Ferdinand Lemaire

Samson et Dalila

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Jose Etxenagusia Errazkin, Sansón y Dalila, 1887

Camille Saint-Saëns, Samson et Dalila

Turin, Teatro Regio, 15 November 2016

★★☆☆☆

bandieraitaliana1.gif   Qui la versione in italiano

Cecil B. DeMille in China

Samson was a Nazarite, a chosen one, like Jacob or Isaac, and his birth was a miracle because his mother was barren. The prohibition of cutting his hair, as well as not drinking alcohol, was part of his covenant with the God of Israel to free its people from Philistia. It is written in the Bible, “Book of Judges” 13-16, and it is a subject well suited for an oratorio – Handel set it to music on a text by Milton in 1743.

Saint-Saëns’ opera begins with the solemn tones of a chorus…

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Samson et Dalila

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Jose Etxenagusia Errazkin, Sansón y Dalila, 1887

Camille Saint-Saëns, Samson et Dalila

Torino, Teatro Regio, 15 novembre 2016

★★☆☆☆

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Cecil B. DeMille in Cina

Sansone è un nazireo, un eletto, come Giacobbe o Isacco, e la sua nascita è un miracolo perché la madre era sterile. Il divieto di tagliarsi i capelli, come quello di non bere alcolici, fa parte del suo patto con il Dio di Israele per liberarne il popolo dalla Filistia – così dice il racconto biblico (Libro dei Giudici, 13-16). Si tratta quindi di un soggetto più consono a un oratorio che a un’opera e infatti è Händel a musicarlo come tale nel 1743 su testo di Milton.

L’opera di Saint-Saëns inizia sì con i toni solenni di un coro («Dieu d’Israël! Écoute la prière») che continua in una parte sapientemente fugata, ma presto l’opera prende una piega diversa: è la figura di Dalila quella che interessa maggiormente al compositore ed è a lei che sono dedicate le pagine più seducenti – il titolo originariamente previsto per l’opera era infatti Dalila. Delle imprese eroiche dell’ebreo non viene quasi fatto cenno nel libretto di Ferdinand Lemaire, che si concentra invece sui conflitti interiori del personaggio. La musica oscilla in continuazione tra austera atmosfera religiosa e sensuale erotismo, tra solenni accordi tonali e melismi orientaleggianti, così come oscilla tra passato e futuro la produzione del Regio di Torino affidata a Hugo De Ana. Il regista aveva già messo in scena Samson et Dalila nel 2001 con un’ambientazione che aveva fatto molto discutere: una Palestina con ebrei ridotti a vivere in una discarica di rottami d’automobili i quali come armi brandivano una marmitta o un parafango, mentre i Filistei erano in costumi da Star Trek.

Quindici anni dopo il regista argentino rinuncia a ogni provocazione in questo suo nuovo allestimento, coprodotto con il National Centre for the Performig Arts di Pechino dove lo spettacolo è stato presentato l’anno scorso. La sua lettura ripiega sul colossal biblico cinematografico anni ’50, ma in scena qui non ci sono Hedy Lamarr e Victor Mature, purtroppo, e chi poi sperasse fino alla fine dello spettacolo trattarsi di un’operazione ironica aspetta invano. L’entrata in scena di Dalila chiarisce subito che l’ironia è ben lontana dagli intenti del regista: le donne filistee del suo corteo muovono le braccia come nelle coreografie degli anni ’40 e Dalila accenna a movenze di danza quantomeno imbarazzanti. Durante il duetto del secondo atto l’assoluta mancanza di seduzione ed erotismo è compensata dalla proiezione sul velario che divide la scena dalla platea di corpi nudi i cui dettagli anatomici distraggono più del dovuto da quanto avviene sul palcoscenico. Di nudità ci sarà poi gran copia nel baccanale dell’atto terzo, anche se si tratta per lo più di ballonzolanti organi genitali posticci applicati ai tanga dei ballerini. Senza tensione è il duetto tra Dalila e il Gran Sacerdote di Dagon, qui un bravo Claudio Sgura, e deludente il finale con quattro petardi e alcuni calcinacci che cadono dall’alto. Almeno qui ci voleva un bel cataclisma! Le scenografie sono di gusto cinese e i costumi sono incongruamente lussuosi con ricchissimi ricami. Giustamente sono salite sul palco a ricevere gli applausi anche le costumiste del teatro.

