Johann Wolfgang von Goethe

Faust

Charles Gounod, Faust

Opéra, Lille, 15 maggio 2025

★★★★☆

(video streaming)

Il Faust che non ti aspetti: Il diavolo da opéra-comique

Nel Faust andato in scena al Théâtre Lyrique di Parigi nel marzo 1859 – e non già nel polpettone di gran lusso che siamo abituati a riconoscere come quintessenza del grand opéra francese, con cori da stadio e marce trionfali, con balletti per frotte di ballerine e scene finali degne di un kolossal hollywoodiano – nel Faust primigenio dunque, Méphistophélès non possedeva né il celebre brindisi del “Veau d’or” (quel pezzo irresistibile che pare scritto per far saltare dalle poltrone anche il più compassato dei melomani provinciali), né il sabba forsennato della Notte di Valpurga, con le sue orchestrazioni sulfuree che ancora oggi fanno l’occhiolino al cinema espressionista. Nulla di tutto ciò. Il diavolo, poverino, partiva svantaggiato.

L’opera, amatissima da un secolo e mezzo, nasceva infatti sotto un segno ben diverso: quello più leggero, più maliziosamente quotidiano dell’opéra-comique, con dialoghi parlati e ariette disseminate con garbo, quasi da salotto borghese. Un’altra creatura, insomma, quasi una sorella minore, smarrita nei corridoi della storia musicale e presto sepolta sotto le edizioni successive, gonfiate di ogni possibile orpello per conquistare i grandi teatri internazionali.

Si era a lungo creduto che il Faust fosse un monolite: il Faust e basta. Ma la realtà, come sempre, è più intrigante: gestazione lunga, travagliata, con revisioni continue, aggiustamenti per compiacere questo o quell’interprete, adattamenti per il gusto del pubblico. Un patchwork che oggi chiamiamo tradizione. E invece la prima versione, dimenticata e polverosa, è stata riesumata grazie alla pazienza certosina del Palazzetto Bru Zane, instancabile officina di riscoperte ottocentesche. Nel 2018, bicentenario di Gounod, si è potuto ascoltare il Faust originario nell’edizione critica di Paul Prévost per Bärenreiter in un’edizione discografica: un lavoro filologico, certo, ma con l’ambizione di restituire vita, non solo archeologia. Ora la ripresa dell’Opéra de Lille, in coproduzione con l’Opéra-Comique e Bru Zane, fornisce la prova concreta, con tanto di pubblico in carne e ossa.

E qui iniziano i colpi di scena: mancano i numeri che tutti conoscono! Sparita l’aria di Valentin «Avant de quitter ces lieux», scritta solo nel 1864 per coccolare il baritono inglese Charles Santley. Assente il coro dei soldati al ritorno dalla battaglia, che in seguito avrebbe fornito quella pennellata patriottica e virile tanto cara ai direttori con bacchetta marziale, spostata dopo la morte di Valentin la scena in chiesa. In compenso, dialoghi a profusione, che approfondiscono Wagner e la corpulenta Dame Marthe, tutrice di Marguerite, resa più tridimensionale, più amara. E poi pezzi “nuovi”: un terzetto d’apertura con Faust, Siebel e Wagner e un duetto fraterno fra Valentin e Marguerite, tenero saluto prima della guerra. Scene domestiche, intime, piccole, che spostano il peso dall’epica al quotidiano.

Langrée, il direttore, non si è limitato a eseguire la partitura filologica come da manuale: ha inserito sostituzioni, varianti, riscoperte. Fuori la “Chanson du scarabée”, dentro la “Chanson du nombre treize”, rimasta incompiuta ma citata in seguito nel coro delle streghe. E, sorpresa delle sorprese, dopo l’ineffabile «Salut, demeure chaste et pure», Faust finalmente canta una cabaletta dimenticata: «Et toi, malheureux Faust… C’est l’enfer qui t’envoie», cassata ai tempi perché il tenore l’aveva rifiutata. Pagina rispuntata in un mercatino delle pulci e pubblicata nel 2020: la filologia che diventa feuilleton.

La regia di Denis Podalydès è sobria, intelligente, essenziale, niente colossi scenografici. Éric Ruf costruisce una piattaforma girevole, nuda, con pochi elementi maneggiati da due servitori in bombetta, usciti da una cave di esistenzialisti della Parigi 1950 o da un quadro di Magritte. Una corona di lampadine cala o si inclina, un simbolismo minimo, ma efficace. I costumi di Christian Lacroix – l’haute couture che flirta con il Secondo Impero – riportano l’azione all’epoca della composizione, senza leziosità da cartolina e con efficacia: nella notte di Walpurga le streghe si liberano dei loro cenci neri dando vita a un’orgia di colori nel palazzo delle regine del passato.

E poi la danza: Julie Dariosecq ed Elsa Tagawa trasformano il valzer del primo atto in un cabaret di Montmartre, mentre la Notte di Valpurga sembra un’incisione di Toulouse-Lautrec, con gambe in aria e colori da Moulin Rouge. Una lettura che non tradisce il libretto, se non in un dettaglio che però fa discutere: il figlio illegittimo di Marguerite, altro che neonato! È un ragazzino di sette anni in carne ed ossa. Lo vediamo soffocato dall’abbraccio materno ed è lui, non Marguerite, a ricevere alla fine l’aureola di luce.

Sul fronte canoro, ensemble di livello. Julien Dran ha eleganza da vendere oltre che potenza sonora, talora un po’ teso, dimostra però grande sicurezza nella impegnativa cabaletta che segue la nota aria. Vannina Santoni è una Marguerite, commovente, una gioielleria scintillante di trilli, un vibrato ampio ma ben gestito e ottima attrice. Lionel Lhote scolpisce un Valentin rude, quasi violento, lontano dall’eroe cavalleresco delle versioni più tarde. Il soprano Juliette Mey offre un Siebel sensibile e luminoso, Marie Lenormand diverte come Marthe, e Anas Séguin sfrutta l’espansione di Wagner, qui insolitamente rilevante.

