Giovanni Targioni-Tozzetti

Il piccolo Marat

Pietro Mascagni, Il piccolo Marat

Livorno, Teatro Goldoni, 12 dicembre 2021

★★★☆☆

(registrazione video)

Cent’anni dopo 

Livorno ricorda il suo più illustre concittadino mettendo in scena a distanza di cento anni Il piccolo Marat di Pietro Mascagni, opera presentata la prima volta al Teatro Costanzi di Roma il 2 maggio 1921.

Dopo il periodo del disimpegno di Lodoletta e dell’operetta , al compositore erano state proposti due soggetti a sfondo politico: da Illica una Maria Antonietta e da Targioni-Tozzetti e Menasci una Carlotta Corday. Pur rifiutando i soggetti – «Come si può mettere in musica l’acquisto dei voti dei deputati della Convenzione? […]. E poi, Forzano, si può far cantare Robespierre? Lei lo vede Robespierre tenore, o anche baritono, o basso profondo. Io non me la sento», come aveva scritto al librettista – il compositore aveva però continuato a pensare a un’opera ambientata nel clima della Rivoluzione Francese, ma senza personaggi storici.

Nacque dunque Il piccolo Marat, ispirato da Les noyades de Nantes (Gli annegamenti di Nantes) di Georges Lenôtre, un episodio del Terrore che ebbe luogo tra il novembre 1793 e il febbraio 1794 a Nantes quando migliaia di persone sospettate dalla Repubblica (prigionieri politici, prigionieri di guerra, criminali comuni, ecclesiastici e loro familiari) furono annegate nella Loira su ordine di Jean-Baptiste Carrier. Queste vittime morirono in quello che Carrier chiamò il “torrente rivoluzionario” o la “vasca nazionale”. Forzano scrisse alcuni versi, che vennero poi virgolettati per distinguerli dagli altri, del libretto e per il resto fu Targioni-Tozzetti, non senza forti polemiche con Forzano. L’opera al debutto ebbe un enorme successo, replicato subito dopo al Teatro dal Verme di Milano

Atto primo. Il principe di Fleury, sotto mentite spoglie, salva Mariella, nipote dell’Orco, il presidente del Comitato rivoluzionario: la folla affamata l’aveva assalita perché portava un paniere pieno di vivande. Il giovane chiede poi di essere arruolato nei Marats, le guardie rivoluzionarie, e viene quindi soprannominato il Piccolo Marat. Il carpentiere mostra all’Orco il modello dell’imbarcazione sulla quale saliranno i prigionieri: il perverso progetto dell’Orco per liberare le carceri è infatti quello di imbarcare i prigionieri, e poi far esplodere la barca. Ma il carpentiere chiarisce all’Orco che lui è un artigiano, non un boia; e l’Orco, per punirlo, lo condanna ad assistere a tutte le esecuzioni. Il Piccolo Marat riesce a parlare attraverso una grata con la madre, la principessa di Fleury, rinchiusa in prigione, e le promette che la salverà.
Atto secondo. La casa dell’Orco. Mariella canta tra sé e sé. Il Falegname viene a trovarla. È molto cambiato, “emaciato, cenerino, disfatto”. È venuto a chiedere a Mariella di intercedere per lui presso lo zio. I due ricordano com’era un tempo la loro città. Il Falegname confessa di essere una spia del Soldato. Mariella rivela una Madonna in un presepe nascosto dietro il ritratto di Marat, sul quale giura di non tradire il Falegname. Entra il Piccolo Marat. Con le sue azioni dimostra il suo affetto per Mariella. Chiede se il Falegname ha “una barca che va in mare”. Il Falegname ammette di averla. Il Piccolo Marat si accorda con il Falegname per incontrarlo più tardi per l’uso della barca. Entra il “Portatore di ordini” con dei documenti per l’Orco. Il Piccolo Marat li sfoglia, ne estrae alcuni e li mette in tasca. Entrano l’Orco e i suoi uomini. Estorcono oggetti di valore a una serie di prigionieri che vengono portati davanti a loro. L’Orco nota l’assenza di documenti per la Principessa Fleury, cosa che lo fa arrabbiare. L’Orco fa per colpirla e al suo grido entra il Soldato. L’Orco rivela che governa secondo le istruzioni di Robespierre. A questo punto il Soldato commette un errore fatale chiamando Robespierre tiranno. L’Orco batte il Soldato vantandosi con la folla che è entrata nel Palazzo del Comitato e che si avventa sul Soldato, lo lega e lo porta al fiume per gettarlo. Tutti escono, tranne Mariella e il Piccolo Marat che dichiara il suo amore per Mariella e cerca di conquistarla, rivelandole di essere il Principe Jean-Charles di Fleury. La arruola nel suo piano per salvare la madre e Mariella acconsente. I due si nascondono nell’ombra mentre l’Orco, ubriaco, torna e sale le scale verso la sua camera da letto.
Atto terzo. L’Orco si è addormentato: il Piccolo Marat lo lega e lo costringe a firmare un salvacondotto per lui, la madre, Mariella e il carpentiere. L’Orco firma, ma con il braccio rimasto libero riesce a impossessarsi di una pistola e ferisce il principe di Fleury. L’uomo supplica Mariella di fuggire e di salvarsi insieme alla madre. Arriva il carpentiere e con un candelabro uccide l’Orco; quindi si carica sulle spalle il Piccolo Marat ferito e fugge con lui verso la libertà .

«Da una parte i buoni (Mariella, Il piccolo Marat, il carpentiere), dall’altra i cattivi (l’Orco): proprio come nelle fiabe, tanto che nel libretto si citano pure l’orco vero e proprio e Cappuccetto Rosso. Ma Mascagni riesce innanzitutto a descrivere musicalmente il clima del Terrore: i cori degli affamati di pane e di sangue (di bell’effetto è, nel terzo atto, il Coro dei diavoli neri); le pagine orchestrali delineano un’atmosfera tutt’altro che di fiaba, cupa, colma di una paura e di un’oppressione che solo il luminoso finale, con l’apparizione della vela bianca della libertà, riuscirà a fugare. In un affresco storico nel quale l’attenzione si appunta sulla vita di una collettività, spiccano l’Orco, un cattivo tout court che si esprime anche con un modernissimo declamato, e il Piccolo Marat: l’eroe buono e dalla vocalità spinta, che sembra ritornare alle origini del verismo. L’opera non è peraltro immune da una certa dose di retorica, ad esempio nelle ripetute invocazioni di Fleury nei confronti della madre. Così, in un’intervista, Mascagni aveva spiegato le novità del suo lavoro: “Il piccolo Marat è forte, ha muscoli d’acciaio. La sua forza è nella sua voce: non parla, non canta; urla! urla! urla! Ho scritto l’opera coi pugni tesi, come l’anima mia! Non si cerchi melodia, non si cerchi cultura: nel Marat non c’è che sangue! è l’inno della mia coscienza”. In una Roma dove le tensioni del dopoguerra stavano per sfociare nelle elezioni, l’opera venne accolta con un successo trionfale al grido di Viva Mascagni! Viva l’Italia!». (Susanna Franchi)