Pinchas Steinberg dirige correttamente uno spartito che conosce bene ma di cui non sembra abbia voglia evidenziare le sorprendenti ricchezze orchestrali. I tempi scelti sono poi talora fin troppo rilassati. Dopo tanto bel canto italiano, Gregory Kunde ritorna a quel repertorio francese in cui ha sempre potuto esprimere al meglio la grazia della voce – il suo Nadir dei Pêcheurs de perles di Bizet è stato tra i massimi di ogni epoca. Kunde riporta sulla scena un Samson lirico, dopo che nel secolo passato il ruolo aveva toccato un vertice drammatico con Del Monaco o Vickers. La sua prestazione rivela ancora una volta il miracolo di una voce che continua a sorprendere per freschezza, potenza ed eleganza. La sua presenza scenica non è però aiutata dalla regia, e risulta impacciata e statica. Così ne risente il personaggio, poco sviluppato.

Debuttante nella parte è invece Daniela Barcellona, anche lei a suo agio nell’opera francese, pensiamo a Les Troyens. Il ruolo di Dalila è vocalmente più impegnativo di quello di Didone ed i passaggi di registro non hanno la fluidità che ci si aspetterebbe, anche se il timbro è sempre bello e gli acuti ben piazzati. Anche qui la regia ha gravemente ipotecato la definizione del personaggio e la femme fatale è diventata un’antipatica megera.

Samson et Dalila

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Paul-Albert Rouffio, Samson et Dalila, 1874

Camille Saint-Saëns, Samson et Dalila

★★★☆☆

Parigi, Opéra Bastille, 10 ottobre 2016

Sansone e l’accendino

È lunga la gestazione dell’opera Samson et Dalila e segue le vicissitudini storiche della Francia Secondo Impero – periodo cui è dedicata proprio ora una spettacolare mostra al Musée d’Orsay di Parigi.

La composizione era iniziata nel 1859, sette anni dopo la proclamazione di Luigi Napoleone III imperatore dei francesi. Saint-Saëns aveva trascurato il progetto riprendendolo solo  nel 1867, ma la guerra Franco-Prussiana aveva messo di nuovo in stallo il lavoro che fu terminato dieci anni dopo, quando la Francia ora era una repubblica. Nel 1877 l’opera viene presentata in una versione tedesca a Weimar grazie ai buoni auspici di Franz Liszt e nel 1890 è finalmente in scena a Rouen nell’originale francese del libretto di Ferdinand Lemaire, ma dovrà aspettare ancora due anni per debuttare nella capitale, prima al Théâtre-Lyrique e poi all’Opéra.

“Urgenza di una riscoperta” titola il suo intervento sul programma di sala il direttore Philippe Jordan. Infatti questo caposaldo della musica francese mancava da un quarto di secolo dalle scene parigine. Ora in questa produzione, la numero 988 dell’Opéra National come tengono puntigliosamente a dichiarare quelli del teatro, nel ruolo di Dalila c’è una meravigliosa Anita Rachvelishvili che pur avendo una straordinaria potenza sonora fa la prodezza di cantare la sua prima aria, «Printemps qui commence | portant l’espérance», pianissimo e con una mezza voce sorprendente. Ripeterà l’impresa anche nella scena di seduzione del secondo atto, «Mon coeur s’ouvre à ta voix comme s’ouvrent les fleurs», quella che fa crollare Sansone. La potenza sonora la riserva nel duetto con il gran sacerdote, il baritono  lèttone Egils Siliņš, e poi con Sansone, un altro lèttone, il tenore Alexandrs Antonenko. Questa volta riesce anche lui a modulare la voce in modo meno stentoreo e perforante del solito – chi l’avrebbe detto dopo il suo deludente Radames qui a Parigi o il Calaf milanese? Parte del merito va al regista, che impone un intenso lavoro attoriale e aiuta il tal modo l’espressività del cantante che finora non aveva fatto un gran uso  dei colori nella sua  vocalità.

