatte al musical sono le voci di Noah Harrison (Anthony), Cormac Diamond (Tobias), entrambi giovani e perfettamente a loro agio si anella vocalità richiesta che nelle doti attoriali. Agli estremi della gamma le voci di Marie Oppert, fresca e lirica Johanna, e del profondo basso Zachary Altman, il turpe giudice Turpin. La mendicante e Pirelli sono i personaggi più sopra le righe, perfettamente inquadrati da Jasmine Roy e Paul Curievici. Il bravo coro del teatro, diretto da Hendrik Haas, con le sue individualità forma la folla brulicante della città. Alla testa dell’orchestra Philharmonique di Strasburgo Bassem Akiki esalta la qualità sinfonica di una partitura pregevole per scrittura, efficacia drammatica e, non ultima, orecchiabilità dei songs, tra cui il famoso “Not while I’m around” che quando è ripreso da Mrs. Lovett, dopo che l’ha cantata Tobias, assume un tono sinistro abilmente costruito dalle nuove armonie musicali.

Grande il successo e insistenti chiamate da parte del numeroso pubblico accorso alla prima. Ancora sei repliche qui a Strasburgo e altre due a Mulhouse. Oltre che con Berlino lo spettacolo è prodotto con l’opera di Helsinki.

(1) Antefatto. Un tempo Benjamin Barker era uno spensierato barbiere di Londra, sposato con la bella Lucy e padre orgoglioso della piccola Johanna. Ma anche il giudice Turpin aveva messo gli occhi su Lucy. Fece condannare ingiustamente Barker e lo fece esiliare. Durante l’esilio di Barker, Turpin violentò Lucy, che poi si avvelenò. Da quel momento Johanna cresce sotto il controllo di Turpin.
Atto I. Il giovane marinaio Anthony Hope e il misterioso Sweeney Todd, che Anthony ha da poco salvato in mare e con cui ha fatto amicizia, attraccano a Londra. Una mendicante li adesca sessualmente, sembrando riconoscere Todd per un momento, e Todd la caccia via. Todd racconta in modo obliquo ad Anthony alcuni aspetti del suo passato travagliato. Lasciato Anthony, Todd entra in un negozio di pasticci di carne in Fleet Street, dove la proprietaria, la vedova Mrs. Lovett, si lamenta della scarsità di carne e di clienti. Quando Todd chiede informazioni sull’appartamento vuoto al piano superiore, la signora rivela che il precedente inquilino, Benjamin Barker, è stato condannato all’ergastolo con false accuse dal giudice Turpin, il quale, insieme al suo servitore, Beadle Bamford, ha poi attirato la moglie di Barker, Lucy, a un ballo in maschera a casa del giudice e l’ha violentata. La reazione di Todd rivela che lui stesso è Benjamin Barker. Promettendo di mantenere il segreto, la signora Lovett spiega che Lucy si è avvelenata con l’arsenico e che la loro figlia neonata, Johanna, è diventata la pupilla del giudice. Todd giura vendetta al Giudice e al Maggiordomo, e la signora Lovett regala a Todd la sua vecchia collezione di rasoi d’argento, convincendo Todd a riprendere la sua vecchia professione. Altrove, Anthony spia una bella ragazza che canta alla sua finestra e la mendicante gli dice che il suo nome è Johanna. Ignorando che Johanna è la figlia del suo amico Todd, Anthony se ne invaghisce immediatamente e si impegna a tornare per lei, anche dopo che il giudice e il maggiordomo lo minacciano e lo scacciano. Nell’affollato mercato londinese, il barbiere italiano Adolfo Pirelli e il suo giovane assistente sempliciotto Tobias Ragg propongono una drammatica cura per la caduta dei capelli. Todd e Lovett arrivano presto; come parte del suo piano per stabilire la sua nuova identità, Todd smaschera l’elisir come una finzione, sfida Pirelli a una gara di rasatura e vince facilmente, invitando l’impressionato Beadle per una rasatura gratuita. Alcuni giorni dopo, il giudice Turpin si flagella in preda a un raptus di desiderio per Johanna, ma decide di sposarla lui stesso. Todd attende l’arrivo del maggiordomo con crescente impazienza, ma la signora Lovett cerca di calmarlo. Quando Anthony comunica a Todd il suo progetto di chiedere a Johanna di fuggire con lui, Todd, desideroso di ricongiungersi con la figlia, accetta di fargli usare la sua barberia come rifugio. Quando Anthony se ne va, entrano Pirelli e Tobias e la signora Lovett porta Tobias al piano di sotto a mangiare una torta. Da solo con Todd, Pirelli abbandona il suo accento italiano e rivela di essere in realtà l’ex assistente di Benjamin Barker. Conosce la vera identità di Todd (avendo riconosciuto gli illustri strumenti da barba di Barker durante la loro precedente competizione) e pretende metà del suo guadagno a vita. Todd uccide O’Higgins tagliandogli la gola e ne nasconde temporaneamente il corpo. Nel frattempo, Johanna e Anthony pianificano la loro fuga d’amore, mentre il Maggiordomo raccomanda al Giudice i servizi di toelettatura di Todd, affinché questi possa conquistare meglio l’affetto di Johanna. In preda al panico, dopo aver appreso dell’omicidio di Pirelli, la signora Lovett gli ruba il portamonete rimasto e chiede a Todd come intende disfarsi del corpo. All’improvviso, entra il giudice; Todd lo fa accomodare rapidamente e lo culla con una conversazione rilassante. Prima che Todd possa uccidere il giudice, però, Anthony rientra e spiattella il suo piano di fuga. Il giudice infuriato se ne va, giurando di non tornare mai più e di mandare via Johanna. Todd scaccia Anthony in preda alla furia e, ricordando il male che vede a Londra, decide di spopolare la città uccidendo i suoi futuri clienti, poiché tutte le persone meritano di morire: i malvagi per essere puniti per le loro azioni e gli “altri” per essere sollevati dalla loro miseria. Mentre si discute su come disfarsi del corpo di Pirelli, la signora Lovett viene colpita da un’idea improvvisa e suggerisce di usare i corpi delle vittime di Todd per i suoi pasticci di carne, e Todd accetta volentieri.
Atto II. Alcune settimane dopo, la pasticceria della signora Lovett è diventata un’attività di successo e Tobias vi lavora come cameriere. Le torte sono molto apprezzate. Todd ha acquistato una speciale sedia da barbiere meccanica che gli permette di uccidere i clienti e poi di inviare i loro corpi direttamente attraverso uno scivolo nel forno del seminterrato della pasticceria. Tagliando in modo seriale il collo dei suoi clienti, Todd dispera di poter vedere Johanna, mentre Anthony la cerca a Londra e la trova rinchiusa in un manicomio privato, ma sfugge per un pelo all’arresto da parte di Beadle. Dopo una giornata di duro lavoro, mentre Todd rimane fissato con la sua vendetta, Mrs. Lovett pensa di fuggire con Todd e di ritirarsi al mare. Anthony arriva a supplicare Todd di aiutarlo a liberare Johanna e Todd, rivitalizzato, incarica Anthony di salvarla fingendosi un parrucchiere intenzionato a comprare i capelli delle detenute. Tuttavia, una volta partito Anthony, Todd invia una lettera in cui informa il Giudice che Anthony porterà Johanna al suo negozio subito dopo il tramonto e che gliela consegnerà per attirarlo nuovamente al negozio. Nella pasticceria, Tobias racconta alla signora Lovett il suo scetticismo nei confronti di Todd e il suo desiderio di proteggerla. Quando riconosce il portamonete di Pirelli nelle mani della signora Lovett, quest’ultima lo distrae mostrandogli la pasticceria, istruendolo sul funzionamento del tritacarne e del forno prima di chiuderlo dentro. Al piano superiore, la signora Lovett incontra Beadle all’armonium; questi è stato incaricato dai vicini di Lovett di indagare sullo strano fumo e sulla puzza che provengono dal camino della pasticceria. La signora Lovett prende tempo con canzoni da salotto finché Todd non torna per offrirgli la promessa rasatura gratuita; la signora Lovett suona ad alta voce l’armonium per coprire le urla del maggiordomo mentre Todd lo elimina. Nel seminterrato, Tobias scopre capelli e unghie in una torta che stava mangiando, proprio mentre il cadavere fresco del Maggiordomo precipita dallo scivolo. Terrorizzato, fugge nelle fogne sotto il forno. La signora Lovett informa Todd che Tobias ha scoperto il loro segreto e complottano per ucciderlo. Anthony arriva al manicomio per salvare Johanna, ma viene smascherato quando Johanna lo riconosce. Anthony estrae una pistola datagli da Todd, ma non riesce a sparare al corrotto proprietario del manicomio; Johanna afferra la pistola e lo uccide. Mentre Anthony e Johanna fuggono, i detenuti liberati del manicomio profetizzano la fine del mondo, mentre Todd e la signora Lovett vanno a caccia di Tobias nelle fogne e la mendicante teme che fine abbia fatto Beadle. Una volta fatto sedere il Giudice, Todd lo tranquillizza con un’altra conversazione sulle donne, ma questa volta allude ai loro “gusti comuni, almeno in fatto di donne”. Il Giudice lo riconosce come Benjamin Barker poco prima che Todd gli tagli la gola e lo faccia precipitare nello scivolo. Ricordandosi di Tobias, Todd fa per andarsene ma, accortosi di aver lasciato il rasoio, torna indietro proprio quando Johanna, travestita, esce inorridita dal baule. Non riconoscendola, Todd tenta di ucciderla, proprio mentre la signora Lovett grida dal forno sottostante, fornendo un diversivo per la fuga di Johanna. Al piano di sotto, la signora Lovett sta lottando con il Giudice morente, che si aggrappa al suo vestito. Cerca quindi di trascinare il corpo della mendicante nel forno, ma Todd arriva e, attraverso un fascio di luce, vede per la prima volta chiaramente il volto senza vita: la mendicante era sua moglie Lucy. Inorridito, Todd accusa la signora Lovett di avergli mentito. La signora Lovett nega freneticamente, spiegando che Lucy si è effettivamente avvelenata, ma è sopravvissuta, anche se il tentativo l’ha resa folle. La signora Lovett dice poi a Todd che lo ama e che sarebbe stata una moglie migliore di quanto Lucy avrebbe mai potuto essere. Todd finge di perdonare e balla maniacalmente con Mrs. Lovett, finché non la getta nel forno, bruciandola viva. Pieno di disperazione e sotto shock, Todd abbraccia Lucy morta. Tobias, ormai pazzo e con i capelli diventati bianchi, striscia fuori dalle fogne balbettando filastrocche tra sé e sé. Raccoglie il rasoio di Todd caduto e gli taglia la gola. Mentre Todd cade morto e Tobias lascia cadere il rasoio, Anthony, Johanna e alcuni agenti irrompono nel forno. Tobias, incurante di loro, inizia a far girare il tritacarne, cantando le precedenti istruzioni della signora Lovett .