Se, giustamente, la parola “morte” ricorre 34 volte nel libretto di Forzano, “mamma” è ripetuto ben 44 volte, talora accompagnata dagli attributi «buona, soave, amorosa», ed è anche l’ultima battuta del protagonista principale nel finale di questo drammone a forti tinte che nell’Italia della crisi del dopoguerra e sull’orlo di una rivoluzione comunista, ma che avrebbe visto un anno dopo la Marcia su Roma, ottenne un enorme successo di pubblico per poi finire nel dimenticatoio. Non a Livorno però, dove si contano ben undici produzioni da llora, l’ultima nel 1989. Non tanto la musica, che qui mescola allegramente i linguaggi di compositori coevi ma che, per lo meno nel secondo atto, ha una certa efficacia teatrale, quanto l’orrendo libretto ha tenuto lontano dalle scene non livornesi questo terz’ultimo lavoro di Mascagni che concluderà la sua carriera operistica con Pinotta (1932) e Nerone (1935), questo però scritto recuperando musica composta precedentemente, prima di un decennio improduttivo.

Mentre all’estero le opere della Giovane Scuola vengono riproposte in interessanti produzioni che esaltano il loro taglio cinematografico – Holland Park, Wexford, An der Wien, Francoforte – il ripescaggio di un teatro di provincia come quello di Livorno viene affidato a un direttore di buon mestiere, Mario Menicagli alla guida dell’Orchestra della Toscana, che non sa però trarre il meglio che può offrire questa partitura e a una regista, Sarah Schinasi, che non sfrutta le potenzialità della vicenda, manca in pieno il lavoro attoriale sui cantanti e scade in particolari o ingenui o imbarazzanti, come quella che sembra una fellatio sull’Orco ubriaco. La realistica e semplice scenografia di William Orlandi rende la pesante e cupa claustrofobia della storia ma rinuncia a distinguere i vari ambienti in cui è vissuta. Lo stesso Orlandi disegna i costumi che mescolano inopinatamente epoche diverse.

Meglio va con l’insieme degli interpreti. Sono una dozzina i personaggi, ma tre quelli più importanti. Il ruolo tenorile del titolo è estremamente impervio con un declamato importante e un registro acuto esigente che Samuele Simoncini risolve con sicurezza e timbro squillante. Per l’Orco Andrea Silvestrelli dispone del volume adeguato e dei suoni gravi necessari per delineare la parte di uno dei vilain peggiori della storia dell’opera. Valentina Boi è una Mariella remissiva che trova nel primo amore la forza per vivere. La cantante, se non per la presenza scenica, rende convincente il personaggio con una efficace performance vocale fatta di tanti recitativi e repentini salti all’acuto di impronta pucciniana. È anche grazie a lei che viene bissato a richiesta del pubblico il duetto del terzo atto dove l’«Insieme nell’amore! Insieme nella morte!» inneggiato dai due non può non richiamare l’analogo momento dell’Andrea Chénier. Alberto Mastromarino è un dolente Carpentiere mentre Stefano Marchisio si ritaglia un suo successo personale per la spavalda presenza vocale nel personaggio del soldato. Coro non sempre preciso e attento quello del Teatro Goldoni. 

Pagliacci / Cavalleria rusticana

Ruggero Leoncavallo, Pagliacci

Pietro Mascagni, Cavalleria rusticana

Amsterdam, Het Muziektheater, 28 settembre 2019

★★★★★

(registrazione video)

Carsen fa Pirandello

Ad Amsterdam la stagione lirica è inaugurata da una produzione di Robert Carsen che si rivela una delle sue migliori. Si tratta di Pagliacci e Cavalleria rusticana, in quest’ordine, invertito rispetto a quello tradizionalmente adottato perché Carsen parte dal prologo di Pagliacci con la tirata di Tonio sull’autore che «al vero ispiravasi» e rivolto al pubblico «piuttosto che le nostre povere | gabbane d’istrioni, le nostr’anime | considerate, poiché noi siam uomini | di carne ed ossa», per puntare su una rappresentazione meta-teatrale che accomuna i due lavori e li collega.

 In Pagliacci la folla è il coro stesso che dalle prime file della platea diventa personaggio prima rispondendo con infantile entusiasmo agli «squilli di tromba stonata» dei teatranti di fiera e poi salendo in palcoscenico per seguire da vicino lo spettacolo delle maschere concluso dal doppio assassinio. Uno spettacolo senza commedia dell’arte, ma con elementi clowneschi: il naso rosso di Tonio, le scarpe smisurate, il trucco dei visi. I costumi sono di Annemarie Woods e le luci come sempre dello stesso Carsen e di Peter van Praet mentre la scenografia di Radu Boruzescu mostra due sipari rossi – i diversi livelli della rappresentazione – e un palcoscenico vuoto con sedie raffazzonate, stender appendiabiti e tavolini per il trucco. Il set della farsa all’interno dell’opera è una replica degli stessi camerini. Tonio è un tecnico di palcoscenico e fari, tralicci, quinte sono a vista a sottolineare la commistione tra vita reale e finzione scenica.

Dopo l’intervallo, Cavalleria inizia col “fermo immagine” del tragico finale di Pagliacci, i due cadaveri a terra e la folla sbigottita. Gli spettatori-performer indossano abiti identici a quelli di tutti i giorni e il loro direttore, Ching-Lien Wu, appare come sé stessa mentre dirige una prova. Santuzza non è stata disonorata socialmente, ma licenziato dal cast e Mamma Lucia è una direttrice di scena. Qui non c’è la Sicilia, non c’è colore locale. Solo il teatro, dove la finzione è talora più convincente della realtà e la distinzione tra l’uno e l’altra è una linea piuttosto sfocata. Più che il Verismo, Carsen ha in mente Luigi Pirandello che qualche decennio dopo avrebbe esplorato il sofferto rapporto tra attore e personaggio. La lettura di Carsen potrebbe sembrare audace, ma è la sua attenta regia con tanti particolari di grande teatralità e l’attenzione alla recitazione dei cantanti a rendere del tutto convincente l’azzardo.

Questo grazie anche alla direzione di Lorenzo Viotti, che ha sostituito il previsto Sir Mark Elder. La sua concertazione è ricca di sfumature e colori, più brillanti e con tempi spediti in Pagliacci, più sobri e con tempi dilatati in Cavalleria. Magnifica è la resa dell’Intermezzo e in ogni momento l’attenzione ai cantanti è suprema. In questo è aiutato da un coro superlativo e da solisti di grande interesse. Nella prima parte il Canio di Brandon Jovanovich conferma le doti attoriali del tenore americano accanto a una vocalità atipica che qui però risulta molto efficace per la grande proiezione, il fraseggio spezzato, gli acuti potenti. Il suo lavoro di immedesimazione rende il personaggio totalmente credibile e di grande impatto. Nedda ideale per il timbro lirico è quella del soprano Aylin Pérez. Il suo canto è senza sforzo, con mezzevoci e pianissimi suadenti, trilli puliti e un buon controllo anche nel registro medio e basso, ottenuto mantenendo lo stesso timbro uniforme. Roman Burdenko è un giustamente spregevole Tonio dalla voce imponente che si piega alle esigenze del ruolo. Marco Ciaponi (Beppe) è un magnifico Arlecchino, lirico e di bel fraseggio. Silvio di lusso dal timbro pieno e morbido quello di Mattia Olivieri, di avvenente fisicità nel sensuale duetto con Nedda.