Altra cospicua parte del merito va alla preziosa concertazione di Philippe Jordan che mette in rilievo tutte le raffinatezze strumentali della partitura senza rinunciare a una vigorosa visione d’insieme. L’opera è stilisticamente divisa in tre atti molto diversi: a un primo atto solennemente oratoriale, in cui viene drammaticamente esposto il conflitto tra oppressi e oppressori (trattandosi della Bibbia è chiaro chi siano gli uni e chi siano gli altri), segue un secondo atto di grande tensione sensuale nella figura della donna tentatrice. Il terzo è quello che più cede alle mode orientaliste dell’epoca e alle consuetudini del grand-opéra con il suo “bacchanale” e la grandiosa, ma un po’ affrettata, conclusione. Non solo musicalmente, ma anche nella messa in scena di Michieletto questa è la parte più debole.

Come c’era da aspettarsi il regista veneziano si libera di tutta la paccottiglia esotico-biblica e consegna alle scene dell’Opéra Bastille una lettura attuale della storia, con l’oppressione del popolo schiavo, i soprusi, le umiliazioni. Dalila non è un semplice mezzo di tradimento nelle mani del gran sacerdote di Dagon, ma è un personaggio complesso che rifiuta l’oro che le viene promesso e che alla fine dopo il tradimento si sente in colpa e si immola con Sansone. Ed è Sansone stesso qui a tagliarsi i capelli per perdere la forza e dare così un’estrema prova d’amore.

Coerentemente alla visione di Michieletto lo scenografo Paolo Fantin rinuncia alla cartapesta e all’orientalismo di maniera per immergere la vicenda in un’atmosfera crudamente attuale. La scena unica è compresa fra tre alti muri piastrellati in cui, sospesa nel primo e terzo atto, appoggiata a terra nel secondo, è una stanza matrimoniale elegantemente arredata e racchiusa da tutti i lati da una tenda. Staccata dalle vicende in basso in cui il popolo ebreo viene schiavizzato, Dalila riceve le minacce del gran sacerdote e poi seduce Sansone. Il terzo atto diviene una specie di sala del trono sospesa sui filistei che più che un’orgia inscenano un party in costume e si dimenano scompostamente sotto le note del baccanale quasi fosse disco-dance. Questa del ballo dei coristi sta diventando un topos delle regie moderne – già nella Lucia di Lammermoor, sempre di Michieletto, gli invitati ballavano il twist sulle note donizettiane.

La vicenda si dipana senza colpi di scena, non si coglie nemmeno il momento del tuono minaccioso e del temporale, ripiegando tutto nell’effetto finale: qui Sansone non fa crollare i pilastri del tempio, ma più modernamente dà fuoco a sé stesso e all’edificio con l’accendino che gli mette nella mani Dalila. Nel momento conclusivo tutta la scena è un bagliore di luce gialla. Dalila, il grande sacerdote e tutti i filistei hanno appena il tempo di gridare «Ah!».

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Die Gezeichneten

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Franz Schreker, Die Gezeichneten (Gli stigmatizzati)

★★★★☆

Lione, Opéra Nouvel, 13 marzo 2015

(video streaming)

La bella e la bestia sull’isola della depravazione

In Die Gezeichneten (Gli stigmatizzati) «ciascuno dei protagonisti porta “un segno”: Alviano quello della bruttezza da cui è soggiogato, Tamare quello della bellezza e Carlotta il crisma del suo cuore debole ma appassionato. Tutti elementi qui identificati in personaggi diversi ma in realtà tutti aspetti della condizione umana, e della natura dello stesso Alviano, sorta di divinità creatrice […] Elysium è la creazione di un dio colpevole e Alviano è come un Faust o un Prometeo, incapace di sfuggire a sé stesso e alla sua anima. Tutto ciò che genera, in realtà, è una sua proiezione. Anche se di quell’isola, per via della sua bruttezza, Alviano si sente indegno. Carlotta è il personaggio più interessante, quello che più di tutti manifesta il desiderio sessuale. Carlotta si dà alla notte, si butta nell’isola senza inibizioni, fiera della sua individualità, è pubblicamente indipendente. Manifesta insomma, tutti i sentimenti di quest’opera: non amore, ma eros, non sentimento, ma voglia, anima, ego, desiderio». Così scriveva il regista Graham Vick alla vigilia della sua messa in scena nel 2010 dell’opera di Schreker a Palermo.