Il nome della rosa

foto © Brescia e Amisano

Francesco Filidei, Il nome della rosa

Milano, Teatro alla Scala, 3 maggio 2025

★★★★☆

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Il medioevo di Eco diventa opera in musica

Alla Scala debutta Il nome della rosa di Francesco Filidei, monumentale opera tratta da Eco e diretta da Ingo Metzmacher. Due atti e 24 scene per un labirinto sonoro tra gregoriano e contemporaneità, più affascinante che narrativo. Michieletto firma una regia visionaria di grande impatto visivo. Cast eccellente, applausi prolungati per un raro trionfo dell’opera contemporanea.

Si discusse molto a suo tempo, parliamo del 1980, dell’inaspettato successo del primo romanzo di Umberto Eco, Il nome della rosa – un thriller medievale zeppo di citazioni in latino e altre lingue, discussioni filosofiche e teologiche, digressioni iper-erudite e un’ambientazione severa e claustrofobica – che aveva conquistato milioni di lettori in tutto il mondo e che sarebbe diventato un film, una serie televisiva, una graphic novel, un videogame… 

Il passaggio ora a opera lirica si deve al compositore Francesco Filidei, pisano del 1973 residente a Parigi, e allo scrittore Stefano Busellato con cui hanno collaborato Hannah Dübgen e Carlo Pernigotti. Si tratta di una commissione del teatro milanese in coproduzione con Genova e Parigi. Nella capitale oltralpe andrà in scena nella versione francese fra tre anni. 

“Libero adattamento” del testo di Umberto Eco, il poderoso libretto rimane comunque molto fedele all’originale con il suo multilinguismo, il carattere polifonico, le innumerevoli citazioni, i lunghi elenchi. Invece della scansione secondo le ore liturgiche della giornata del libro, qui la vicenda si svolge su una griglia temporale di sette giorni, dall’arrivo di Guglielmo di Baskerville nell’abbazia guidata da Abbone da Fossanova, per mediare l’incontro di una delegazione papale ma che si trova invece a indagare sulle misteriose morti di vari monaci, alla sua partenza dopo l’incendio della biblioteca.

Prologo. Il vecchio Adso da Melk ripensa a un episodio vissuto in gioventù quando, ancora novizio, era diventato discepolo del dotto francescano Guglielmo da Baskerville, la cui missione gli era inizialmente ignota. Siamo nel 1327, al tempo della cattività avignonese, in un contesto segnato da forti tensioni tra Ludovico di Baviera e papa Giovanni XXII. Guglielmo è stato inviato dall’imperatore a mediare un incontro con una delegazione papale, previsto nell’abbazia guidata da Abbone da Fossanova. Mentre i due sono in viaggio, in una cella dell’abbazia il giovane miniatore Adelmo da Otranto supplica invano Jorge da Burgos, vecchio monaco cieco, di assolverlo dai suoi peccati. Sul sentiero che conduce all’abbazia, Guglielmo e Adso incontrano il cellario Remigio da Varagine, che rimane sbalordito dalle capacità deduttive del frate, in grado di intuire che il cavallo dell’abate è fuggito poco prima.
Atto I. Primo giorno. Giunti all’abbazia, Adso contempla il portale della chiesa, dove Cristo in trono è circondato dai quattro animali terribili e dai ventiquattro vegliardi, come descritto nell’Apocalisse di Giovanni. All’improvviso, alle sue spalle, compare Salvatore, un monaco deforme, che esclama “Penitenziagite”, detto che insospettisce subito Guglielmo per l’uso che ne facevano i dolciniani, eretici seguaci del temibile Fra Dolcino. Abbone accoglie i due ospiti e chiede a Guglielmo di aiutarlo a risolvere il mistero della morte di Adelmo, il cui corpo è stato ritrovato in una scarpata. Guglielmo sarà libero di interrogare i monaci e di indagare in tutta l’abbazia, tranne che nella celebre biblioteca, il cui accesso è riservato al bibliotecario Malachia e al suo assistente Berengario da Arundel. Nello scriptorium, Guglielmo scorre con Berengario il catalogo della biblioteca e si sofferma su un segno a forma di “F”. Malachia mostra al frate i fantasiosi e divertenti marginalia realizzati da Adelmo, ma Jorge interviene severamente inveendo contro il riso. Ne segue una discussione tra il vecchio monaco e Guglielmo alla quale prende parte anche il traduttore Venanzio, che fa riferimento alla seconda parte della Poetica di Aristotele, dedicata alla commedia. Guglielmo comincia a sospettare che Adelmo si sia suicidato. Durante la notte, Salvatore conduce di nascosto nelle cucine una ragazza del villaggio, che si concede a Remigio in cambio di un involucro di frattaglie. Poco dopo, Venanzio entra agonizzante con un libro in mano e muore; Berengario trova il corpo e lo porta via. Secondo giorno. In chiesa Adso avverte il richiamo della statua della Vergine e si raccoglie in preghiera. Mentre i monaci intonano un inno, alcuni porcai irrompono terrorizzati: un corpo è stato rinvenuto in un orcio colmo del sangue dei maiali. È il cadavere di Venanzio. I monaci, sconvolti, iniziano a collegare le morti alle sette trombe dell’Apocalisse. Esaminando il corpo insieme all’erborista Severino, esperto di veleni, Guglielmo nota che le dita del traduttore sono macchiate di nero. In seguito, interroga Berengario sulla notte in cui Adelmo è morto e intuisce che questi gli stia nascondendo qualcosa sul loro rapporto. Guglielmo decide che con il calare della notte entrerà nella biblioteca insieme a Adso. Berengario si trova nello scriptorium intento a leggere un libro, quando sente arrivare Guglielmo e Adso: si nasconde con il volume ma perde una pergamena con delle annotazioni in greco. Prima di allontanarsi riesce a sottrarre gli occhiali di Guglielmo. Avvicinando una lanterna, Guglielmo e Adso vedono affiorare dei simboli, che si collegano alla “F” notata quella mattina: Secretum finis Africae. Entrati nella biblioteca, i due osservano che ogni stanza reca un cartiglio con versi tratti dall’Apocalisse. A un certo punto si ritrovano davanti a uno specchio deformante: è la porta del finis Africae, ma non sanno ancora come aprirla. Usciti dalla biblioteca, Abbone comunica che Berengario è scomparso. Terzo giorno. Il corpo di Berengario viene ritrovato nei balnea, dove è annegato. Esaminandolo insieme a Severino, Guglielmo nota ancora che le dita sono annerite, come la lingua: con ogni probabilità si tratta di un veleno. Severino ricorda che, tempo prima, dal suo laboratorio era scomparsa un’ampolla contenente una sostanza pericolosa. Guglielmo ritrova i suoi occhiali nel saio di Berengario. Nel frattempo, all’abbazia giunge la delegazione papale. Nelle cucine il cuciniere si scaglia contro Salvatore che, come suo solito, è intento a rubare del cibo. Fa il suo ingresso l’inquisitore Bernardo Gui, a capo della delegazione avignonese. L’abate ha appena incaricato anche lui di indagare sui delitti che sconvolgono il monastero. Adso, incuriosito dalla vicenda di Fra Dolcino, si avventura da solo nella biblioteca per cercare informazioni e finisce per avere una visione. Poco dopo incontra la ragazza del villaggio e si unisce a lei. Al risveglio, lei è scomparsa. Accanto a sé Adso trova un cuore e sviene per lo spavento.
Atto II. Quarto giorno. Adso confessa a Guglielmo di aver violato i voti di castità, ma il frate si mostra comprensivo e intuisce che la ragazza viene sfruttata da Remigio e Salvatore. Decide quindi di interrogarli. Adso sorprende Salvatore mentre prepara un incantesimo d’amore, mentre Guglielmo riesce a ottenere da Remigio la confessione di essere stato un seguace di Fra Dolcino. Salvatore e la ragazza vengono colti sul fatto mentre il monaco sta per compiere il suo rito magico. Bernardo Gui li accusa immediatamente di stregoneria. Adso teme per la vita della ragazza e si dispera. Quinto giorno. Nella sala capitolare si riuniscono le due delegazioni: da una parte i francescani legati all’imperatore, dall’altra Bernardo Gui con i delegati papali. La disputa verte sulla povertà di Cristo, fermamente sostenuta dai francescani e respinta dal papa: una questione cruciale, da cui dipende se la Chiesa abbia o meno il diritto di esercitare il potere sulle cose terrene. La discussione degenera presto in una rissa. Nella confusione, Severino si avvicina a Guglielmo e gli sussurra di aver trovato uno strano libro; poi si ritira nel suo laboratorio, dove viene raggiunto da Malachia, che lo uccide colpendolo alla testa con una sfera armillare, e fugge con il volume. Poco dopo Remigio, preoccupato che Severino possa aver scoperto alcune sue carte compromettenti, entra nel laboratorio ignaro dell’omicidio appena avvenuto, quando tutti accorrono nella stanza e lo trovano sulla scena del delitto. Durante il processo, Bernardo Gui accusa Remigio sia di eresia sia di essere l’autore di tutti gli omicidi, chiamando a testimoniare Salvatore e Malachia. Temendo la tortura, Remigio confessa ogni cosa. Per Gui condannarlo al rogo rappresenta una vittoria anche politica: in questo modo, riesce ad associare al mondo dell’eresia la delegazione francescana, e quindi l’imperatore. Sesto giorno. In chiesa, durante l’ufficio dei morti, Adso si addormenta e ha una visione, interrotta dalle grida dei monaci poiché Malachia muore all’improvviso, avvelenato dal “potere di mille scorpioni”. È evidente che l’assassino è ancora in circolazione. Abbone ha un colloquio con Guglielmo e lo accusa di avere fallito, ma il frate ha capito che la chiave delle morti sta nel furto di un libro proibito nascosto nel finis Africae. Guglielmo deve andarsene l’indomani: le legazioni hanno lasciato l’abbazia e la sua missione è terminata, ma vuole entrare in biblioteca un’ultima volta. Di fronte alla porta-specchio, grazie a un’intuizione di Adso, Guglielmo riesce finalmente a entrare. Settimo giorno. Jorge li sta attendendo, mentre dietro il muro si sentono i colpi disperati di Abbone, che muore asfissiato in un passaggio segreto che conduce alla biblioteca. È Jorge l’assassino: ha ucciso per impedire la divulgazione dell’unica copia superstite della seconda parte della Poetica di Aristotele. Non c’era alcuno schema legato alle trombe dell’Apocalisse: Jorge voleva semplicemente impedire che il grande filosofo allontanasse gli uomini dalla paura del peccato: per questo ha avvelenato le pagine del libro. In preda al delirio, il vecchio strappa le pagine del manoscritto e inizia a divorarle. Guglielmo e Adso si lanciano su di lui, Jorge getta la lanterna tra i volumi e dà fuoco alla biblioteca. Ultimo folio. Nessuno riesce a fermare l’incendio, e l’intera abbazia va in fiamme. Dopo aver lasciato quel luogo, Guglielmo e Adso si separano, e il frate dona al discepolo i suoi occhiali. Il vecchio Adso ricorda di essere tornato, anni dopo, a visitare le rovine dell’abbazia: tra le macerie scorge ciò che resta della statua della Vergine, e il pensiero corre all’unico amore terreno della sua vita, di cui non saprà mai il nome.

