Antonio Ghislanzoni

Aida

bozzetto di Stefano Poda

Giuseppe Verdi, Aida

Verona, Arena, 16 giugno 2023

★★★☆☆

(diretta televisiva)

Aida nel metaverso

Come se non fosse bastato il passaggio delle frecce tricolori, a cantare l’inno nazionale sul palcoscenico sale un coro nei colori della bandiera. Inizia così la celebrazione della centesima stagione del Festival Lirico Arena di Verona nel primo anno dell’E. M. (Era Meloni). L’opera scelta è ovviamente Aida, quella che nel 1913 diede il via con la concertazione di Tullio Serafin, le scene di Ettore Fagiuoli, la direzione scenica (ancora non si parlava di regia) di Napoleone Carottini e con Ester Mazzoleni, Giovanni Zenatello e consorte Maria Grazia come interpreti principali.

Oggi, con un parterre de rois che vede sfilare personaggi del calibro di Jerry Calà, Iva Zanicchi, Lino Banfi, Orietta Berti, Il Volo etc. e con l’ostensione di Sophia Loren che fu Aida al cinema nel 1953, una ripresa televisiva che supera le quattro ore trasmette in mondovisione un’immagine del nostro paese tutta cultura (!) e spettacolarità.

La produzione viene affidata al tuttofare Stefano Poda (regia, scene, costumi, luci, coreografie, drammaturgia) che, come sempre, afferma una sua visione estetica e filosofica in cui la vicenda in oggetto è quasi solo un pretesto. Il palcoscenico è affollato di 500 persone tra coristi, comparse, danzatori: si ha un bel rimarcare ogni volta che Aida è un’opera intimista – i personaggi sono soli, le masse non agiscono – ma se si mette in scena in una arena all’aperto di 7000 posti bisogna tener conto degli spazi e Poda questo l’ha ovviamente capito. Il bianco e l’argento dominano, i costumi sono ricoperti di specchietti che riflettono le luci e i fasci laser. Tutta in oro e altrettanto spettacolare era la produzione dell’Aida di Zeffirelli, il quale però in un teatro di 300 posti come quello di Busseto firmava una delle sue regie più ispirate, ma qui sarebbe del tutto irrilevante chiedersi se Poda saprebbe farlo.

Ambientata in un’epoca imprecisata, la sua Aida diventa lo sguardo su un’umanità senza speranza: sulle immense gradinate una colonna corinzia spezzata a destra e quello che sembra un relitto d’astronave a sinistra affiancano un’enorme mano meccanica – non molto diversa da quella del Rigoletto di Bregenz – che rappresenta la morsa del potere e che nel finale si chiuderà inesorabile sui due amanti. Picche con una mano infissa nella punta fanno riferimento alle mani mozzate ai nemici trovate recentemente in uno scavo in Egitto, ma ricordano anche l’allestimento di un Œdipus Rex di molti decenni fa. Sono assenti delle vere e proprie scenografie: sul palcoscenico sono i corpi umani a ricreare gli ambienti e in questo il regista è maestro nel plasmare i movimenti dei suoi mimi/danzatori. Non mancano certo le solite sfilate al rallentatore, tipica cifra stilistica di Poda, mentre le sue coreografie qui hanno la sincronizzata meccanicità dei saggi ginnici negli stadi cinesi. Si notano anche alcuni riciclaggi dalla Turandot, come i costumi delle sacerdotesse, gli onnipresenti sberluccicanti swarovski, i caschi da motociclista, le mummie sui carrelli…

Algido e statico come sempre, il suo allestimento contiene alcuni momenti di indubbia efficacia teatrale: il finale secondo con l’ingresso dei prigionieri in calzamaglia tatuata con geroglifici che si avvinghiano ad Amonasro o l’inizio del terzo atto con le canne luminose. Ma l’emozione è un’altra cosa: lo stile del suo spettacolo è quello di un evento che avrebbe potuto aprire i giochi olimpici. D’altro canto, l’occasione celebrativa non poteva essere disattesa.

La direzione di Marco Armiliato è efficace ma difficile da giudicare nella ripresa audio, peraltro buona: su equilibri e livelli sonori si impone una verifica sul posto. Più agevole valutare le voci, già verificate dal vivo. Quella di Anna Netrebko (Netrenko per la Carlucci) anche in questa occasione si dimostra per quella meraviglia che conosciamo: è soprattutto nei piani e nei pianissimi, che hanno una proiezione incredibile, che si ammira la sua interpretazione e quasi insuperabile per morbidezza e legati è il suo «O cieli azzurri». Per evitare ogni problema di “black face” sul viso sfoggia un trucco iridiscente, una “rainbow face”.

Abituati ormai al suo timbro non proprio di velluto, il marito Yusif Eyvazov si conferma interprete di valore che riempie con agio l’arena con la sua voce e che, anche se non in pianissimo, riesce comunque a smorzare il si♭finale di «Celeste Aida». Piuttosto caricata la recitazione da film muto, con la bocca deformata in una smorfia di dolore e gli occhi strabuzzati come il Nosferatu di Murnau. La sua dizione dell’italiano è talmente buona che proprio per questo gli consigliamo di perfezionare ancora di più l’espressione e correggere gli accenti di l’arè o comè. Su come scolpire la parola è difficile trovare un altro con la stessa autorevolezza di Michele Pertusi, un Sacerdote da manuale. Dizione al limite dell’accettabile è quella invece di Olesya Petrova, una Amneris senza grandi sottigliezze. Tra i peggiori Amonasro per rozzezza è quello invece di Roman Burdenko mentre elegante e potente il Re di Simon Lim. Il Messaggero di Riccardo Rados e la Sacerdotessa di Francesca Maionchi completano degnamente il cast. Eccellente la performance dell’immenso coro istruito dal Maestro Gabbiani.

Depurato della cornice nazional-popolare televisiva – quest’anno ogni oltre limite di sopportabilità e con le solite gaffe della presentatrice, l’eterna Milly Carlucci – lo spettacolo di Poda magari lascia la voglia di vederlo dal vivo. Non mancherà l’occasione: per ammortizzarne i costi sarà una produzione che rimarrà in cartellone per molti anni. 

 

Henry VIII

Camille Saint-Saëns, Henry VIII

Bruxelles, Théâtre Royal de la Monnaie, 16 maggio 2023

★★★★☆

(video streaming)

Tanto simile al Don Carlos, eppure tanto diverso

Ancora le vicende di casa Tudor sulle scene della Monnaie, un dei teatri più interessanti nel panorama lirico mondiale. Dopo Bastarda, l’originale pastiche/puzzle con musiche di Donizetti, è l’ora di Henry VIII, la quinta delle opere di Camille Saint-Saëns, compositore di teatro di cui conosciamo solo Samson et Dalila.

A Parigi nel 1867 Verdi aveva portato sulle scene del Théâtre de l’Académie Impériale de Musique il Don Carlos, il suo maggior contributo al genere grand-opéra. Sedici anni dopo sulle scene dell’Opéra Garnier si poteva assistere a un lavoro in cui «un monarca canta i tormenti del potere e dell’amore in un assolo introdotto dal violoncello; una regina solitaria (soprano), sperduta in una corte straniera, canta la nostalgia della sua patria e si ritrova detronizzata nel cuore del marito da una rivale dalla bellezza sgargiante (mezzosoprano); c’è una scena in cui la rivale implora il perdono della regina; vediamo la forte opposizione tra il re e la Chiesa che culmina in un duetto tra il monarca e un cardinale (due voci basse: un baritono e un basso); un’impressionante scena di folla in cui compaiono il re, sua moglie e i rappresentanti della Chiesa e del popolo, durante la quale un personaggio osa pubblicamente opporsi al re…». Così Stéphane Lelièvre su premièreloge-opera elenca le similitudini tra il lavoro di Verdi e quello di Saint-Saëns. Eppure, malgrado forti influenze, la musica dell’Henry VIII possiede una propria identità che lo contraddistingue e lo rende assolutamente diverso da quello di Verdi. I passaggi più densamente armonici evidenziano poiuttosto l’influenza di Wagner, morto tre settimane prima del debutto dell’opera a Parigi il 5 marzo 1883. Il libretto di Léonce Détroyat e Armand Silvestre aveva tratto aspirazione da La Cisma de Inglaterra (1627) di Pedro Calderón de la Barca più che dai lavori di Shakespeare.