Ora a Lione, con la regia del tedesco David Bösch e la direzione orchestrale di Alejo Pérez, ritorna quest’opera “degenerata” ed è la prima volta per la Francia.

Le immagini di giovani scomparse e poi del volto terrorizzato di una di loro – sono le ragazze figlie dei ricchi borghesi rapite per farne strumento di piacere – ci introducono all’isola ideata da Alviano per la bellezza delle arti e della natura, sulla quale invece sfogano la loro libido i patrizi genovesi. Il tema attualissimo della schiavitù sessuale suggerisce al regista un’ambientazione contemporanea. In un panorama desolato il fondo è uno schermo gigante su cui sono proiettate immagini di una fredda bellezza non meno inquietante di quanto avviene in scena. La lettura “cinematografica” di Bösch è l’aspetto più interessante e la messa in scena ha un’atmosfera talora da film dell’orrore. Scioccante è la scena dell’adescamento di un bambino col palloncino da parte di uno di questi depravati che poi compare da solo col palloncino e in bocca il lecca-lecca che era servito come esca.

Schreker è stato definito come il vero erede di Wagner e in effetti il duetto finale tra Alviano e Tamare ha una una drammaticità e una ricchezza armonica quali si ritrovano nei lavori che si ascoltano a Bayreuth. Però, anche se il compositore non aderirà mai ai codici della scuola viennese, la sua musica prelude lucidamente al teatro espressionista e atonale di Alban Berg, a quella Lulu impregnata di furiosa sessualità. «La musica [di Schreker] fa crollare ogni stereotipo sessuale repressivo accettato dalla società: lo scardina, lo annulla, lo annichilisce. Nell’amplesso finale fra Carlotta e Tamare ogni parte dei due corpi in amore è nobile zona erogena che si trasforma in bellezza di canto; e mentre nell’amore estetico (ma libero!) di Carlotta per Alviano tutto l’eros è destinato – alla fine – a svanire con la realizzazione del ritratto dell’essere difforme, nell’attrazione sessuale finale che Carlotta prova per l’aitante Tamare il suo erotismo si scatena e i suoi ripetuti orgasmi toccano punte davvero estreme: addirittura vuole che Tamare la uccida proprio nel momento culminante del suo godimento! “Dammi morte! esultava il suo sguardo | Dammi gioia!”. […] La vera libertà sessuale è tutta racchiusa nelle stupende pagine musicali della partitura di Schreker: esse sono permeate da sonorità assai sensuali, non mancano cromature [sic] che disgelano i richiami erotici e gli impasti orgiastici». (Giuseppe di Salvo)

Alejo Pérez rende bene i bellissimi impasti impressionistici dei preludi e degli interludi, gli scoppi orgiastici, fino alla dissoluzione sonora del finale in cui si acquietano finalmente le pulsioni più sfrenate come pure quelle di morte. Ottima la resa dell’orchestra malgrado degli archi che si vorrebbero un po’ più intensi.

Ottimo il lavoro attoriale sui cantanti. Alviano trova nella presenza e nella tessitura tenorile di Charles Workman tutte le sfumature del carattere di questo sofferto personaggio. La Carlotta che ama l’anima di Alviano, ma desidera ardentemente il corpo di Tarare, ha in Magdalena Anna Hofmann un’interprete sensibile e dai molti colori. L’acidità del timbro forse non è quella che avrebbe voluto l’autore, ma è per lo meno funzionale alla definizione del personaggio, qui un’artista ribelle un po’ punk. Simon Neal in giubbotto di pelle nera ha la strafottenza che il ruolo di Tamare richiede, ma vocalmente è un po’ rigido.

