Prosper Mérimée

Carmen

    

La locandina dello spettacolo

Georges Bizet, Carmen

Londra, Royal Opera House, 1 maggio 2024

★★★★☆

(diretta streaming)

La Carmen di Michieletto conquista Londra 

Nietzsche ne era stato folgorato e dalle brume wagneriane si era così convertito alla solarità mediterranea. Dopo aver assistito alla prima della Carmen il 27 novembre 1881 a Genova, era rimasto entusiasta di quello che avrebbe poi considerato il simbolo della nuova e vera musica. «Evviva! Amico! Di nuovo ho conosciuto qualcosa di bello, un’opera di François [sic] Bizet (chi è costui?)… Carmen. Sembrava di ascoltare una novella di Merimée, piena di spirito, intensa, talora anche toccante. Un autentico talento francese dell’opéra comique, niente affatto disorientato da Wagner, al contrario, il vero allievo di H. Berlioz. Non pensavo che qualcosa del genere fosse possibile!» scrive sull’onda di un entusiasmo che gli fa storpiare il  nome del compositore. È una conversione che arrivava dopo un periodo di “purificazione” dalle scorie soffocanti della musica romantica,  «quest’arte ambigua, tronfia e soffocante, che toglie allo spirito rigore e vivacità e fa proliferare ogni sorta di torbida nostalgia, di tumida brama», come aveva scritto per la prefazione al secondo volume di Umano, troppo umano. Un libro per spiriti liberi uscito nel 1879.

Nel 1888, ai tempi de Il caso Wagner, Nietzsche sarebbe stato ancora più drastico: «Per la ventesima volta ho ieri assistito al capolavoro di Bizet e l’ho udito ancora con la stessa reverenza. […] È malvagia, perversa, raffinata, fantastica, eppure avanza con passo leggero e composto; la sua raffinatezza non è quella di un individuo, bensì di una razza. Si sono mai uditi sulla scena accenti più tragici, più dolorosi? E come sono ottenuti? Senza smorfie, senza contraffazioni di alcun genere, in piena libertà dalle bugie del “grande stile”. […] Io invidio a Bizet il coraggio di questa sua sensibilità eccezionale, che prima di adesso non aveva trovato mezzo per esprimersi nella musica colta d’Europa; il coraggio di questa sensibilità meridionale, brunita, arsa dal sole… Ah finalmente l’amore, l’amore ricondotto verso la natura!».

Nella sua lettura dell’opera più rappresentata al mondo nella scorsa stagione (fonte:  statistiche di OperaBase), Damiano Michieletto sembra volersi riferire proprio a quella meridionalità soffocante e arsa dal sole. Soffocante e arsa anche nei sentimenti, forti, violenti di una Spagna rurale postfranchista che non ha però il carattere gioioso e irriverente dei film di Pedro Almdodóvar, ma piuttosto quello neghittoso dei western di Sergio Leone o del balletto di Matthew Bourne The Car Man. Ad apertura di sipario la scena di Paolo Fantin ci mostra un assolato dehors con sedie di plastica e gente intorpidita dalla calura che passa il tempo a sventagliarsi e a guardare l’altra gente che passa. Un edifico di cui vediamo due pareti angolari ruota su sé stesso mostrando di volta in volta l’interno oppure l’esterno: nel primo atto è la stazione di polizia, nel secondo il night club di Lilas Pastia, nel terzo il magazzino dei contrabbandieri e nel quarto il camerino dei toreri. Una efficace soluzione già sperimentata nella sua produzione di Cavalleria e Pagliacci nove anni fa sempre qui al Covent Garden. I tocchi western sono dati dai tumblweeds (i cespugli rotolanti) e dai costumi da cowboy dei bambini nei loro giochi anche violenti quando i più grandicelli bullizzano i più piccoli. I bambini sono infatti protagonisti in questa produzione non solo perché richiesti nel primo e quarto atto, ma utilizzati anche negli entr’actes per indicare il passare del tempo: ogni bambino con una delle lettere che formano le frasi «Quelques mois plus tard», «La nuit suivante»… 

Michieletto utilizza in maniera mirabile la loro presenza, soprattutto nel primo atto, ma si sarebbe volentieri fatto a meno di loro nell’intermezzo all’atto terzo – che Bieito nella sua produzione aveva realizzato in maniera mirabile con il “bagno di Luna” del torero – e soprattutto prima del drammatico quarto atto dove il giochino delle lettere disordinate induce sì al sorriso ma distrae dalla tragedia imminente.

Un personaggio non previsto ma spesso evocato nel libretto è quello della madre di don José, che Michieletto introduce fisicamente in scena abbigliata nella sua luttuosa mantilla, quasi uscita da La casa di Bernarda Alba. È lei che mescola le carte, tra cui quella fatale della Morte, e che appare per «legare il figlio a sé, costringendolo a obbedire, dirottando la sua volontà e mantenendo un controllo su di lui. La sua forza si manifesta attraverso il personaggio di Micaëla e la tragedia finale si trasforma così in uno scontro metaforico tra due modelli femminili opposti», scrive il regista. Anche in questo caso le sue iterate apparizioni non sembrano così essenziali.

Nella scarna scenografia di Paolo Fantin una griglia con cento fari rende il sole accecante oppure la luce lunare,  ma nel finale si inclina per fare da sfondo all’ultimo teso incontro di Carmen e don José. Con i costumi come sempre appropriati di Carla Teti e il magnifico gioco luci di Alessandro Carletti, Damiano Michieletto costruisce uno spettacolo di grande suggestione teatrale e di attento lavoro attoriale dove i sub plot sono efficaci, come il rapimento di Zuniga da parte dei contrabbandieri e conseguente pagamento del riscatto. A parte le riserve espresse, ne viene fuori una pietra miliare nella drammaturgia del lavoro di Bizet che a Londra sostituisce il discusso allestimento di Barrie Kosky ed è facile prevedere che rimarrà per molti anni in scena. Si potrà comunque vedere alla Scala che l’ha coprodotto assieme al Real di Madrid.

Un altro italiano è artefice di questa felice produzione: alla guida dell’orchestra del teatro c’è infatti Antonello Manacorda che della preziosa partitura rende al meglio le preziosità strumentali e il travolgente senso teatrale, con dinamiche ben equilibrate, esaltate ma mai spinte all’eccesso. Suo è anche il merito di aver aperto qualche taglio soprattutto nel primo atto, e aver utilizzato la versione con i dialoghi parlati, seppure opportunamente accorciati.  Il cast è internazionale con  pochissimi cantanti di madrelingua francese, e si sente. I quattro interpreti principali provengono rispettivamente dalla Russia, Ucraina, Polonia e Lituania!

Il mezzosoprano Aigul Akhmetshina è una Carmen di splendida voce dal timbro caldo e sontuoso ma a suo agio negli acuti e di ottima dizione. Cantante di grande personalità, delinea una Carmen meno femme fatale del solito, ma pienamente credibile nella psicologia del personaggio, forte e fragile allo stesso tempo, una donna che non vuole rinunciare alla sua libertà di scelta in totale contrasto con la figura dimessa della fresca e lirica Micaëla del soprano Olga Kulchynska, cantante apprezzata nel repertorio belcantistico (Mozart, Bellini…) e russo.

Ritorna in una parte che ha già frequentato il tenore Piotr Beczała e il suo don José ha le qualità che conosciamo: magnifico timbro, grande proiezione, acuti luminosi e sotto la guida di Michieletto riesce ad essere anche scenicamente convincente. Le qualità sceniche compensano solo in parte la dizione eccepibile e il timbro morchioso del baritono Kostas Smoriginas, un Escamillo tutt’altro che memorabile. Molto ben caratterizzato è il quartetto formato da Frasquita, la canadese Sarah Dufresne; Mercédès, la lituana Gabrielė Kupšytė; il Dancairo, il belga Pierre Doyen,  e il Remendado, il francese Vincent Ordonneau. Ben definito il Moralès dell’armeno Grisha Martosyan, mentre non vocalmente a suo agio lo Zuniga del congolese Blaise Malabata. Magnifici i cori del teatro e quello di voci bianche.