E Méphistophélès? Jérôme Boutillier, baritono, non basso: niente abissi tonali, ma un demone ironico, sarcastico, cinico, panciuto e in bombetta, pipa in bocca, ringmaster da circo felliniano. Non le melodie più celebri, ma carisma da vendere. Un diavolo che non spaventa: seduce, sogghigna, ammicca. Langrée dirige il Coro e l’Orchestra dell’Opéra de Lille con vitalità trascinante: legni pungenti, sezioni compatte, equilibrio di colori.

E dunque? Questo Faust originario, riportato in vita, non è un esercizio da filologi in giacca di velluto, ma un’opera viva, teatrale, attualissima. Non più il kolossal spettacolare che ingigantisce cori e marce, ma un tessuto drammatico intimo, nervoso, domestico. Un Faust che parla di rapporti umani, di fragilità borghesi, di piccole tragedie che precedono le grandi catastrofi.

Werther

   

Jules Massenet, Werther

Milano, Teatro alla Scala, 27 giugno 2024

★★★★☆

(diretta streaming LaScalaTv)

Werther e l’orologio 

Un bellissimo tradimento quello del Werther di Massenet, tutt’altra cosa da Die Leiden des jungen Werther di Johann Wolfgang von Goethe, il romanzo epistolare pubblicato 118 anni prima, in cui il protagonista, ventenne e di buona famiglia, scrive all’amico Guglielmo nel corso di venti mesi, dal maggio 1771 al 22 dicembre 1772, dei suoi viaggi tra città e campagna e della sua infatuazione per Charlotte (Lotte), una ragazza del villaggio di Wahlheim già promessa sposa a un altro, Albert, un giovane funzionario.

Punto più alto del movimento Sturm und Drang che preluderà al Romanticismo e modello per il romanzo del Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis del 1804 che racconta una storia praticamente identica ma introduce il motivo politico-patriottico, l’apologo morale di Goethe diventa un drame lyrique intimo, un teatro da camera in linea con la lettura romantica dell’originale, ma guarda al Naturalismo di Maupassant o Flaubert. Nel libretto di Édouard Blau, Georges Hartmann e Paul Millet, Charlotte non è insensibile al fascino del giovane Werther il quale ha turbato anche i sentimenti di Sophie, la sorella minore di Charlotte, un’invenzione dei librettisti i quali posticipano anche il suicidio di Werther di tre giorni per farlo avvenire proprio il giorno di Natale, con la sua tragica morte punteggiata dai canti e dalle risa dei fratellini di Charlotte.

Qualche libertà se la prende anche Christof Loy in questa messa in scena del capolavoro di Massenet che mancava dalla Scala da oltre quarant’anni, essendo l’ultima volta quella con la direzione di Georges Prêtre e la voce di Alfredo Kraus. Il regista tedesco legge la vicenda agendo sui meccanismi psicologici dei quattro personaggi principali i quali agiscono sempre davanti a una parete che chiude il fondo del palcoscenico nella scenografia di Johannes Leiacker, dove solo una porta a battenti scorrevoli lascia intravedere, quando è aperta, quanto succede di là: un albero che segue il corso delle stagioni, una tavola imbandita per la festa del Pastore, immagini di una vita borghese preclusa a Werther – e infatti l’unica volta che varca quel confine è per spararsi. I dettagli della vicenda sono lasciati all’immaginazione dello spettatore e i quattro personaggi vivono le loro irrimediabili solitudini al proscenio, in una scena pressoché vuota, secondo una perfetta geometria di movimenti e cantando i loro monologhi verso il vuoto del pubblico. Il finale non avviene nella soffitta del giovane, ma nella casa di Albert e alla presenza anche di  Sophie. E qui  sottilissimi sono i tocchi psicologici messi in atto da Loy, come quando Sophie si stringe nella pelliccia della sorella o il pacco di lettere di Werther a Charlotte quasi sbattuto in faccia al marito. Più Ibsen che Massenet il finale e visto come uno psico-dramma. L’ambientazione è quella degli anni 50 del secolo scorso nei costumi di Robby Duiveman con le eleganti e lunghe gonne per le donne. In questa attualizzazione salta all’occhio l’orologio da polso con bracciale metallico di Werther, perfettamente plausibile, certo, ma comunque insolito su un personaggio che concepiamo così… fuori dal tempo.

Dopo Kraus solo Juan Diego Flórez nella produzione bolognese diretta da Mariotti nel 2016 aveva lasciato il segno. Ora è la volta di Benjamin Bernheim che si dimostra il miglior Werther di oggi, più lirico che drammatico, con un timbro purissimo e luminoso ma una proiezione che non teme  i fortissimi orchestrali. I pianissimi sono i più delicati, il controllo di fiati e mezzevoci è da manuale, il fraseggio impeccabile, la vocalità cesellata ma espressiva, mai fine a sé stessa o esibita per edonismo. Perdendo ogni slancio eroico, il Werther di Bernheim diventa un sognatore umanissimo e commovente, destinato al fallimento fin dal suo primo ingresso quando si presenta in un completo con l’immancabile panciotto giallo ma con i pantaloni – era la moda degli anni ’50 – al di sopra delle caviglie. Jean-Sébastien Bou si dimostra come sempre ottimo attore nell’interpretare la figura di Albert, il marito che sa di non essere amato. Timbro caldo e corposo quello del mezzosoprano russo Viktoria Karkačeva, una Charlotte di carattere nobile e nascostamente appassionato. Non impeccabile neppure la dizione di Francesca Pia Vitale che peraltro delinea una Sophie sensibilissima, un personaggio complesso e sofferente nella sua condizione di amante  rifiutata. Vivaci nella loro efficace caratterizzazione il Bailli di Armando Noguera, lo Schmidt di Rodolphe Briand e lo Johann di Enric Martinez-Castignani. Perfetti sia nel canto sia nella recitazione gli allievi del coro di voci bianche. 

