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Pietro Mascagni, Il piccolo Marat
Livorno, Teatro Goldoni, 12 dicembre 2021
(registrazione video)
Cent’anni dopo
Livorno ricorda il suo più illustre concittadino mettendo in scena a distanza di cento anni Il piccolo Marat di Pietro Mascagni, opera presentata la prima volta al Teatro Costanzi di Roma il 2 maggio 1921.
Dopo il periodo del disimpegno di Lodoletta e dell’operetta Sì, al compositore erano state proposti due soggetti a sfondo politico: da Illica una Maria Antonietta e da Targioni-Tozzetti e Menasci una Carlotta Corday. Pur rifiutando i soggetti – «Come si può mettere in musica l’acquisto dei voti dei deputati della Convenzione? […]. E poi, Forzano, si può far cantare Robespierre? Lei lo vede Robespierre tenore, o anche baritono, o basso profondo. Io non me la sento», come aveva scritto al librettista – il compositore aveva però continuato a pensare a un’opera ambientata nel clima della Rivoluzione Francese, ma senza personaggi storici.
Nacque dunque Il piccolo Marat, ispirato da Les noyades de Nantes (Gli annegamenti di Nantes) di Georges Lenôtre, un episodio del Terrore che ebbe luogo tra il novembre 1793 e il febbraio 1794 a Nantes quando migliaia di persone sospettate dalla Repubblica (prigionieri politici, prigionieri di guerra, criminali comuni, ecclesiastici e loro familiari) furono annegate nella Loira su ordine di Jean-Baptiste Carrier. Queste vittime morirono in quello che Carrier chiamò il “torrente rivoluzionario” o la “vasca nazionale”. Forzano scrisse alcuni versi, che vennero poi virgolettati per distinguerli dagli altri, del libretto e per il resto fu Targioni-Tozzetti, non senza forti polemiche con Forzano. L’opera al debutto ebbe un enorme successo, replicato subito dopo al Teatro dal Verme di Milano
Atto primo. Il principe di Fleury, sotto mentite spoglie, salva Mariella, nipote dell’Orco, il presidente del Comitato rivoluzionario: la folla affamata l’aveva assalita perché portava un paniere pieno di vivande. Il giovane chiede poi di essere arruolato nei Marats, le guardie rivoluzionarie, e viene quindi soprannominato il Piccolo Marat. Il carpentiere mostra all’Orco il modello dell’imbarcazione sulla quale saliranno i prigionieri: il perverso progetto dell’Orco per liberare le carceri è infatti quello di imbarcare i prigionieri, e poi far esplodere la barca. Ma il carpentiere chiarisce all’Orco che lui è un artigiano, non un boia; e l’Orco, per punirlo, lo condanna ad assistere a tutte le esecuzioni. Il Piccolo Marat riesce a parlare attraverso una grata con la madre, la principessa di Fleury, rinchiusa in prigione, e le promette che la salverà.
Atto secondo. La casa dell’Orco. Mariella canta tra sé e sé. Il Falegname viene a trovarla. È molto cambiato, “emaciato, cenerino, disfatto”. È venuto a chiedere a Mariella di intercedere per lui presso lo zio. I due ricordano com’era un tempo la loro città. Il Falegname confessa di essere una spia del Soldato. Mariella rivela una Madonna in un presepe nascosto dietro il ritratto di Marat, sul quale giura di non tradire il Falegname. Entra il Piccolo Marat. Con le sue azioni dimostra il suo affetto per Mariella. Chiede se il Falegname ha “una barca che va in mare”. Il Falegname ammette di averla. Il Piccolo Marat si accorda con il Falegname per incontrarlo più tardi per l’uso della barca. Entra il “Portatore di ordini” con dei documenti per l’Orco. Il Piccolo Marat li sfoglia, ne estrae alcuni e li mette in tasca. Entrano l’Orco e i suoi uomini. Estorcono oggetti di valore a una serie di prigionieri che vengono portati davanti a loro. L’Orco nota l’assenza di documenti per la Principessa Fleury, cosa che lo fa arrabbiare. L’Orco fa per colpirla e al suo grido entra il Soldato. L’Orco rivela che governa secondo le istruzioni di Robespierre. A questo punto il Soldato commette un errore fatale chiamando Robespierre tiranno. L’Orco batte il Soldato vantandosi con la folla che è entrata nel Palazzo del Comitato e che si avventa sul Soldato, lo lega e lo porta al fiume per gettarlo. Tutti escono, tranne Mariella e il Piccolo Marat che dichiara il suo amore per Mariella e cerca di conquistarla, rivelandole di essere il Principe Jean-Charles di Fleury. La arruola nel suo piano per salvare la madre e Mariella acconsente. I due si nascondono nell’ombra mentre l’Orco, ubriaco, torna e sale le scale verso la sua camera da letto.
Atto terzo. L’Orco si è addormentato: il Piccolo Marat lo lega e lo costringe a firmare un salvacondotto per lui, la madre, Mariella e il carpentiere. L’Orco firma, ma con il braccio rimasto libero riesce a impossessarsi di una pistola e ferisce il principe di Fleury. L’uomo supplica Mariella di fuggire e di salvarsi insieme alla madre. Arriva il carpentiere e con un candelabro uccide l’Orco; quindi si carica sulle spalle il Piccolo Marat ferito e fugge con lui verso la libertà .