Burdenko ritorna nella seconda parte come Alfio, e forse se ne poteva fare a meno. Santuzza di eccezione è quella di Anita Rachvelishvili, tra le migliori in assoluto con una resa vocale e teatrale sconvolgente. Brian Jagde è un giusto Turiddu musicale, dalla bella linea di canto e mai eccessivo nell’interpretazione. Credibile e fascinosa la Lola di Rihab Chaieb, mentre Elena Zilio è la Mamma Lucia di sempre.

Cavalleria rusticana / Pagliacci



Pietro Mascagni, Cavalleria rusticana

foto © Brescia e Amisano – Teatro alla Scala

Ruggero Leoncavallo, Pagliacci

Milano, Teatro alla Scala, 21 aprile 2024

★★★★☆

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È sempre bello anche tredici anni dopo lo spettacolo di Martone

Negli ultimi tempi non è stato sempre scontato vedere rappresentati assieme nella stessa serata Cav & Pag, come amano chiamare nei paesi anglosassoni l’accoppiata di Cavalleria rusticana e Pagliacci. Molte volte sono stati eseguiti singolarmente, soprattutto per ragioni di budget, altre volte in abbinate secondo criteri fantasiosi se non addirittura bizzarri. Così c’è stato il legame del tema femminista (Cavalleria con La voix humaine di Poulenc), l’ambientazione geografica (Cavalleria con La giara, il balletto su musiche di Casella) oppure per puro contrasto stilistico o cronologico (Pagliacci con L’incantesimo di Montemezzi o con Sull’essere angeli di Filidei). Questo per limitarsi ad alcuni degli esempi più recenti. Il Teatro alla Scala segue invece la tradizione, proponendo assieme i due lavori d’esordio di Mascagni e di Leoncavallo, comunemente considerati i più rappresentativi del movimento verista in musica.

Anche se solo due anni separano le due composizioni, quella di Leoncavallo (1892) ha dei caratteri di modernità più spiccati rispetto all’opera di Mascagni (1892) e il proporle assieme permette una volta di più percepire le differenze di stile e di propositi dei due lavori. Con la sua ambientazione siciliana l’opera di Mascagni veniva a interrompere una serie di composizioni intrise di cultura nordica quali l’Amleto di Faccio, Le Villi di Puccini, I Lituani di Ponchielli. Cavalleria sarà poi vista come una reazione al wagnerismo nell’Italia fascista di alcuni decenni dopo. Dalla novella del Verga del 1880 al dramma scritto dallo stesso per la Duse nel 1884 all’opera, la passionalità si accende sempre più in personaggi dai sentimenti elementari e violenti tradotti dal compositore in un linguaggio efficace che infatuerà, tra gli altri, Gustav Mahler, che la dirigerà a Budapest a soli sei mesi dalla prima al Costanzi di Roma e varie altre volte ad Amburgo e a Vienna. In Pagliacci invece, elemento di straordinaria modernità è lo scambio tra vita reale e teatro, l’ambiguità tra uomo e attore, tra finzione scenica e autenticità dei sentimenti, tematiche che confluiranno poi nel teatro di Pirandello.

Tanto è rutilante di colori la Sicilia di Dolce & Gabbana attualmente in mostra a Palazzo Reale, quanto scura e scarna è la messa in scena di Cavalleria di Mario Martone, lo spettacolo del 2011 ripreso da Federica Stefani che non è invecchiato per nulla e se allora venne contestato ora viene considerato uno dei migliori allestimenti del dittico verista. Sul palcoscenico vuoto ci sono soltanto le sedie del coro, una presenza di massa del popolo che è quasi un’eco del coro della tragedia greca. Con i visi che si voltano dall’altra parte quando c’è Santuzza, si capisce come Janáček amasse quest’opera: la sua Jenůfa trasporta in Moravia una vicenda simile e come nel lavoro di Mascagni anche lì il paese è un protagonista antagonista della figura principale. La dimensione tragica della storia è messa a nudo senza orpelli e l’ipocrisia della società è chiaramente indicata quando vediamo compare Alfio uscire dal bordello prima di andare dal barbiere. La scena diventa vuota quando Santuzza è abbandonata da tutti, anche Alfio fa segno di disprezzare la sua delazione e Mamma Lucia è troppo chiusa nel dolore per il figlio morto da darle retta.

Proprio la nudità della scena esalta la performance di Elīna Garanča, Santuzza lettone che cova sotto un comportamento controllatissimo un temperamento appassionato in cui la voce dal timbro di velluto svetta con facilità in acuti lancinanti. Una performance la sua che è stata oggetto di ovazioni da parte del pubblico. Brian Jagde è un Turiddu di grande squillo, ma si vorrebbe una maggiore espressività. Di Roman Burdenko, Alfio, non si può non confermare quanto già rilevato altrove: nell’opera italiana sconta una dizione perfettibile e una certa rozzezza espressiva che dà più fastidio in Mascagni di quanto avvenga in Leoncavallo. Francesca di Sauro è una fresca e seducente Lola mentre Elena Zilio si conferma la Mamma Lucia par excellence: la voce è quella che è, il parlato si sostituisce talora al canto, ma scenicamente è perfetta, minuta e con un gioco di mani e di sguardi che senza eccessi fanno capire tutto il dramma.

La direzione di Giampaolo Bisanti non convince del tutto, trascinante e teatrale non si conforma alla sobrietà della scena di Martone e le sottigliezze strumentali di Mascagni – sì, ci sono – si perdono: senza fare riferimento a Karajan, basta ascoltare il giovane Lorenzo Viotti nella produzione di Amsterdam come riesce ad arrivare a risultati di grande bellezza qui non toccati nonostante un’orchestra ancora più prestigiosa. Anche l’Intermezzo scorre via senza lasciare traccia. Le cose vanno leggermente meglio in Pagliacci, dove le forti tinte sono più accettabili.