A parte i comuni studi di filosofia, una strana coincidenza unisce Filidei a Eco: come rivela il compositore stesso nell’intervista rilasciata a Stéphane Lelièvre su premiereloge-opera.com, il nome Filidei (figli di Dio) era dato ai trovatelli, così come quello di Eco, le cui lettere rappresentavano le iniziali dell’espressione “ex coelis oblatus” (dato dal cielo).

Filidei si è dichiarato certo che la forma operistica può rendere al meglio il complesso mondo creato da Eco e spiega così la scelta di far cantare i personaggi: «Siamo in un’abbazia, luogo che si vuole di preghiera: chi dice preghiera dice canto, e nello specifico canto gregoriano, un canto talmente antico da risultare ormai atemporale, nel quale ho fatto scivolare elementi barocchi, ottocenteschi, contemporanei».

Terzo lavoro per il teatro dopo Giordano Bruno e L’inondation – al Carlo Felice qualche anno fa a Pagliacci di Leoncavallo era stata abbinata la composizione di Filidei Sull’essere angeli per flauto e orchestra – Il nome della rosa segue una struttura molto precisa: due atti suddivisi in un prologo e 24 scene, una per ogni grado della scala cromatica, ascendente per le scene pari (do-do ♯-re-mi ♭…), discendente per quelle dispari (do-si-si♭…), il tutto simmetricamente ripetuto nel secondo atto. Le scene si alternano quindi su intervalli sempre più ampi, per poi convergere nel finale “ultimo folio” sulla nota di partenza, a formare in tal modo una struttura a specchio che graficamente ricorda sia una rosa sia un labirinto (1). Una struttura “a ventaglio” già sperimentata nel Giordano Bruno ma presente anche nel Cantico delle creature per soprano e orchestra, un lavoro di Filidei del 2023 che può essere considerato un cartone preparatorio a Il nome della rosa sia per l’argomento – il Cantico è il manifesto teologico dell’ordine francescano, impersonato nel romanzo da Guglielmo da Baskerville in contrasto con lo spietato dogmatismo dell’inquisitore domenicano Bernardo Gui – sia nella forma: anche nel Cantico, infatti, le tredici strofe sono musicate in sequenza dal fa♯ fino alla stessa nota dell’ottava inferiore, con al centro la nota do, in modo da formare l’intervallo più dissonante, il “diabolus in musica”, nella strofa di «frate focu», quel fuoco che ne Il nome della rosa brucia la biblioteca…

La partitura è imponente, 15 chili di peso ha fatto notare Ingo Metzmacher che la esegue. Direttore quanto mai avvezzo alla musica contemporanea – oltre ad aver diretto opere di Walter Braunfels, Franz Schreker, Bernd Alois Zimmermann, Dmitrji Šostakovič, Wolfgang Rihm, Olivier Messiaen, Hans Werner Henze o Harrison Birtwistle – ha scritto anche due libri, Non aver paura dei nuovi suoni e Si alza il sipario! Scoprire e vivere l’opera, che certificano la sua passione. E di passione occorre averne tanta per affrontare per la prima volta una partitura di oltre 800 pagine irta di difficoltà. Filidei aspira a ricomporre la frattura avvenuta nel secondo Novecento tra musica colta e musica popolare, tra Nono e Sanremo, come dice il compositore stesso: ecco allora l’uso di un linguaggio musicale che non preclude un livello di comprensione immediato ma che conduce a livelli di complessità crescente. La musica de Il nome della rosa si rivela spesso illustrativa, segue ogni minimo dettaglio del testo con immagini sonore che affiorano in coincidenza ad ogni parola del libretto: si parla di cavallo e si ode un nitrito; si maneggiano volumi e si sente il fruscio delle pagine; siamo nel refettorio e allora ecco il rumore di piatti e stoviglie. Il tutto è reso dagli strumenti comuni anche se talora suonati in maniera inedita, ma soprattutto da un imponente set di strumenti tradizionali e oggetti vari nelle mani di ben cinque percussionisti.

Le parti vocali fanno riferimento al melodizzare tipico del gregoriano, ma ogni personaggio ci appare diverso perché il suo canto è accompagnato da un’orchestra che raddoppia le linee vocali con strumenti sempre differenti. Ma è spesso diverso anche lo stile di canto: quello di Guglielmo è un declamato che sfocia spesso nel parlato; molto virtuosistico quello di Berengario, affidato alla tessitura di un controtenore; aereo e sensuale quello della Ragazza del villaggio; quasi da basso buffo quello di Abbone da Fossanova; unico nel suo genere quello di Salvatore. Un coro esprime i pensieri di Adso da vecchio e un coro misto con voci bianche le citazioni in latino. Il risultato è quello di un’opera-oratorio solenne ma in cui manca la tensione narrativa, nonostante la vicenda sia da thriller. Le situazioni rimangono in uno stato di abbozzo, la frammentazione delle scene e le continue digressioni non consentono un coinvolgimento emotivo del pubblico che per di più è provato da un libretto di eccessiva lunghezza, nonostante i tagli ai personaggi e alle situazioni dell’originale – ma là si trattava di un libro e quello che funziona in romanzo di 500 pagine, dove i tempi di fruizione sono decisi dal lettore, non è detto che funzioni in uno spettacolo di tre ore. Rimane la piacevolezza di certi momenti, come il finale primo con il rapinoso duetto carnale, la divertente e falstaffiana disputa teologica che degenera in rissa o la varietà degli stili di canto – i densi recitativi, le linee melodiche ora sinuose ora severe del gregoriano, i madrigalismi, le audaci colorature – affidato a un cast di eccellenze dove sono inserite anche voci femminili: non solo quella di Katrina Galka, sensuale Ragazza del villaggio e statua della Vergine dagli eterei vocalizzi, o del novizio Adso, la cui giovinezza è interpretata come sempre con intelligenza da Kate Lindsey, ma anche dall’Inquisitore Bernardo Guy, una sorprendente e irriconoscibile Daniela Barcellona. E c’è pure il personaggio di Ubertino da Casale con la voce di Cecilia Bernini.


Lucas Meachem dà autorità vocale e presenza scenica a Guglielmo da Baskerville, Gianluca Buratto è parimenti convincente come l’invasato Jorge da Burgos, Roberto Frontali un eccezionale Salvatore, il bravissimo Giorgio Berrugi è Remigio da Varagine, Fabrizio Beggi l’austero abate. Due le voci di controtenori: Owen Willetts, il bibliotecario Malachia, assassino a sua volta assassinato, e Carlo Vistoli in due parti brevi ma impegnative, soprattutto quella di Berengario di Arundel prima e poi di Adelmo da Otranto, precisissimo ed efficace in entrambe. Anche Leonardo Cortellazzi interpreta due personaggi (Venanzio e Alborea), così come Adrien Mathonat (Un cuciniere e Girolamo Vescovo di Caffa). Per compleatre il lungo elenco rimangono da citare Paolo Antognetti (Severino da Sant’Emmerano), Flavio d’Ambra (Michele da Cesena), Ramtin Ghazavi (Cardinale Bertrando) e Alessandro Senes (Jean d’Anneaux), questi ultimi tre artisti del coro del teatro. I coro sterminato sostiene con onore buona parte della parte vocale sotto la guida sapiente di Alberto Malazzi, Giorgio Martano e Bruno Casoni.

Questo progetto scaligero ha messo insieme le energie di molti artisti: compositore, librettisti e regista, qui Damiano Michieletto con il suo magic team formato dallo scenografo (ma nel suo caso è termine molto riduttivo) Paolo Fantin, che inventa un mondo visivo di enorme suggestione; la costumista Carla Teti che magari non con gli abiti dei monaci ma con quelli dei personaggi fantastici dimostra la sua genialità; le luci sempre efficaci di Fabio Barettin. Con la drammaturgia di Mattia Palma e le coreografie di Erika Rombaldoni si completa l’insieme degli artefici di una messa in scena che vede una sequenza di prodigi visivi: il labirinto di veli bianchi sospesi e luci al neon con al centro una croce che prenderà fuoco nel finale; l’abbazia stessa con le pareti nere e il coro sistemato in alto a darle voce; un poderoso bassorilievo groviglio di corpi che si frantuma e da cui escono uomini nudi mentre il coro scandisce l’Apocalisse di Giovanni con la resurrezione della carne; il capolettera miniato con un caprone che suona il violino che si anima; bestiari che prendono vita materializzandosi sulla scena; scorpioni che strisciano su una parete di luce. Michieletto si immerge nello spirito medievale con fantasia e perfezione tecnica, ma c’è un particolare che colpisce: il coro sulla balconata in alto è visibile solo per le teste dei coristi sul fondo nero, ma le pagine degli spartiti quando vengono girate formano delle ondate di bianco che seguono l’ordine di entrata delle voci. Un effetto molto suggestivo che sembra anche suggerire la lettura de Il nome della rosa di Filidei: questa è un’opera-oratorio, la drammaturgia è quella che è, lasciamoci catturare dalle immagini. Come avveniva nei codici miniati medievali.