La musica di questo Massenet deve molto a Wagner ma anche a Čajkovskij e ciò è ben chiaro ad Alain Antinoglu che della partitura mette in luce tutta la sofferta malinconia e gli slanci lirici mai stucchevoli. L’esatta resa dei colori e degli impasti timbrici, l’equilibrio di trasparenze e squarci stordenti sono il risultato di una direzione magistrale e di un’orchestra in stato di grazia.

Visto su LaScalaTv.

Faust

Charles Gounod, Faust

★★★☆☆

Venise, Teatro la Fenice, 30 avril 2022

 Qui la versione italiana

Faust à Venise : le diable s’habille… en plumes !

Le destin de Faust à la Fenice est très particulier : l’opéra était présent lors de la première véritable saison du théâtre après sa fermeture suite au déclenchement de la deuxième guerre d’indépendance italienne en 1859 : réouvert le 31 octobre 1866, quelques mois plus tard, l’opéra de Gounod figurait parmi les six opéras au programme. Ce fut ensuite le titre inaugural de la réouverture de la Fenice en 1920, après les événements de la Grande Guerre qui avaient maintenu le théâtre fermé depuis 1914. La même chose s’est produite, cent ans plus tard, en juillet 2021, après la fermeture due à la pandémie. À l’époque, le public était dans les loges et l’action se déroulait en partie dans les stalles, avec un effet spatial inhabituel et surprenant qui combinait le besoin de distanciation avec un choix dramaturgique efficace qui exploitait brillamment cette situation inhabituelle…

la suite sur premiereloge-opera.com

Faust

Charles Gounod, Faust

★★★☆☆

Venezia, Teatro la Fenice, 30 aprile 2022

bandiera francese.jpg Ici la version française

Il diavolo veste le piume di Lola-Lola

È un particolare destino quello che lega il Faust con il teatro veneziano. Era presente nella prima vera stagione del teatro dopo la chiusura seguita allo scoppio della Seconda Guerra d’Indipendenza Italiana nel 1859: riaperta il 31 ottobre 1866, pochi mesi dopo tra le sei opere in programma figurava appunto l’opera di Gounod. Fu poi il titolo inaugurale per la riapertura nel 1920, dopo gli eventi bellici della Grande Guerra che avevano tenuto chiuso il teatro dal 1914. Lo stesso è avvenuto, cento anni dopo, nel luglio 2021, dopo la chiusura per pandemia. Allora il pubblico era solo nei palchi e l’azione si svolgeva in parte in platea con un inedito e sorprendente effetto spaziale che coniugava le esigenze di distanziamento con una efficace scelta drammaturgica che sfruttava genialmente l’inusuale situazione.

Ora, con il medesimo cast di un anno fa, Joan Anton Rechi ripropone l’opera in una produzione totalmente diversa, sia a livello visivo che concettuale e, diciamolo subito, questa volta è meno convincente. Il risultato ottenuto sembra confermare il fatto che è quando ci sono forti vincoli che allora la creatività viene esaltata.

Nel nuovo approccio di Rechi il tema dell’eterna giovinezza è diventato il punto focale dell’intera vicenda, assieme al cinema inteso come fonte di illusione. «La nostra idea», dice il regista, «nasce da una scena del film Intervista di Federico Fellini, nella quale un’Anita Ekberg e un Marcello Mastroianni già avanti con gli anni contemplano le immagini della loro famosa scena alla Fontana di Trevi nella Dolce vita e nei loro volti si può scorgere la nostalgia per la gioventù perduta. E questo a maggior ragione essendo stati miti del cinema e avendo a disposizione immagini che glielo ricordano costantemente». E così inizia l’allestimento di Rechi, con un malandato Faust che da una sedia a rotelle sembra contemplare i suoi passati splendori da stella del cinema. Con il patto col Diavolo la scena si trasforma in un set cinematografico e Mefistofele diventa Fellini, il regista che crea quel mondo di fantasia in cui Faust ha la possibilità di assaporare i piaceri che non aveva conosciuto in giovinezza.

Questa è l’idea di fondo del regista, ma la distanza tra intenzioni e realizzazione qui è grande: manca totalmente la magia del cinema – forse ci voleva Davide Livermore… – e lo spunto iniziale si ripete senza offrire un significato alternativo a un’opera permeata totalmente dall’elemento religioso, elemento che connotava invece la lettura di un anno fa, e che è difficilmente estirpabile dall’opera di Gounod. L’ambientazione ai nostri giorni rende poi ancora più incongrui certi aspetti del libretto che hanno significato solo se calati nell’epoca della composizione o affrontati in maniera più convinta.