Lo scenografo Sergio Tramonti, la costumista Ursula Patzak e il light designer Pasquale Mari hanno avuto più da fare nel lavoro di Leoncavallo: il viadotto che domina la scena, la lurida roulotte e le automobili richiamano un teatro più realista dove Martone fa traboccare la realtà oltre il sipario, quasi annullando la distanza tra la scena e gli spettatori: il palcoscenico viene stirato fino in platea da dove arrivano i Contadini, Silvio trepida in sala e il pubblico della pantomima è un’estensione sulla scena di quello della platea, con gli stessi abiti eleganti. Nella regia di Martone due soli gli errori, uno all’inizio e uno alla fine. All’inizio il sipario si apre per farci vedere la scena e poi si richiude (!) per il prologo di Tonio e alla fine la cinica battuta «La commedia è finita!» è tolta a Tonio, l’anima nera della vicenda, e data a Canio. D’accordo che è di tradizione, ma si tratta solo di compiacere il tenore, non ha senso drammaturgico, è Tonio che ha fin da subito ha dichiarato «L’autore ha cercato invece di pingervi uno squarcio di vita. Egli ha per massima sol che l’artista è un uom e per gli uomini scrivere ei deve. Ed al vero ispirasi».

A parte Roman Burdenko, di cui s’è detto, nella seconda parte dello spettacolo tutti nuovi sono gli interpreti. Fabio Sartori è uno specialista del ruolo di Canio a cui offre uno squillo e una proiezione sonora di tutto rispetto. Il personaggio è intriso di un rancore che scaccia la lacrima da «Vesti la giubba» e riempie di violenza il suo «Ah! … sei tu? Ben venga!» prima di ammazzare Silvio. Nedda nostalgica per una vita che avrebbe voluto diversa è quella di Irina Lungu, che sfoga la sua linea lirica nell’aria in cui invidia gli uccelli liberi che «Stridono lassù». Mattia Olivieri è il Silvio ideale per giovanile baldanza e avvenenza fisica, che non guasta e giustifica ampiamente l’infatuazione di Nedda. Che poi il suo mezzo vocale disponga di un colore e di una ricchezza di sfumature invidiabili non fa che confermare l’impressione. Con Jinxu Xiahou, simpatico Peppe, i Contadini Gabriele Valsecchi e Luigi Albani, artisti del coro, si completa il cast dei solisti. Coro come sempre in gran spolvero quello diretto da Alberto Malazzi. Grande successo di pubblico accorso a riempire ogni singolo posto del teatro.

Cavalleria rusticana

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Pietro Mascagni, Cavalleria rusticana

Salisburgo, Großes Festspielhaus, 28 marzo 2015

★★★★☆

(registrazione video)

Cavalleria urbana

Un paesaggio urbano alla Sironi (ciminiere fumanti e case grigie), ma disegnato con il tratto di Lyonel Feininger e tutto in bianco e nero come in un film degli anni ’20 quello messo in scena da Philipp Stölzl a Salisburgo nel 2015 per la prima parte della tradizionale accoppiata Cavalleria rusticana/Pagliacci. Durante l’introduzione si scopre un palcoscenico suddiviso in sei moduli su due livelli: uno di questi è una soffitta in cui Jonas Kaufmann sfoggia un inatteso accento siciliano (con le t retroflesse di truovo, trasu) e intona a mezza voce, rivolto con le spalle alla platea, la siciliana che abbiamo sempre sentito cantare a squarciagola – una soluzione che sembra l’unica drammaturgicamente logica trattandosi di un adultero che di certo non va a urlare in piazza della sua infatuazione per la moglie di un altro… Sembra pentito di quello che ha fatto con Lola, che vediamo affacciarsi da un abbaino vicino, ma… aspetta: dalla porticina entra un ragazzino, il figlio! E poi Santuzza, piuttosto torva in verità, che viene a rimestare sulla stufa la minestra del magro pranzo. Suona la campana e il ragazzino viene vestito da chierichetto per la processione che si prepara nella strada in basso. Vediamo poi mamma Lucia gestire traffici illeciti e Alfio capo mafioso in completo gessato con la frusta che non usa per il cavallo ma per minacciare e ottenere dalle vittime il pagamento del pizzo, che consegna poi alla vecchia. Il duetto tra Turiddu e Santuzza avviene sul pianerottolo di fronte alla porta di Lola, quello tra Turiddu e la madre attorno al tavolo su cui lei continua a tenere i conti. Mamma Lucia neanche si avvicina al figlio, altro che «un bacio, mamma… un altro bacio…»!

Le diverse scene – bozzetti si direbbero – con cui si sviluppa la vicenda si avvicendano nei sei spazi con diaframmi neri che aprono e chiudono l’immagine in modo cinematografico. Per l’ultima scena i sei spazi si aprono per la prima volta tutti insieme e in quattro di essi vediamo i protagonisti principali: Turiddu insanguinato a terra in chiesa; Alfio arcigno appena fuori; mamma Lucia accasciata sul tavolo (è il primo moto di dolore che le vediamo esprimere) e Santuzza, infine, sotto lo sguardo accusatore del figlio.

Stölzl ha creato una drammaturgia affascinante ma che non sempre si rivela convincente e che non tiene conto della mentalità siciliana ottocentesca su cui fa perno la vicenda. Il fatto che Santuzza viva con Turiddu, anche se non sposata e con il figlio, toglie molta forza alla sua disperazione per quella che così diventa solo una scappatella del compagno con la vicina di casa. L’Alfio mafioso non turba più di tanto, ma è la figura di mamma Lucia, che vediamo quasi sempre di spalle, che qui ha un ruolo opposto a quello che abbiamo conosciuto, è la Begbick di Mahagonny che gestisce freddamente il crimine, è quella che con tutti i soldi che ha fa vivere il figlio (e il nipotino) in una misera soffitta – certo per punirlo.

Dopo la prodezza di cui s’è detto Kaufmann rientra nelle righe di un’interpretazione più tradizionale, ma con le sfumature cui ci ha abituati e con la solita eccellente presenza scenica. Guardandolo è facile distrarsi… Intensa e piena di volume l’interpretazione di Santuzza di Liudmyla Monastryrska mentre Lucia qui ha la rigida freddezza di una Stefania Toczyska che corona con questo ruolo la sua lunga carriera. Ambrogio Maestri si affida praticamente al parlato per il suo scenicamente imponente Alfio e, unica altra italiana nel cast, Annalisa Stroppa disegna una Lola più vittima del marito che «cattiva femmina».

Christian Thielemann, che si era battuto per portare al festival di Salisburgo per la prima volta il dittico verista, dà una lettura molto drammatica e senza languori della partitura, ma dosando sapientemente l’orchestra per non coprire i cantanti.