La proiezione è avvenuta a Torino in una sala cinematografica dalla perfetta resa sonora ma resta inspiegabile come in  una città di quasi un milione di abitanti e migliaia di abbonati al teatro lirico, solo una dozzina di spettatori abbiano scelto –  in un giorno festivo! – di assistere all’avvenimento. Che tristezza.

L’orso

Bronius Kutavičius, Lokys (L’orso)

Klaipėda, Valstybinis muzikinis teatras, 22 ottobre 2022

★★★

(video streaming)

La signorina Julia e il licantropo

Nel settembre 1869 sulla “Revue des deux Mondes” viene pubblicata Lokis – Le manuscrit du professeur Wittembach, una novella fantasy-horror di Prosper Mérimée su un giovane che si sospetta essere metà uomo e metà orso. La novella tratta principalmente della doppia natura uomo-bestia e contrappone l’educazione occidentale e il cristianesimo ai rituali e alle credenze pagane lituane e, più in generale, la civiltà alla natura selvaggia e primordiale. Il titolo è una storpiatura della parola lituana lokys che significa “orso”. Centotrenta anni dopo si ritorna in Lituania con il compositore Bronius Kutavičius (1932-2021) che compone la sua prima grande opera sul libretto della scrittrice lituana Aušra Marija Sluckaitė-Jurašienė tratto appunto dalla novella di Mérimée.

Prologo. L’azione si svolge nella tenuta del conte Šemeta a Medintiltis e dintorni, in Samogizia, Lituania, nel XIX secolo. Il coro maschile canta un incantesimo pagano: “Espellerò quello spirito maligno. Esci, spirito maligno, attraverso le ossa, attraverso il cervello, attraverso tutte le vene da quell’uomo, il conte Šemeta…” Si sente una carrozza avvicinarsi. 
Atto I. Tenuta del conte Šemeta. Sala della biblioteca. Il professor Wittembach, un abile linguista e ministro protestante, amico del vecchio conte, arriva alla tenuta di Medintiltis in Samogizia, nella Lituania rurale. Pranciškus, un maggiordomo muto, lo sta aspettando. Il professore chiede quando potrà vedere il giovane padrone del maniero ed è sorpreso dal fatto che il servitore, invece di rispondere, si inchina e se ne va. Sullo scaffale della biblioteca, il professore vede un libro che cercava da tempo: Catechismus Samogiticus. Il Dottore, ex chirurgo e veterano militare, arriva in biblioteca su una sedia a rotelle per salutare l’ospite. Invita il Professore a unirsi a lui per la cena, poiché il Conte soffre di emicrania. Il Dottore gli racconta delle strane abitudini del Conte, della sua passione per la caccia notturna. Avverte anche che la madre del Conte, l’anziana contessa che sta curando, soffre da molti anni di una misteriosa malattia: è stata attaccata da un orso durante una battuta di caccia poco dopo il matrimonio e da allora soffre di mente annebbiata. La Contessa è stata salvata dal suo servitore Francis, che però è stato spaventato a morte e ha perso la parola. Prima che il Dottore possa finire il suo racconto, l’anziana contessa irrompe nella stanza con un coltello in mano. Il servo Pranciškus cerca di fermarla. Tormentata dalle sue esperienze passate, la Contessa usa il coltello per infilzare la pelle dell’orso e maledice quello che immagina essere il suo bambino non ancora nato. Il Dottore estrae un paio di grandi forbici e minaccia di tagliare i capelli della Contessa. Il Dottore e Pranciškus portano via la Contessa. Durante la notte, una vecchia con un occhio solo canta una canzone popolare. Per calmarsi, il professore apre il Catechismus Samogiticus, ma si addormenta, cullato dalla canzone della vecchia. Si sentono gli zoccoli e il nitrito di un cavallo. Il professore si sveglia dal sonno. Fuori dalla finestra vede un uomo vestito di nero e con guanti neri, che ride e scompare. Il professore, spaventato, chiede aiuto a Pranciškus. La stanza del Conte, il mattino seguente. Il Conte sta parlando con il suo riflesso nello specchio della dualità della natura, dell’attrazione della foresta, della brama di sangue e del desiderio d’amore. Entra il professore. Il Conte saluta l’illustre ospite, un amico di suo padre. Gli ricorda che il suo matrimonio con la nobildonna Julia è fra tre giorni. Il Conte porge la mano guantata al Professore. Dopo essersi giustificato dicendo che indossa i guanti a causa della sua allergia ai cani e ai cavalli, il Conte chiede come ha riposato il Professore la scorsa notte. Quando sente che è stato perseguitato, ride con la stessa risata dell’ospite notturno… Il Conte propone loro di fare una passeggiata nel bosco e di andare a trovare la signorina Julia. Il Conte e il Professore passeggiano nella foresta. Il professore chiede di Julia. Il Conte dice di essere particolarmente affascinato dalla sua pelle bianca e trasparente: quando beve vino, si può vedere il sangue che pulsa nelle sue vene, caldo e dolce… Nella profondità della foresta, la Vecchia con un occhio solo siede accanto a un fuoco fumante, cantando la stessa canzone che il Professore ha sentito nella sua visione. Quando il Conte e il Professore si avvicinano alla Vecchia, lei chiede loro di metterle in grembo una piccola moneta. Il coro intona nuovamente un incantesimo pagano contro lo spirito maligno. La Vecchia chiede un secondo pezzo d’argento, in cambio del quale promette di raccontare il futuro del Conte dalle ceneri. Dice che il Conte è al bivio: se si gira a destra, dove vive Julia, sarà nei guai. Deve andare a sinistra, dalle bestie, e diventare il loro re. Il Conte è infastidito dalle profezie della Vecchia. Conduce rapidamente il professore attraverso la foresta e gira a destra. Un lago ai margini della foresta. La dimora della signorina Julia. Julia si dondola su un’altalena e canta di una sirena, che nel mondo umano è accompagnata solo da un muto dolore. Il Conte, il suo sosia e il Professore si avvicinano a Julia. Lei porge loro dei bicchieri di vino rosso e balla a piedi nudi per loro. All’improvviso un gabbiano urla, il bicchiere cade dalle mani e si rompe. Julia calpesta i frammenti di vetro e si buca il piede. Vedendo il sangue, il Conte succhia avidamente le labbra nella ferita. Inorridita, Julia spinge il Conte lontano da lei. La scena imbarazzante viene interrotta dall’arrivo di Pranciškus. Fa cenno al Conte di affrettarsi a tornare a casa: la Contessa sta avendo una crisi. Il Conte si congeda dalla fidanzata fino alle nozze di domenica e se ne va. Julia ha un brutto presentimento.
Atto II. Giorno del matrimonio. Sala da ballo. Gli invitati attendono l’arrivo degli sposi, il conte Šemeta e la sua fidanzata Julia. Si sente il rombo di una carrozza in arrivo. Gli ospiti salutano gli sposi. L’anziana contessa vede che il conte tiene in braccio Julia e inizia a gridare «È un orso!». Cerca di sparargli. Pranciškus accorre. Il Dottore afferra la Contessa e le taglia i capelli grigi. Gli ospiti mormorano sui segni del destino avverso, l’eclissi lunare a mezzanotte con la luna piena. Il Conte si scusa con gli ospiti e invita il Maresciallo di nozze a iniziare l’orazione. Il professore unisce le mani degli sposi e pronuncia il giuramento, che viene ripetuto dal Conte e da Giulia. Il Conte brinda alla felicità di entrambi. Julia ricambia e spera che un destino speciale li attenda. Il Dottore suggerisce di bere dalla scarpa della giovane, come è usanza dei cadetti. Il Conte toglie la scarpa di Julia e fissa la macchia di sangue lasciata dal suo piede trafitto. La sua brama di sangue è difficile da reprimere. Julia è sempre più sopraffatta dall’ansia, che cerca di sopprimere affidandosi al potere curativo dell’amore. I festeggiamenti per il matrimonio stanno diventando un vero e proprio delirio. Al culmine della frenesia, una Vecchia con un occhio solo appare nella sala. Si offre di fare da sensale. La Vecchia dice di essere venuta senza invito per augurare agli sposi di non separarsi, non solo in questo mondo, ma anche nell’altro. Dice al Conte che l’incantesimo è stato lanciato: il Conte stesso ha scelto di andare direttamente dal Signore degli Inferi e lei stessa lo accompagnerà lì. La Vecchia scompare e gli ospiti riprendono a ballare, come se nulla fosse accaduto. All’improvviso, si sente uno sparo. Il Dottore si precipita in giardino con la sua sedia a rotelle per vedere cosa è successo e torna tenendo tra le braccia il cadavere di Julia con il collo insanguinato. Appare la vecchia Contessa in abito da sposa, con in mano una pistola. Entra il Conte per una ferita alla gamba. La Contessa, gridando ancora “Un orso!”, alza la pistola e spara. Il Conte cade morto.
Epilogo. Il professore lascia il maniero di Medintiltis. Dietro il palcoscenico, c’è un coro che implora il perdono e una voce che canta un addio: «Parto e non porto nulla con me, ma il cuore porta tutto sulla strada». Allo stesso tempo, le ultime frasi della novella Lokis di Prosper Mérimée sembrano riecheggiare nella mente del professore.