Henry VIII è un bell’esempio di grand-opéra con precisi riferimenti storici, quattro atti, un balletto e i suoi prestiti tematici, a partire dal preludio, di pagine ispirate al repertorio musicale del Rinascimento inglese – un brano di William Byrd nel quarto atto accompagna i divertimenti organizzati negli appartamenti di Anna Bolena.

Atto I. Londra, 1533. Dietro le quinte del palazzo di re Enrico VIII, si moltiplicano intrighi, sospetti e accuse. Alcuni sono caduti, come il conte di Buckingham, appena condannato a morte, mentre altri sono stati eletti, come Don Gomez, che sta festeggiando la sua ascesa alla carica di ambasciatore di Spagna, un onore che deve alla sua amata Anna Bolena. Il re intende sposarla e la nomina dama di compagnia della regina Caterina d’Aragona, che vorrebbe ripudiare. Ma il matrimonio è sacro e per annullarlo è necessario il consenso della Chiesa. Caterina d’Aragona cerca invano di ottenere il perdono di Buckingham, mentre Don Gomez si preoccupa della passione del Re per Anna Bolena.
Atto II. Più tardi, nei giardini di Richmond, Anna Bolena è venuta da sola con il Re per una festa in suo onore, mentre la Regina rimane a Londra. Don Gomez, preoccupato e febbricitante, rimprovera ad Anna di aver trascurato la loro relazione. Anna cerca di contraddirlo, ma Enrico ascolta la loro conversazione. Rimasto solo con la donna che ama, il Re cerca di sedurla, ma lei rifiuta. Promette allora di rompere il suo matrimonio con Caterina, il che induce Anna Bolena ad accettare l’unione. La regina si rallegra di questa fortuna, ma Caterina arriva da Londra e la rimprovera apertamente per la sua ambizione. Enrico chiarì alla regina che il loro matrimonio era finito. Anche il legato del Papa è presente alla festa, dove Anna trionfa. Iniziano i festeggiamenti. Ballo.
Atto III. Primo quadro. Enrico è furioso con le autorità papali che continuano a rifiutare il divorzio. Egli ribadisce la sua passione per Anna, mentre lei lo prega di rinunciare alla loro unione nonostante l’amore reciproco. Enrico sospetta che la donna non sia sincera e finalmente riceve il legato papale che aspettava da tempo. L’incontro è burrascoso: Enrico rimprovera l’inviato da Roma di non aver obbedito ai suoi ordini e quest’ultimo proclama la sua fede e l’impossibilità di accettare il divorzio. Nonostante il rischio di uno scisma con la Chiesa, Enrico persiste e annuncia che lascerà la decisione al suo popolo, suscitando la preoccupazione del legato. Secondo quadro. Re Enrico chiede ufficialmente al Parlamento di annullare il suo matrimonio con Caterina. Don Gomez si schiera dalla parte della regina, che implora il re di non tradire la loro unione. Il giovane ambasciatore teme che la decisione del Re provochi una guerra, ma il Re riesce a ottenere l’assenso dell’assemblea parlamentare. Le minacce del legato di annullare qualsiasi decisione che mettesse in discussione il matrimonio del re, inducono il sovrano ad appellarsi apertamente al popolo, che appoggia senza esitazione il sovrano. Il Re annuncia il suo matrimonio con Anna Bolena e viene immediatamente scomunicato.
Atto IV. Prima scena. Anna ed Enrico sono sposati da tempo, ma Anna è preoccupata per l’umore del marito quando arriva Don Gomez, l’ambasciatore spagnolo, con un messaggio della regina ripudiata. Anna teme che egli la tradisca rivelando al re la loro precedente relazione, ma lui le giura di aver bruciato tutte le loro lettere. Il re, che ascolta il loro incontro, vede in Don Gomez un possibile rivale per il cuore della moglie, ma Don Gomez trasmette il messaggio disperato di Caterina e il re decide di andare a trovarla con l’ambasciatore. Secondo quadro. Morendo, Caterina consegna a Don Gomez il suo libro di preghiere, che contiene la lettera inviata da Anna Bolena per chiedere alla Regina di concederle gli onori di questa carica. Caterina rimprovera ad Anna di non aver mai amato Don Gomez, mentre Anna si vendica raccontandole della famosa lettera, che rivuole indietro. Caterina minaccia di consegnarla al Re, proprio mentre arriva Enrico convinto di avere le prove dell’infedeltà di Anna, ma Caterina getta la lettera incriminata nel fuoco e muore. Il Re è furioso e minaccia coloro che lo hanno tradito.

Opera di buon successo ai suoi tempi, Henry VIII divenne poi meno popolare. Un’altra versione in tre atti fu rappresentata successivamente nel 1889 con un balletto coreografato da Joseph Hansen. Nel giugno 1909, Paul Stuart riprese l’originale in quattro atti e mise in scena una nuova produzione con la coreografia di Leo Staats. Henry VIII rimase nel repertorio dell’Opéra di Parigi fino al 1919 per poi scomparire. Tra le riprese recenti ricordiamo quella del 1991 al Théâtre Impérial de Compiègne in una produzione di Pierre Jourdan ripresa al Liceu di Barcellona nel 2002, con Montserrat Caballé nel ruolo di Caterina.

Prevista nel 2021, centenario della morte del compositore francese, solo ora, dopo la pandemia, il teatro di Bruxelles riesce a mettere in scena la produzione di Olivier Py per la parte visiva e Alain Altinoglu per quella musicale. Occorreva poi un grande interprete per l’impegnativa parte del titolo ed è stato trovato nel baritono Lionel Lhote. Sono questi tre gli elementi che fanno di questa proposta l’evento della stagione.

La direzione di Altinoglu si destreggia magistralmente con l’imponente flusso musicale senza trascurare i momenti più intimi e riesce a dare unità a una partitura che privilegia la sapienza di orchestrazione e il respiro sinfonico al dinamismo teatrale e alla coerenza drammaturgica. L’orchestra del teatro risponde magnificamente e la potenza delle scene d’insieme non perde mai di precisione. Puntuale l’accompagnamento delle voci e convincente la performance del coro istruito da Stefano Visconti. La mancanza di spessore psicologico dei personaggi è compensata dalla personalità degli interpreti. Lionel Lhote, re volubile e ossessionato dal potere, possiede un timbro sontuoso, grande eleganza e una presenza vocale scolpita. Gomez trova nel tenore Ed Lyon chiarezza e luminosità d’accenti; Werner Van Mechelen è un incisivo Norfolk mentre Vincent Le Texier presta la sua voce ricca di armonici e potente nel registro grave (quasi l’Inquisitore verdiano) alla figura del legato papale colmo di zelo religioso ma anche pietoso e paterno verso la misera Catherine. La sfortunata prima sposa del re inglese ha la presenza vocale di Marie-Adeline Henry, soprano di bella e luminosa voce che però tende a sforzare negli acuti, ma il temperamento – notevole il momento in cui mette in guardia la rivale: «Gardez le temps! J’aurai l’éternité!» – delinea una Catherine a tutto tondo. Nora Gubisch (Anna Bolena) rivela un mezzo vocale a tratti consunto e una recitazione eccessivamente espressiva, ma anche lei è a suo modo convincente nonostante l’età e l’aspetto non la favoriscano. Ottimi si dimostrano i tanti comprimari.

L’aspetto visivo dello spettacolo rivela da subito la mano del regista Olivier Py e del suo scenografo di fiducia Pierre-André Weitz come l’ambiente nero lucido, il praticabile in alto, i precisi inserti iconografici – La crocefissione del Tintoretto della Scuola di san Rocco; il suo Giudizio finale della Madonna dell’Orto; la Madonna col bambino del Bellini di San Zaccaria – la presenza di danzatori che formano tableaux vivant o intervengono a sottolineare, talora troppo, momenti salienti della vicenda. Questo è un ricco spettacolo teatrale che reinterpreta la sontuosa forma del grand-opéra dell’epoca di Saint-Saens. Le idee di Py sulla religione, il potere, il giudizio e la violenza qui illuminano e si fondono coerentemente intorno ai temi della narrazione stessa. I personaggi a torso nudo, o del tutto nudi, per le sequenze coreografiche (in particolare per la tortura di Buckingham e poi per una danza delle creature infernali) evocano una fusione freudiana di erotismo e morte. Il balletto manca nello spettacolo in sala perché nell’intervallo la musica del balletto appositamente composta da Saint-Saëns viene eseguita da altoparlanti nella piazza antistante il teatro dell’opera dove i ballerini riprendono la narrazione. Tutto ciò non è ovviamente presente nella ripresa video che fa fatica a registrare l’infinità di spunti visivi della messa in scena di Py. L’ambientazione è del tempo di Saint-Saëns nelle architetture – a un certo punto entra in scena anche una locomotiva – e nei costumi di Bertrand Killy. Catherine è l’unica a vestire un costume d’epoca, Enrico lo fa solo per posare per le fotografie.