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Cavalleria rusticana

Pietro Mascagni, Cavalleria rusticana

Matera, 2 agosto 2019

(video streaming)

Cavalleria tra la ggente nei Sassi di Matera

La città millenaria e Capitale Europea della Cultura fa da sfondo a questa messa in scena di Cavalleria rusticana. Nella trasmissione televisiva per il circuito Arte le immagini da presepe della città riprese da un drone si alternano a quelle della folla in piedi che si assiepa nella piazza di San Pietro Caveoso intorno al palco, all’orchestra e alla passerella che taglia in due il pubblico. I cantanti sono lì a pochi metri e l’effetto empatico viene amplificato dalla vicinanza con gli spettatori, come era già successo per lo Stiffelio parmense. Ma niente di più, Giorgio Barberio Corsetti non perde troppo tempo con la regia attoriale e con i movimenti delle masse (quanto mai statiche e addirittura assenti in una delle più deludenti processioni mai viste in quest’opera), ma si concentra con le sue proiezioni che altrove avevano dato risultati sorprendenti e qui oscillano tra il realismo e il fiabesco. Nella prima scena Alfio passa col trattore su un «campo tra le spighe d’oro», presto distrutte però da uomini in tuta gialla che irrorano veleni. «Il cavallo scalpita» sarà poi il camion che trasporta bidoni di materiali tossici. È la terra dei fuochi questa del Verga e sono lontani gli aranci olezzanti e le allodole cinguettanti tra i mirti in fior. Gli unici fiori che vedremo sono quelli che si proiettano sulla parete della roccia assieme ai primi piani degli interpreti, talora impietosi, che si atteggiano alla più consumata tradizione nelle espressioni di dolore, rabbia, gelosia, rassegnazione, sfida. Incombente è la lotta tra il bene e il male, due grandi burattini che hanno partecipato prima al “prologo” con le sette stazioni dei “peccati capitali(sti)” allestite in città.

Con l’orchestra e il coro del Teatro San Carlo, di cui è direttore musicale, Juraj Valčuha (pronunciato Valtusha dalla presentatrice francese) dipana con sensibilità le intense melodie mascagnane, ma all’aperto e con l’amplificazione le finezze orchestrali non sono sempre percepibili. Modesto il comparto vocale con un Roberto Aronica (Turiddu), che non ha mai soddisfatto al chiuso e all’aperto è ancora peggio. Veronica Simeoni è una Santuzza un po’ lagnosa e Alfio cavernoso e ingolato è quello di George Gagnidze. Mancava poi Elena Zilio, l’unica vera mamma Lucia: qui Agostina Smimmero sembra la Eboli del Don Carlo mentre di giusta prorompente presenza è la Lola di Leyla Martinucci.

«Evento straordinario, un modo nuovo per fruire la lirica e per risvegliarne il valore culturale» dichiarano gli ideatori di questo progetto, Abitare l’Opera. Una coproduzione RAI e RSI, che diffonderanno il segnale in tutta la Svizzera, e Arte, che trasmetterà l’evento in Svizzera, Francia, Germania, Belgio, Austria, Lichtenstein, Lussemburgo, Principato di Monaco e nei paesi francofoni d’oltremare. L’opera sarà poi presentata da metà agosto in Giappone, Ungheria, Slovenia e Grecia. Tra il 2019 e il 2020 verrà distribuita nei cinema in Europa, Corea, Stati Uniti e America Latina, dalla primavera del 2020 sarà invece disponibile in DVD. Grandi sforzi, ma si poteva far meglio per portare la cultura italiana all’estero e per mantenere viva l’opera. Speriamo almeno che qualcuno tra i giovani in piedi a Matera o davanti allo schermo televisivo sia rimasto incuriosito e invogliato a scoprire questo genere. Purtroppo la registrazione video non può ricreare l’atmosfera vissuta dal vivo. Questo è l’elemento più debole di queste produzioni.

Cavalleria rusticana

foto © Edoardo Piva

Pietro Mascagni, Cavalleria rusticana

Torino, Teatro Regio, 14 giugno 2019

★★☆☆☆

La lava di Lavia

Gabriele Lavia e Paolo Ventura avevano già messo in scena Pagliacci due anni fa a Torino. Ora ritornano per Cavalleria rusticana a completare il classico dittico Cav-Pag diluito qui in due stagioni neanche successive.

Ma se le atmosfere da periferia triste dei lavori di Ventura erano perfettamente congeniali alla vicenda musicata da Leoncavallo, qui la colata lavica nera che fa da sfondo alla storia siciliana di Turiddu e Santuzza è molto meno evocativa e funzionale. Per non parlare della regia di Lavia che almeno in Pagliacci aveva un’efficacia teatrale, ma che ora qui manca del tutto. Sembra che i due artisti abbiano voluto completare svogliatamente il lavoro richiesto e siano rimasti indecisi tra lettura tradizionale (cavallo vero compreso) e lettura metaforica (sentimenti incandescenti come la lava…).

In scena c’è infatti una spianata di sabbia vulcanica nera punteggiata da massi neri dietro cui si nasconde Santuzza tutta in nero per spiare la tresca di Turiddu con Lola – ma così Santuzza diventa spergiura, poiché alla domanda dell’uomo «Ah! Mi hai spiato?» lei risponde «No, te lo giuro». Due strisce parallele di lava incandescente (!) delimitano il proscenio e il fondo della scena cui si entra scavalcando grossi massi, cosa non molto agevole per la processione pasquale. Fin dall’inizio l’atmosfera di cupa violenza è sottolineata dalla lotta dei bambini, una prefigurazione del duello rusticano finale, e dalla mancanza di luce: siamo in una perpetua eclisse solare e le scene più drammatiche sembrano ambientate in notturna.

La presenza di scugnizzi è costante e la frase «Hanno ammazzato compare Turiddu!» non solo è gridata fuori scena, ma ripetuta (?) da uno dei mocciosi che abbiamo visto all’inizio. Su queste idee registiche si innesta una recitazione lasciata alla volontà degli interpreti: chi si accascia al suolo, chi cade in ginocchio, chi si attacca alle gambe dell’amato, chi nasconde il viso tra le mani. Un grumo compatto nero (a parte l’abito bianco e rosso di Lola, il nero è l’unico colore presente in scena) è il coro, che ogni volta si schiera per tutto il palcoscenico a intonare inni religiosi, canti di «aranci olezzanti», inviti a raggiungere le case dopo la messa e inneggiare al «vino spumeggiante» e a «gettare un grido» nel finale. Ciononostante la compattezza vocale non viene sempre assicurata.

A capo dell’orchestra del teatro Andrea Battistoni non ha propriamente la mano leggera e dal mio posto di quattordicesima fila la parte del leone l’hanno fatta gli ottoni gravi con volumi sonori predominanti sul resto dell’orchestra. Certo che poi l’intermezzo sinfonico è di una tale bellezza che anche questa volta l’esecuzione scatena il pubblico con una timida richiesta di bis, non concessa.

Nel cast vocale sono da segnalare ben tre forfait: il Turiddu di Carlo Ventre, la Santuzza di Daniela Barcellona e l’Alfio di Marco Vratogna. Il nuovo Turiddu è Marco Berti. Fin dalla siciliana, cantata in scena a sipario aperto e berciata a un volume tale da svegliare tutto il paese, la performance del tenore comasco è tutta giocata sul fortissimo senza sfumature espressive e con sbandamenti di intonazione nei passaggi di registro. All’opposto, le qualità vocali più contenute di Sonia Ganassi hanno spinto la cantante a utilizzare maggiormente colori ed espressività, in modo tale però da rendere il personaggio di Santuzza fin troppo lagnoso. La linea di canto della ex belcantista è spesso spezzata e le note gravi quasi afone, ma quello che si salva è il temperamento e, appunto, il saggio utilizzo delle sue possibilità vocali. Essendo da dimenticare mamma Lucia e la poco incisiva Lola, il migliore in scena risulta il baritono albanese Gëzim Myshketa che per la terza serata consecutiva interpreta la parte di Alfio ed è forse la stanchezza che gli fa rallentare il ritmo nella sua sortita, ma poi il cantante si riprende e si può godere della bellezza del timbro e della dizione (unico non italiano del cast!).