L’opera è entrata nel repertorio del Lithuanian National Opera and Ballet Theatre dopo essere stata commissionata al compositore dal Festival di Vilnius. Lo stile musicale di Kutavičius combina la Nuova Semplicità nordica ed elementi del neoclassicismo del XX secolo per formare un arazzo musicale multistrato ricco di contrasti fra le atmosfere atonali, i motivi popolari, le danze, gli elementi folk e linee vocali ereditate dalla Russia. Il compositore stempera la violenza della storia con una partitura ipnotica in cui ostinati quasi minimalisti, accenni al canto popolare e dissonanze acerbe si combinano liberamente per creare un idioma musicale inquietante ma molto avvincente. Anche i momenti apparentemente sereni sono percorsi da un brivido nella musica e magistrale risulta l’uso delle polifonie nella scena finale della festa.

Ecco come la Verlag Zeitgenössische Musik (Edizioni di musica contemporanea) definisce la musica di Lokys: «Il lavoro di Bronius Kutavičius trascende la sfera della musica pura per entrare in ambiti culturali molto più ampi. Scopre strati secolari di storia e risale alla preistoria per parlare con gli archetipi della coscienza mitica e religiosa. Allo stesso tempo, la sua musica è contemporanea e parla al pubblico moderno con un linguaggio nuovo. Kutavičius conosce bene tecniche moderne come il serialismo, il sonorismo, l’aleatorio, il collage, il minimalismo ripetitivo (quest’ultimo corrisponde ai principi fondamentali della musica popolare antica), l’organizzazione spaziale della musica e, di conseguenza, usa una notazione innovativa. La musica di carattere arcaico e primordiale di Bronius Kutavičius, compositore in missione di “archeologia culturale”, non è meno razionalistica e matematicamente esatta. I suoi sistemi sonori, precisi e talvolta sofisticati, sono sempre pieni di vita e di forti emozioni».

Diretta da Martynas Staškus questa premiata produzione del Teatro Musicale Statale di Klaipėda dà forma al conflitto al centro dell’opera, contrapponendo la casa padronale e i boschi oscuri, la civiltà e il caos primordiale, la cultura e la natura, la luce e l’oscurità nella convincente messa in scena da Gintaras Varnas. Mentre nel fondo si staglia l’ombra di un orso, il personaggio della Vecchia Contessa si staglia con forza aggiungendosi alla Kostelnička della Jenůfa di Janáček e alla Contessa della Dama di Picche di Čajkovskij tra i grandi personaggi del teatro d’opera. Il lavoro risulta intrigante e ben realizzato: la successione delle scene costruisce una drammaturgia efficace e la musica si rivela originale ed estremamente varia, adatta a sottolineare l’atmosfera di questo thriller mistico. Grande spazio è lasciato agli strumenti solistici di un’orchestra sempre molto trasparente che anche nei momenti drammatici non copre le voci. Notevole il ruolo del coro qui ottimamente cantato così come precisa e appassionata è apparsa la concertazione di Martynas Staškus, direttore musicale del teatro di Klaipėda.

In scena ci sono interpreti lituani i cui nomi dicono poco al di fuori del loro paese ma risultano efficaci nei rispettivi ruoli: il basso Andrius Apšega (l’inquietante  Conte Šemeta), il soprano Gunta Gelgotė (Julia), Vladimiras Prudnikovas (direttore d’orchestra che talora canta come basso-baritono come qui nella parte del Professore), il mezzosoprano Jovita Vaškevičiūtė (Vecchia Contessa), il mezzosoprano Aurelija Dovydaitienė (Vecchia guercia), il baritono Tadas Jakas (il Dottore) e l’ottimo baritono Mindaugas Rojus (il Sensale).

La registrazione video dello spettacolo è disponibile su Operavision. Con questa produzione si può dire che il lituano si aggiunge definitivamente alle altre lingue dell’opera.

Carmen

Georges Bizet, Carmen

Rouen, Théâtre des Arts, 30 settembre 2023

(diretta streaming)

Una sera al museo

Il 3 marzo 1875, al Théâtre National de l’Opéra-Comique, il pubblico parigino veniva sconvolto da un’opera che poi sarebbe diventata il titolo francese più eseguito nel mondo, ma intanto che scandalo aveva provocato Carmen, con quella musica dai colori abbaglianti, quella storia cruda, quei caratteri sanguigni, e soprattutto quella donna…

Centocinquant’anni dopo come far rivivere al pubblico di oggi l’emozione di quella sera? Utilizzando un’estetica più vicina ai nostri tempi, come ha fatto egregiamente Calixto Bieito oltre dieci anni fa con la sua fortunata produzione che continua a essere presentata sui palcoscenici dei maggiori teatri. Certo non proponendo con la maggior fedeltà possibile lo spettacolo del 1875, come ha fatto la coproduzione Palazzetto Bru Zane France–Centre de musique romantique française, l’Opéra di Rouen Normandie e l’Opéra Royal–Château de Versailles Spectacles, quasi a voler replicare alla recente polemica che oppone i difensori del Regietheater ai partigiani della tradizione assoluta, quelli cioè che deplorano il fatto che il pubblico popolare stia perdendo interesse per la lirica e rimpiangono l’epoca d’oro in cui le opere del repertorio erano rappresentate in ambienti figurativi che rispettavano il tempo e il luogo delle trame, per quanto assurde. Per queste persone, l’opera è puro intrattenimento, che racconta belle storie in bei costumi. Il dibattito che sta attraversando il mondo dei melomani ha probabilmente molto da imparare dalla Carmen di Rouen. Questo spettacolo non li mette certo d’accordo ma serve soprattutto a confrontare per liberare dalla polvere le messe in scene tradizionali che ancora – giustamente – si vedono in giro.

Affidata al giovane regista Romain Gilbert, questa Carmen è innanzitutto un’impresa, senza precedenti a questo livello,  di “archeologia operistica” con cui si è voluto ricostruire, nel modo più rigoroso possibile, quello che vide il pubblico parigino presente all’Opéra-Comique la sera della prima del capolavoro di Georges Bizet. Il corpus documentale pazientemente assemblato in due anni da Alexandre Dratwicki e dai musicologi del Palazzetto Bru Zane è stato fornito dai taccuini degli allestimenti, i livret de mise en scène,  conservati nella biblioteca dell’Opéra national de Paris. Sono stati analizzati brandelli di stoffa dei costumi originali e studiate le incisioni e le foto delle rappresentazioni  della sua prima trionfale tournée mondiale. M uno degli scopi di questa produzione è stato quello di valorizzare gli antichi mestieri ora minacciati di estinzione dai moderni allestimenti, quelli di modiste, parrucchieri e pittori di scene a tempera, che qui hanno potuto veder onorata le loro abilità. Costumisti e disegnatori di oggetti di scena sono riusciti a illustrare ogni parola del libretto: nel secondo atto lo shako, la sciabola e la giberna elencati da Meilhac e Halévy sono effettivamente presenti in scena; le carte con cui le zingare prevedono il futuro sono autentiche come autentiche sono le navajas usate nel duello del terzo atto, veri coltelli spagnoli con il manico inciso e prima della corrida i venditori ambulanti hanno realmente nei loro cesti di vimini i ventagli «pour s’éventer», le arance «pour grignoter», il programma «avec les détails», vino, acqua, sigarette. Partendo dalle incisioni ottocentesche Christian Lacroix ha poi disegnato i costumi con una cura meticolosa per l’autenticità di fogge, dettagli, tessuti e colori – e le giacche gialle dei soldati finalmente giustificano l’epiteto ingiurioso di “canarino” che una furiosa Carmen lancia a Don José: «Tu es un vrai canari, d’habitat e de caractère»! 