«Da una parte i buoni (Mariella, Il piccolo Marat, il carpentiere), dall’altra i cattivi (l’Orco): proprio come nelle fiabe, tanto che nel libretto si citano pure l’orco vero e proprio e Cappuccetto Rosso. Ma Mascagni riesce innanzitutto a descrivere musicalmente il clima del Terrore: i cori degli affamati di pane e di sangue (di bell’effetto è, nel terzo atto, il Coro dei diavoli neri); le pagine orchestrali delineano un’atmosfera tutt’altro che di fiaba, cupa, colma di una paura e di un’oppressione che solo il luminoso finale, con l’apparizione della vela bianca della libertà, riuscirà a fugare. In un affresco storico nel quale l’attenzione si appunta sulla vita di una collettività, spiccano l’Orco, un cattivo tout court che si esprime anche con un modernissimo declamato, e il Piccolo Marat: l’eroe buono e dalla vocalità spinta, che sembra ritornare alle origini del verismo. L’opera non è peraltro immune da una certa dose di retorica, ad esempio nelle ripetute invocazioni di Fleury nei confronti della madre. Così, in un’intervista, Mascagni aveva spiegato le novità del suo lavoro: “Il piccolo Marat è forte, ha muscoli d’acciaio. La sua forza è nella sua voce: non parla, non canta; urla! urla! urla! Ho scritto l’opera coi pugni tesi, come l’anima mia! Non si cerchi melodia, non si cerchi cultura: nel Marat non c’è che sangue! è l’inno della mia coscienza”. In una Roma dove le tensioni del dopoguerra stavano per sfociare nelle elezioni, l’opera venne accolta con un successo trionfale al grido di Viva Mascagni! Viva l’Italia!». (Susanna Franchi)
Se, giustamente, la parola “morte” ricorre 34 volte nel libretto di Forzano, “mamma” è ripetuto ben 44 volte, talora accompagnata dagli attributi «buona, soave, amorosa», ed è anche l’ultima battuta del protagonista principale nel finale di questo drammone a forti tinte che nell’Italia della crisi del dopoguerra e sull’orlo di una rivoluzione comunista, ma che avrebbe visto un anno dopo la Marcia su Roma, ottenne un enorme successo di pubblico per poi finire nel dimenticatoio. Non a Livorno però, dove si contano ben undici produzioni da llora, l’ultima nel 1989. Non tanto la musica, che qui mescola allegramente i linguaggi di compositori coevi ma che, per lo meno nel secondo atto, ha una certa efficacia teatrale, quanto l’orrendo libretto ha tenuto lontano dalle scene non livornesi questo terz’ultimo lavoro di Mascagni che concluderà la sua carriera operistica con Pinotta (1932) e Nerone (1935), questo però scritto recuperando musica composta precedentemente, prima di un decennio improduttivo.
Mentre all’estero le opere della Giovane Scuola vengono riproposte in interessanti produzioni che esaltano il loro taglio cinematografico – Holland Park, Wexford, An der Wien, Francoforte – il ripescaggio di un teatro di provincia come quello di Livorno viene affidato a un direttore di buon mestiere, Mario Menicagli alla guida dell’Orchestra della Toscana, che non sa però trarre il meglio che può offrire questa partitura e a una regista, Sarah Schinasi, che non sfrutta le potenzialità della vicenda, manca in pieno il lavoro attoriale sui cantanti e scade in particolari o ingenui o imbarazzanti, come quella che sembra una fellatio sull’Orco ubriaco. La realistica e semplice scenografia di William Orlandi rende la pesante e cupa claustrofobia della storia ma rinuncia a distinguere i vari ambienti in cui è vissuta. Lo stesso Orlandi disegna i costumi che mescolano inopinatamente epoche diverse.
Meglio va con l’insieme degli interpreti. Sono una dozzina i personaggi, ma tre quelli più importanti. Il ruolo tenorile del titolo è estremamente impervio con un declamato importante e un registro acuto esigente che Samuele Simoncini risolve con sicurezza e timbro squillante. Per l’Orco Andrea Silvestrelli dispone del volume adeguato e dei suoni gravi necessari per delineare la parte di uno dei vilain peggiori della storia dell’opera. Valentina Boi è una Mariella remissiva che trova nel primo amore la forza per vivere. La cantante, se non per la presenza scenica, rende convincente il personaggio con una efficace performance vocale fatta di tanti recitativi e repentini salti all’acuto di impronta pucciniana. È anche grazie a lei che viene bissato a richiesta del pubblico il duetto del terzo atto dove l’«Insieme nell’amore! Insieme nella morte!» inneggiato dai due non può non richiamare l’analogo momento dell’Andrea Chénier. Alberto Mastromarino è un dolente Carpentiere mentre Stefano Marchisio si ritaglia un suo successo personale per la spavalda presenza vocale nel personaggio del soldato. Coro non sempre preciso e attento quello del Teatro Goldoni.
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