Nella prima parte della serata il balletto La giara, tratto da un altro grande siciliano, Luigi Pirandello, e musicato da Alfredo Casella, era stato oggetto della coreografia di Roberto Zappalà, elemento di spicco della danza italiana contemporanea. Enorme il contrasto tra le luci e i colori vivacissimi del balletto e i toni nerissimi della messa in scena dell’atto unico di Mascagni. Saranno prodromi delle nubi minacciose che si addensano sul teatro torinese?

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La voix humaine / Cavalleria rusticana

Francis Poulenc, La voix humaine / Pietro Mascagni, Cavalleria rusticana

★★★☆☆

Bologna, Teatro Comunale, 9 aprile 2017

(video streaming)

Antonacci e Mariotti star di un dittico bizzarro

Due atti unici che non hanno nulla in comune, se non la vicenda di una donna abbandonata dall’amato e destinata alla solitudine «determinata da una impostazione fortemente maschilista» secondo Emma Dante che nei suoi spettacoli sottolinea sempre l’aspetto della violenza sulla donne.

Il primo lavoro è francese, del 1959, il secondo italo/siculo, del 1890. Li separa un periodo di settant’anni in cui è successo di tutto nel mondo e i due titoli sono musicalmente e drammaturgicamente quanto di più distante si possa concepire. A Bologna vengono poi rappresentati in ordine cronologico inverso perché non si sa mai, qualcuno potrebbe andarsene all’intervallo prima dell’opera “moderna”…

Con ragione la regista non ha proposto nessun aggancio narrativo tra i due lavori (1) e mette in scena due spettacoli completamente diversi, programmaticamente differenti, a cominciare dai colori dominanti delle scenografie di Carmine Maringola: bianco e rosa per la prima parte, tutto in nero per la seconda.

La voix humaine ha un’ambientazione che inizialmente non si distingue da tante altre  tradizionali: una stanza da letto alto borghese elegantemente spoglia, o la camera di un hotel parigino, che però qui lentamente si trasforma nella stanza di un ospedale. Le pareti imbottite si chiudono sempre più sulla fragile figura femminile della protagonista, una malata di mente che parla ad un telefono che ha il filo staccato e visualizza le cause del suo dramma, l’altra donna e Lui, mentre rivive il momento in cui ha ucciso quest’ultimo, nella realtà o nella sua fantasia non si sa (2): noi la vediamo strangolare il fantasma dell’amante con il filo del telefono. Due inflessibili infermiere e un medico si uniscono alle figure che Elle rievoca in controscene che illustrano, spesso inutilmente, le parole del suo monologo – parla della febbre ed ecco la cartella clinica, nomina il foulard rosso e lo vediamo attorno al collo dell’amato, il cappello nero e… le voilà.

Elle è Anna Caterina Antonacci, che già sapevamo essere interprete d’eccezione. Porge le parole del libretto di Jean Cocteau come e meglio di un’attrice di madrelingua francese e coniuga le frasi con una musicalità e un’immedesimazione da brividi. L’orchestra all’inizio fa da interiezione al suo discorso, poi partecipa sempre più al dramma e sotto la bacchetta di Michele Mariotti i momenti di lirismo, di allucinazione e di straziante disperazione si alternano implacabilmente e con un colore spettrale che asseconda con precisione i ritmi e le pause dell’attrice in scena.

Tanto il dramma di Poulenc è una vicenda individuale, quanto Cavalleria si presenta come un bozzetto popolare che finisce in tragedia. La regista siciliana ha buon gioco a spingere sul pedale della religiosità morbosa e opprimente affollando la scena di sacre rappresentazioni (via crucis con Cristo nero) e gruppi statuari (citazione del bolognese Compianto sul Cristo morto di Niccolò dell’Arca), oppure sul lato circense (le “cavalle” di Alfio) o da teatro dei pupi. Con forzature e momenti più o meno convincenti la Dante conferma comunque il suo innegabile istinto teatrale.

Marco Berti è come sempre prodigo di decibel quanto avaro di espressività e spesso con problemi di intonazione, la Santuzza di Carmen Topciu particolarmente dolente ma esangue. Più o meno efficaci gli altri interpreti

È però la concertazione di Mariotti l’atout della serata, una lettura originale che non si rifà a esempi precedenti, ma è tutta basata sui toni orchestrali piuttosto che sugli slanci passionali delle melodie, non ricorre ad effettacci ma è sempre drammaticamente teatrale.

(1) Come aveva fatto ad esempio Warlikowski, che senza soluzione di continuità aveva innestato Poulenc su Bartók.

(2) Sempre Warlikowski nella stessa produzione a Parigi.

Cavalleria rusticana / Pagliacci

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ROYAL OPERA

Pietro Mascagni, Cavalleria rusticana

Ruggero Leoncavallo, Pagliacci

Londra, Royal Opera House, 10 dicembre 2015

★★★★☆

(live streaming)

Cav & Pag a Londra

Double bill lo chiamano nei paesi anglosassoni. E cosa c’è di più tipico dell’accoppiata Cavalleria rusticana e Pagliacci? Di atipico qui a Londra alla Royal Opera House c’è l’allestimento di Damiano Michieletto, che lega drammaturgicamente le due diverse vicende: nello stesso paesino del sud in cui si è consumato il dramma rusticano, la sera,  nel teatrino parrocchiale, c’è la rappresentazione di una scalcinata compagnia drammatica, che sappiamo come finirà. Già nell’opera di Mascagni vediamo Beppe incollare i manifesti che annunciano Pagliacci e Nedda distribuire i volantini dello spettacolo. Qui la donna incontra per la prima volta Silvio, il garzone della panetteria di mamma Lucia, ed è durante lo straziante intermezzo che i due si innamorano e si scambiano il primo bacio. Nell’analogo intermezzo orchestrale dell’opera di Leoncavallo vediamo invece Santuzza, dopo che ha confessato al prete di essere incinta, allontanarsi assieme a mamma Lucia. Il desiderio di Turiddu («s’io… non tornassi… voi dovrete fare  da madre a Santa») è stato esaudito.

In Cavalleria Michieletto fa il miracolo di farci commuovere non solo alla fine dell’opera, ma addirittura dopo appena mezzo minuto: la sua messa in scena inizia infatti con il cadavere insanguinato di Turiddu in mezzo alla via e il grido muto di Mamma Lucia, che si accascia sul corpo del figlio. Un’emozione che non ti lascerà più per il resto della rappresentazione, che si rivela un angoscioso flashback.