L’avvicendarsi delle varie scene è risolto dallo scenografo Sebastian Ellrich con la solita piattaforma rotante e una brutta struttura a varie sezioni, con scale e passerelle, finte rovine e un grande telo su cui si aspetta inutilmente fino all’ultimo che qualcosa di cinematografico venga proiettato. Invece, nulla. Personaggi vagamente felliniani negli sgargianti costumi di Gabriela Salaverri popolano la scena e spingono in tondo le parti del praticabile. Non aiutano a rendere più suggestiva la visione né le luci di Alberto Rodríguez Vega che variano monotonamente dal bianco al rosso né i torpidi movimenti delle masse corali. Margherite e Marthe sono sartine, la casa di Marguerite è un camerino, il giardino un divano disegnato sulla forma delle labbra rossa su cui si sdraia il Dr. Frank-N-Furter del Rocky Horror Picture Show, la chiesa una croce al neon. La vicenda dei soldati tornati dal fronte è anch’essa una scena di film girata in diretta, la notte di Valpurga una datata scena di seduzione del recalcitrante Faust da parte delle vamp del cinema: abbiamo quindi Cleopatra, ma anche Barbarella, la principessa Leia di Star Wars (!), la Marilyn inguainata di raso di Gentlemen Prefer Blondes, la Sally di Cabaret e così via. Per non farsi mancare nulla il regista traveste Méphistophélès stesso da Lola Lola di Der blaue Engel – o come Helmut Berger ne La caduta degli dèi. Come trasgressione siamo a un livello piuttosto basso. Ma è con la scena del valzer che assistiamo a una delle più tristi mai realizzate, con quattro smandrappate ballerine di cancan, una scena che visivamente smorza l’impulso travolgente fornito all’orchestra dal direttore Frédéric Chaslin che dà una lettura trascinante della partitura pigiando forse un po’ troppo forte sul pedale del volume esaltato dall’acustica del teatro.

Il cast è quello dell’altra volta e si confermano le impressioni ricevute allora. Nella parte eponima ritroviamo dunque Iván Ayón Rivas e il suo tono spavaldo, la luminosità e la sostanza degli acuti, assieme a una certa latitanza nell’introspezione psicologica del personaggio e nell’eleganza del fraseggio. Carmela Remigio che non ha la brillantezza del canto che dovrebbe definire il personaggio di Marguerite, soprattutto nella prima parte. È infatti nelle scene più drammatiche che si ritrova il temperamento del soprano abruzzese e la sua resa migliore. Ma i suoni fissi sono sempre lì in agguato e un certo modo manierato nell’articolare le frasi non ne fa la Marguerite ideale. Una conferma anche per il sensibile Valentin di Armando Noguera, timbro chiaro e strana emissione nel registro basso, ma bella presenza scenica. Importuna l’idea del regista di farlo resuscitare dopo la sua lunga straziante fine per minacciare ancora di più la povera sorella come se non fosse bastato quello che le ha vomitato addosso in punto di morte. Ottima anche questa volta la prova di Paola Gardina, trepidante Siebel. Il coro istruito da Alfonso Caiani ha dato il meglio di sé nonostante le mascherine che ovattano le voci e impastano la dizione.

E poi c’è Alex Esposito e qui non si sa più cosa inventarsi per l’emozione di trovare un Méphistophélès che non si pensava potesse migliorare. Eppure, ci si stupisce ogni volta per la straordinaria presenza scenica sempre al di qua di una possibile gigioneria, anzi l’eleganza e la padronanza scenica sono ancora più raffinate. L’espressione e la dizione francese sono da manuale, la voce piena e sonora si flette in mille sfumature e ogni parola riceve il giusto accento senza che il discorso perda di musicalità. A lui il pubblico ha tributato meritatissime ovazioni da stadio. Era l’ultima recita. Ora i suoi impegni lo porteranno di nuovo agli amati Rossini e Donizetti, ma non si può affermare che quello sia il suo repertorio di elezione: «Egli fa tutto ben quello ch’ei fa», come direbbe Susanna, ma questa volta senza alcuna ironia.

Faust

Charles Gounod, Faust

★★★★☆

Venice, Teatro La Fenice, 3 July 2021

bandieraitaliana1.gif   Qui la versione in italiano

La Fenice transformed into a cathedral for Joan Antón Rechi’s vision of Gounod’s Faust

Take the greatest masterpiece of German literature, translate it and betray it by transforming its philosophical message into a sequence of beguiling arias and – voilà! – you have Gounod’s Faust, one of the world’s most popular operas. But it was not always so.Faust was created at the Théâtre Lyrique in Paris in 1859 with spoken dialogue. It met with critical interest, but not with public fervour. It would take several years to reach its “definitive” version at the Opéra, ten years later, with sung recitatives and a ballet. Born as opéra-comique, Faust became grand opéra. Audiences were ecstatic, but the critics were lukewarm…

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Faust

Charles Gounod, Faust

★★★★☆

Venezia, Teatro La Fenice, 3 luglio 2021

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Dopo quasi un anno la Fenice riapre all’opera e diventa una cattedrale per il Faust di Gounod

Prendere il massimo capolavoro della letteratura tedesca, tradurlo e tradirlo trasformando il suo messaggio filosofico in una serie di arie rapinose et voilà il Faust di Gounod, una delle opere più popolari e rappresentate al mondo. Quella con cui si inaugurò il Teatro Metropolitan di New York nel 1883 e quella che assieme a Carmen e Les contes d’Hoffmann forma il nucleo fondante dell’opera francese del XIX secolo sopravvissuto gloriosamente nel XX e XXI.

Ma non è stato sempre così. Il Faust era approdato al Théâtre Lyrique di Parigi nel 1859 con i dialoghi parlati e aveva incontrato l’interesse della critica, ma non quello del pubblico. Ci vorranno molte altre versioni per arrivare a quella definitiva all’Opéra, dieci anni dopo, con i recitativi cantati e il balletto. Nato come opéra-comique il Faust diventava grand opéra. Stavolta il pubblico esultava, la critica invece si faceva più tiepida.