Alla fine, gli oltre dieci minuti di applausi confermano l’interesse del pubblico per questa operazione così fortemente voluta dalla Scala che ha fatto un eccezionale lavoro di comunicazione, tale da rendere un evento di nicchia come il debutto di un’opera contemporanea uno spettacolo imperdibile, tanto da esaurire fin dall’inizio tutti i posti disponibili. Chi l’avrebbe detto che nella patria di Verdi e Puccini un’opera di oggi potesse avere tanto successo?

(1) Questo lo schema fornito dal compositore: 

Der Prozess

Gottfried von Einem, Der Prozess

Vienna, Theater an der Wien, 12 dicembe 2024

★★★★☆

(video streaming)

Kafka in musica

Gottfried von Einem nasce a Berna il 24 gennaio 1918 in una famiglia di diplomatici austriaci di grande nobiltà. Cresciuto nello Schleswig-Holstein prussiano, dopo le scuole secondarie nel 1937 si reca a Berlino per studiare musica con Paul Hindemith, il quale tuttavia si era appena dimesso per protesta contro le autorità naziste. Nel 1941 inizia a prendere lezioni di contrappunto con Boris Blacher e in quel periodo risale la composizione della sua prima opera, Prinzessin Turandot, un balletto iniziato su suggerimento di Werner Egk.

Durante la Seconda Guerra Mondiale Einem aiuta a salvare la vita e la carriera del giovane musicista ebreo Konrad Latte, assumendolo come assistente alle prove della Prinzessin Turandot e aiutandolo in seguito a ottenere altri impieghi. Nel 1943 si trasferisce in Austria e attraverso Blacher, Einem conosce la sua prima moglie, Lianne Mathilde von Bismarckche. Lianne muore nel 1962 e nel 1966 Einem sposa Lotte Ingrisch, la librettista delle sue ultime tre opere. Il compositore muore il 12 luglio 1996.

Einem ha composto principalmente musica per teatro e la sua attività operistica, coronata da grandi successi, risente di un numero eterogeneo di influenze. Compositore molto eclettico, si è dedicato ai più diversi generi musicali. Le sue otto opere sono tratte da Büchner (Dantons Tod), Nestroy (Der Zerrissene), Dürrenmat (Der Besuch der alten Dame), Schiller (Kabale und Liebe) e da Kafka. Der Prozess è un’opera in due parti (nove scene) su libretto scritto da Boris Blacher insieme a Heinz von Cramer e presentata in prima mondiale il 17 agosto 1953 al Festival di Salisburgo sotto la direzione di Karl Böhm e la messa in scena di Oscar Fritz Schuh.

Parte prima. Quadro I: L’arresto. Due stanze. Una mattina, l’impiegato di banca Josef K. viene dichiarato in arresto da due uomini senza che gli venga spiegato il motivo di questo provvedimento. Tuttavia, gli viene anche detto che può ancora svolgere il suo lavoro e muoversi liberamente fino a nuovo ordine. Da quel momento in poi, Josef K. soffre di angoscia mentale perché non si rende conto di ciò che può aver fatto. Quadro II: la signorina Bürstner. Due stanze. Dopo il lavoro, Josef K. va a trovare la sua vicina, la signorina Bürstner, e le racconta del suo strano arresto. Si siede al tavolo e inizia a prendere appunti. Quando bussano alla porta, la signorina Bürstner cerca di convincere l’ospite non invitato a lasciare la stanza. Lui le stampa un bacio appassionato sulle labbra. Quadro III: La convocazione. Strada. Di notte, Josef K. fa una passeggiata in strada. Si sente minacciato da forze invisibili. Uno sconosciuto gli passa accanto senza dire una parola, ma poi si volta e gli spiega che sabato prossimo ci sarà una piccola indagine sul suo caso. Non deve mancare all’appuntamento per nessun motivo. Quadro IV: Prima indagine. Soffitta. Solo con difficoltà e con un’ora di ritardo Josef K. trova il tribunale, che si trova in una soffitta. Gli spettatori attendono con ansia l’inizio del processo. Josef K. protesta rabbiosamente che il tribunale lo sta trattando in modo molto superficiale. Tra il pubblico c’è uno studente che improvvisamente si avvicina in modo indecente alla moglie dell’ufficiale giudiziario. Il giudice istruttore interrompe l’udienza e si ritira con i suoi assessori. La donna molestata assicura a Josef K. che farà tutto il possibile per aiutarlo. Non appena ha parlato, lo studente le si avvicina di nuovo e la porta via. Quando l’indagine sul caso deve essere proseguita, Josef K. maledice l’Alta Corte e fugge.
Parte Seconda. Quadro V: Il battitore. Corridoio. Dal corridoio, in una stanza scarsamente illuminata, Josef K. scopre i due uomini che lo avevano da poco informato del suo arresto. Su entrambi è in corso un pestaggio. Josef K. crede che questo sia il risultato della sua denuncia su questi uomini. Improvvisamente, il passante dell’altro giorno scende le scale e gli ordina di recarsi immediatamente all’ufficio del tribunale. Quadro VI: L’avvocato. Due stanze. Josef K. viene condotto dallo zio Albert da un vecchio avvocato che gode di una buona reputazione, ma invece di interrogare Josef K., l’avvocato preferisce chiacchierare con lo zio. Nel frattempo, il protagonista chiacchiera con Leni, la cameriera dell’avvocato, nella stanza accanto. I due si avvicinano, si abbracciano e si baciano. Quadro VII: Il proprietario della fabbrica. Ufficio in banca. Ancora una volta, Josef K. cerca di svolgere il suo lavoro in banca, ma il processo pesa così tanto sulla sua coscienza che non riesce a concentrarsi. Questo non passa inosservato al cliente che sta servendo. Il cliente, un direttore di fabbrica, gli consiglia di recarsi dal pittore Titorelli per chiedere aiuto. Titorelli ha dipinto i ritratti di quasi tutti i dignitari della città e ha quindi conoscenze importanti. Quadro VIII: Il pittore. Studio. Fuori dalla casa di Titorelli, Josef K. deve farsi strada a forza tra un gruppo di ragazze urlanti per entrare nello studio. Il pittore è un vero esibizionista che sopravvaluta le sue capacità. A Josef K. offre tre opzioni su come potrebbe concludersi il processo: un’assoluzione reale, un’assoluzione apparente o un rinvio, dove quest’ultimo sarebbe meglio per lui di un’assoluzione apparente. Deve valutare attentamente le opzioni e non perdere tempo. – Josef K. è più confuso di prima. Quadro IX: Nella cattedrale e nella cava. L’accusato è talmente disperato che spera nell’aiuto della Chiesa come ultima risorsa. Ma nemmeno una conversazione con un cappellano gli porta consolazione. Al contrario. L’ecclesiastico lo accusa di cercare troppo aiuto dagli estranei, soprattutto dalle donne, e di non essere in grado di vedere due passi avanti a sé stesso. Il set si trasforma in una cava. Due eleganti signori con il cappello a cilindro accolgono il disperato in mezzo a loro. Uno di loro estrae dalla giacca un enorme coltello da macellaio, affilato su entrambi i lati. Con grande cortesia, lo passa sulla testa di Josef K. all’altro uomo. Poi si fa buio completo.

L’opera fa completamente a meno del coro. Le voci dei solisti sono fortemente declamatorie in un’armonia moderatamente moderna con molti ostinati, a volte nell’ambito della tecnica dodecafonica, ma legato sempre al sistema tonale, al pari di Paul Hindemith. La partitura di Von Einem è una cavalcata a perdifiato nella storia della musica moderna, con evidenti reminiscenze di Wagner (Die Walküre), Strauss (Ariadne auf Naxos) e Puccini (La bohème). Ci sono sprazzi di jazz e prestiti dalla tecnica dodecafonica, ritmi martellanti alla Stravinskij e molto altro. 

Tobias Leppert durante la pandemia aveva preparato una versione da camera di Der Prozess ed è questa che viene ora messa in scena nella piccola Wiener Kammeroper durante i lavori di restauro della sala grande dell’An der Wien. Nella scenografia di Silke Bauer oltre i finestroni della camera di Josef K. la vista è quella di Salisburgo mentre i costumi di Nina Paireder suggeriscono un’ambientazione moderna e la regia di Stefan Herheim trasforma il giovane personaggio principale nella figura del maturo compositore – così come aveva fatto ne La dama di picche dando al protagonista Hermann la figura di Čajkovskij. Anche Kafka stesso (l’attore e danzatore Fabian Tobias Huster) è spesso presente in scena. Il resto del cast – burocrati, avvocati, persone dello studio legale e personaggi secondari – è a volte più, a volte meno vestito: vediamo uniformi da ufficio dell’epoca di Kafka, ma anche opulenza sacra (l’ecclesiastico in abito vescovile) e abiti quotidiani degli anni Cinquanta. Ci sono allusioni fetish, lingerie sexy e i pigiami bianchi di Josef K./Gottfried von Einem, in cui l’eroe scompare ripetutamente per andare a letto.

Tutto questo avviene in un rapido susseguirsi di scene, un po’ confusionario ma di efficace valore visivo. Walter Kobéra dirige l’orchestra da camera sul fondo del palcoscenico senza concentrarsi troppo sugli effetti e l’ensemble vocale ha il culmine nel sicuro Robert Murray nel ruolo di Josef K. Anne-Fleur Werner offre al personaggio della Donna presenza scenica e voce convincenti, tutti gli altri interpreti sono perfettamente calati nella parte.

The Exterminating Angel

Thomas Adès, The Exterminating Angel

Parigi, Opéra Bastille, 23 marzo 2024

★★★★★

(video streaming)

Due spagnoli per Adès

Non succede spesso che un’opera contemporanea ritorni in scena pochi anni dopo la creazione in una nuova produzione.

È il caso de The Exterminating Angel di Thomas Adès, che dopo il grande successo di Salisburgo (e New York), ora è alla Bastille nella messa in scena di Calixto Bieito che esalta l’aspetto surreale della vicenda raccontata nel film di Luis Buñuel. Se nella produzione salisburghese la pur efficace messa in scena dello stesso librettista Tom Cairns aveva qualcosa di cauto, il regista di Burgos sembra avere più affinità con l’aragonese maestro del cinema surrealista che nel 1962 filmava la serata in cui dopo l’opera un gruppo di aristocratici e borghesi si riunisce a cena nella sfarzosa casa di Edmundo e Lucia de Nobile. C’è il direttore d’orchestra che ha appena diretto Lucia di Lammermoor, il soprano che ha cantato il ruolo del titolo, un fratello e una sorella, un medico e una delle sue pazienti, un colonnello, una pianista, due prossimi sposi e altri ancora. In tutto quattordici personaggi, più l’unico servitore che non è fuggito. La serata trascorre in un clima mondano, ma dopo il pasto, e senza un motivo apparente, nessuno degli ospiti trova la forza di andarsene. Passa una notte, poi alcuni giorni, uno degli ospiti muore, nascono storie d’amore, e per tutti questi naufraghi della civiltà inizia un lento ma ineluttabile declino. 