Ottima occasione questa di conoscere il lavoro di Schreker. Aspettiamo di poter ammirare su scena anche gli altri, almeno Der ferne Klang (Il suono lontano, rappresentata nel 1912) e Der Schatzgräber (Il cacciatore di tesori, 1918).

Samson et Dalila

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★★★★☆

Il mio dio è meglio del tuo

Stavo guidando, ma mi dovetti fermare: Radiotre stava trasmettendo l’aria di Dalila cantata da Maria Callas e l’intensa emozione che provavo mi impediva di procedere oltre. Dagli altoparlanti dell’auto veniva la voce di una donna non più giovane che, sulle quartine di note ribattute che rimbalzano tra i legni e gli archi dell’orchestra diretta da Georges Prêtre in concerto a Parigi nel 1961, esprimeva il suo struggente abbandono all’amore, «Mon coeur s’ouvre à ta voix comme s’ouvrent les fleurs | aux baisers de l’aurore!». La cantante ne aveva impedito la pubblicazione e solo dopo la sua morte si è potuta ascoltare questa incisione in cui una piccolissima imperfezione rende ancora più toccante la sua sublimata interpretazione. Qui Dalila non sta tramando contro il suo Sansone, è una donna autenticamente innamorata che ha già paura di perderlo e utilizza tutte le armi della seduzione a sua disposizione per attirarlo a sé.

È con l’emozione del ricordo della sua voce che intraprendo la visione di uno dei tanti video che immortalano Plácido Domingo nel ruolo di Samson nell’opera di Camille Saint-Saëns trent’anni dopo il suo debutto al MET in una opening night (la sua diciassettesima!) il 30 settembre 1998 diretta da James Levine, polverizzando così il record tenuto fino a quel momento da Caruso. Già allora la critica si dichiarava sorpresa dalla freschezza e qualità della voce del cantante messicano, allora cinquantenne. Commosso fino alle lacrime, Domingo è insignito alla fine dell’opera dal sindaco Giuliani della cittadinanza onoraria della città e di varie altre onorificenze: per trent’anni consecutivi Domingo aveva infatti cantato nel teatro di New York in svariati ruoli e questo di Samson è stato uno dei suoi più fortunati e frequentati.

Al fianco ha una bravissima Olga Borodina che esprime con estrema eleganza una vocalità piena di sensualità che utilizza tutte le dinamiche nel suo bel timbro e i lunghi fiati seppure talora con una certa freddezza espressiva.

La copertina del disco riporta come terzo nome quello del cantante Sergei Leiferkus, Grande Sacerdote dalla insopportabile dizione, con tutte le vocali aperte e accentate in maniera sguaiata in un declamato stentoreo. Molto meglio l’Abimelech di Richard Paul Fink o il vecchio ebreo di René Pape.

Perfettamente a loro agio sono James Levine e l’orchestra del teatro in questo antesignano del musical, se non della musica da film. Purtroppo il pubblico del Metropolitan applaude inopportunamente prima che la musica si spenga a fine atto, privandoci così dell’ascolto delle chiuse orchestrali.

Regia di Elija Moshinsky, tradizionale ma efficace, che non ci fa mancare il crollo finale del tempio, senza alcun riferimento all’attualità (niente ebrei tra discariche di rottami d’auto come nell’allestimento di De Ana all’Arcimboldi nel 2002 con i medesimi interpreti vocali). La stilizzata scenografia illuminata da luci rosse e blu è di Richard Hudson che firma anche i costumi (belli quelli dei selvaggi Filistei con le impronte delle mani).

Il libretto di Ferdinand Lemaire è direttamente ispirato dagli episodi biblici, Giudici 13-16.