Le lungaggini di quest’opera di tre ore sono fugate da questa produzione intensa e stimolante, che mostra come il grand-opéra possa ancora emozionare e intrigare gli spettatori di oggi.

Lo spettacolo è al momento disponibile su youtube.

Aida

foto © W. Hösl

Giuseppe Verdi, Aida

Monaco di Baviera, Nationaltheater, 1 giugno 2023

★★★★☆

bandiera francese.jpg  ici la version française sur premiereloge-opera.com

Aida e Radames, moderni Giulietta e Romeo di paesi in guerra fra loro

La terz’ultima opera di Giuseppe Verdi fu commissionata dal khedivè del Cairo Isma’il Pascià, lo stesso che nel 1861 aveva domato un’insurrezione in Sudan. Con quest’opera richiesta al maggior operista dell’epoca – in caso di suo rifiuto si sarebbero fatti i nomi di Massenet e Wagner! – Isma’il intendeva celebrare l’imperialismo del suo paese, quel colonialismo interno al continente africano che prendeva a modello quello delle grandi potenze europee. Nel suo paese, l’Egitto, Aida era dunque l’illustrazione del pericolo che un paese a sud, l’Etiopia, poteva costituire per il suo «sacro suolo». L’inaugurazione del canale di Suez e del teatro khedivale dell’opera del Cairo (novembre 1869) erano dunque un pretesto per l’ufficializzazione di un progetto politico ben preciso. Nello stesso tempo però il libretto di Ghislanzoni sembrava voler mettere in guardia l’Egitto contro pretese territoriali nel corno d’Africa su cui l’Italia avrebbero avuto le mire espansionistiche che si realizzarono poco dopo.

Per il pubblico italiano della prima europea alla Scala di Milano l’otto febbraio 1872, Aida rievocava invece i sentimenti patriottici del Risorgimento, ancora una volta sentimenti nazionalistici, comunque. Insomma, l’opera di Verdi era una vera “opera politica”.

E per noi, oggi nel 2023, centocinquanta anni dopo, che cosa rappresenta Aida? Certo non le mire espansionistiche del khedivè d’Egitto o i sentimenti risorgimentali della Milano post-risorgimentale, ma non è neppure un esemplare di quel gusto dell’esotico tanto caro alla borghesia che affollava i teatri d’opera nella seconda metà dell’Ottocento. Questa domanda se la sono già posta molti di quelli che l’hanno messa in scena in questi ultimi anni, dando riposte diverse e più o meno convincenti. L’iraniana Shirin Neshat a Salisburgo nel 2017 aveva messo in luce le condizioni sociali della donna nell’attuale mondo islamico: in quanto esiliata dal suo paese era la persona giusta per leggere la vicenda di una figlia di re diventata schiava e della guerra tra due etnie nemiche. Qui sia Aida che Amonasro avevano la pelle chiara e non avevano sollevato quindi problemi di black face. Lo stesso era avvenuto a Parigi nel 2021 con l’Aida messa in scena da Lotte de Beer con burattini e un’ambientazione ottocentesca – e dove la pelle nera qui l’aveva l’interprete del Faraone!

Mentre in questi stessi giorni si può vedere alla Deutsche Oper di Berlino un’Aida in una messa in scena molto particolare di Benedikt von Peter, alla Bayerische Staatsoper di Monaco Damiano Michieletto fornisce la sua lettura. La vicenda di Aida si svolge durante una guerra, e una guerra di oggi è quello che vediamo in scena: in una palestra scolastica dal soffitto perforato dalle bombe vi sono degli sfollati che hanno ottenuto rifugio qui dalle loro case bombardate, da una città distrutta. Si vedono anche i prigionieri nemici ed è magra consolazione scoprire che sono in condizioni appena più misere degli stessi rifugiati “locali”. Il Messaggero arriva in scena col cadavere di un bambino e il suo breve intervento assume così un rilievo assai più tragico. Il ritorno trionfale dei vincitori è una triste parata di mutilati o di soggetti mentalmente disturbati che ricevono in stato catatonico le loro medaglie al valore. Anche Radames è ritornato segnato dalla guerra mentre immagini proiettate sullo sfondo ci mostrano feriti e volti stravolti. Dai palchi di proscenio le “tube egizie” aggiungono un tono crudelmente beffardo. Diavolo d’un Michieletto: è riuscito a commuovere anche con la “marcia trionfale”!

Prima Aida aveva cantato «Ritorna vincitor!… E dal mio labbro | uscì l’empia parola!» con una madre china sulla piccola bara bianca del figlioletto ucciso. «È una guerra civile. La gente non è preparata alla violenza. La morte ha un effetto così devastante perché irrompe nella vita quotidiana, nelle famiglie, non risparmia i bambini. Non voglio proporre questo racconto come una vicenda di militari, ma di civili» dice il regista e non si può non pensare all’insensato conflitto in corso ai confini dell’Europa.

Più che alla patria, Aida pensa alla sua famiglia, lei che è orfana di madre ed è stato strappata al padre. Vediamo infatti il suo doppio di bambina felice, come felici e incoscienti sono i bambini che giocano tra le macerie. Questi momenti onirici non mancheranno nello spettacolo e ad essi è affidato il finale: i due giovani non muoiono, ma finalmente si uniscono per l’eternità accompagnati da un corteo felliniano che si muove sulle parole di «A noi si schiude il ciel».

Un intervallo divide in due parti i quattro atti. Nella seconda parte la scenografia, come sempre sorprendente, di Paolo Fantin riempie il grande ambiente di una cenere nera che abbiamo visto cadere prima dagli squarci nel soffitto. La riva del Nilo è un ripido pendio che, senza pareti, diventa la tomba dei due giovani. Il sapiente gioco di luci radenti di Alessandro Carletti dà profondità alla scena e traghetta lo spettatore dalle scene più crude a quelle oniriche. Appropriati come sempre sono i costumi di Carla Teti che non connotano un paese in particolare, mentre hanno la loro forza ed efficacia i video della Rocafilm. La drammaturgia porta le firme di Katharina Ortmann e di Mattia Palma, il quale per il programma di sala analizza la storia delle rappresentazioni di Aida chiedendosi se sia un’opera «monumentale, grandiosa, spettacolare» o piuttosto un’opera “da camera”. Sì, c’è un po’ di grand-opéra in Aida, ma i vuoti prevalgono sui pieni: l’opera inizia in pianissimo (pp) con il motivo ondulante dei violini con sordina e termina ancora più piano (ppp) con il “morendo” degli stessi violini. Questa insolita trasparenza è ben evidente nella magnifica interpretazione di Daniele Rustioni che ottiene dall’orchestra del teatro, più avvezza in realtà a Richard Strauss, tempi sempre precisi, suoni di grande morbidezza e colori tenui, ma anche volumi sonori adeguati nei momenti più intensi. Per di più, pur salvaguardando la cantabilità “italiana”, Rustioni mette in luce gli aspetti più moderni della partitura, uno per tutti l’effetto dell’appena udibile rullo della gran cassa che segue al silenzio di Radames alle accuse di tradimento di cui non si discolpa. Perfetto risulta l’equilibrio sonoro tra buca e scena, con l’orchestra che non copre le voci. Voci che comunque hanno una loro imponente presenza.