Bieito organizza con implacabile maestria la delirante vicenda claustrofobica, seguendo alla lettera la trama e costellando il suo lavoro di numerosi riferimenti visivi al film mostra il vacillare delle menti e dei corpi, il loro degrado e la loro depravazione. Risolve genialmente il problema degli animali sul palcoscenico trasformando le pecore previste dal libretto in palloncini a forma di pecora in mano a Yoli, il figlio della duchessa Silvia de Ávila, sempre accompagnato da padre Sansón, così che le carni di cui a un certo punto gli invitati stremati dal digiuno si cibano sono quelle del cadavere del Señor Russel, il primo dei tre morti che costellano la vicenda.

 

La scenografa Anna-Sofia Kirsch disegna un ricco ambiente immacolato ma senza finestre, con una porta sul fondo che rimane invalicata fino alla fine. Nel bianco totale l’unica nota di colore è data dagli abiti delle signore (costumi di Ingo Krügler) e delle poche suppellettili presenti. Complesso ed efficacissimo il gioco luci di Reinhard Traub, colorate, radenti, irreali. Nel crescente degrado le assi del pavimento vengono divelte per rompere un tubo dell’acqua o per ricevere i cadaveri dei due amanti suicidi. Alla fine la diva Leticia Maynar e i suoi amici sembrano riuscire a liberarsi dalla misteriosa maledizione: varcano finalmente la soglia che dà sull’esterno, ma il salone ruota su sé stesso, e mentre il coro in galleria ripete ipnoticamente il suo Libera de morte æterna, quella porta sul fondo si apre ora verso la platea. Anche noi spettatori siamo intrappolati senza speranza di uscire e con questa pessimistica visione si conclude tra le acclamazioni uno spettacolo che non lascia un momento di respiro né al pubblico né agli interpreti.

Sul podio il compositore stesso dipana con lucida spietatezza una partitura che passa con fluidità dal grottesco al lirismo, cita Mozart, Berg, Strauss, Ravel, stratifica fanfare, il suono del pianoforte solo, della chitarra flamenca, accenni di valzer viennese, ottoni mariachi, massicce percussioni, mentre le ondes Martenot aggiungono il carattere di una colonna sonora horror e fantascientifica all’opera. Il gioco di squadra degli interpreti è a un punto di perfezione raramente raggiunto, tutti senza eccezione danno corpo e anima e non si può se non citarli uno per uno: il soprano Jacquelyn Stucker offre una rappresentazione delirante del personaggio di Lucía de Nobile che gradualmente sprofonda in una foga lussuriosa; il tenore Nicky Spence è il padrone di casa Edmundo de Nobile; il soprano coloratura Gloria Tronel incarna la cantatrice Leticia Meynar dai sopracuti spiazzanti; il mezzosoprano Christine Rice è Blanca Delgado che modula una voce ricca di chiaroscuri nell’aria solistica «Over the sea» accompagnata dal pianoforte; il soprano Claudia Boyle è la duchessa Silvia de Ávila, toccante nella sua disperata supplica al figlio Yoli; il controtenore Anthony Roth Costanzo è il fratello Francisco de Ávila, fragile e malaticcio; il soprano Amina Edris e il tenore Filipe Manu formano l’inseparabile coppia di amanti senza tempo Beatriz ed Eduardo; il baritono Jarrett Ott è il colonnello Álvaro Gómez; il tenore Frédéric Antoun (l’unico interprete presente anche nella produzione originale) lo sdegnoso Yebenes; il basso Clive Bayley il dottore Carlos Conde; il baritono Paul Gay porta in scena il direttore d’orchestra Alberto Roc; il tenore Philippe Sly è il Señor Russel. Tra i domestici Thomas Faulkner è Julio, il maggiordomo, prigioniero anche lui in casa con gli ospiti; Julien Henric è Lucas e Andres Cascante il cuoco mentre Régis Mengus è un inquietante Padre Sansón. Come sempre di gran livello la prestazione del coro del teatro.

Dello spettacolo è disponibile la registrazione video sul sito dell’Opéra National.

Alfred, Alfred / La serva padrona

Franco Donatoni, Alfred, Alfred

Giovanni Battista Pergolesi, La serva padrona

Reggio Emilia, Teatro Ariosto, 24 maggio 2024

(diretta streaming)

Intermezzi buffi distanti 260 anni

Una sorta di complementarietà lega queste due opere in questo insolito abbinamento ora in scena a Reggio Emilia. La serva padrona lanciò a metà del ‘700 il genere dell’intermezzo, il precursore dell’opera buffa, su scala europea. Alfred, Alfred è sottotitolata “intermezzo”, nome scelto da Donatoni per sottolineare il potenziale farsesco di una vicenda banale che svolta nel surreale, e questo in un momento in cui la buffoneria nel teatro musicale alla fine del XX secolo non era proprio in primo piano.

Anche la distanza nel linguaggio musicale tra le due opere nasconde corrispondenze nei modi in cui ciascuna evoca la caricatura e l’ironia: la viscosa morbidezza degli archi di Pergolesi trova corrispondenza nello stridente tintinnio asimmetrico di Donatoni, un compositore talmente rigoroso da sembrare anni luce distante dal genere buffo.

Alfred, Alfred è la seconda esperienza teatrale di Donatoni dopo Atem (Teatro alla Scala, 1984) e nasce da un’esperienza autobiografica dello stesso compositore. Rappresentata al Festival “Musica” di Strasburgo nel 1995, ripresa a Parigi e a Nanterre nel 1998 e poi nel 2014 assieme a Gianni Schicchi a Spoleto e in varie città italiane, il protagonista dell’opera è lo stesso compositore il quale, dal letto di una camera d’ospedale perché colpito da una crisi diabetica nel 1992,  assiste in silenzio ad un susseguirsi continuo di avvenimenti surreali che si prestano a tragicomiche riflessioni sulla vita. Un viaggio sospeso tra la surrealtà delle visioni di un malato e la realtà della vita ospedaliera popolata da infermieri spaventose, strani dottori, ancor più strani visitatori.

Suddiviso in sei scene e sei intermezzi, il libretto, dello stesso Donatoni, parte dai dialoghi della quotidianità ospedaliera con il paziente a letto. L’ensemble ha una dimensione ridotta ed ha la caratteristica di una forte presenza di strumenti a pizzico quali chitarra, mandolino e clavicembalo, che donano una connotazione settecentesca alle musiche. Spesso un solo strumento solista accompagna i cantanti: una donna (Tosca Fosca la Formosa) che parla del latte e invece porta al malato del pesce fritto duetta con un flauto in sol; un fagotto con un parente fumatore di pipa; una tromba in scena una visitatrice che porta notizie poco confortanti per il malato: «Anche tuo fratello è stato ricoverato per coma diabetico. È molto grave, dicono che non se la caverà». Il linguaggio musicale è quello dell’avanguardia del tempo ironicamente farcito di citazioni musicali (Verdi, Stravinskij, Wagner, Bellini…) e una vocalità espressionista dove ogni parola, ogni frase è ripetuta varie volte come nelle opere buffe. Un grottesco concertato,  «Il diabete è una burla, ma a me non danno a berla», costituisce il finale.

Cuce assieme le due operine la bacchetta di Dario Garegnani alla testa dell’orchestra Icarus Ensemble, mentre su concezione della Muta Imago, la regista Claudia Sorace e il dramaturg Riccardo Fazi danno vita alle immagini. Nella ideazione della Sorace la corsia d’ospedale è popolata da figure horror e surreali che si affacciano sul malato e i loro volti giganteggiano minacciosi sugli schermi con i video di Maria Elena Fusacchia.

Nella produzione di Spoleto il malato, parte muta, era un gesticolante Paolo Rossi, qui invece è il giovane basso Giuseppe de Luca che dopo l’intervallo vediamo alzarsi dallo stesso letto. Si trattava dunque di un incubo di Uberto, il personaggio de La serva padrona. Dalla corsia di ospedale si passa con continuità all’elegante appartamento con opere d’arte dell’uomo che ha paura di invecchiare, e lo vediamo infatti che si fa iniettare del botulino da Vespone, mentre Serpina in bigodini si dà arie da padrona. «Serpina riesce nell’intento di conquistare Uberto», dice la regista, «proponendogli un altro tipo di mondo, gli impone la sua visione. Infatti quando lei riesce a sposarlo, avviene sulla scena uno stravolgimento temporale. Per questo non apparirà la bella casa borghese ma la famosa immagine di Delacroix della Libertà, per indicare gli anni della rivoluzione, perché i due servi (in scena anche il ruolo muto di Vespone) vogliono rovesciare il mondo. In questo senso la debolezza di Uberto è la debolezza dell’Ancient regime con le fragilità dell’uomo incarnato da Alfred Alfred che non sa vivere».

Anche se azzardato il legame narrativo tra i due lavori distanti 260 anni è ben realizzato e convincente anche grazie alla sciolta presenza scenica dei tanti personaggi della prima parte, ironicamente tratteggiati da film horror, e i tre della seconda, dove si fa notare per freschezza e buona tecnica la giovane Samantha Faina, a suo agio nella musicalità di Pergolesi e nelle variazioni dei dacapo.

The Tender Land

Grant Wood, American Gothic, 1930

Aaron Copland, The Tender Land

Torino, Piccolo Regio Giacomo Puccini, 4 maggio 2024

La fanciulla del Midwest

Contemporaneamente al Farwest pucciniano, il Teatro Regio di Torino mette in scena il Midwest americano con The Tender Land di Aaron Copland (1900-1990), opera commissionata dalla Lega dei Compositori della NBC nel 1953. Sarà praticamente l’unico esemplare lirico del compositore americano noto per le musiche dei balletti Rodeo, Billy the Kid e Appalachian Spring, le danze sinfoniche El salón Mexico, colonne sonore di film, ma anche autore di tre sinfonie, musica da camera e vocale.