Il libretto di Jules Barbier, basato sul dramma di Michel Carré Faust et Marguerite del 1850, è strutturato in cinque atti – il terzo, con la scena nel giardino e il duetto d’amore, è quello cardine della vicenda, il secondo atto presenta l’incontro degli innamorati, il quarto la separazione, il tutto incastonato fra due atti che fungono da prologo e da epilogo. Il lavoro si affianca a quelli di Berlioz (La damnation de Faust, 1846), Boito (Mefistofele, 1868) e Busoni (Doktor Faust, 1924), ma qui il tema religioso è preponderante, tanto che il regista Joan Antón Rechi, che lo propone ora alla Fenice, trasforma il teatro veneziano in una cattedrale, con i banchi da chiesa al posto delle poltrone e il pubblico nei palchi e nelle gallerie. Il pavimento è inizialmente coperto da un telo che quando viene tolto mostra una superficie a specchio che riflette gli ordini di palchi e le luci delle appliques e del grande lampadario di vetro che illuminano il settecentesco interno del teatro. La trasformazione in sala da ballo per la scena del valzer è così completa.

L’ambientazione è quella dell’epoca della composizione, con le donne in grandi gonne e i maschi in divisa militare o redingote. L’azione si sviluppa sia in platea che sul palcoscenico: le esigenze di distanziamento sanitario qui diventano una efficace scelta drammaturgica del regista andorrano che non rinuncia ad alcuni vezzi registici come lo spostamento dei banchi da parte di due figuranti in nero in un lungo silenzio scandito solo dai loro passi sul pavimento, o il tormentone della fotografia con cui Siébel cerca di riprendere il coro schierato sul palco per «Gloire immortelle», o il ritorno del fantasma di Valentin che trascina via per i piedi la sorella Marguerite. Per il resto si tratta di una realizzazione intelligente e spettacolare, che ripropone in maniera moderna il fasto del grand opéra con una recitazione vivace e movimenti dei singoli e delle masse molto efficaci. Rechi è autore anche dei costumi, mentre il complesso gioco luci è opera di Fabio Berettin. Suo è il bellissimo effetto della luce filtrata da un immaginario rosone.

Frédéric Chaslin è un esperto della musica francese e della complessità del Faust riesce a dare una visione unitaria malgrado la frammentarietà dei pezzi musicali di una ricchezza melodica e strumentale stupefacente. Nelle note sul programma di sala il direttore parigino (che è anche compositore, pianista e scrittore) cita Mahler come l’unico musicista che pensava di aver capito davvero l’essenza del lavoro di Goethe con la sua Ottava Sinfonia. Queste sue considerazioni vengono in mente a posteriori dopo aver ascoltato alcuni momenti nel finale del terzo atto che richiamano in effetti atmosfere che per noi saranno poi “mahleriane”. La non ortodossa disposizione in buca con il direttore all’estrema destra invece che al centro non ha inficiato l’equilibrio sonoro, così come non sembra aver dato troppo fastidio la mascherina indossata dal coro molto ben preparato da Claudio Marino Moretti. Niente da dire per una volta sulla dizione dei coristi.

Il peso drammatico del Faust di Gounod è spostato sul personaggio femminile di Marguerite, qui nei panni del soprano Carmela Remigio, cantante di temperamento ma poco adatta alla parte: si dimostra giustamente espressiva ma a discapito di una linea vocale frastagliata, con salti di registro innaturali, una dizione qui piuttosto eccepibile e una generale mancanza di brillantezza, evidente nell’“air des bijoux”. Iván Ayón Rivas nella parte del titolo si esprime in un fraseggio elegante e ottime mezze voci, ma sembra sempre che scalpiti per sfogarsi negli acuti, che infatti arrivano e sono luminosi ma spesso eccessivi. Non è la prima volta che si riscontra nella voluta esibizione di mezzi vocali generosi una caratteristica dello stile del tenore peruviano. Grande presenza scenica ma una strana emissione nel registro basso è  quella di Armando Noguera (Valentin) mentre delizioso il Siébel di Paola Gardini, eccellente e sensibile soprano.

Vero trionfatore della serata è stato Alex Esposito, che del Méphistophélès ha dato un’interpretazione da questo momento irreversibile. Il regista ne fa un prestigiatore/ipnotizzatore in marsina e cilindro che riempie la scena anche quando, prima ancora che inizi l’opera, se ne sta immobile seduto sull’ultimo banco della chiesa immaginata da Rechi. Poi non avrà un attimo di pace: lo vedremo agilmente saltare sui banchi, scomparire all’improvviso per ricomparire subito dopo sul palcoscenico, affrontare i personaggi soggiogandoli con la mente, e sempre invisibile per loro: come il Diavolo è visto solo da chi il male l’ha fatto, come Marguerite dopo l’assassinio del neonato, quando la ragazza si aggrappa a lui invece che al fedifrago Faust. Con il basso-baritono bergamasco non c’è distinzione tra canto e recitazione. Detto il meglio della seconda, per quanto riguarda l’emissione vocale di tratta di una proiezione della voce prodigiosa, di un accento che scolpisce le singole senza però essere stucchevole e di una dizione pressoché perfetta. La scena della beffarda serenata riunisce la genialità del regista e l’attorialità del cantante: in un numero da café chantant, inquadrato dalla luce di uno spot luminoso, il cantante/attore dà prova delle sue straordinarie doti teatrali e il pubblico alla fine lo ricompensa con applausi a scena aperta e acclamazioni finali. Questa volta il Faust di Gounod si sarebbe dovuto intitolare Méphistophélès

Faust

Charles Gounod, Faust

★★☆☆☆

New York, Metropolitan Opera House, 10 dicembre 2011

(registrazione video)

Il Faust atomico del MET

“Faustspielhaus” l’aveva ribattezzato nel 1897 l’arguto critico musicale del New York Times (1) per la frequenza con cui il lavoro di Gounod veniva rappresentato nel teatro newyorkese, a partire dalla sua apertura nel 1883 proprio col Faust. Anche George Bernard Shaw pochi anni prima aveva causticamente scritto: «Bisognerebbe fare qualcosa per questa Royal Italian Opera. Ho sentito Faust di Gounod non meno di 90 volte negli ultimi 10 o 15 anni e ne ho avuto abbastanza. I diritti delle nuove generazioni includono l’accesso, e l’accesso frequente, a Faust, ma protesto contro la disumanità di sceglierlo per presentare nuove primedonne, poiché in tali occasioni devono assistere i critici…».