E poi ci sono le scenografie meticolosamente ricreate da Antoine Fontaine con un occhio all’autenticità storica: realizzate nei laboratori dell’Opéra di Rouen da scenografi che proseguono la tradizione della tempera all’italiana, le immense tele dipinte e gli scorci architettonici dei quattro atti suscitano l’ammirazione nel pubblico a ogni apertura di sipario. Molto meno per lo spettatore della ripresa televisiva, con l’obiettivo che oltre ai primi piani dei protagonisti svela l’effetto sfocato delle pitture, efficaci solo se viste da lontano, dal pubblico in sala. Hervé Gary col suo disegno di luci calde e soffuse ricrea l’effetto dell’illuminazione a gas originale.

A questo punto ci si chiede quali margini di libertà siano rimasti al regista di uno spettacolo così strettamente codificato. In un’intervista, il metteur en scène Romain Gilbert ha affermato che i taccuini portati alla luce dagli archivi dell’Opéra di Parigi, che contengono anche le indicazioni dei movimenti e delle posizioni in scena del coro e dei cantanti, costituiscano solo il 40% del suo lavoro. Nel 60% disponibile Gilbert replica gli atteggiamenti stereotipati dei tableaux d’insieme, con il coro posizionato convenzionalmente ad arco dietro i solisti che cantano rivolti verso il pubblico. Il cambio della guardia, la lotta delle sigaraie e la sfilata della quadriglia – finalmente si capisce che cosa sono gli alguazil, i chulos, i chubs, i banderilleros e i picadors! – sono comunque tutti coreografati con precisione. Qui viene ripristinata anche la pantomima del vecchio marito geloso all’inizio del primo atto, che oltre a rimpinguare la parte cantata da Morales, ci fa riscoprire uno stile recitativo certamente superato, ma che era molto in voga e apprezzato dal pubblico del XIX secolo. Il regista ci mette del suo nei tocchi psicologici dei personaggi, soprattutto di quel mammone di Don José che oscilla patologicamente tra brutalità e tenerezza e i cui tormenti edipici sono delicatamente suggeriti in due momenti: nel primo atto, quando José chiede di sua madre a Micaëla e si siede ai piedi della fidanzata appoggiando la testa sul suo grembo, nell’atteggiamento di un bambino che cerca il conforto della mamma. Nell’atto successivo, alla fine di «La fleur que tu m’avais jetée», José si inginocchia nuovamente ai piedi di Carmen, appoggiando la testa sul suo grembo e invitandola ad accarezzargli i capelli con la mano. Qualunque sia la donna che ama, José cerca una figura materna, fino a diventare violento, come un bambino a cui viene negato un capriccio.  La sua psiche fragile si evidenzia di nuovo alle porte dell’arena: abbandonato da Carmen, José prima volge il coltello su sé stesso in un ricatto che non smuove la zingara, poi la uccide mentre lei gli volta le spalle, non osando  più affrontarne lo sguardo.

Il teatro di Rouen è riuscito a riunire sul suo palcoscenico un cast di giovani cantanti quasi tutti al debutto nelle rispettive parti, una scelta saggia, perché gli artisti dovevano essere liberi da qualsiasi idea preconcetta o tic recitativo che avrebbe potuto interferire con il tentativo di autenticità dello spettacolo. Così è infatti per Deepa Johnny, mezzosoprano omanita-canadese, Carmen dal timbro di colore magnifico, sensuale, dal bel fraseggio e dalla magnetica presenza scenica. Si fatica a credere che la sua sia una prise de rôle tale è la sicurezza, la bellezza della dizione, la facilità nel gestire le esigenze vocali. Stanislas de Barbeyrac, che dopo la prima ha sostituito Thomas Atkins, è un Don José che nasconde sotto un fare manesco la sua fragilità.  Mozartiano nell’anima, il tenore francese porta nella sua performance eleganza e  sobrietà rispettando fedelmente l’agogica prevista dalla partitura. Il soprano rumeno Iulia Maria Dan ha già cantato Micaëla e ne conserva qui il candore e la purezza della linea di canto. Una vera delusione è invece Nicolas Courjal, basso grandemente ammirato in tutte le sue prestazioni precedenti, qui come Escamillo mostra la corda di una voce tesa in modo innaturale, i suoni sono eccessivamente vibrati e malgrado la perfetta dizione la dimensione smargiassa del personaggio non esce fuori. Davvero un peccato. Di ottimo livello l’aitante Morales di Yoann Dubruque, la Frasquita di Faustine de Monès, la  Mercédès di Floriane Hasler, lo Zuniga di Nicolas Brooymans e il duo particolarmente buffo del Remendado (Thomas Morris) e del Dancaïre (Florent Karrer). Bene anche i cori, Accentus e del teatro, diretti da Christophe Grapperon e le voci bianche istruite da Pascal Hellot.

Ben Glassberg, direttore stabile dell’Opéra de Rouen, fornisce una lettura ritmicamente esaltante della partitura nella versione Choudens con i recitativi cantati di Giraud. Non era il caso invece di mantenere quelli parlati dell’originale in questo allestimento storico?

La Périchole

  

Jacques Offenbach, La Périchole

Parigi, Théâtre des Champs Élysées, 15 novembre 2022

★★★★☆

Dopo un quarto di secolo si ricostituisce il team Minkowski/Pelly per Offenbach

Recensendo il DVD del 2004 de La Grande-duchesse de Gérolstein scrivevo: «Terza produzione offenbachiana della premiata ditta Minkowski & Pelly dopo Orphée aux enfers e La Belle Hélène, ci aspettiamo ora al­meno La Périchole fra le tante operette del Mozart degli Champs-Élysées che ancora mancano all’appello».

Molto tempo dopo, sulle tavole del Théâtre des Champs-Élysées si realizza quell’auspicio e si rinnova quel glorioso sodalizio – delle vere “nozze d’argento”, essendo passati 25 anni dal 1997 dell’Orphée – che ha visto Marc Minkowski alla direzione, Laurent Pelly alla regia e ai costumi, Agathe Mélinand ai dialoghi e Chantal Thomas alle scenografie.

Nel 1829 Prosper Mérimée aveva pubblicato su “La Revue de Paris” la pièce in un atto Le Carrosse du Saint-Sacrement ispirata a un personaggio reale, Micaela Villegas, un’attrice del XVIII secolo divenuta amante del viceré del Perù Don Maluel da cui si era fatta regalare una carrozza con cui andare in chiesa con grande scandalo dei benpensanti. Chiamata dal suo spasimante perra chola (cagna di meticcia), da cui il nome Périchole, divenne la protagonista dell’opéra-bouffe su testo di Ludovic Halévy e Henri Meilhac che Jacques Offenbach presentò il 6 ottobre del 1868 al Théâtre des Variétés di Parigi in una versione in due atti che divennero tre nella nuova versione del 25 aprile 1874. In entrambe le edizioni la protagonista fu Hortense Schneider.