Il soprano russo Elena Stikhina è un’Aida di bel timbro, delicate mezze voci, lunghi filati, elegante fraseggio e acuti luminosi. Anche con abiti dimessi rivela un’efficace presenza scenica e la sua sensibile interpretazione ha conquistato senza riserve il pubblico. In sostituzione di Anita Rachvelishvili, indisposta, il mezzosoprano Clémentine Margaine, a parte qualche momento di perfettibile intonazione, ha dimostrato un bel temperamento. La voce non è sempre omogenea nei passaggi di registro, con alcune note gridate, ma nel complesso ha delineato una figura tormentata e umana che è stata molto apprezzata dagli spettatori. Amneris è qui concupita da Ramfis, non un sacerdote ma un arrampicatore sociale che dopo aver eliminato Radames si capisce che arriverà al potere tramite la figlia del faraone. Il personaggio trova una forte caratterizzazione nel basso rumeno-ungherese Alexander Köpeczi dal possente registro grave e dalla eccezionale proiezione vocale. Un altro basso, questa volta greco, è il giovane Alexandros Stavrakakis, un Re vocalmente autorevole. Finalmente un Amonasro non trucido, ma amorevole padre, è quello di George Petean, il baritono rumeno che conferma la personalità interpretativa che già conoscevamo. 

Brian Jagde, giovane ma affermato tenore americano, ci porta indietro nei tempi: il suo Radames è vocalmente molto generoso ed estroverso, anche troppo, le mezze voci sono trascurate, l’emissione è sempre forte. Da anni ormai si sente il finale di «Celeste Aida» con il si♭prescritto in partitura pianissimo – pp, ma due battute prima Verdi arriva addirittura a pppp! – Jagde invece lo spara a tutti decibel senza neppure tentare di smorzarlo. Nel finale recupera un po’ di espressività, ma nel complesso la sua performance delude. Non quella del coro, che fornisce invece un’ottima prova sotto la guida di Johannes Knecht.

Il pubblico di Monaco di Baviera non sembra sia rimasto deluso dalla assenza di sfingi e piramidi in scena e ha tributato agli artefici dello spettacolo grandiose e insistenti ovazioni.

 

Aida

Giuseppe Verdi, Aida

Roma, Teatro dell’Opera, 31 gennaio 2023

★★★☆☆

(video streaming)

Quasi Cabiria, l’Aida di Livermore a Roma

Il primo numero di “Calibano”, la nuova rivista del Teatro dell’Opera di Roma, è dedicata al tema del black face, complice la programmazione dell’Aida, opera che, soprattutto nei paesi anglosassoni, ha sollevato la questione della rappresentazione di personaggi di colore. Si rimanda dunque a quella pubblicazione un’interessante disanima del problema.

Nella produzione scelta dal direttore artistico Alessio Vlad – che vede la regia e i movimenti coreografici di Davide Livermore, l’impianto scenografico di Giò Forma, i costumi di Gianluca Falaschi, le luci di Antonio Castro e i video della D-WOK – il problema è dribblato: Aida e Amonasro non hanno la faccia nera che ci si aspetterebbe da degli etiopi, anzi: come artisti del cinema muto il viso è coperto di biacca e i costumi solo in parte differenziano le etnie. La questione razziale non sembra l’elemento essenziale della lettura del regista torinese, il quale punta a una drammaturgia che esalta gli aspetti intimistici della vicenda, più che quelli spettacolari. Non che questi manchino, ma non vengono affidati a moltitudini di comparse e a cavalli nella scena del trionfo, ma a una videografica, risolta questa volta con sobrietà, di immagini proiettate sulla superficie di un parallelepipedo, messo di sbieco per accentuarne la tridimensionalità. Ecco dunque fiamme, geroglifici dorati, figure fantasmatiche, paesaggi, turbini di sabbia prendere corpo grazie alle diavolerie digitali della D-WOK. Livermore si libera del bric-à-brac di tradizione, ma costruisce uno spettacolo a suo modo tradizionale, sia nell’impianto scenico formato, oltre che dal suddetto monolito, da pareti oblique scorrevoli, sia nella recitazione da cinema muto, appunto. Il bianco e nero dominante nei costumi che rimandano, con minore eccesso, a quelli del Ciro in Babilonia, è ravvivato solo dall’oro, il resto lo fa il gioco delle luci e la grafica. Il regista risolve in maniera originale i momenti coreografici, spesso stucchevoli: qui i movimenti quasi da break-dance sono affidati alle giovani del corpo di ballo del teatro. 

Nella lettura di Livermore al centro di tutto c’è la storia d’amore ostacolata dalla guerra più che dalla gelosia della figlia del Faraone, con un finale diverso dal solito: Radames, solo nella tomba sigillata dall’esterno, ha una visione di Aida che lo accompagna in un mondo di luce. L’amore alla fine vince su tutto. Le note con cui Verdi conclude la sua opera in fondo possono essere anche intese con questa speranza. Sublime ambiguità della musica.

Musica perfettamente eseguita da Michele Mariotti alla guida dell’orchestra del teatro: alcuni momenti strumentali suonano quasi inediti e non c’è dettaglio della partitura che non venga esattamente analizzato e realizzato con un uso sapiente dei colori e una grande varietà dinamica. Una musica che dimostra così tutta la sua modernità impressionistica.

Grandi personaggi si sono dimostrati gli interpreti principali, anche se hanno superato il culmine della loro carriera: Krassimira Stoyanova non ha più la limpidezza di un tempo, ma ha guadagnato in espressività e intensità nel delineare la sua Aida. Il Radames di Gregory Kunde mostra ancor di più l’usura di un mezzo vocale fino a qualche anno fa miracolosamente intatto. Ora i suoni sono meno stabili, ma gli acuti sono sempre luminosi. Non realizza in pianissimo come prescritto il si bemolle finale di «Celeste Aida» ma riesce a modularne sapientemente il volume e il passato belcantistico rende la sua performance non eroica ma elegante e convincente.  Non freschissima neppure la voce di Ekaterina Semenčuk, ma la sua Amneris si distingue per la bellezza del fraseggio e le intenzioni interpretative che non esagerano mai. Efficace anche l’Amonasro di Vladimir Stoyanov nonostante un timbro un po’ opacizzato mentre non memorabile ma sostanzialmente corretto il Ramfis di Riccardo Zanellato. Più autorevole e solido il Re di Giorgi Manoshvili mentre Veronica Marini è una bella Sacerdotessa e Carlo Bosi il solito comprimario di lusso che incide il suo bel cammeo come Messaggero. Ottimo il coro del teatro istruito da Ciro Visco.

 

Edmea

Alfredo Catalani, Edmea

★★★☆☆

Wexford, National Opera House, 19 ottobre 2021

(diretta streaming)

No, Edmea non è Medea

Quarta delle sei opere liriche di Alfredo Catalani, Edmea fu quella più popolare nella breve carriera del compositore lucchese. Un po’ Lucia di Lammermoor, un po’ Nina pazza per amore, la vicenda è estremamente schematica e le parole del libretto di Antonio Ghislanzoni talora riecheggiano quelle dell’Aida di quindici anni prima («A noi schiuso è il ciel»…). La fonte letteraria è il dramma in quattro atti Les Danicheff, collaborazione di penna di Alexandre Dumas figlio e Pierre Corvin con lo pseudonimo di Pierre Newski, andato in scena al Théâtre de l’Odéon di Parigi nel gennaio 1876.