Un elemento girevole (il set scenografico è del solito geniale Paolo Fantin) offre i due ambienti in cui si svolge il dramma: l’esterno con la folla, la processione, la festa di Pasqua, e l’interno della panetteria per il dramma domestico in cui le due donne, Santuzza e Lucia, si fanno forza a vicenda in quel mondo dominato dal testosterone maschile. Lucia è divisa tra l’amore per Turiddu e l’affetto per Santuzza, la figlia che non ha avuto, mentre la giovane è dilaniata tra l’amore calpestato ma ancora vivo e la disperazione della vendetta. Come in tutte le regie di Michieletto c’è grande cura per la recitazione e l’interazione dei personaggi: Santuzza ha l’angosciata e a stento trattenuta espressività di Eva Maria Westbroek, Mamma Lucia è una intensa Elena Zilio, forse talora manierata, ma icona imprescindibile di ogni rappresentazione di Cavalleria.

I tocchi del regista veneziano sono sparsi qua e là: come la statua della madonna che si anima per puntare il dito contro una Santuzza oppressa dal senso di colpa mentre assiste in disparte alla processione, o la pasta in cui mamma Lucia affonda le mani con una sensualità che da tempo non conosce – che ne è del marito? Nulla infatti ci dice il Verga di gnà Nunzia, come si chiama nella novella.

Lo stesso mirabile gioco attoriale si ha in Pagliacci. Simile è la scenografia: anche qui un elemento girevole mostra i vari ambienti del dramma e permette a Michieletto una prodezza quando verso la fine dell’opera, tramite delle controfigure dei personaggi, assistiamo al backstage della rappresentazione nella rappresentazione, una mise en abîme finora non tentata nel teatro lirico. Si dà così maggior plausibilità al teatrino talora stucchevole delle maschere e al tragico finale con due morti sul palcoscenico e fuggi fuggi dell’atterrito pubblico.

Affiancati i due lavori permettono di notare somiglianze e differenze: entrambe opere prime, entrambe esempi non superati di Verismo in musica. Certo non dal Mascagni di Isabeau o della Parisina, ma neanche dal Leoncavallo de La bohème o di Zazà. La musica dell’opera del compositore napoletano sembra più “moderna” di quella di Mascagni, ma quest’ultimo con Cavalleria aveva sconvolto il sonnacchioso mondo musicale dell’Italietta fine secolo con un’opera che si era rivelata un capolavoro al limite dello scandalo e che in pochissimo tempo aveva varcato le Alpi ottenendo riconoscimenti ovunque – l’austero Eduard Hanslick gli aveva dedicato un saggio entusiastico. Sulla scia del successo di Cavalleria vennero rappresentati nei teatri della penisola drammi a fosche tinte dai Mala Pasqua!, Mala vita, Vendetta sarda, Un mafioso… Sì, l’Italia era veramente unita!

Il dramma di Leoncavallo anticipa il teatro di Pirandello nel gioco tra scena e vita, sentimenti finti e sentimenti veri, uomini e maschere. Musicalmente si ha un collage stilistico cha va dalle melodie cantabili, quasi romanze, agli intermezzi sinfonici, ai cori, ai minuetti e alle gavotte “all’antica”, ai colori foschi del “cattivo” di Tonio, alle armonie cromatiche quasi wagneriane del duetto d’amore tra Nedda e Silvio, all’uso dei motivi conduttori.

Pappano sembra aver compreso tutto quanto, tanto è conscia, trascinante e al contempo cesellata nei particolari la sua direzione. Purtroppo non si trova adeguato smalto nel cast. Se quello femminile dà buona prova – già si è detto della Westbroek che ha colore e accento adatti per Santuzza e della immarcescibile Zilio, Carmen Giannattasio disegna una Nedda scenicamente indimenticabile e vocalmente pregevole, Martina Belli una Lola dall’indubbio sex appeal – note meno favorevoli si hanno per il reparto maschile, a iniziare dal sopravvalutato tenore lèttone Alexsandrs Antonenko (ma non era bastato il suo penoso Calaf dell’anno scorso alla Scala a mettere le cose in chiaro?) dalla voce potente ma monocorde e dagli acuti spiazzati nell’intonazione sia come Turiddu che come Canio. Non meglio il baritono greco Dimitri Platanias, grezzo Alfio e poi più accettabile Tonio. Greco è anche Dionysios Sourbis, Silvio di bella presenza scenica ma dal timbro infelice e dal vibrato insopportabile.

Cavalleria rusticana

  1. Karajan/Strehler 1968
  2. Prêtre/Zeffirelli 1984

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★★★☆☆

1. Karajan alla Scala

Nel 1890 saputo del concorso aperto ai giovani compositori italiani bandito dall’editore Sonzogno, Mascagni chiese all’amico Giovanni Targioni-Tozzetti di scrivergli un libretto tratto dalla popolare novella Cavalleria rusticana (1879) di Giovanni Verga.

A Vizzini (Catania) un mattino di Pasqua. Il giovane Turiddu, prima di partire per il servizio militare, aveva giurato il suo amore a Lola che però si è sposata con Alfio, il carrettiere del paese. Così egli corteggia Santuzza, ma ha sempre la speranza d’incontrare Lola ora che Alfio è via dal paese per lavoro. Santuzza è preoccupata, anche perché è incinta e cerca Lucia, la madre di Turiddu, raccontandole tutto. All’arrivo di Turiddu tra i due giovani scoppia una lite che termina con l’arrivo di Lola con Turiddu che la segue mentre si avvia in chiesa dopo la maledizione di  Santuzza che in subito dopo decide di vendicarsi dicendo ad Alfio di ritorno dal lavoro che Lola l’ha tradito. Finita la messa, Turiddu offre da bere agli amici all’osteria della madre. Offre un bicchiere anche ad Alfio, il quale lo rifiuta, e gli morde l’orecchio sfidandolo a duello. Prima di recarsi alla sfida mortale, Turiddu saluta la madre Lucia e le chiede di avere cura di Santuzza. Il duello finisce con le grida di una popolana che annuncia la morte di Turiddu.

Con la collaborazione di Guido Menasci il libretto fu inviato per corrispondenza (i versi scritti su delle cartoline!) al musicista che allora dirigeva la banda di Cerignola e che terminò l’opera il giorno prima della scadenza del concorso. Tra le 73 opere inviate, la giuria ne selezionò tre e quella di Mascagni si classificò al primo posto. La prima al Teatro Costanzi di Roma ebbe un successo inaudito, ma fu soltanto a questo punto che il compositore scrisse al Verga per chiedergli l’autorizzazione a far rappresentare l’opera. Lo scrittore siciliano aveva già trasformato la sua smilza novella, non più di dieci pagine della raccolta Vita dei campi, in un dramma per la scena che debuttò al Teatro Carignano di Torino con Eleonora Duse come interprete principale. Alla successiva richiesta del Verga di venirgli riconosciuti una quota dei compensi per i diritti d’autore, Sonzogno rispose con un’offerta irrisoria di mille lire “una tantum” che offese lo scrittore e lo indusse a intraprendere una causa giudiziaria che si trascinò nel tempo e si concluse solo con la sua morte nel 1922.