Anche se le statistiche lo danno meno frequente negli ultimi decenni, il lavoro di Gounod è tra i favoriti del MET che non lesina nei mezzi per la sua messa in scena, come avviene anche per questa produzione in cui Yannick Nézet-Séguin ritorna per la terza volta sul podio dell’orchestra del teatro con la sua direzione brillante e “strumentale” (2).

Nella parte del titolo Jonas Kaufmann gioca le sue carte irresistibili nelle mezze voci e nei legati di «Laisse-moi contempler ton visage» nel duetto che segue il suo lirico «Salut! demeure chaste et pure» concluso con un crescendo in fortissimo che strappa gli applausi ma che sarebbe meglio invece evitare. Per di più la sua dizione non è inappuntabile. Ancora peggiore però è quella di Marina Poplavskaya, vocalmente e scenicamente corretta, ma con colori ed espressività limitate. Una Marguerite di cui non ci si riesce a innamorare. René Pape è un Méphistophélès elegante e affidabile nella voce, ma il personaggio fa fatica a uscire nella sua sardonica ironia. Michèle Losier (Siébel), Russell Braun (Valentin), Jonathan Beyer (Wagner) e Wendy White (Marthe) completano un cast non eccelso.

Il regista Des McAnuff arriva da Broadway, dove ha ripreso il musical Jesus Christ Superstar e questa è la sua prima (e al momento unica) incursione nel mondo della lirica. La sua lettura si basa sull’idea che il nostro Faust, come il Robert Oppenheimer di Doctor Atomic (2005) è pieno di rimorsi sull’utilizzo dell’energia atomica che ha appena cancellato le città di Hiroshima e Nagasaki. Arriva a suicidarsi, ma bevuto il veleno, invece di morire rivive sé stesso da giovane – e quindi passiamo all’epoca della Grande Guerra – per poi ritornare ai nostri giorni. Ma è tutto lì: a parte una notte di Valpurga che riprende il tema della bomba e dei veleni con il coro che canta osservando con gli occhiali scuri l’esplosione, nella regia di McAnuff Faustnon fa che bighellonare col suo sodale diabolico di cui condivide l’abito, un completo doppiopetto gessato, e dal quale è eterodiretto. Dei suoi sensi di colpa iniziali non rimane nulla.

La scenografia di Robert Brill non brilla certo per originalità o bellezza: una scena unica con due scale simmetriche a spirale ai lati, un andare e venire di tavoli e sedie portati da inservienti, e un fondale per le proiezioni.

(1) «Molto lontano nel futuro, quando una guida accompagnerà il neozelandese di Macaulay attraverso gli scavi dell’isola di Manhattan, si fermerà davanti alle rovine di un vasto auditorium nella parte alta di Broadway e il neozelandese dirà: “Suppongo che questa fosse l’arena”, ma la guida risponderà: “No, era il sacro Faustspielhaus”. Il neozelandese di Macaulay, conoscendo il tedesco, dirà: “Vorrà dire Festspielhaus”. E la guida replicherà: “No, caro signore, il Festspielhaus era in Germania, dove hanno recitato drammi di un certo Vogner. Qui hanno suonato Faust ed è, quindi, il Faustspielhaus”. E il neozelandese si meraviglierà molto».

(2) «The MET Opera has a gay conductor» titolerà il solito New York Times, non si sa se più ingenuo o improvvido, visto che di lì a poco dovrà occuparsi delle vicende sessuali di James Levine…

Faust

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Charles Gounod, Faust

★★★☆☆

Vienna, Staatsoper, 29 aprile 2021

(diretta streaming)

Mefistofele vampiro ai tempi di De Gaulle

Frank Castorf debutta alla Staatsoper di Vienna riproponendo il suo Faust di Stoccarda del 2016. L’impianto scenografico è lo stesso utilizzato nelle sue ultime produzioni: la solita struttura su piattaforma rotante che qui condensa la Parigi degli ultimi anni ’50 in cui ambienta la vicenda, un secolo dopo la creazione di Gounod che è del 1859. Il collage architettonico di Aleksandar Denić ingloba un pezzo di Notre Dame con le sue gargouilles, l’uscita Stalingrad della stazione della metropolitana, un caffè col suo dehors (che qui chiamano terrasse), una macelleria abbandonata. Al piano superiore la camera di Marguerite, sotto una vecchia bottega il cui sinistro proprietario si rivela essere Mefistofele.

Anche la lettura del regista tedesco è la solita, con personaggi trucidi ed esagerati, primo fra tutti un Mefistofele metà vampiro e metà prete voodoo che nel corso della rappresentazione diventa caprone dalla vita in giù. Nella drammaturgia di Ann-Christine Mecke le implicazioni filosofiche che mancano nel lavoro di Gounod vengono sostituite dai problemi della Francia con la guerra d’Algeria ed ecco i soldati che arrivano dal fronte con le teste mozze dei ribelli o Valentin che scrive sul muro “l’Algérie est française” in caratteri rossi. Il gusto per il sangue contagia anche Wagner che beve l’acqua con cui ha lavato i piedi insanguinati di Siebel (!), il quale Siebel qui è una donna (o un travestito) innamorata di Marguerite, che qui beve e fuma a profusione e va in giro vestita come un’odalisca di varietà. Tra l’altro è già talmente carica di bigiotteria che i famosi gioielli non fanno molto per cambiarla.

