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Leonard Bernstein, West Side Story
Roma, Terme di Caracalla, 5 luglio 2025
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La fine del sogno americano
Nel West Side Story di Michieletto alle Terme di Caracalla, l’America non è più terra di speranza ma scenario di disillusione. In una piscina vuota, emblema di un sogno infranto, Jets e Sharks incarnano un conflitto sterile. Regia lucida e amara, direzione intensa di Mariotti, interpreti efficaci. Spettacolo potente, ma penalizzato da una pessima amplificazione.
Allora, negli anni ’50, gli immigrati negli Stati Uniti si scazzottavano per le strade. Ora vengono prelevati e chiusi in gabbia a El Salvador. Da terra di speranza, l’America è diventata il lager dei derelitti.
Quando, mesi fa, fu concepita la nuova produzione di West Side Story gli U.S.A. erano diversi da quello che sono diventati oggi e lo spettacolo di Damiano Michieletto, pur in parte profetico, non è riuscito a star dietro alla corsa degli eventi che abbiamo vissuto a partire dalle elezioni di novembre in un paese che ha segnato i nostri gusti, i nostri desideri, che è stato un modello di vita nel Novecento, ma il cui sogno ora si è infranto in modo repentino.
Dopo Mass di tre anni fa il regista veneto torna a Bernstein in uno spettacolo all’aperto per l’estate romana, ma questa volta anche come direttore del festival. A contrasto con le terme di un impero crollato, qui Michieletto ricrea il West Side con una piscina. Però è abbandonata, in disuso, vuota, luogo simbolo di una innocenza perduta, di un’adolescenza disillusa. Questo posto desolato è uno scampolo di terra conquistato delle due bande rivali, i Jets e gli Sharks, che se ne contendono lo spazio per affermare la loro superiorità, di immigrati bianchi i primi, di immigrati portoricani i secondi.
Michieletto rinuncia a una lettura nostalgica e realistica della vicenda, dandone invece una spoglia e in parte simbolica: in scena vediamo un gonfiabile dorato a forma del logo del dollaro mentre grosse lettere luminose montate su rotelle formano parole come miracle o America, parole a cui però nessuno crede più. La fiaccola della Statua della Libertà giace a terra a pezzi, quella statua che oggi innumerevoli cartoonist americani disegnano disperata, piangente o con la valigia in mano per scappare da quella che una volta era la «Land of the free, home of the brave», come recitano i versi di The Star-Spangled Banner, l’inno nazionale U.S.A. Durante la sarcastica Gee, Officer Krupke Michieletto ci regala un numero “alla Kosky” quando il suddetto poliziotto entra in scena con una gran testa di cartapesta assieme alle sagome in cartone delle altre figure richiamate nella canzone. Il gusto amaro del sarcasmo sembra permeare anche il messaggio di pace e tolleranza di quest’opera alla luce di quanto avviene oggi, tingendolo di una certa mestizia.
Con lo sfondo delle grandiose rovine delle Terme di Caracalla illuminate da una luce color ambra, la scenografia di Paolo Fantin si staglia per i colori freddi della vasca, i fumi e il bellissimo gioco luci di Alessandro Carletti che dà spazialità alla scena unica in cui si individuano tre piani: quello del fondo della piscina, quello intermedio dei bordi e la piattaforma del trampolino, il balcone di Maria/Giulietta per l’incontro con Tony/Romeo.
I costumi di Carla Teti ricreano l’epoca – il musical di Bernstein, Laurents e Sondheim è del 1957 – , in bianco i Jets, coloratissimi i portoricani e le loro ragazze. Le coreografie di Sasha Riva e Simone Repele distinguono le due bande con movimenti più stilizzati per i Jets, sinuosi quelli dei portoricani, ma entrambi nervosi, spigolosi, ben diversi da quelli delle coreografie storiche di Robbins. In azione è il corpo di ballo del Teatro dell’Opera di Roma che si confonde con i cantanti impegnati quindi non solo in passi di danza ma anche in momenti di recitazione con risultati più che accettabili per una compagnia italiana.
Del fitto cast ricordiamo il Tony di Marek Zukowski, la migliore voce maschile, con una sicura presenza scenica, bel timbro e ampia proiezione spiegata nell’immortale pagina di Maria e poi nel duetto Tonight. Sofia Caselli ha l’incantevole ingenuità del personaggio di Maria con una voce molto sottile ma ben intonata in I feel pretty, ma sa toccare la corda drammatica nel finale. Efficace il Bernardo di Sergio Giacomelli e soprattutto la Anita di Natascia Fonzetti, irresistibile nel delineare il suo personaggio a cui Bernstein dedica un’altra pagina memorabile, quella di America. L’altra canzone super popolare, quella di Somewhere, qui bisogna dire che è deludente, sia per la voce dell’interprete che la canta, sia per la coreografia un po’ banale.
Michele Mariotti alla testa di una vera orchestra sinfonica, quella del teatro, ci ricorda che Bernstein è stato uno dei massimi compositori del secolo scorso, grande creatore di melodie e fantastico strumentatore. Nella direzione di Mariotti lo si sente chiaramente: il Novecento sinfonico, le pagine irte di complesse poliritmie, il Jazz, e la musica latina in tutte le innumerevoli varietà stilistiche sono egualmente presenti. Peccato per la tutt’altro che eccelsa amplificazione sonora – signori dell’Opera di Roma, fatevi un viaggetto a Bregenz per vedere come si amplifica la musica all’aperto – e per l’unz-unz proveniente dalla Festa dell’Unità dall’altra parte della strada…
Grande successo di pubblico e insistenti applausi per gli artisti scatenati sulle note del Mambo!
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