Nel 1968 Herbert von Karajan riprende alla Scala le recite di Cavalleria di Giorgio Strehler da cui viene tratta una versione cinematografica, allora prassi assai frequente. Purtroppo lo splendido spettacolo teatrale è quasi completamente travisato dalla regia cinematografica dello svedese Åke Falcke che non rinuncia a voler imporre la sua personale visione ad un allestimento perfetto di per sé e che non aveva bisogno di ulteriori lambiccate e fuorvianti elaborazioni visive che ora risultano estremamente datate.

Sotto la direzione del maestro austriaco l’orchestra del Teatro alla Scala raggiunge vette di sublime grandezza nell’intermezzo sinfonico di quest’opera dove Karajan mette in primo piano l’intervento dell’organo con un effetto dolorosamente struggente. Ma tutta la partitura è messa in luce dal maestro austriaco con uno splendore che fino a quel momento nessuno aveva mai riservato a un’opera verista. I migliori cantanti a disposizione allora (Fiorenza Cossotto, Gianfranco Cecchele, Giangiacomo Guelfi) si adattano con buona volontà al playback.

Audio e immagini sono compatibili con il massimo che la tecnica di riproduzione allora potesse offrire.

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★★★☆☆

2. Cavalleria nei luoghi e nei tempi…

Rocce e fichi d’india, muri calcinati di bianco e abiti neri oppure colorati e sgargianti per la Pasqua che Zeffirelli ambienta a Vizzini, il paese natale del Verga, alternando scene d’esterni, splendidamente riprese dalla fotografia di Armando Nannuzzi, con quelle dello spettacolo andato in scena alla Scala nel 1982. Zeffirelli si dimostra maestro nel fondere perfettamente i due piani e nel guidare la recitazione degli interpreti e i movimenti delle masse. Con abilità cinematografica ci fa vedere il brindisi di Turiddu «Viva il vino spumeggiante» dalla finestra della camera di mamma Lucia mentre nell’ultima scena l’inquadratura si allarga dal primo piano del suo viso al gruppo di donne che accorrono, alla strada in cui si precipita Santuzza, al campo visto dall’alto in cui Turiddu è steso assassinato.

Di grande impatto teatrale la direzione tesa e drammatica di Georges Prêtre e ragguardevole il cast. Elena Obraztsova è un’intensa Santuzza dalla voce sontuosa ma forse troppo grave. Fedora Barbieri ha un’innegabile presenza di attrice, ma invece di cantare parla, anche se le sue frasi sono magnificamente scolpite. Splendido Domingo sia come attore che come voce: il personaggio è tutt’uno con l’interprete. Così come avviene per l’Alfio misuratissimo ma tagliente di Renato Bruson.

Cavalleria rusticana

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Pietro Mascagni, Cavalleria rusticana

Napoli, Teatro di San Carlo, 15 luglio 2012

Metti una recita di Cavalleria Rusticana al Teatro di San Carlo a Napoli in una calda serata di luglio. Ancor più calda l’emozione. Pippo Delbono, che firma la regia dello spettacolo, a sipario chiuso e con l’o  rchestra schierata in buca, presenta a modo suo lo spettacolo:

«Buonasera. Scusate l’intromissione. Sono il regista di questo spettacolo. Prima di cominciare volevo raccontarvi due piccole storie legate alla Pasqua, la festa ricorrente di quest’opera. Un giorno camminavo in un paese abbandonato in Sicilia. Un paese che era stato distrutto da un terremoto molti anni prima. In quel paese tutto era rimasto uguale, fermo, immobile come se il tempo si fosse fermato là, in quell’attimo del terremoto. I palazzi conservavano ancora intatti i segni di un’eleganza antica ma erano sprofondati nella terra. E in quel piccolo paese distrutto dal terremoto avevo trovato un piccolo agnello pasquale di stoffa, nascosto tra le macerie. Ora quell’agnellino di stoffa lo conserva come una reliquia Bobò, il mio vecchio piccolo attore sordomuto rimasto per cinquant’anni rinchiuso nel manicomio di Aversa e che da molti anni vive con me. Libero. E poi un’altra storia, legata alla Pasqua. Una sera di poco tempo fa, mentre stavo preparando la Cavalleria Rusticana, ero con mia madre. Guardavamo dalla finestra il fuoco della Pasqua nella piazza della Chiesa del piccolo paese dove sono nato. Qualche giorno dopo mia madre se ne è andata. Per sempre. E quella sera in quella veglia pasquale in quel fuoco io e lei vedevamo la resurrezione, vedevamo la vita, la morte. Vedevamo la nostra separazione. Ricordo una poesia che studiavamo da piccoli a scuola:

Di queste case
non è rimasto
che qualche
brandello di muro
Di tanti
che mi corrispondevano
non è rimasto
neppure tanto
Ma nel cuore
nessuna croce manca
È il mio cuore
il paese più straziato. (1)

Grazie e scusate ancora questa mia intromissione»

Ed ecco che il sipario si apre e il ‘paese più straziato’, nella scenografia di Sergio Tramonti un’immensa camera rossa povera e sontuosa allo stesso tempo, appare in tutto il suo angosciante incombere. «Un lamento d’amore terribile, eccitante e doloroso. Il nucleo della Cavalleria è quello stato interiore che corrisponde alla passione quando diventa distruttiva. Per questo lo spettacolo sarà ambientato in una stanza rosso sangue che può sembrare un inferno o una chiesa, e che in realtà è un luogo della mente, la parte più oscura e pericolosa di noi». E quando il regista si fa personaggio e comincia ad aprire tutte le porte laterali da cui, improvvisa, esplode la luce, regala suggestioni immediate a un’atmosfera visionaria e decisamente surreale.

Nulla resta a evocare gli aranci olezzanti, le allodole cinguettanti tra i mirti in fiore, i campi con le spighe d’oro del libretto. C’è già tutto il dramma che sarà, non importa che sia un dì di festa. Nella poesia di Ungaretti la perdita e il lutto sono fortemente presenti e si ricollegano magicamente alla scena finale con Delbono che si avvicina alla madre di Turiddu – qui un’affranta Elena Zilio – e le porge la mano, un appiglio per non lasciarsi risucchiare dal mare delle lacrime, dal dolore della tragedia appena compiuta. Margherita, la mamma di Pippo, è mancata da poco. Un’altra straziante intrusione della realtà biografica del regista nei suoi spettacoli.

Poco meno di trenta minuti dello spettacolo diretto da Pinchas Steinberg, ripreso da una telecamera fissa, sono disponibili in rete.

(1) Giuseppe Ungaretti, San Martino del Carso