In molti punti i personaggi leggono testi di Rimbaud e Verlaine, ma ci sono altri richiami all’epoca: la pergamena che Mefistofele fa firmare (col sangue) a Faust è un numero della rivista Match con Brigitte Bardot in copertina e il duetto d’amore tra Faust e Margherita è accompagnato dalle immagini delle pubblicità televisive dell’epoca proiettate sugli immancabili schermi in alto. Il taglio cinematografico di Castorf è esaltato dalla ripresa video dello spettacolo messo in scena nel teatro vuoto e trasmesso in streaming.

Deludente la notte di Valpurga, qui una festa con le solite maschere del Dia de los Muertos dove il «doux nectar» è quel ruhm che si beve nei peggiori bar di Caracas mentre aperto è il finale: Margherita non muore, ma sola al bar si versa una polverina nel bicchiere.

A realizzare questa drammaturgia tirata per i capelli sono degli interpreti di grande qualità che assieme alla direzione sontuosa di Bertrand de Billy compensano le spesso sgradevoli immagini. Debuttante nella parte eponima Juan Diego Flórez mette nel canto quella sensibilità e quell’eleganza che difettano nella recitazione. Per quanto si impegni non riesce a essere convincente – ma come dargli torto, questa volta. È debuttante anche Nicole Car, Margherita splendida sia vocalmente sia scenicamente, dalla tecnica sicura e dagli acuti sfavillanti. Per di più porta nel suo personaggio uno slancio giovanile e una smania di vita contagiose. Il giovane basso polacco Adam Palka è un autorevole ma monotono Mefistofele che la regia di certo non ha aiutato nel farlo muovere come zombie su zoccoli,  con brache pelose e copricapi tribali. Il mezzosoprano Kate Lindsey, per una volta non en travesti, delinea un memorabile Siebel, il baritono Étienne Dupuis è un intenso Valentin, così come lo è Martin Häßler nella breve parte di Wagner, che vediamo morire in guerra in un filmato. Cinica e provocante la Marta di Monika Bohinec.

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Faust

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Charles Gounod, Faust

★★★★☆

Parigi, Opera Bastille, 26 marzo 2021

(video streaming)

Faust al tempo del Covid

Impresa non facile quella di ambientare una storia così pregna di questioni filosofiche, esistenziali e soprannaturali come quella faustiana – sebbene filtrata dal gusto di un compositore come Gounod – nella prosaicità della contemporaneità.

Al suo debutto sul palcoscenico parigino Tobia Kratzer ci riesce soddisfacentemente senza appesantire la sua lettura di concetti estranei o attualizzazioni forzate. Il suo allestimento all’Opéra Bastille del Faust di Gounod ha tutti i vezzi della modernità – tra cui il taglio cinematografico, l’uso delle riprese video dei primi piani dei personaggi proiettati su schermo, gli ambienti multipli, la presenza di un attore muto – ma non tradisce lo spirito dell’opera e restituisce la vicenda in modo lineare, con qualche trovata spettacolare e un finale inedito. La musica trova così un coerente corrispettivo visuale e la “multimedialità” del grand opéra del Second Empire viene reinventata con la tecnologia di oggi e messa al servizio del dramma. In attesa di poter essere presentato con il pubblico in sala, lo spettacolo viene registrato e diffuso da France 5. I figuranti tengono la mascherina, il coro è fuori scena e mancano i balletti: le restrizioni sanitarie condizionano la messa in scena spingendo anche questa volta a nuove soluzioni.

Un anziano Faust ha consumato un rapporto mercenario con una giovane sul sofà del salotto. Rimasto solo entra in depressione e viene “salvato” da Mefistofele che esce dalla libreria per proporgli il famoso patto. L’alter ego giovane, che finora gli aveva prestato la voce, entra in scena al suo posto e inizia il viaggio: usciti dalla finestra, Mefistofele e Faust svolazzano sulla Parigi notturna sbatacchiando le braccia come neri corvi prima di scendere nella banlieu dove Faust mette a prova la sua riacquistata gioventù in un campo di basket, anche se con l'”aiutino” dei servi infernali di Mefistofele che interverrano più volte a interagire con i personaggi.

La «demeure chaste et pure» è un HLM (appartamento in un condominio popolare) al cui citofono si presentano Faust e il compagno infernale ed è quest’ultimo a ingravidare la fanciulla. Scena successiva: lo studio di un ginecologo per l’ecografia al feto diabolico. Nessuna chiesa per la scena terza del quarto atto: siamo nel métro parigino, i passeggeri con la mascherina scendono e lasciano Marguerite sola con Mefistofele che la minaccia, «Tu ne prieras pas!», e la ragazza cerca di non ascoltare mettendosi le cuffie. Intanto il vagone continua il suo viaggio nell’inferno dei tunnel sotterranei della capitale. Nell’atto quinto la cattedrale di Notre Dame va a fuoco nella notte di Valpurga e a questo segue una cavalcata con i destrieri rubati ai poliziotti di pattuglia sul lungo Senna: Place de la Concorde, Champs-Élysées, Pigalle, i luoghi della Parigi notturna contemporanea. Nel mentre Marguerite annega il neonato nella vasca da bagno. La successiva scena della prigione ci riporta nella casa di Faust, ora completamente svuotata di arredi e libri. Il terribile confronto finale è risolto da Siebel che si offre a Mefistofele in cambio di Marguerite per salvarla.

Magnifica concertazione quella di Lorenzo Viotti che utilizza la versione completa e permette quindi di farci ascoltare numeri che generalmente vengono tagliati, come l’aria di Marguerite e la romanza di Siebel all’inizio dell’atto quarto. I tempi spediti scelti dal giovane direttore aumentano la drammaticità e la teatralità di una partitura che ha avuto un’enorme fortuna nella sua epoca e anche dopo.