Il soggetto viene tratto da Let Us Now Praise Famous Men di James Agee, un libro-reportage del 1941 con fotografie di Walter Evans che ritraevano la povertà rurale di famiglie di mezzadri dell’Alabama durante la grande crisi. I proprietari terrieri avevano avvertito i contadini che avrebbero ospitato i due forestieri Agee ed Evans: «presi l’idea di base del libretto da quel libro: due uomini che vengono dal mondo esterno e invadono la vita di una famiglia di provincia. I due uomini diventarono così braccianti migranti. Esaminai attentamente le fotografie del libro fra le quali mi colpirono le facce di una madre che sembrava passiva e pietrificata e di una figlia non ancora indurita da una vita di stenti. Quale effetto avrebbe avuto l’impatto dei due forestieri e delle loro vite? La risposta a questa domanda divenne il mio soggetto», dirà Copland in una intervista. La stesura del libretto viene affidata a Horace Everett, pseudonimo di Erik Johns, che sposta l’azione dal profondo sud al Midwest, come il Kansas della fattoria di Dorothy del Mago di Oz.

foto © Daniele Ratti – Teatro Regio Torino

L’opera è ambientata nel Midwest degli Stati Uniti negli anni Trenta in primavera, all’epoca del raccolto, presso una famiglia di contadini formata da Ma Moss, madre di Laurie, la figlia maggiore, e di Beth, la figlia minore, più il nonno Grandpa Moss.

Atto I. Laurie sta per laurearsi. Mr. Splinters, il postino, arriva per consegnare il pacco con l’abito per la laurea. Racconta anche che la figlia del vicino è stata spaventata da due sconosciuti che si aggirano in zona. Due vagabondi, Top e Martin, arrivano in cerca di lavoro. Grandpa Moss accetta di assumerli per il raccolto. Tra Laurie e Martin nasce subito una simpatia reciproca. 
Atto II. La festa di laurea è in corso. Ma Moss sospetta che Top e Martin siano i due sconosciuti che stanno causando problemi in zona e chiede a Mr. Splinters di chiamare lo sceriffo. Laurie e Martin si baciano. Nel frattempo arriva lo sceriffo con la notizia che i due sconosciuti sono stati catturati. Nonostante questo, Grandpa Moss dice ai ragazzi che devono andarsene la mattina successiva. 
Atto III. Durante la notte, Laurie e Martin sognano di fuggire insieme. Ma Martin capisce che questa vita girovaga non fa per la ragazza e si allontana furtivamente con Top. Quando Laurie scopre di essere stata abbandonata, decide comunque di andare via di casa. Ma Moss e Beth cercano di farle cambiare idea senza riuscirci. Laurie se ne va, e Beth resta sola davanti alla casa a giocare come faceva all’inizio.

The Tender Land non fu accettata dalla NBC proprio mentre Copland era sotto inchiesta dalla Commissione McCarthy per “attività antiamericane” perché appartenente all’American Committee for Democracy and Intellectual Freedom e per aver parlato al Cultural and Scientific Conference for World Peace. L’opera non andò quindi in televisione ma fu messa in scena alla New York City Opera il 1° aprile 1954 diretta da Thomas Schippers. L’atmosfera opprimente del maccartismo di quel periodo si riflette nella figura di Grandpa Moss che continua a ripetere che i due giovani sono «Dirty strangers. Dogs! No good dirty bums!» (Sozzi stranieri. Cani. Sporchi barboni buoni a nulla) e anche quando vengono scagionati dall’accusa di aver molestato delle ragazze, per lui «They’re guilty all the same. | I won’t have ‘em on my place» (Sono colpevoli lo stesso. Non li voglio qui). Non stupisce quindi la voglia di emancipazione di Laurie e la sua fuga da casa.

L’opera fu accolta freddamente dalla critica per le ingenuità del libretto e la mancanza di melodie nella musica. «Le successive riprese, nonostante considerevoli, ripetute revisioni, non ebbero un esito molto migliore. Oltre alla debolezza del libretto, per di più imperniato su una tradizione familiare rurale molto datata (praticamente scomparsa dopo la seconda guerra mondiale), si imputa alla partitura una certa rigida ripetizione di temi popolari che già figurano nei balletti del compositore. In effetti Tender Land si può considerare un tentativo non del tutto convinto e quindi solo in parte riuscito: la staticità della struttura sociale rappresentata sembra condizionare anche il tessuto musicale, provocando una certa monotonia. Solo col progredire dell’azione, nel corso della quale prendono il sopravvento le figure e i modi più sciolti e liberi dei due vagabondi, e in particolare di Martin, anche la musica, come la psicologia dei personaggi, si apre, facendosi più ariosa e appassionata» scrive Francesco Cavallone. La scrittura di Copland è quella di un canto di conversazione abbastanza monotono che diventa più lirico nel quintetto con cui termina il primo atto «The promise of living», la pagina più pregevole. Gradevole è anche il duetto d’amore del secondo atto da cui deriva il titolo dell’opera: «The plains so green, | the tender land, | where we begin, | to understand». L’impegno ad americanizzare il modello operistico tradizionale lo porta a non utilizzare i numeri chiusi e a inserire temi popolari filtrati però da una cultura molto europea – Copland era stato infatti allievo di Nadia Boulanger. Meno evidente qui è l’influenza del jazz, che troviamo invece in altri suoi lavori. Insomma, la commissione soffre di un certo accademismo che non riesce a far decollare e rendere più popolare questa “piccola storia americana”.

La ricca orchestrazione richiesta dalla commissione della NBC è un po’ esagerata per la semplice e intima vicenda e per questa prima nazionale al Piccolo Regio Giacomo Puccini di Torino è stata utilizzata una revisione per orchestra ridotta a tredici soli elementi, dieci archi e tre fiati, la stessa della versione originale di Appalachian Spring, che Alessandro Palumbo concerta con dedizione ma senza troppe variazioni di colori. Sul palcoscenico molti degli ormai più che affermati allievi del Regio Ensemble: Irina Bogdanova (Laurie); Tyler Zimmermann (Grandpa Moss); Ksenia Khubunova (Ma Moss) e Andres Cascante (Top) a cui si uniscono Michael Butler (Martin), Valentino Buzza (Mr Splinter) e altri validi comprimari.

L’allestimento di Paolo Vettori esalta l’intimità – per non dire claustrofobia – della storia, ambientandola in una scatola chiusa, disegnata da Claudia Boasso, sulla cui parete di fondo si aprono finestrelle per i ritratti dei vecchi antenati o dei singoli coristi nella scena della festa per il diploma di Laurie. Unico richiamo alla natura è un grande albero rosso proiettato sul fondo, forse l’albero genealogico dei Moss su cui la ribelle Laurie innesterà un nuovo ramo?

Con i costumi di Laura Viglione e le luci di Gianni Bertoli viene realizzato uno spettacolo visivamente piacevole e applaudito dal pubblico.


Cambio madre por moto

Frank Nuyts, Cambio madre por moto

Gand, Muziektheater Transparant, 25 settembre 2023

★★★★☆

(video streaming)

Interno borghese con percussioni

È rimasta per dieci anni chiusa in un cassetto la partitura di Cambio madre por moto prima che il Flanders Festival di Gand presentasse in prima mondiale l’opera da camera del compositore belga Frank Nuyts.

Classe 1957, Nuyts ha studiato percussioni e musica da camera al Conservatorio Reale di Gand e poi composizione all’Istituto di Psicoacustica e Musica Elettronica. Il suo è un linguaggio neo-tonale e influenzato da generi musicali cosiddetti commerciali. Tuttavia, ha scritto anche composizioni per formazioni classiche: oltre a singoli lavori orchestrali e a molta musica da camera, le sue opere includono cinque sinfonie e molta musica vocale (Lieder e cori). Cambio madre è la sua quinta opera per il teatro su un arguto libretto di Rosa Montero, giornalista del quotidiano madrileno El Pais dal 1976, che ha pubblicato undici romanzi, molti dei quali sono stati bestseller in Spagna.

In una serie di brevi scene si racconta la storia di una coppia che vuole divorziare, Manuel e xx. I due ne parlano con i figli per la prima volta: la figlia Clara non accetta la situazione e piange, il figlio Dani non è molto colpito dalla notizia e vorrebbe anzi trarne dei vantaggi, infatti comunica che vuole una moto, «Necesito una moto para tranquilizarme», dice. Arrivano intanto la madre del marito, che prende le parti del nipote e si dice del tutto contrario a ospitare il figlio, e l’avvocato Víctor. Quest’ultimo è un amico di famiglia e specializzato in divorzi, ma si rivela essere più vicino alla madre di quanto ci si aspettasse. E la rivelazione della relazione della madre con Víctor cambia gli equilibri delle forze, tanto che la madre offre al figlio, oltre alla moto, anche una chitarra elettrica per averlo dalla sua parte. Inizia così una gara da parte dei genitori a ingraziarsi i figli e a liberarsi dei mobili indesiderati. Quando sembra sia arrivato il momento irreparabile i bei ricordi del passato riporta a un’atmosfera di malinconia e tutto si ricompone in maniera «civilizada»: la moto al figlio e un cane per la figlia.

Il lavoro è ora presentato in collaborazione con il Muziektheater Transparant con l’ensemble olandese Asko|Schönberg – formato da clarinetto, tastiere, 4 percussionisti, arpa, violoncello – sotto la direzione musicale di Benjamin Haemhouts. La mise-en-espace di Aïda Gabriëls prevede che orchestra e cantanti si dividano il palcoscenico, gli strumentisti a destra, gli interpreti a sinistra in uno spazio delimitato da una superficie di piastrelle bianche e nere con in mezzo un divano attorno al quale si dispongono i personaggi. Un ironico quadro di intimità borghese è condensato in pochi elementi che caratterizzano la scelta stilistica della giovane regista belga: sul fondo un crocefisso di tubi fluorescenti e messo di traverso rivela al suo interno delle Barbie, mentre tante teste di bambole riempiono il cubo di perspex su cui poggia un abat-jour formato da una parrucca bionda.