L’azione ha luogo in Boemia nel XVII secolo in un castello feudale sulle rive dell’Elba e nelle sue vicinanze.
Atto I. Edmea è rattristata dalla imminente partenza dell’amato Oberto per un lungo viaggio. I due innmorati giurano sull’effigie della defunta madre di lui di amarsi eternamente. Ulmo, innamorato di Edmea pur sapendo del sentimento che la lega ad Oberto, spera che la partenza di quest’ultimo gli apra la possibilità di conquistare il cuore di Edmea. Il Conte, che conosce e disapprova l’amore tra il figlio ed Edmea, decide, in virtù della sua autorità, che Edmea andrà in sposa ad Ulmo. Ulmo chiede ad Edmea di unirsi a lui come sorella, se non lo può amare, ma Edmea si dispera. Edmea, forzata a firmare l’atto nuziale, si getta disperata nel fiume Elba che scorre nei pressi, nel quale, inseguendola, scompare anche Ulmo.
Atto II. Edmea e Ulmo sono riusciti a scampare alle acque del fiume, ma Edmea, smarrita la ragione, crede di essere la fata dell’Elba alla ricerca di un re che un tempo l’amò. I due giungono in una taverna, dove Ulmo si presenta come fratello di Edmea. Poiché l’oste rifiuta di alloggiarli, vengono invitati da Fritz e da altri giullari, in viaggio verso la dimora del barone Waldeck che festeggia la nascita del primo figlio, a mettersi in cammino con loro. Tra gli invitati di Waldeck figurano anche il Conte e Oberto, che però, ancora disperato per la perdita di Edmea, si aggira cupo nel palazzo senza partecipare all’allegria generale. Quando i giullari giungono al palazzo, subito Oberto riconosce tra le loro la voce di Edmea, che al rivederlo, tra lo stupore di tutti, ritrova la ragione. Oberto, lanciando un’occhiata di sfida al padre, fugge con Edmea, lasciando Ulmo nella disperazione di aver salvato la giovane solo per riconsegnarla al rivale.
Atto III. Oberto ha ricondotto Edmea nella sua dimora, ma è all’oscuro delle nozze celebrate con Ulmo, che Edmea gli rivela nei pressi della tomba della madre di Oberto, che un tempo, morente, aveva benedetto l’unione tra Edmea e il figlio. I due progettano di fuggire, quando giunge Ulmo, pallidissimo. Oberto lo minaccia con un pugnale, ma Ulmo rivela che ha deciso di uccidersi per eliminare ogni ostacolo all’unione tra lui ed Edmea. Rassicurando Oberto che Edmea è ancora pura, Ulmo chiede come unica ricompensa, quando sarà morto, di ricevere da Edmea un bacio in fronte: è certo che lo sentirà nel cuore. Oberto si placa e Ulmo muore. Giunge il Conte, portando a Oberto la notizia che ha ottenuto lo scioglimento delle nozze. Oberto mostra al padre il cadavere di Ulmo e mentre Edmea esaudisce l’ultimo desiderio del defunto chiede a tutti di prostrarsi come all’altare di un santo.

Edmea fu presentata con discreto successo il 27 febbraio 1886 alla Scala sotto la bacchetta di Franco Faccio per poi non rientrare quasi più nei cartelloni dei teatri. Una registrazione dal vivo dal Teatro del Giglio di Lucca nel 1989 non è riuscita a ravvivarne l’interesse e ci voleva Francesco Cilluffo, nella sua instancabile e devota ricerca delle “gemme” di questo repertorio, per riportare alla luce questo frutto di un’epoca passata.

Il nome della protagonista è l’anagramma di quello di Medea, ma qui l’aspetto tragico è inficiato dalla sbrigatività dell’azione che tocca momenti di involontario umorismo: in meno di un minuto Edmea firma l’atto di nozze, lancia la sua sfuriata («Tentaste farmi spergiura… No, v’ingannaste»), corre al terrazzo, esce precipitosamente dal castello, si getta nell’Elba che scorre lì vicino e scompare nei flutti assieme ad Ulmo che si è lanciato al suo soccorso. Tutto avviene in maniera così repentina che quando il coro annuncia «Ulmo tra i vortici già s’è lanciato… | dalla corrente vien trascinato…[…] Sommersi entrambi! Orrore! Orrore!», il cantante è ancora lì sul palcoscenico…

Le convulse pagine si placano in turgidi ariosi e rapinose romanze in cui Catalani rivela la sua felice vena melodica richiedendo nello stesso tempo ai cantanti una vocalità generosamente dispiegata. Non si fa pregare a tal proposito il tenore Luciano Ganci, Oberto passionale e a suo agio nei marosi di un ruolo trascinante, ma talora lo si vorrebbe ascoltare anche non solo forte e fortissimo. Oberto ha la sua prima e unica pagina solistica soltanto nella scena quarta del secondo atto («Forse in quest’astro pallido»), ma da allora i suoi interventi nei duetti e nei concertati sono sempre più intensi. La parte del titolo trova nel soprano Anne Sophie Duprels un’interprete dal timbro a dir poco particolare, dalla dizione misteriosa e dagli acuti penetranti. L’espressione è temperamentale e la recitazione datata, in un certo senso adatta al personaggio tormentato e sospeso tra follia e realtà. Dalla melanconica ballata «Allor che il raggio de’ tuoi sorrisi» all’intensità del giuramento «Dinanzi a questa immagine» allo struggente «O bel sogno d’amor di speranza infinita» del terzo atto, la parte di Edmea offre a una prima donna la possibilità di esprimere una grande varietà di colori e di esibire una impegnativa linea vocale. Il baritono Leon Kim è convincente nella parte del rassegnato Ulmo, votato al sacrificio. Oberto alla fine lo riconoscerà («Prostratevi come all’ara di un santo») davanti al cadavere del suo rivale. È l’unico personaggio che non si esprima sopra le righe e il caldo timbro della voce è un piacevole contrasto alle intemperanze vocali dei due protagonisti principali. Anche a lui è destinata una pagina solistica di grande intensità, l’intera scena terza dell’atto primo con l’aria «Divora le lacrime insensate» di grande drammaticità. Meno interessanti sono i cantanti dei ruoli secondari.

Per rendere accettabile il drammone di Edmea occorre un direttore che creda nella sua musica e che ricrei con amore un lavoro che altrimenti suonerebbe solo magniloquente. Cilluffo riesce a ottenere dalla non esaltante orchestra del Wexford Festival una verità che rende plausibile la vicenda ed esalta le finezze strumentali di questa partitura. L’ouverture era stata drammatica e piena di quel pathos melodrammatico che pervade l’opera alternandosi ai momenti spensierati dell’arrivo dei giullari e della festa del secondo atto,  pagine che ricevono il giusto colore sotto la sua bacchetta.

La regista Julia Burbach trasporta la vicenda dal XVII secolo agli anni ’50 del secolo scorso leggendola con gli occhi della protagonista femminile. Si tratta di un lungo flashback in cui la scenografia di Cécile Trémolières gioca un ruolo essenziale: nel primo e nel terzo atto vediamo due stanze identiche, uno specchio dell’altra – come nella Rusalka di Carsen. In quella capolvolta in basso domina il subconscio tormentato della donna, in quella superiore la realtà. Non convincente del tutto, lo schema è comunque abbandonato nel secondo atto, quello più onirico, dove in un ambiente unico dominano i costumi fantasiosi, disegnati dalla stessa scenografa. Giustificati dal tema della festa, lo è un po’ meno quello dell’oste vestito come un ballerino di flamenco.

Grazie dunque al Festival di Wexford per averci fatto conoscere questa curiosità. Non ha portato alla luce un capolavoro nascosto, ma un interessante documento del gusto di un passato definitivamente superato.

Aida

La locandina dello spettacolo

Giuseppe Verdi, Aida

Parigi, Opéra Bastille, 18 febbraio 2021

★★★☆☆

(video streaming)

La pelle negata

Due cose sono insopportabili nelle regie moderne: le marionette e la political correctness. Qui sono entrambe presenti.

All’Opéra di Parigi è arrivato da Toronto il nuovo direttore, Alexander Neef, che ha fatto parlare di sé con affermazioni quali «Molti titoli dovranno essere messi da parte» che hanno fatto gongolare la destra francese tesa a salvaguardare la «vera cultura nazionale». Neef si riferiva ai balletti classici che perpetuano gli stereotipi di razza – “la danse des négrillons” nella Bayadère, “la danse des chinois“ nello Schiaccianoci… – ma c’è chi ha pensato al mondo della lirica dove i riferimenti, non sempre positivi, verso le razze sono frequenti e già oggi in alcuni teatri i libretti vengono censurati e modificati, con risultati talora peggiori, come quando Azucena invece che «dell’immondo sangue dei negri» diventa della non meno offensiva «immonda stirpe gitana».

Alexander Neef ha subito istituito un “ufficio delle diversità” dove agisce lo storico franco-senegalese Pap Ndiaye che si è dichiarato contrario alla pratica di truccare il viso a seconda della razza dei personaggi in scena, come già avveniva al Metropolitan di New York. In casa nostra era divampata la polemica la scorsa estate all’Arena di Verona per un soprano americano che si era rifiutato di scurirsi il volto per interpretare Aida.