Come Faust Benjamin Bernheim è vocalmente ineccepibile, timbro di velluto, grande estensione, acuti facili, fiati, mezze voci e pianissimi di sogno, ovviamente una dizione perfetta. Scenicamente è invece poco convincente, con lo sguardo sempre rivolto ai monitor del direttore d’orchestra, e non si può certo dire che non conosca la parte avendola anche incisa per la produzione del 2018 in cui Christophe Rousset aveva scelto la versione opéra-comique originaria con i dialoghi parlati.

All’opposto non manca di convinzione e grande intensità la Marguerite di Ermonela Jaho, estremamente drammatica anche grazie al colore scuro della voce, ma proprio per questo non rende l’«air des bijoux» con le fatue agilità che ci si aspetta dal personaggio. Buon controllo della voce per il Méphistophélès di Christian van Horn, presenza sinistra e a tratti ironica in una parte che richiede doti vocali e interpretative non da poco. Valentin trova in Florian Sempey il cantante/attore giusto che nella scena della morte fa correre i brividi nella schiena per la verità scenica. Bene anche le altre due interpreti femminili: Michèle Losier (un toccante Siebel) e Sylvie Brunet-Grupposo (una Marthe di lusso). Christian Helmer è un efficace Wagner.

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Werther

Jules Massenet, Werther

★★★★☆

Brescia, Teatro Grande, 6 novembre 2020

(diretta streaming)

Werther, opera del distanziamento

Diretta streaming da Brescia per lo spettacolo coprodotto dai Teatri di OperaLombardia (Sociale di Como, Fraschini di Pavia, Ponchielli di Cremona, Grande di Brescia, Donizetti di Bergamo): in tempi di Covid-19 questa è l’unica possibilità di assistere a uno spettacolo teatrale. Da casa, mentre il teatro rimane tristemente senza spettatori.

Il concorso AsLiCo porta in scena i quattro finalisti. Magari non sono ancora perfetti, ma escono da una severa selezione e hanno avuto il tempo di prepararsi, il tempo che cantanti in carriera si sognano. E i risultati si vedono: la cura per la dizione e l’espressività sono massime e l’inesperienza è largamente compensata dalla freschezza e dall’entusiasmo. Per di più sono giovani e belli e rivelano particolari doti vocali.

Werther introverso e tormentato, ma anche pieno di slancio giovanile, è quello di Gillen Munguía che vive con trasporto la parabola esistenziale del personaggio romantico per eccellenza, dal momento magico dell’innamoramento alla disperazione e al suicidio. Il timbro è piacevole, virile, con appena un leggero tono nasale. Il “Lied d’Ossian” è affrontato con grande sensibilità in una mezza voce che poi sfocia in un finale altamente drammatico. Dotto di buon fraseggio e piacevole presenza scenica, il suo è un debutto che fa prevedere  una felice carriera. Voce ferma è ben proiettata quella di Karina Demurova, espressiva e bella Charlotte, la ragazza combattuta tra dovere e sentimento. Alcune note sono un po’ fisse, ma il temperamento non incide sul suo controllo vocale e il personaggio esce fuori molto ben delineato. Particolarmente apprezzabile la caratterizzazione di Sophie di Maria Rita Combattelli, che disegna con efficacia la giovane nascostamente innamorata di Werther e che vocalmente risolve con grande brillantezza la sua ariette del secondo atto, «Du gai soleil plein de flamme». Meno impegnativa la parte di Alberto Comes, bonario Borgomastro. Più che accettabili gli altri interpreti.

Dopo un inizio che faceva temere il peggio, l’orchestra trova la giusta via ma la direzione manca di tensione, sono fiacchi gli slanci e gli abbandoni lirici che fanno di questa la più amata delle opere di Massenet. Anche i timbri strumentali non sono sempre a fuoco. Sembra che al maestro Francesco Pasqualetti sia riuscito meglio il lavoro di concertazione con le voci di quello con l’orchestra.

Stefano Vizioli è autore di una messa in scena molto attenta alla psicologia dei personaggi e trova nei giovani interpreti un valido riscontro alla sua lettura. Due grandi porte, un pavimento sghembo, di carta come il fondo stropicciato, una poltrona e un cavallino a dondolo nel primo atto sono i soli elementi presenti nella bella e semplice scenografia di Emanuele Sinisi. L’atmosfera è sottolineata dalle suggestive ed evocative proiezioni di Imaginarium e dalle giuste luci di Vincenzo Raponi. L’ambiente è senza tempo, solo i bei costumi di Anna Maria Heinrich definiscono l’epoca (ma i guanti sono di lattice…). Altrettanto efficace quello del secondo atto: tre casette sullo sfondo, per terra delle foglie secche, una panca di pietra. Un divano Biedermeier, un clavicembalo, qualche pacco regalo: ecco l’atmosfera natalizia del terzo atto.

Nel quarto il colpo di scena del regista: Vizioli risolve genialmente il problema del distanziamento che è stato a suo modo funzionale fino a questo momento, ma che ora sarebbe insensato: vediamo quindi Charlotte invecchiata, su una sedia a rotelle, rivivere il suo ultimo incontro con Werther. Il rimorso tormenta ancora in tarda età la donna e un telo separa la donna dall’uomo morente sul letto. È la stessa immagine che avevamo intravisto all’inizio, senza intenderla.

Al termine dell’esecuzione il direttore d’orchestra, che non si è mai tolto la mascherina, si inchina verso la platea vuota mentre sul palcoscenico i cantanti si mettono in fila al proscenio sotto gli scarsi applausi degli orchestrali.

Una scena surreale. Per quanto tempo ancora dovrà succedere?