I personaggi cambiano posizione ad ogni scena in una serie di tableaux-vivants dalla recitazione non-naturalistica. I costumi contemporanei distinguono i ruoli, mentre le parrucche sono diverse solo per il genere ma non per l’età dei personaggi. Gli atteggiamenti dei visi sono fissi e la gestualità meccanica, ma ciononostante i sei personaggi sono efficacemente caratterizzati anche grazie alla musica e allo stile di canto. Per L’amico avvocato, ad esempio, la voce di basso-baritono sale dal grave fino al falsetto e il canto della figlia incorpora anche il pianto. Ottimi gli interpreti: Emma Posman, La figlia (soprano); Graciela Morales, La madre (soprano); Marie-Juliette Ghazarian, La nonna (mezzosoprano); William Branston, Il figlio (tenore); Thierry Vallier, Il padre (baritono); Wilfired Van den Grande, L’amico avvocato (basso-baritono).

Un lavoro molto personale questo di Nuyts che dimostra ancora una volta come l’opera in musica possa dire qualcosa di nuovo anche con mezzi tradizionali. Non ci sono strumenti elettronici o di elaborazione dei suoni, ma arpa, clarinetto, violoncello e soprattutto le percussioni, tutti vengono trattati in modo da esaltarne la specificità in una composizione dai toni molto vari e ironicamente teatrale, praticamente un settimo personaggio che commenta, sottolinea, contrappunta l’azione. 

Orgía

foto © David Ruano – Gran Teatre del Liceu

Héctor Parra, Orgía

Barcellona, Gran Teatro del Liceu, 13 aprile

Maurizio Rebaudengo è stato a Barcellona per questa opera contemporanea.
Ecco la sua recensione.

Dare voce all’enigma della carne

Al Gran Teatre del Liceu di Barcellona va in scena Orgía del compositore catalano Héctor Parra, opera per tre voci (baritono [Uomo], soprano [Donna] e soprano [Ragazza]) ed orchestra da camera, libretto di Calixto Bieito, tratto dall’omonima tragedia in un prologo e sei episodi di Pier Paolo Pasolini, che fu rappresentata per la prima volta al Deposito d’Arte Presente di Torino il 27 novembre 1968, per la regìa dello stesso autore, la struttura scenica e simboli di Mario Ceroli e le musiche di Ennio Morricone, con l’interpretazione di Laura Betti (Donna), Luigi Mezzanotte (Uomo) e Nelide Giammarco (Ragazza).

L’attuale versione operistica è curata per la conduzione musicale da Pierre Bleuse, da poco (settembre 2023) subentrato a Matthias Pintscher per un mandato quadriennale alla conduzione del prestigioso Ensemble InterContemporain, fondato nel 1976 da Pierre Boulez. La regìa, le scene, i costumi sono di Calixto Bieito. Si tratta di una coproduzione tra il teatro di Barcellona, il Festival Castell de Peralada e il Teatro Arriaga Antzokia di Bilbao, dove ha avuto la sua prima il 22 giugno 2023, con il ruolo dell’Uomo affidato al britannico Leigh Melrose.

A testimoniare il valore della composizione, è giusto ricordare come il progetto abbia ricevuto nel 2021 il premio per artista residente presso Villa Medici/Accademia di Francia a Roma, dove il compositore ha soggiornato tra il settembre del 2021 e l’agosto del 2022, potendo così studiare la “lingua del corpo”, espressa plasticamente nelle sculture ellenistiche custodite nei musei capitolini, ispirandosene per trasferire nella scansione sia musicale sia vocale della partitura le sinuosità emotive degli ucronici corpi marmorei antichi.

Per comprendere meglio eventuali variazioni dal testo pasoliniano al libretto, occorre ripercorrere la trama originale, almeno nelle sue linee essenziali.

Nel Prologo, l’Uomo, post mortem, con un flash-back introduce gli spettatori alla vicenda a cui stanno per assistere, un percorso di progressiva consapevolezza della propria diversità, incompatibile con l’omologazione borghese – che nel corso del testo verrà definita come «abitudine alla morte». Nei sei episodi successivi, l’Uomo e la Donna, marito e moglie, la domenica di Pasqua (Episodio I) in procinto di consumare pratiche sadomasochistiche, rievocano le rispettive origini (lei da modesta famiglia di campagna; lui da una famiglia piccolo-borghese di provincia, con un padre tirannico e una madre succube). L’Uomo lega la Donna mani e piedi (Episodio II), perché le anticipa di volerla umiliare totalmente fino ad ucciderla, cominciando a percuoterla. L’alba successiva (Episodio III), la Donna e l’Uomo si ricompongono, nostalgici di un passato in cui l’umanità non era ancora alienata: la violenza sadomaso è per loro strumento per tornare alle origini della civiltà incorrotta. Addormentatosi l’Uomo, dopo essersi fatto il segno della Croce (episodio IV), la Donna, incinta, è in preda al delirio: rimpiange i corpi maschili da cui avrebbe voluto essere posseduta, senza potersi concedere, perché costretta dai vincoli borghesi. Preso un coltello in cucina, uccide i due figli, per poi suicidarsi. Qualche mese dopo, in autunno (Episodio V), l’Uomo porta a casa la Ragazza, su cui sfoga il proprio sadismo, minacciandola di morte e percuotendola, ma è colpito da un infarto, permettendo così alla Ragazza di fuggire. Una volta rinvenuto (Episodio VI), l’Uomo si spoglia dei suoi abiti borghesi per indossare gli indumenti lasciati dalla Ragazza, prendendo manifesta coscienza della sua diversità, impiccandosi.

Il libretto riproduce (in italiano) la tragedia pasoliniana rispettandone l’intreccio, ma eliminando quanto di ripetitivo – se non ridondante – è diffusamente presente, per lasciare spazio alla musica e alla parola cantata. Il regista allestisce un ambiente concentrazionario, che condensi l’estetica medio (se non piccolo)-borghese degli anni ‘60: pareti incolori (ravvivate solo dalle luci di Michael Bauer) contengono ai due lati del palco i letti che rappresentano le camere da letto (a sinistra dello spettatore quello matrimoniale, a destra il letto a castello), ciascuna con un televisore (lo strumento dell’appiattimento critico e dell’omologazione consumistica per eccellenza), una dispensa a sinistra e una petineuse a destra; al centro in successione, partendo dal boccascena, due divani e un tavolino in mezzo; la tavola da pranzo con sei sedie e, in fondo, una credenza.

Per evidenziare il valore polemico del testo verso l’ipocrisia della società borghese, Bieito introduce tre fondamentali elementi interpretativi: nel Prologo, l’Uomo non è ancora morto, ma canta appeso, vestito da donna, violentemente scosso dalle convulsioni dell’agonia; la Donna uccide simbolicamente i due figli, pugnalando un loro peluche sul letto a castello; nel Finale, la Ragazza, rientrata silenziosamente in scena vestita da mistress (corpetto e stivaloni alti neri), allestisce con grazia la tavola, a cui si seggono l’una di fronte all’altro la Donna e l’Uomo, abbigliati in modo identico (un top di lamè argento e una gonna a palloncino nera): brindano, fissandosi negli occhi, prima che il sipario cali.

La nuova composizione riesce ad esprimere la continua tensione del testo (1) tra squarci lirici, esasperazione emotiva e il grado zero della riflessione. Il Prologo, breve ed intenso, comincia con accordi di grande impatto timbrico e si sviluppa strumentalmente con una gran ricchezza cromatica, specialmente grazie all’uso delle percussioni e dei legni (in particolare dell’oboe). I glissando dell’arpa contribuiscono a creare una atmosfera onirica, mentre il baritono combina parti cantate a parti parlate, in una scena movimentata dalle indicazioni agogiche. I contrasti tra le esitazioni della Donna e la risolutezza dell’Uomo sono espressi ritmicamente, grazie ad una alternanza di crome (lei) e semicrome (lui). La nostalgica rievocazione di un passato arcadicamente mitizzato è resa con l’intervento dell’arciliuto e il ricorso al falsetto nella voce dell’Uomo (rifacendosi alle origini dell’opera). Il confronto sadomaso è reso dall’orchestra con una progressione inquietante in “agitato angoscioso”, prima del canto dei personaggi, accompagnato sempre da una musica violenta, con una linea vocale ‘strappata’, che combina (almeno per l’Uomo) passi cantati – occasionalmente in falsetto – a parti parlate. Nel monologo sulla Madre (Episodio III) a contrasto con l’episodio precedente il canto della Donna è accompagnato dal flauto (coloratura con semicrome legate); la parola «colpa» alla fine dell’intervento dell’Uomo (segnato con “quasi rituale”) è tenera e supplicante, mentre quello della Donna “quasi una sarabanda” con accompagnamento dell’arciliuto. Il canto della Ragazza è leggero, in contrasto con la gravità dell’Uomo e l’episodio è contraddistinto da una particolare violenza orchestrale. L’opera si conclude con un lungo monologo dell’Uomo, con un passaggio inquietante, di grandi contrasti ritmici e una linea di canto che usa salti di intervalli per sottolineare il delirio del personaggio.

La difficoltà nel trasporre in musica un testo siffatto è che si parte dal cosiddetto «teatro di parola», come chiarito da Pasolini nel suo Manifesto per un nuovo teatro (pubblicato su «Nuovi Argomenti» nel gennaio-marzo 1968): un teatro, quindi, che nulla concede all’articolazione della trama o ai soliti appigli del teatro borghese (la scena e/o la complicità tra agenti sul palco e pubblico in sala), ponendo quindi a compositore e regista una doppia sfida nel musicare una parola originariamente più ascoltata che agita. Nel suo saggio all’interno del programma, Parra specifica di aver lavorato esplorando i limiti della voce cantata, per giustapporre forme di vocalità quasi contrapposte e sviluppando così la capacità espressiva di una parola che passa per la fisiologia del proprio corpo. Il contrasto espressivo raggiunge l’apice quando una voce semiparlante deve convivere con una voce cantata in pieno lirismo (Uomo). Il contrasto è più delicato quando la Donna dispiega un lungo assolo per ricordare gli abusi subiti dal padre, che la conducono a un canto disperato, di malinconico lirismo (“con una lentezza inquieta, anche malinconica e lirica”), e laddove il flusso della parola è più rapido, le linee melodiche seguono da vicino i profili sinuosi e ritmati della lingua italiana, accentuando i principali colori fonetici di ciascuna frase con dinamiche e registri più estremizzati, mentre i passaggi di transizione (soprattutto da un episodio all’altro) sono espressi con voce quasi parlata.