E nessuna blackface è presente in questa Aida all’Opéra Bastille, o meglio, Aida e Amonasro non hanno la faccia annerita, ma nera ce l’ha, di suo, il Re. E quindi in scena abbiamo un faraone nero la cui figlia è bianca e bionda – e sembra Frau Blucher… – che però non agisce direttamente, giacché presta la voce a un pupazzo in scala reale, o quasi, mosso, come nel bunraku, da dei marionettisti, quelli della compagnia di Mervyn Millar. Pupazzo lo è anche Amonasro, che sembra uscito da The Mummysiamo in Egitto, d’altronde.

Con l’espediente di mettere in scena dei pupazzi manovrati, Lotte de Beer evidenzia la loro impotenza sociale rispetto agli altri personaggi: gli egiziani qui sono i francesi del canale di Suez, considerato infame strumento coloniale oltre che occasione per la scrittura della terz’ultima opera di Verdi. Nella sua lettura la regista mette in secondo piano il dramma umano della vicenda, qui quello che conta è la denuncia del colonialismo e delle sue nefandezze, una delle quali è l’aver depredato i popoli dei loro artefatti per esporli nei musei dell’Occidente. All’assunto si adegua anche Michele Mariotti che in un’intervista afferma: «Il mondo cambia e la lirica non può essere avulsa. Non bisogna dare la colpa a libretti che sono figli del loro tempo, ma vanno filtrati con la nostra sensibilità. Non si può ignorare che l’Occidente si è arricchito attraverso il colonialismo, c’è un credito, non si può pensare di prendere e basta»

Ecco dunque che per spiegare l’antefatto a chi non conoscesse la vicenda, durante la sinfonia vediamo una marionetta (Aida) essere fatta prigioniera. Delle opportune didascalie (solo nella regia televisiva?) faranno lo spiegone durante gli interminabili cambi di scena che ci fanno conoscere le opere pittoriche di Virginia Chihota, artista dello Zimbabwe. Aida viene quindi messa in una teca per essere ammirata da signori in costume fine Ottocento. Ed è al reperto archeologico che Radamès in divisa canta il suo «Celeste Aida», compreso del finale si♭ in pianissimo, comme il faut, mentre il coro «Immenso Fthà» accompagna lo svelamento di un nuovo reperto del museo in cui si sviluppa l’atto primo.

La “danza dei giovani schiavi mori”, che in Verdi fa tanto Ballo Excelsior, qui accompagna la prova del costume da Vittoria Alata di Amneris. Ma è l’attesa marcia trionfale il momento più godibile dello spettacolo con il suo kitsch esibito allorché fornisce il tappeto sonoro a dei tableaux vivants di argomento storico di soggetto quanto mai vario (dal Bonaparte franchissant le Grand-Saint-Bernard di David alla foto di Joe Rosenthal Raising the Flag on Iwo Jima), ma accomunati dal tema bellico o della sopraffazione.

Una nuova drammaturgia copre totalmente quella originale per illustrare una tesi confezionata a priori. Non è una novità nella regia moderna dell’opera, ma qui la realizzazione è pesante e con elementi di eccessiva ridondanza. Si spera poi che sia voluto il ridicolo dei costumi (Amneris sembra una Queen Victoria vestita da Walt Disney e Radamès a un certo punto è un corazziere che ricorda Renato Rascel con la stessa «cassarola sulla testa»…). Il tutto però fa a pugni con la drammaticità del finale, ma anche qui con Radamès che abbraccia il pupazzo mentre Aida (la sua anima) esce maestosamente di scena non si sa se sia più ridicolo o inquietante.

Fra tutti Jonas Kaufmann è quello che sembra divertirsi di più: senza la barba assume talora espressioni da pesce in barile che sottolineano la tragica stupidità del personaggio a cui però non fa mancare la sua straordinaria vocalità, che forse non è la stessa del passato, ma riesce ancora a stupirci per le mezze voci e i filati con cui fa a gara con Sondra Radvanosky. Il soprano americano, libero da impegni recitativi, concentra la sua attenzione sul fraseggio e sull’espressività del suo personaggio, con risultati mirabili anch’essi. E il duetto finale, se non fosse per l’incongrua messa in scena, sarebbe da annoverare tra i migliori vissuti a teatro. Ksenia Dudnikova è una Amneris vocalmente talora poco controllata, ma di sicuro temperamento. Più elegante del solito, e non poteva essere diversamente, l’Amonasro di Ludovic Tézier e giustamente autorevole vocalmente il Ramfis di Dmitrij Beloselskij, così come il Re di Soloman Howard. I nostri Alessandro Liberatore e Roberta Mantegna portano il tocco di italianità nei personaggi del Messaggero e della Sacerdotessa.

Il discorso sull’allestimento registico ha prevalso in questa cronaca, ma la direzione di Michele Mariotti, ritornato una seconda volta all’Opéra dopo Les Huguenots di due stagioni fa, e questa volta con il suo Verdi, meriterebbe altrettanto spazio perché è tra gli elementi migliori di questa produzione. Raramente si erano sentiti tanta trasparenza e gusto dei particolari nella interpretazione di questa partitura: dai lividi iniziali lacerti tematici al morire in pianissimo delle ultime frasi, non c’è pagina che non abbia avuto una resa magistrale e un vero senso del dramma. Quello che è mancato sul palcoscenico.

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La forza del destino

Giuseppe Verdi, La forza del destino

Monaco, Nationaltheater, 7 maggio 2015

★★★★☆

(registrazione video)

È brutta la guerra, abbasso la guerra!

Si può ancora mettere in scena una Forza del destino puramente illustrativa? No, e lo dimostra il regista Martin Kušej che prende il testo del Piave e lo legge da uomo intelligente e dei nostri giorni, o meglio lo legge tra le righe o, se si vuole, a un secondo livello. Con quello che abbiamo visto e che continuiamo a vedere quotidianamente non possiamo neanche lontanamente non dico divertirci ma ascoltare senza imbarazzo i versi del libretto e della esaltazione della guerra.

Ecco quindi che il regista intende il drammone di amore e morte come la storia dell’autodistruzione di una famiglia e il senso di colpa della figlia ribelle e del suo desiderio di libertà. Freud non è certo assente in questa lettura del regista: Leonora ha indirettamente (o inconsciamente) causato la morte del padre perché voleva liberarsi di quella schiavitù cui era relegata in quanto figlia e donna. Per il resto della sua vita cercherà di espiare questa colpa, ma non riuscirà a liberarsi della figura del padre che nella regia di Kušej ritroverà nel Padre Guardiano, interpretato dallo stesso cantante. La famiglia e la religione sono entrambe forze oppressive e distruttive e uno scenario di guerra con le sue devastazioni e i suoi abbrutimenti accompagnerà il resto dell’opera.

Nel corso dell’esecuzione della splendida ouverture vengono scambiati nervosi e inquieti sguardi durante la preghiera tra i commensali di una tavola dominata da un padre-padrone costantemente informato dalla sua sicurezza di quello che avviene nella sua proprietà – quindi anche dell’arrivo di Don Alvaro. Quando questi arriva, capelli lunghi e sudato, il nobile mezzosangue decaduto prima ancora di abbracciare la sua Leonora si attacca a un bicchiere di vino: la cavalcata è stata faticosa e la temperatura ardente qui in Siviglia. Leonora nicchia, ma alla fine cede nel momento in cui rientra il padre e viene esploso il colpo fatale che lo uccide. Sul suo corpo insanguinato si butta Carlo, il fratello minore di Leonora, un bambino occhialuto.

Nell’atto seguente ritroviamo la stessa tavola con Leonora immobilizzata nella stessa posizione, ma Carlo è uomo adulto e ancora con gli occhiali cerchiati di nero. La scena è devastata da un’esplosione e una folla smarrita risponde senza convinzione ai couplet di Preziosilla. Un inatteso cambio di prospettiva avviene nel quadro successivo: il fondo è ora il pavimento sventrato da una bomba e Don Alvaro canta su una prospettiva escheriana. La scena di triste orgia che segue è sia la proiezione del senso di colpa della donna (il sesso immaginato come espressione di libertà diventa una mostruosa espressione di morte) sia di quello che dice fra Melitone e il rataplan di Preziosilla suona beffardamente macabro su uno stuolo di corpi distesi per terra come cadaveri allineati dopo una catastrofe.