Atto I. A Lima, il Viceré del Perù (Don Andrès) esce per intrattenersi in incognito, o per lo meno lo crede, con i suoi uomini che sono stati pagati per adularlo. Due cantanti di strada, La Périchole e il suo amante Piquillo, cercano invano di guadagnare il denaro necessario per sposarsi. Mentre Piquillo si allontana, La Périchole si addormenta per alleviare la fame. Il Viceré, affascinato dalla sua bellezza, le offre di essere la sua damigella d’onore. La Périchole non vulle farsi ingannare, ma in preda alla fame, accetta e scrive una lettera di addio a Piquillo. La lettera lo getta nella disperazione e vuole impiccarsi. Fortunatamente, viene salvato dal primo gentiluomo di corte che sta cercando un marito per la futura favorita del Viceré per mantenere le apparenze. Dopo essersi saziati e notevolmente ubriacati, Piquillo e La Périchole si sposano, senza che il giovane cantante si renda conto dell’identità della moglie.
Atto II. Il giorno dopo il matrimonio, smaltita la sbornia, Piquillo fa sapere alla “moglie” di amare un’altra donna, ma il galateo esige che prima presenti ufficialmente la sua sposa al Viceré. Quando scopre che La Périchole è diventata la sua amante e la sua favorita, scoppia in un’esplosione di rabbia, insulta il monarca e viene immediatamente mandato nella prigione per i mariti recalcitranti.
Atto III. Prima scena. La Périchole viene a visitare Piquillo in prigione. Dopo una scenata da parte di lui, la donna lo informa di non aver ceduto alle avance del Viceré. Il suo piano di fuga è semplice: corrompere il carceriere. Il carceriere si presenta, ma non è altro che il Viceré travestito, che fa rinchiudere insieme i due colpevoli. Ma un vecchio prigioniero permette loro di fuggire attraverso un tunnel che ha scavato. Nella seconda scena Piquillo e La Périchole si trovano in città, ma vengono individuati da una pattuglia. Al Viceré la Périchole e Piquillo cantano le loro disgrazie, commuovendo il monarca che, magnanimo, permette loro di vivere liberi e felici.

Con La Périchole Offenbach si allontana dal solco dell’opéra-bouffe fino a quel momento tracciato per affrontare il cammino che lo porterà ai Contes d’Hoffmann. Il compositore, che si era specializzato nel mettere la musica in burla, sa anche avvicinarsi alle rive del lirismo con una storia di amori contrastati dalla miseria e dal potere tiranno dove la malinconia tinge le inquietudini e i tormenti della Périchole e del suo amante Piquillo. Questo è il motivo per cui il pubblico dell’epoca rimase perplesso davanti a un lavoro che si avvicinava più all’opéra-comique che al turbine satirico de La Belle Hélène o de La vie parisienne. Quello del 1868 fu un mezzo fiasco: una donna ubriaca in scena e un matrimonio con entrambi gli sposi ubriachi furono gli elementi che indispettirono parte del pubblico e il successo di alcune pagine – furono particolarmente apprezzati i couplet «On sait aimer quand on est espagnol!» e la lettera firmata «La Périchole | qui t’aime mais qui n’en peut plus!…» – non bastarono a mantenere il lavoro in repertorio. Il contesto politico poi si era fatto particolarmente critico col conflitto franco-prussiano e solo dopo il 1870 Offenbach potè riprendere la sua operetta. La versione del 1874 si arricchiva di un atto, dei 19 numeri del 1868 cinque venivano eliminati, il primo atto rimaneva immutato, il secondo atto si concludeva con l’ensemble dei “maris récalcitrants”, il terzo comprendeva la scena della prigione che richiamava ironicamente l’analoga scena de L’Africaine di Meyerbeer qui arricchita dallo spassoso duetto di Miguel de Panatellas e Pedro de Hinoyosa e della lunga aria del tenore «Voilà donc le lit de l’honnête homme».

È questa la versione scelta da Minkowski e Pelly i quali separatamente hanno già affrontato il capolavoro offenbachiano: Minkowski nel 2018 in una registrazione a Bordeaux per Palazzetto Bru Zane e Pelly nel 2003 all’opera di Marsiglia. Ed è la terza produzione de La Périchole a Parigi quest’anno (!) dopo quella al Théâtre du Gymnase (Gossaert/Coudray) a gennaio e quella all’Opéra-Comique (Leroy/Lesort) a maggio.

Per questa nuova produzione Pelly ha sottolineato i due aspetti complementari di questo lavoro, quello comico/satirico e quello serio/drammatico: qui c’è una donna che si prostituisce per fame mentre un uomo abusa del suo potere. Il personaggio del viceré è sì burlesco, ma è pur sempre un predatore e l’ambientazione è ai giorni nostri poiché la figura del dittatore libidinoso non ha mai smesso di essere attuale. Nettamente distinte sono le ambientazioni dei vari quadri: la piazza della città, con la facciata di un condominio proletario e un immenso poster del faccione del viceré, c’è un chiosco di fast food e tavoli per la mescita di alcolici a buon mercato; il palazzo è tutto specchiere dorate, divani di velluto, donne in crinoline d’argento e uomini in polpe argentate; la prigione è una grande gabbia metallica che prende tutto il palcoscenico; nella scena finale il poster del viceré è danneggiato e coperto di scritte. La regia di Pelly è come sempre attentissima alla musica, con i movimenti che seguono i suoni con grande fluidità e una cura attoriale maniacale, dove ogni singolo personaggio in scena ha il suo ruolo in un meccanismo preciso. I dialoghi attualizzati dalla Mélinand rendono ancora più vivace e piccante la vicenda.

Alla testa dell’agile compagine dei Musiciens du Louvre formata da 37 eccellenti strumentisti, Marc Minkowski riprende la lettura leggera e trasparente che ha consegnato su disco. Cesellati sono i preludi strumentali, le dinamiche sono varie, i tempi lenti languorosi, quelli vivaci briosi ma senza eccesso, il volume sonoro quello previsto da Offenbach per le orchestre che aveva a disposizione mentre il diapason a 440 Hz fornisce un suono brillante. Le migliori condizioni per una compagnia di canto perfetta nei personaggi secondari, se secondario si può considerare il ruolo di Don Andrès de Ribeira, uno strepitoso e vocalmente autorevole Laurent Naouri che del viceré offre un ritratto completo, dai fremiti libidinosi, ai moti di dispetto per la sconfitta alla versione clemente del monarca che dona la libertà ai due giovani evasi – ma non al vecchio prigioniero il quale neanche più si ricorda perché è in galera ma è contento di ritornarci per continuare il suo decennale lavoro di scavo per evadere. Efficaci caratteristi sono Rodolphe Briand e Lionel Lhote, Comte Miguel de Panatellas e Don Pedro de Hinoyosas rispettivamente, così come le scatenate «trois cousines», e poi altezzose cortigiane, Chloé Briot, Alix Le Saux, Éléonore Pancrazi. Nei ruoli parlati del Marquis de Tarapote e del vecchio prigioniero si distingue l’attore Eddy Letexier. Salvatore Caputo dirige il sempre vivace e preciso coro dell’opera di Bordeaux.

Nella parte della Périchole si avvicendano Antoinette Dennefeld e Marina Viotti. Alla seconda recita è il turno della cantante francese. Il mezzosoprano strasburghese ha bella voce, anche se non grandissima, ottima presenza scenica ed elegante fraseggio, ma manca di quella verve che ci si aspetta da un personaggio talmente caratterizzato, così che sono i momenti lirici che convincono maggiormente rispetto a quelli più ironici. Lo stesso si può dire per il Piquillo di Stanislas de Barbeyrac, che per di più accusa qualche leggera difficoltà nel registro acuto e nelle agilità pur in una linea vocale di grande eleganza e simpatica presenza scenica. Il pubblico ha apprezzato e ha risposto con calorosi applausi. Ancora una volta, evviva Offenbach!

Carmen

Georges Bizet, Carmen

Torino, Cortile dell’Arsenale, 21 giugno 2022

Carmen in formato tascabile nel cortile dell’Arsenale

Nell’ambito della 28ª edizione della Festa della Musica, il Teatro Regio di Torino porta en plein air le ultime produzioni della sua stagione, essendo inagibile la sala in cui si stanno ultimando i lavori di adeguamento e rinnovamento dell’impianto scenico.