Atto I. Davanti al tempio di Dagon gli ebrei compiangono il loro destino. Samson li esorta ad avere fede e che presto lui riuscirà a liberarli dal giogo della schiavitù. Dopo averlo sentito, il satrapo Abimelech schernisce gli ebrei e il loro dio e viene affrontato da Samson che lo uccide. Il Gran Sacerdote, uscito dal tempio, ordina che gli ebrei siano sterminati, ma giunge in quel momento un messaggero che comunica che gli ebrei stanno devastando il paese e per sicurezza il Gran Sacerdote parte per rifugiarsi nelle montagne. Gli ebrei ritornano e festeggiano in piazza. Dal tempio escono delle sacerdotesse filistee, tra cui Dalila, che ha deciso di supplire con l’astuzia alla sconfitta sul campo, perciò celebra la vittoria di Samson e gli dice di amarlo. Samson è combattuto da diversi sentimenti, ma nonostante i richiami di un vecchio saggio ebreo è deciso a seguire la donna nella sua casa.
Atto II. Mentre Dalila attende l’arrivo di Samson, prega Dagon affinché aiuti il suo proposito di vendicare i filistei. Il Gran Sacerdote arriva, si informa del piano di Dalila ed entrambi giurano la morte di Samson. Uscito il Gran Sacerdote, entra Samson quasi pentito di essere giunto lì: Dalila allora lo convince con tutte le sue arti seduttorie e Samson cede, ma si rifiuta di rivelare il segreto della sua forza. Dalila lo accusa di non amarlo e rientra in casa. Mentre infuria in cielo la collera divina, Samson si decide e la segue. Poco dopo arrivano gli sgherri del Sacerdote, chiamati da Dalila e fanno Samson loro prigioniero.
Atto III. Samson, cieco e senza capelli, quindi privo della forza che questi gli conferivano, si lamenta nel carcere mentre spinge una macina. Prega che i fratelli ebrei non subiscano la stessa sorte, ma sente che questi, anche loro in prigionia, lo maledicono per colpa di Dalila. Samson viene condotto nel tempio di Dagon. Qui si festeggia con un’orgia sfrenata la vittoria dei filistei. Samson entra, schernito dal Gran Sacerdote, che sfida il suo dio a restituire la forza a Samson. Tutto il tempio inneggia a Dagon e alla folla si unisce anche Dalila che si prende gioco di Samson. Allora lui si fa condurre da un fanciullo presso le due colonne madri del tempio e prega dio di restituirgli la sua antica forza, facendole crollare e con lui morire tutti quelli che si trovavano al suo interno.

Samson et Dalila è l’unica ancora in repertorio della dozzina di opere che il compositore francese ha scritto nella sua lunga carriera. Intellettuale poliedrico, scienziato, filosofo, ateo e poeta, la sua maestria musicale Saint-Saëns la esibisce da subito con i sapienti preludi orchestrali e con quella fuga del coro iniziale in cui il popolo d’Israele lamenta la sua condizione credendosi abbandonato dal dio che ha scoperto, «Quoi! Veux-tu donc qu’à jamais on efface | des nations celle qui t’as connu?».

Seguiranno altri cori in quest’opera figlia del grand opéra da cui deriva il modello (balletti compresi, qui un selvaggio baccanale), ma anche del formato oratoriale (non distante occhieggia il Samson dell’adorato Händel) anche se nel 1877, anno del debutto in tedesco al teatro granducale di Weimar due anni dopo il ciclone Carmen e l’anno dopo la rivoluzione del Ring wagneriano, sulle scene dell’opera si respira una nuova aria. Con Lakmé (1883) l’opera francese confermerà la sua fascinazione con l’esotismo, qui ben presente, mentre con Manon (1884) Massenet verrà a dettare le nuove regole che porteranno il teatro in musica agli esiti di fine secolo che conosciamo. Il debutto in lingua francese non avverrà se non nel 1890 a Rouen con esito trionfale.

L’arguta annotazione di Giorgio Vigolo: «La carta da musica che adoperava Saint-Saëns doveva avere in filigrana un organo dalle grosse canne, abbracciato da sinuosi tralci di rose rampicanti e convolvoli» sintetizza le due anime, misticismo e sensualità, tra cui si muove la sua musica e questa opera in particolare che si apparenta ai lavori letterari di Gustave Flaubert (Salammbô, 1862; Hérodiade, 1877) o Anatole France (Thaïs, 1890).

Immagine in formato 4:3, non ci sono i sottotitoli in italiano e come extra un’interessante intervista con Domingo.