Il convento cui si rivolge Leonora è una chiusa parete di legno che si apre solo per il suo “battesimo” prima di ritirarsi nello “speco”, un luogo dominato e oppresso da infinite croci bianche, il fallimento a trovare nella fede la pace tanto agognata. Nel finale abbiamo la stessa tavola dell’inizio e ai loro posti originali ci sono ora il padre/guardiano e il fratello morto. Un piatto con del pane nervosamente sbriciolato da Leonora, esattamente come all’inizio, rimanda al vuoto rito della comunione. Come era entrato all’inizio così Alvaro esce dalla scena e da questa famiglia: disgustato getta un crocifisso in mezzo a tutti gli altri accatastati.

Con minimi movimenti del corpo fasciato in un abito nero, il soprano tedesco Anja Harteros è una Leonora eccelsa: vocalmente il suo caldo timbro centrale mette in luce la sopita passionalità della donna, gli acuti luminosi la disperata ricerca della pace interiore. Trascinante fin dal primo momento, Jonas Kaufmann dimostra una qualità vocale e una presenza fisica sbalorditiva ed eccezionale è la capacità di interazione con gli altri personaggi: i suoi duetti con Leonora e con Carlo sono memorabili e trascinano giustamente il pubblico all’entusiasmo.

Martin Kušej ha il merito ulteriore di rendere scenicamente persuasivo Ludovic Tézier, fino ad ora considerato un baritono di buoni mezzi vocali ma scialba presenza fisica: qui invece, come sollecitato da Kaufmann, gareggia con lui in efficacia recitativa nel suo personaggio mosso ciecamente dall’odio e dalla sete di vendetta e sordo a qualunque altro discorso. Voce di grande qualità è anche quella di Vitalij Kowaljow, il basso russo è convincente sia come marchese di Calatrava sia come padre Guardiano. Renato Girolami e Nadia Kraesteva rendono fra Melitone e Preziosilla per una volta non detestabili.

Appropriata e vigorosa la direzione di Asher Fisch, che comunque rispetta sempre le voci in scena. Per questa esecuzione viene scelta la versione del 1869. Kušej, Kaufmann e compagnia sono riusciti a farmi finalmente apprezzare quest’opera di Verdi!

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Aida

Giuseppe Verdi, Aida

★★★★☆

Busseto, Teatro Verdi, 27 gennaio 2001

(registrazione video)

L’Aida da camera di Zeffirelli

Chi continua a ribadire, giustamente, che Aida è un’opera intimista questa volta è accontentato: dall’Arena di Verona (14.000 posti, 47 metri di palcoscenico) l’opera si trasferisce al Verdi di Busseto (300 posti, palcoscenico di 7 metri) con lo stesso regista, Franco Zeffirelli, che nel 2001, anno del centenario verdiano, riprende una delle sue tante produzioni per adattarla al minuscolo ambiente del teatro della città natale del compositore.

La tentazione di fare di questa Aida in sedicesimo una caricatura del kolossal che conosciamo è subito fugata da Zeffirelli che prende del tutto seriamente la vicenda e utilizza astuti stratagemmi scenografici per ingannare la vista degli spettatori. L’esiguità degli spazi stimola il regista a concentrare il lavoro sulla recitazione dei cantanti, che rispondono con eccellente professionalità. Non guasta l’avvenenza e la giovane età degli interpreti.

Anche l’orchestra qui è ridotta, tale da dare un tono quasi cameristico all’opera, ma la mano sicura di Massimiliano Stefanelli riesce a ricreare i colori della partitura e a mantenere sempre viva la tensione drammaturgica e a dipanare con intensità i tanti momenti lirici. Le trombe ci sono, anche se la parata in scena non ci sta: se ne sente la musica fuori, con lo sfondo di una piramide inondata dal sole, e la vediamo come Aida da dietro le spalle della folla che inneggia ai vincitori. Di conseguenza la scena è drasticamente accorciata. Una soluzione geniale e necessaria ma certo non del tutto convincente. Precedentemente le danze nel tempio erano state affidate a una sola ballerina, la 65enne Carla Fracci. Suggestive ed efficaci le luci di Vinicio Cheli.

Bella e brava l’Aida di Adina Aaron dal giusto accento drammatico che con la sua non perfetta dizione esalta il carattere esotico della schiava etiope. Il Radamès di Scott Piper è eccellente per timbro e a suo agio negli acuti, ma termina giustamente in piano la sua prima aria ed è perfetto nell’ultimo atto. Con lui si sente l’assistenza ai giovani cantanti fornita da Carlo Bergonzi. Una Amneris un po’ fuori parte è quella di Kate Aldrich, seppure come sempre vocalmente sicura. Potente l’Amonasro di Giuseppe Garra e non esageratamente trucido come spesso viene dipinto. Magnifico il Ramfis di Enrico Giuseppe Iori.

Magnifica la ripresa video di Fausto dall’Olio con primi piani di volti e sguardi intensi.

Aida

Giuseppe Verdi, Aida

Salisburgo, Großes Festspielhaus, 6 agosto 2017

★★★★☆

(video streaming)

Un’Aida attuale e senza Egitto

Assente dai tempi di von Karajan, alla Großes Festspielhaus di Salisburgo torna Aida e ci torna sotto la bacchetta di Riccardo Muti, anche lui lontano da quasi quarant’anni dalla partitura verdiana. Il maestro ha accettato l’incarico sapendo che avrebbe avuto al suo fianco nell’allestimento dello spettacolo non un régisseur di fama che avrebbe imposto la sua personale visione, bensì un’artista visiva alla sua prima regia lirica: l’iraniana Shirin Neshat, che con i suoi lavori di video-fotografia esplora le attuali condizioni sociali nel mondo islamico, soprattutto per quel che riguarda il ruolo della donna. In quanto esiliata dal suo paese è la persona giusta per leggere questa vicenda di una figlia di re diventata schiava e della guerra tra due etnie nemiche.

La scenografia di Christian Schmidt è costituita da due contenitori bianchi su una piattaforma rotante, che inizialmente sembrano due comparti del frigorifero ma anche alti muri di cemento, che però poi si rivelano funzionali a definire il palazzo di Menfi, il tempio di Ammone, quello di Iside sul Nilo e infine la tomba in cui viene rinchiuso Radamès. Il tutto anche grazie alle sapienti luci di Reinhard Traub. Sulle pareti vengono proiettati video di uomini e donne ripresi dalla Nishat su sfondo nero e in una staticità monumentale che è la chiave dello spettacolo. Staticità che troviamo anche nella scena della marcia trionfale: la bianca struttura – con dentro popolo, ministri, sacerdoti e sacerdotesse, immobili, molto poco trionfali e per niente festanti – ruota lentamente e dietro vediamo ammassati i prigionieri. Anche l’arrivo di Radamès è improntato a grande semplicità così da evidenziare la scena dell’incontro di Aida col padre e la supplica al re per dare libertà ai prigionieri. È una coerente scelta registica anche quella di aver eliminato le danze del primo atto e averle opportunamente sostituite da una cerimonia di investitura di Radamès col «sacro brando», mentre nel secondo atto il coreografo Martin Gschlacht ci risparmia le solite “pose egizie” mettendo in scena pochi ballerini con inquietanti bucranî e in moderni movimenti di danza.

La costumista Tatyana van Walsum sceglie per le coriste costumi tutti uguali, anche le capigliature sono le stesse; i soldati hanno una divisa kaki e i sacerdoti hanno abiti che ricordano sia preti ortodossi sia mussulmani. Sontuosi sono invece i fluttuanti abiti delle due donne: inizialmente rosso violento poi bianco e infine nero per Amneris, azzurro per Aida, che sfoggia nei primi due atti una magnifica acconciatura, mentre dal terzo in poi la sua immagine si avvicina a quella delle prigioniere etiopi, compresa la linea bianca che scende dalla fronte.

Un’altra implicita richiesta di Muti è stata quella di avere interpreti affermati, ma debuttanti nella parte, in modo da poter costruire assieme la sua personale lettura, che più che intimista è fedele al dettato della partitura in cui raggiunge un equilibrio stupefacente tra il lirismo più trasparente e la drammaticità di pagine che non sfociano mai nel plateale (come invece succedeva nella sua versione di quattro decenni fa). La sua intesa con i Wiener Philharmoniker è perfetta e infatti lo rivedremo dirigerli per il concerto viennese del primo gennaio 2018.