Dopo Cavalleria rusticana, nel cortile dell’Arsenale va in scena Carmen, in una versione che la drammaturgia di Sebastian Schwarz, direttore artistico del teatro, riduce nei personaggi e nei numeri musicali come l’anno scorso era stato fatto con Madama Butterfly e prima ancora col Flauto Magico al Festival Mozart in piazza San Carlo. Se là un narratore impersonava Schikaneder per raccontare la storia e cucire i vari momenti musicali, qui è Yuri d’Agostino, un attore nei panni di un Georgs Bizet non a suo agio con la lingua francese, a presentare la sua ultima creazione – Bizet morirà infatti nel 1875 non ancora trentasettenne a tre mesi dalla prima – partendo dalla novella di Prosper Mérimée adattata a libretto da Henri Meilhac e Ludovic Halévy. L’impossibilità di portare nella sua integralità la versione originale di Carmen in uno spazio come questo, ha spinto per la realizzazione di un qualcosa di diverso, ossia proporre al pubblico un’illustrazione dell’opera secondo un intento quasi didattico: ecco allora una selezione delle arie più celebri introdotte dal suo autore nella sua casa di Bougival all’epoca della prima, poi ci si sposta agli inizi del Novecento e anche oltre: nella regia di Paolo Vettori nel finale saltano fuori i telefonini per i selfie con il cadavere di Carmen.

Il tutto avviene in uno spazio delimitato dalle semplici scenografie di Claudia Boasso: una parete di maxi azulejos con al centro lo stemma della città di Siviglia per i primi atti, pannelli con disegni di tauromachia per l’ultimo. Laura Viglione veste di nero il coro, mentre la protagonista del titolo ha pantaloni e maglietta a righe bianche e blu: l’abito rosso a balze che ci aspetteremmo resta sempre buttato su una sedia e anche la giacca del traje de luz del torero Escamillo gliela vedremo indossata solo nei saluti finali, questo a marcare la distanza da una lettura folcloristica di una vicenda di grande modernità in cui José rappresenta il maschio che non si arrende alla scelta di libertà della sua donna. Carmen rimane comunque debitamente uccisa nel finale, qui non ci sono gli stravolgimenti a cui abbiamo talora assistito. Il Bizet in scena aiuta a comprendere sia gli aspetti sociologici e psicologici della vicenda sia le particolarità musicali di una partitura quasi dimezzata, senza i dialoghi – né parlati come nella versione originale per l’Opéra-Comique, né cantati come nella versione per Vienna – e con i personaggi ridotti a quattro. Dopo l’ouverture, suonata come se uscisse da un disco posto sul grammofono, si ascolta subito il coro delle sigaraie, la Habanera di Carmen, il duetto di Don José con Micaëla e con la Seguidilla termina il primo atto. Anche nel secondo atto di otto numeri musicali ne rimangono quattro, essendo del tutto assenti Frasquita, Mercedes, il Dancairo, il Remendado e Zuniga. Nel terzo atto mancano gli ensemble e nel quarto il coro iniziale. Ridotto così all’essenziale il dramma di Carmen risalterebbe con ancor maggior forza se l’interprete protagonista avesse più carisma e più incisive qualità vocali, ma il mezzosoprano georgiano Ketevan Kemoklidze, anche se ha portato in scena il personaggio numerose volte, non riesce ad affascinare: la sensualità è affidata alle doti sceniche più che a quelle canore, con un registro basso poco sonoro e una proiezione vocale non delle migliori e ulteriormente penalizzata dalla non ottimale acustica dell’ambiente. Benedetta Torre è una Micaela sensibile che dà il meglio nel primo atto, mentre l’aria del terzo atto («Je dis que rien ne m’épouvante») ha un che di sfocato e irrisolto. Decisamente insufficiente la prova del giovane Zoltán Nagy, un Escamillo vocalmente sbiadito e senza personalità.

Vola a tutt’altra altezza invece Jean-François Borras, uno dei migliori frutti della scuola tenorile francese d’oggi. Il suo Don José sfoggia magnifico fraseggio, dizione (ovviamente) impeccabile e una presenza vocale non stentorea e gridata: la resa della romanza «La fleur que tu m’avais jetée» è memorabile per  eleganza e resa in maniera superlativa con i colori e le intenzioni giuste, tra le migliori mai sentite. E finalmente si ascolta il finale in pianissimo (c’è sì una doppia forcella sulla ai di «je t’aime» ma “sempre pp” prescrive la partitura, una sola p in meno dell’orchestra che suona ppp), sulla linea di un Vickers, certo non in quella di un Del Monaco che inseriva oltre all’acuto forte pure il singhiozzo. Così forse non si sollecitano i facili entusiasmi del pubblico, ma così l’ha scritto l’autore e così va cantata. Punto. Peccato che gli spettatori non l’abbiano capito, tributando la stessa dose di applausi indifferentemente ai quattro interpreti.

Sesto Quatrini dà una lettura all’insegna della sobrietà, molto trasparente, con tempi rilassati e volumi sonori contenuti. Forse non l’ideale per un’esecuzione all’aperto, ma ci ha risparmiato le atmosfere bandistiche e i colori rutilanti di certe esecuzioni. Comunque, non vediamo l’ora di ritornare a godere dell’opera al chiuso.

Carmen

Georges Bizet, Carmen

Milano, Teatro alla Scala, 7 dicembre 2009

★★★★☆

(diretta streaming)

Emma Dante debutta nella lirica con una sanguigna e violenta Carmen al femminile

A distanza di pochi mesi due allestimenti della Carmen fanno a loro modo storia nel cammino interpretativo della rivoluzionaria opera di Bizet: a Barcellona Calixto Bieito ambienta la vicenda nella Spagna franchista, a Milano, per l’inaugurazione della stagione del Teatro alla Scala, Emma Dante debutta nella lirica e lo fa con una vivissima carica di teatralità. Nella sua lettura Mérimée è trasferito in un cupo sud di epoca imprecisata, con le processioni, i riti religiosi e le superstizioni che permeano e scandiscono la vita del sud – qualunque sud.

Ma soprattutto, il suo è uno sguardo femminile: è la condizione della donna subordinata all’uomo quella che racconta la Dante. Fin da subito contrapposti sono il dinamismo femminile e il suo creare la vita (la ragazza incinta) con una maschile neghittosità (i tre che sonnecchiano a bocca aperta sventagliandosi). La vivacità in scena è resa dalle ragazze della Compagnia Sud Costa Occidentale fondata dieci anni prima dalla stessa regista. Le stesse ragazze insceneranno subito dopo una baruffa di inusitata violenza, una violenza fino a quel momento repressa. Gli uomini sono irrigiditi nelle uniformi e non sono nulla senza quei fucili che puntano a più riprese contro le donne senza mai usarli.

Nella scenografia di Richard Peduzzi gli alti muri di mattoni creano i soffocanti ambienti di un sud oppresso anche dal caldo. Non c’è luce solare in questa Carmen, l’ombra, la notte dominano su questo mondo arcaico. Anche la taverna di Lilas Pastia è un ambiente ipogeo – vi si scende con degli ascensori un po’ incongrui. Nel quarto atto la piazza dell’arena ha un alto muro ricoperto di ex-voto lasciati dai toreador e tra le facciate si insinuano strette aperture da cui José attende al varco la sua Carmen. Per tutta la profondità del palcoscenico oscilla in alto un grande turibolo che espande volute d’incenso in preparazione del consummatum est finale: l’elemento religioso è una presenza costante nello spettacolo della Dante. Le sigaraie si presentano come delle monache a rimarcare il loro ruolo di clausura e doppiamente gioioso diventa il loro liberarsene per rinfrescarsi con l’acqua della fontana. Micaëla non si muove senza la presenza di un prete e due chierichetti con una grande croce sbilenca: la ragazza è l’emblema stesso della religione della famiglia, non pensa altro che al matrimonio e sotto alla nera mantella veste l’abito da sposa. Lei è la mamma stessa, che impersonerà infatti morente nel letto nel suo ultimo incontro con José.