Si può dire che la doppia sfida risulti abbondantemente vinta da entrambi – compositore e regista -, grazie anche – e soprattutto – al direttore d’orchestra e ai cantanti. Il baritono Christian Miedl è il protagonista indiscusso: dopo un inizio non proprio spumeggiante, spesso coperto dall’orchestra e una dizione non sempre perfetta (“profèzie”, ahinoi), domina la scena, dando dimostrazione di ottime capacità attoriali, riuscendo ad alternare senza strappi né cedimenti le parti prosodiche a quelle cantate, interpretando al meglio la deriva della lucida rivendicazione di una diversità non più sopprimibile, determinata anche ad un gesto estremo pur di affermarsi. Aušriné Stundyté, ammirata già il gennaio scorso al Covent Garden come Elektra (ed era pure una sostituta della titolare Nina Stemme), è bravissima ad attribuire al suo personaggio l’altra faccia di Medea: della tragedia greca conserva solo l’infanticidio, ma è sempre e comunque succube di un patriarcato che la guida anche nello sfogo sadomasochistico. La cantante lituana non ha alcun cedimento né vocale (dizione perfetta, e con i versi pasoliniani la questione è tutto meno che scontata; registro acuto – che nella partitura è il più ricorrente – e basso dominati in modo impareggiabile) né interpretativo. Jone Martínez interpreta perfettamente sia vocalmente (qualche consonante scempia raddoppiata: niente di che) sia scenicamente l’equivoca innocenza del personaggio, svelando con le sue grazie sinuose l’ipocrisia delle ritrosie a cui il contesto la costringe.

Pierre Bleuse dirige, come scritto, un organico da camera (quattro primi violini e quattro secondi, tre viole, due violoncelli, due contrabbassi, un oboe, un clarinetto, un fagotto, una tromba, un trombone, un percussionista, un’arpa, un arciliuto), riuscendo magnificamente a riprodurre il cromatismo variegato della partitura, soprattutto nei momenti di estremo conflitto e amplificando le aperture liriche con evidenti richiami monteverdiani.

L’attento e folto pubblico ha riservato ovazioni a tutti i protagonisti, che per un’opera contemporanea di assunto così impietosamente violento non è poca cosa.

(1) Dai versi contenuti nell’Episodio III di Orgia di Pier Paolo Pasolini si può evincere la matrice di una drammaturgia musicale per tale tragedia: le parole ormai logorate dall’uso ormai asemantico di una civiltà prostituita al consumo (di beni, di corpi, di comunicazione) necessitano di una rivitalizzazione acustica per esprimere – finalmente – la carne che le emette: DONNA: Sì, noi stiamo dando uno spettacolo
UOMO: Il mio corpo è inequivocabile.
[…]
La nostra carne è un enigma che come enigma si esprime.
Ma le nostre parole, adesso, sono poveri suoni
che non dicono niente se non che la vita ricomincia.

Valuska

La locandina dello spettacolo

Péter Eötvös, Valuska

Budapest, Magyar Állami Operaház, 17 dicembre 2023

★★★★☆

(video streaming)

La malinconia della resistenza

La nuova opera di Péter Eötvös, su libretto di Mari Mezei and Kinga Keszthelyi, ci porta nel mondo spoglio e grigio di una cittadina sconosciuta, ma in fondo famigliare, e ci svela il mondo tragicomico del protagonista János Valuska, lo scemo del villaggio, un innocente, infatuato dall’astronomia e dalla posizione dell’uomo nell’universo. L’arrivo in città di un circo, che ha come attrazione principale la balena tassidermizzata più grande del mondo, ha conseguenze esplosive.

Gli abitanti di una piccola città sono terrorizzati dai crescenti segnali di un’imminente catastrofe e dai cumuli di rifiuti non raccolti che si accumulano per le strade. La confusione è ulteriormente aggravata dall’arrivo a tarda notte di un circo itinerante che vanta la più grande balena gigante imbalsamata del mondo e la conseguente presenza di una folla crescente di estranei. La piccola troupe del circo – che all’inizio sembra essere composta solo dal proprietario, che si definisce “il direttore”, e dal suo assistente – si scopre essere composta anche da un misterioso nano deforme di nome Prince. Al centro degli eventi c’è l’innocente e benintenzionato mezzo scemo János Valuska, che consegna giornali per l’ufficio postale. Ingenuamente affascinato dal maestoso ordine dell’universo, racconta con entusiasmo le incredibili meraviglie che ha intravisto alla congregazione di lavoratori apatici che frequentano il pub locale. Valuska porta ogni giorno il pranzo al professore in pensione, per il quale svolge anche altre commissioni con tenera attenzione e toccante delicatezza. La moglie dell’insegnante, la signora Tünde, il sindaco della città, si dedica all’organizzazione del movimento “Un cortile ordinato, una casa ordinata” che ha lanciato. Per aumentare la sua influenza, convoca il circo, la cui star, il nano demoniaco Principe, incita la folla di barbari scontenti a distruggere. Il caos ha inizio con implacabili atti di saccheggio, incendi dolosi e omicidi commessi solo per il proprio interesse. Travolto da questa folla che sparge ovunque devastazioni insensate è Valuska, che diventa involontariamente un membro della folla violenta. Il caos viene infine fermato dai militari, ma il ripristino dell’ordine è seguito da una nuova e più sofisticata forma di terrore, quando la città passa sotto il controllo di un regime politico ingannevole guidato dalla signora Tünde. Dopo che Valuska viene catturato in una caccia all’uomo, si salva solo quando la signora Tünde interviene in sua difesa, dichiarandolo un pazzo. Il professore si reca ogni giorno a far visita a Valuska nel manicomio in cui è stato rinchiuso, solo per scoprire ogni volta che il suo ex aiutante si rifiuta di pronunciare una parola, avendo perso sia la fede nell’ordine cosmico che lo sosteneva sia la fiducia nella magia del mondo.

La prima mondiale del 2 dicembre 2023 è stata un evento importante per l’Opera di Stato Ungherese: per Péter Eötvös, che compie 80 anni nel gennaio 2024, è la sua 13ª opera, ma la prima in ungherese: «Non ho mai pensato di scrivere un’opera in ungherese per diversi motivi», dice il compositore, «da un lato, dopo il successo di Tre sorelle, continuavo a ricevere commissioni per opere in diverse lingue (1). D’altra parte, Il castello di Barbablù di Bartók, che ho diretto più volte, è così potente e unico che non osavo toccare un testo ungherese. Quando l’Opera di Stato mi ha commissionato questa opera, era ovvio che pensassero a un’opera in ungherese. Inoltre, mi sentivo già molto esperto avendo composto 12 opere e ho accettato volentieri. […] Le mie opere precedenti erano tutte scritte in lingue diverse (1), quindi la prima informazione musicale non era il significato delle parole, ma il ritmo. Nella lingua ungherese, essendo la mia lingua madre, il significato è la cosa principale per me. Pertanto, era importante trascurarlo un po’ per occuparsi maggiormente del suo ritmo. Soprattutto le insolite connessioni di parole di László Krasznahorkai – l’opera è basata sul suo romanzo del 1989 Az ellenállás melankóliája (La malinconia della resistenza) –  la qualità musicale del ritmo, delle parole e delle frasi è stata la base per la scelta del testo. Il coro utilizza le vocali delle parole indipendentemente dal significato originale del testo, per esempio, o una serie di parole con uno schema simile che formano un modello ritmico. Così, il gioco di carte del libro diventa un gioco di parole in cui vince chi ha in mano la carta con la parola con più sillabe. La prosa di Krasznahorkai mi ha portato a mettere sulla carta meno suoni e più ritmo, e mi ha portato anche al teatro. Ho cercato di presentare al pubblico la presenza essenziale del testo di Krasznahorkai inserendo un narratore che tiene in mano il libro e di tanto in tanto lo cita testualmente». L’orchestra di Valuska è simmetrica e relativamente piccola: a sinistra e a destra gli strumenti a fiato sono speculari, poi le percussioni e i nove strumenti a corda che danno il suono lirico sono in un unico gruppo al centro. Il direttore Kálmán Szennai dosa con precisione i suoni trasparenti e polverizzati di Eötvös, i ritmi dai pattern complessi dove gli strumenti quasi non si riconoscono e a tratti compaiono citazioni popolari o brevi temi. La sua conoscenza delle capacità della voce umana e delle sue possibilità espressive crea armonie che, pur essendo assolutamente contemporanee, sono facili da ascoltare e la partitura guida la narrazione e aggiunge una dimensione di comprensione ai personaggi, esprimendo le loro emozioni meglio di quanto possano fare le parole. La parte lirica e melodica è affidata a János e alla signora Pflaum, con il personaggio eponimo che ha due arie a disposizione che introducono alla sua visione del mondo: la prima all’ordine del cosmo infinito, alla relazione dei pianeti, poi dalla descrizione dettagliata di un’eclissi solare; nella seconda Valuska tiene in mano un barattolo con l’occhio della balena conservato in formaldeide, come Amleto fa con il teschio.

Zsolt Haja è stato scelto appositamente per la parte del titolo e si può dire che Eötvös abbia composto la parte su di lui, per i suoi suoni morbidi e cristallini, per la sua presenza scenica. Ma nella produzione dell’Opera Ungherese tutti gli interpreti hanno personalità da vendere e  distinte caratteristiche doti vocali. È un peccato che Adrienn Miksch (signora Pflaum),   Tünde Szabóki (Tünde), Krisztián Cser (Uomo col cappotto, Soldato) e Istvan Horvath (Direttore) non si sentano altrove.

Il regista Bence Varga dà vita a questo racconto distopico con un’acutezza e un dettaglio impressionanti grazie alle scenografie di Botond Devich, minimali ma efficaci – un lampione, il container dove è esposta la balena, un letto d’ospedale – e al magnifico gioco luci di Sándor Baumgartner. Con i costumi di Kató Huszár la popolazione grigia e scialba viene posta in contrasto ai tocchi stravaganti dei personaggi estroversi come la neoeletta sindachessa Tünde tutta in rosa o l’ufficiale ricoperto di medaglie da cima a fondo e dall’andatura burattinesca.

In questo suo lavoro Eötvös non menziona mai né la geografia né la nazionalità degli abitanti di questo paese, ma è proprio questo aspetto a rendere la trama grottesca e rilevante per le attuali situazioni sociali e politiche del mondo. È talmente incredibile da  renderla così spaventosamente credibile.

Il video dello spettacolo è disponibile su operavision.com.

(1) La maggior parte delle opere di Eötvös sono in inglese; Harakiri (1973) è in giapponese, Three Sisters (1997) in russo; Le balcon (2002) in francese; Der goldene Drache (2014) in tedesco, Senza sangue (2015) in italiano.