Nell’evoluzione naturale della sua vocalità Anna Netrebko si trova nel momento ideale per interpretare il ruolo di Aida: ha il timbro, il carisma e il temperamento giusti, i filati e gli acuti sono perfetti e la presenza scenica eccezionale.

Come sappiamo Francesco Meli compendia in sé le migliori voci italiane del passato (Di Stefano, Bergonzi…), compresa una certa rigidezza scenica. Il suo «Celeste Aida», con giustamente il finale in pianissimo, è reso magistralmente e anche tutto il resto è bello, ma il tenore genovese sembra sempre un po’ il primo della classe impegnato a far bella figura tutto da solo. Nel finale però diventa più convincente anche scenicamente e conclude in bellezza un ruolo che ha comunque cesellato con sensibilità.

Non debuttante nella parte è Luca Salsi (Amonasro), padre che condivide con la figlia i tormenti della schiavitù e la nostalgia della patria. Efficace Amneris è quella di Ekaterina Semenčuk, così come il Ramfis di Dmitrij Beloselskij e il re di Roberto Tagliavini.

Lo spettacolo clou del Festival di Salisburgo si è rivelato non solo un’attesa occasione mondana, ma anche una preziosa occasione di assistere sotto una nuova luce a una “nuova” Aida.

Aida

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Giuseppe Verdi, Aida

★★☆☆☆

Torino, Teatro Regio, 20 ottobre 2015

Il Regio inaugura la stagione con… l’Amneris di Verdi

Fino all’ultimo giorno, il compianto Paolo Terni, che tramite la radio ha portato nelle nostre case la sua eccelsa erudizione, la sua capacità di divulgazione e la sua curiosità, si è chiesto perché i teatri ripropongano per la centesima volta Aida o Bohème o Traviata lasciando nel cassetto ineseguiti centinaia di altri capolavori. Lo diceva a proposito dell’Ecuba di Nicola Antonio Manfroce, ma poteva dirlo per una delle tante opere mai più rappresentate in Italia. Eppure, ai tempi di Verdi, di Rossini, di Donizetti le stagioni dei teatri si aprivano quasi sempre con opere nuove, mai ascoltate prima. La cautela intellettuale di sovrintendenti e direttori artistici non ha giustificazioni ed è il mummificato repertorio che continuano a ripetere fino allo sfinimento la causa della crisi dello spettacolo lirico. Perché manca questa voglia di conoscere e si ripiega sempre sul repertorio più consolidato e consueto?

A questa domanda la Fondazione Teatro Regio risponderà che Aida mancava da tempo dai suoi cartelloni e con i tagli ai bilanci ecc. ecc. Per cui il nostro teatro ripropone l’allestimento di dieci anni fa, quello di William Friedkin, il regista dell’Esorcista – non il suo primo approccio all’opera lirica: nel 1999 aveva allestito un Wozzeck a Firenze. L’occasione è poi la riapertura, avvenuta ormai da sei mesi, del Museo Egizio riallestito, ahimè, con criteri quantomeno discutibili. Si voleva quindi rimanere in ambito egizio ed ecco allora l’opera di Verdi.

Fin dal pavimento dell’Atrio delle Carrozze, riproducente le iscrizioni geroglifiche in pasta vitrea del sarcofago di Gedthotefankh (300 a.C.) riportanti il 72° capitolo del Libro dei Morti (1), alle scene e ai costumi di Carlo Diappi, nella sala di piazza Castello si respira aria di antico Egitto. Certo non nella musica di Verdi, che rimane indissolubilmente e totalmente verdiana (2), con solo qualche melisma orientaleggiante qua e là o per la presenza in partitura di sei “trombe egizie” (trombe naturali o chiarine in sib a un solo pistone).

L’11 ottobre 2005 andava in scena al Regio di Torino Aida, diretta da Pinchas Steinberg con Fiorenza Cedolins nel ruolo titolare, Marianne Cornetti come Amneris, Walter Fraccaro (Martinucci nel secondo cast) nel ruolo di Radames, Alberto Gazale e Giorgio Surian rispettivamente Amonasro e Ramfis. Nelle cronache di allora si leggeva: «Per sua stessa ammissione è stata scelta un’ambientazione assolutamente tradizionale, giustificata – tra l’altro – anche [d]alla vicinissima presenza del Museo Egizio, senza tentare complicati stravolgimenti spazio-temporali. Le belle scenografie […] ci restituiscono infatti l’Egitto più convenzionale, così come gli appropriati costumi. […] Fatte queste premesse, era lecito aspettarsi quindi una specifica ricerca di introspezione psicologica ed un maggior scavo nel carattere dei personaggi, attraverso una cura dettagliata della recitazione e dei movimenti: in effetti tutto questo si è avvertito solo a tratti ed in particolare nel terzo atto, dove – Amneris a parte – l’indole più nascosta dei protagonisti dell’opera esce direttamente allo scoperto. […] Non ho trovato sufficientemente messo in luce il carattere ambivalente di Amneris, soprattutto nei primi due atti, in cui la figlia dei faraoni ha la possibilità in più di un’occasione di emergere come vera protagonista, il che mi è parso doppiamente strano, in quanto proprio lo stesso Friedkin (e in questo non ha certamente scoperto l’acqua calda) sottolinea come il personaggio più interessante dell’opera sia proprio l’infelice principessa. […] Complessivamente comunque uno spettacolo di piacevole impatto visivo nella sua linearità e – tutto sommato – di semplice intuizione». (Vittorio Zambon)

È un allestimento visivamente gradevole infatti e con luci suggestive, ma la regia d’opera è altra cosa: i cantanti si muovono senza indicazioni recitative e s’arrangiano come possono. Il déjà vu e il kitsch sono poi sempre in agguato e sfiorano l’immancabile ridicolo nella scena della marcia trionfale con quei trombettieri spaesati e le comparse che vanno avanti e indietro per sembrare più numerose come in una recita di teatro di provincia. I balletti televisivi e con le “pose egizie” non migliorano la situazione. Così il Regio ci fa fare un salto nel tempo proponendoci uno spettacolo già vecchio dieci anni fa.

Sul podio c’è un Gianandrea Noseda pimpante che non risparmia sui volumi sonori, ma sa dosare l’orchestra a dimensioni cameristiche allorché dipana gli arabeschi e le preziosità timbriche che contraddistinguono quest’opera oscillante tra grand opéra e dramma intimo.

La compagnia di canto è a dir poco eterogenea. A fianco della stupenda Amneris di Anita Rachvelishvili la cui voce di velluto dalle preziose risonanze, la drammaticità dell’accento e la presenza scenica danno stupefacentemente vita al «personaggio più interessante dell’opera», gli altri interpreti principali sfiorano la mediocrità. Kristin Lewis è un’Aida dal timbro tagliente, i salti di registro bruschi, dalla dizione approssimativa, mai commovente. Marco Berti disegna un Radames negligente nelle dinamiche previste dalla partitura, sempre berciante, senza grazia e con problemi nell’intonazione. Grezzo l’Amonasro di Mark S. Doss, meglio invece il Ramfis di Giacomo Prestia.

L’indulgente pubblico di Torino (non oso immaginare cosa sarebbe successo alla Scala…) ha salutato alla fine gli interpreti senza dissensi e con applausi insistiti per Amneris e il direttore Noseda.

In conclusione, non essendo un barolo, l’allestimento di Friedkin, spettacolo modesto nel 2005, non è migliorato in questi anni, anzi. Scelta incauta quindi quella del Regio di iniziare la sua partecipazione a Opera Platform proprio con questa produzione (sarà disponibile in video streaming dal 24 ottobre). Certo non il biglietto da visita migliore per il teatro torinese.

(1) Grazie a Elisabetta Valtz per le dotte e puntuali informazioni.

(2) Anche volendo, nel 1871 – anno del debutto dell’opera in seguito all’occasione, mancata, dell’inaugurazione del nuovo teatro dell’opera del Cairo avvenuta due anni prima – gli studi di egittologia in Italia non avevano ancora conosciuto il progresso che avrebbero avuto a inizio Novecento con Schiaparelli. Poco si sapeva poi della musica degli antichi egizi.