Sono presenti fin all’inizio delle prefiche che vedremo nel finale sorreggere il cadavere di Carmen mentre passa un nero funerale. Ma il momento che ha fatto fremere le care salme nel pubblico è quello in cui nel terzo atto José, sparando a Escamillo, colpisce invece il Cristo sulla croce e lo manda in frantumi: non un rigurgito anticlericale, come qualcuno ha avventatamente proposto, ma l’evidente rappresentazione di «quel particolare momento [che] significa per José la fine di ogni equilibrio tra la sua natura di represso, la sua educazione in seminario, il suo trasgredire alle regole». Da probo soldato, a disertore, a contrabbandiere, ad assassino. E «il duello ce lo presenta debole e vile – un duello da brivido, Escamillo a mani nude che domina a ogni istante, atterra José ripetutamente e l’ultima volta farebbe per andarsene sprezzante, ma lui l’assale alle spalle» scrive ancora Elvio Giudici (L’Ottocento, volume primo).

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Dopo tante Carmen questa risulta quasi una novità, non solo perché la versione è quella della edizione critica curata da Robert Didion, quasi completa (tre ore di musica) e con i dialoghi parlati, seppure accorciati, ma perché Barenboim – che dirige a memoria con una gestualità molto originale – lascia la sua impronta nella concertazione. Nella sua direzione manca forse la sensualità, prevalendo la cura del particolare strumentale e la trasparenza sonora, ma i colori sono magistralmente evidenziati, elemento determinante in una partitura come quella di Bizet. Un’abile gestione dei tempi, generalmente larghi, e dei volumi sonori porta a una Carmen altamente drammatica che va dai pianissimi dell’introduzione a «La fleur» ai ritmi in crescendo parossistico della “chanson bohème”.

Nel cast si ha la rivelazione del mezzosoprano georgiano Anita Rachvelishvili, venticinquenne uscita dalla scuola della Scala, che prende in carico la parte di Carmen con una padronanza vocale stupefacente e una già matura presenza scenica che non trascende mai in volgarità, cosa non rara nella rappresentazione della «femme dangereuse», come la definisce Micaëla. La Dante fa di Carmen la figura dominante su un José bamboccione indeciso che conosce solo la violenza con le donne: prima è lei che lo domina, alla fine quando lui cerca di possederla con violenza, basta che lei lo guardi negli occhi perché il coraggio gli venga a mancare. E sarà lei infatti a dargli la navaja con cui verrà ammazzata.

Perfetto attorialmente è Jonas Kaufmann, assecondando perfettamente la psicologia del personaggio imposto dalla regia. Che poi vocalmente il risultato superi ogni più ottimistica previsione non è scontato, e il suo don José rimarrà un ruolo di riferimento per molto tempo per luminosità del registro acuto, ma soprattutto per la dolcezza delle mezze voci e per la sensibilità dell’espressione.

Delusione per gli altri due personaggi: Adriana Damato è una Micaëla con problemi di tecnica e dalla gestualità goffa; Erwin Schrott è l’Escamillo ideale per presenza scenica – e lo è più di qualunque altro – ma esordisce stonando nei suoi couplets e anche in seguito manca di musicalità. Una serata non ben riuscita la sua. Adriana Kučerová e Michèle Losier sono due efficaci Mercédès e Frasquita, la prima svettante con i suoi acuti negli ensemble; Francis Dudziak e Rodolphe Briand sono il Dancaire e il Remendado; Mathias Hausmann è un buon Moralès; quasi inascoltabile lo Zuniga di Gábor Bretz.

Emma Dante restituisce forza e scandalo all’opera di Bizet com’è giusto che sia, ma ovviamente la mancanza della Spagna da cartolina e gli accenni agli elementi cattolici indispettiscono il loggione e parte della platea che contestano rumorosamente la regia alla fine dopo le acclamazioni per i due protagonisti principali e il direttore. Cose che succedono. Soprattutto alla Prima della Scala.

Carmen

foto Edoardo Piva © Teatro Regio

Georges Bizet, Carmen

★★★☆☆

Torino, Teatro Regio, 18 dicembre 2019

Carmen al tempo del Franchismo

La stagione lirica del Regio prosegue con un titolo sicuro come Carmen, una delle opere più rappresentate al mondo, che ritorna a Torino per la terza volta in sette anniin tre produzioni differenti. Proveniente dalla stagione 2005 del Teatro Lirico, allora spettacolo insignito del Premio Abbiati, l’allestimento è stato reso possibile anche grazie all’aiuto finanziario dell’associazione Amici del Regio.

Nulla spiega la necessità di riproporre ancora una volta e a breve distanza di tempo questo titolo se non la speranza di attirare in teatro più pubblico nuovo oltre a quello consueto. Di certo non quella di aver trovato gli interpreti d’eccezione, perché i cantanti in scena sono più che decorosi, ma non entusiasmano. Il mezzosoprano franco-armeno Varduhi Abrahamyan lascia i ruoli en travesti del repertorio belcantistico (Arsace nella Semiramide del ROF questa estate, Malcon ne La donna del lago del 2016 ecc.) e si conferma una valida presenza vocale, ma come Carmen non ha quella sensualità che ci si aspetterebbe e seppure corretti non ci sono momenti memorabili nella sua performance: certo non la habanera né la seguidilla, forse meglio il terzetto delle carte a cui presta il colore scuro del suo timbro. Anche il don José di Andrea Carè è efficace, ma avaro di sfumature. Bello lo slancio lirico della Micaëla di Marta Torbidoni, ma c’è un po’ troppo vibrato nella voce. Vocalmente gagliardo e scenicamente autorevole l’Escamillo di Lucas Meachem. Giusto l’apporto del cast nei ruoli secondari però la dizione del francese non sempre risulta impeccabile.

Il giovane Giacomo Sagripanti fornisce una lettura brillante e senza eccessi melodrammatici della partitura ed è validamente assecondato dagli strumentisti dell’orchestra del teatro. Ottimi come sempre i due cori, quello del Regio e quello di voci bianche. La sacrosanta scelta della versione con i dialoghi parlati si scontra con la capacità attoriale dei cantanti, non sempre ineccepibile, e con la lunghezza dello spettacolo, che con tre intervalli raggiunge le quattro ore.

Il regista Stephen Medcalf situa la vicenda nel primo periodo franchista e il grido di libertà di Carmen assume qui un valore ben più forte, ma  a parte ciò non si può dire che la personalità dei personaggi sia stata oggetto di uno scavo profondo – ma la colpa è soprattutto dei librettisti. La presenza dell’esercito e della Guardia Civil è sempre cospicua e contagia anche i bambini in rigida formazione militare. Il regista è molto fedele al libretto così che Micaëla ha la treccia bionda di prammatica («jupe bleu et natte tombante»), i cocci di un piatto sostituiscono le nacchere (questo nella novella di Mérimée) e il corteo di Escamillo ha le fiaccole citate nel testo («Une promenade aux flambeaux!»). L’attualizzazione dell’ambientazione permette di introdurre nella scena dei contrabbandieri un aereo che atterra in una pista delimitata da bidoni di benzina, ma per il resto le scenografie di Jamie Vartan sono evocative ed efficaci nella loro semplicità. Meno convincente il finale: Carmen cerca di scappare da don José che le corre dietro e la uccide non visto dal pubblico. Il delitto diventa visibile quando uno dei pannelli che suggeriscono le mura dell’arena scorre di lato mostrando la folla festante del dopo corrida che continua a inneggiare verso il fondo anche quando Escamillo entra in scena mentre i militari si voltano a guardare inebetiti il cadavere e l’assassino.

Carmen

Georges Bizet, Carmen

★★☆☆☆

Londra, Royal Opera House, 2 luglio 2019

(video streaming)

Kosky è originale come sempre, ma la sua Carmen decostruita non convince

3 ore e mezza? Sì, tanto dura la Carmen messa in scena da Barrie Kosky all’Opera di Francoforte nel 2017 e ripresa ora alla Royal Opera House, un’ora più del normale. Senza i dialoghi parlati né i recitativi musicati da Guiraud, qui una voce fuori scena, probabilmente quella di Carmen, lega i vari numeri musicali talora estesi o in due edizioni diverse, come la habanera eseguita nella consueta versione e di seguito in quella originale poi scartata da Bizet. Inizialmente erano stati proposti anche i couplet cantati da Moralès nel primo atto, poi cassati nel corso delle riprese londinesi. I testi parlati sono tratti dalla novella di Mérimée o dalle didascalie del libretto di Meilhac e Halévy e superano in durata i dialoghi tagliati. Talora quasi imbarazzanti sono i momenti in cui la cantante che interpreta Carmen rimane ferma e muta in primo piano cercando l’espressione giusta a quanto viene detto dalla voce recitante.

Che la Carmen non fosse un pezzo di finto folclore iberico lo si era capito da tempo grazie anche a Calixto Bieito e alla sua memorabile versione. Ma Kosky va molto oltre e ci vuole convincere che Carmen sia un musical in cui la vicenda è mero pretesto per balletti vivacissimi. Tutta l’azione si svolge infatti su una ripidissima scalinata: Broadway si mescola con Weimar, il musical americano col cabaret tedesco e nelle coreografie di Otto Pichler, affidate a sei scatenati ballerini, il flamenco si affianca al charleston, il tango allo “strike-a-pose” di Madonna alle lezioni di aerobica.

Carmen appare prima in costume da torero rosa poi come un gorilla – richiamo sottile ma inutile al costume di una delle Kit Kat Klub girls nel film di Bob Fosse? – da cui si spoglia per rimanere in pantaloni, camicia bianca e cravatta come Marlene Dietrich, e poi nel finale con un sontuoso strascico che occupa l’intera scalinata e a cui si aggrappa inutilmente Don José per trattenerla.

Non c’è momento che non sia visivamente sorprendente, ma diventa difficile giudicare la performance musicale in tale mancanza di coerenza drammatica: non ci sono personaggi, solo dei cantanti “aria-producers”. La Carmen di Aigul Akhmetshina è corretta ma niente più. Irriconoscibile invece Bryan Hymel, Don José lagnoso e legnoso, dalla intonaziona incerta. Ci auguriamo che si sia trattato di una serata negativa. Del tutto fuori parte Luca Pisaroni come Escamillo, pesante e senza verve. Non vanno meglio gli interpreti delle parti secondarie. Kristina Mkhitarian si rivela la migliore, una Micaëla tenera ma non sdolcinata, di bella voce e fine espressività. Julia Jones si affida al mestiere per leggere la partitura correttamente senza particolari bellurie. Ma che ingrato compito il suo doversi interrompere ogni volta!

Nel finale dopo che Carmen è stata colpita a morte la donna si rialza e allarga le braccia verso il pubblico nel gesto di dire «Visto? Era tutta una finzione!». Ce n’eravamo accorti.

Carmen

Georges Bizet, Carmen

★★★☆☆

Liegi, Théâtre Royal, 30 gennaio 2018

Dall’arena del circo a quella della corrida

La fascinazione del regista Henning Brockhaus per il circo si conferma ancora una volta: dopo il suo Pergolesi del 1994, anche ora nella Carmen si scende nell’arena. I numeri musicali di Bizet diventano i numeri di un circo di inizio ‘900 con gli acrobati, i trapezisti, gli animali veri e finti, la pista circolare, gli artisti coi lustrini e i pennacchi, le gallerie piene di pubblico. In tal modo il regista intende sottolineare il carattere popolare dell’opera immergendola in uno spettacolo di varietà circense: le sigaraie sono artiste, i contrabbandieri hanno baffi a manubrio e bombetta di paglia, le donne sono sciantose con le piume in testa. Il tutto in una confusione pittoresca ma ben gestita esaltata dai costumi di Giancarlo Colis e dalla scenografia piena di colori di Margherita Palli i quali  trasformano questa Carmen in Pagliacci. E simile è l’atmosfera che si respira, dai furenti scoppi di gelosia alla coltellata finale.

Dopo un numero piuttosto banale di flamenco (che ritornerà a più riprese nel corso dello spettacolo per sottolineare, come se fosse necessario, la componente spagnola dell’opera), una donna in rosso e incinta passa tra i bambini che imitano le belve e toglie loro la maschera. La donna ritornerà anche lei più volte. Non è l’unica stramberia della serata, a parte l’entrata di Carmen su un elefante, ma quella di Brockhaus si colloca sostanzialmente tra le letture più tradizionali, ben diversamente da quanto aveva fatto Carsen con il circo del suo Rigoletto.  Per non parlare delle Carmen di Bieito o di Černjakov.

La versione scelta è quella originale con i dialoghi parlati, ma così ci vorrebbero dei cantanti che fossero anche eccellenti attori e che la regia non avesse momenti vuoti che allentano il ritmo della tragica vicenda. Di buon livello gli interpreti dalla Carmen sensuale di Nino Surguladze che sfoggia un notevole physique du rôle e una vocalità intensa, alla Micaela di Silvia Dalla Benetta che incarna perfettamente il ruolo dell’“altra” donna senza averne l’aria dimessa da santarellina, anzi con una sua presenza molto femminile. Don José ben intonato ed espressivo quello di Marc Laho, forse un po’ troppo elegante vocalmente l’Escamillo di Lionel Lhote.

Direzione talora pesante quella della Scappucci con tempi estremizzati come ad esempio il lentissimo e strascinato inizio di «Les tringles des sistres tintaient» che diventa poi un ritmo forsennato, mettendo in difficoltà le cantanti. Ma neanche l’orchestra sembra delle più raffinate.

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Carmen

Georges Bizet, Carmen

Aix-en-Provence, Grand Théâtre de Provence, 6 luglio 2017

(video streaming)

Carmen, The game

Che cosa fare di una delle opere più rappresentate e conosciute al mondo? Se la Carmen viene ridotta ai minimi termini a Bregenz, ad Aix-en-Provence arriva quella terapeutica di Dmitrij Černjakov.

Ma è proprio Carmen? Il sipario si apre su quello che sembra l’atrio di una banca o di hotel o di una clinica di lusso: pareti e pavimenti di lucido marmo, salottini in pelle nera. Capiremo trattarsi dell’ultima ipotesi: una coppia in crisi a causa della mancanza di desiderio dell’uomo e quello che potrebbe essere il direttore della clinica parlano di un progetto terapeutico, ossia la rappresentazione di uno psicodramma, quello di Carmen, come un gioco di ruoli. L’uomo non sembra convinto, ma cede per far piacere alla donna. Dopo questo preambolo parlato esplode, letteralmente, il preludio di Bizet nella direzione abbagliante di Pablo Heras-Casado alla guida dell’Orchestre de Paris. Anche dopo la sua lettura brillerà di mille colori e sfumature e con un ritmo che però verrà spezzato dalle interruzioni della regia. Della musica in partitura comunque il direttore granadino non farà mancare nemmeno una nota.

L’uomo deve consegnare orologio e cellulare a un funzionario mentre un altro distribuisce dei cartellini coi nomi dei ruoli: all’uomo tocca quello di Don José, al funzionario stesso quello di Morales, al coro quelli dei soldati. La donna, bionda con filo di perle e soprabito rosa, sarà Micaëla. Le immagini della scena vengono riprese anche da telecamere di sicurezza e le didascalie del libretto sono lette su fogli arancione e i dialoghi quasi soppressi. Nella finzione tutto avviene nell’immaginazione: non c’è nessuna “garde montante” e il coro di bambini fuori scena è mimato dagli uomini. Poi arrivano le “sigaraie”, delle impiegate che si uniscono a loro nel bere un bicchiere di vino e fumare una sigaretta. Entra in scena la “Carmencita”, in ritardo e per di più ha dimenticato la battuta! Cerca di mettersi una rosa tra i capelli e finalmente attacca la sua habanera in modo caricaturale, ma vocalmente ineccepibile,  giocando alla femme fatale, ma che alla fine chiede a Josè di aiutarla a districare dai capelli la rosa da lanciargli. E mancarlo! L’atmosfera è quella goliardica di un ufficio che si vuole divertire alla festa di fine anno quando manca il capufficio. L’irruzione di una pattuglia di polizia che arresta Carmen sembra porre fine alla “festa” e ristabilire una certa realtà mentre Carmen canta la seguidilla in manette. Ma ritorna il direttore e ricorda che è tutto un gioco e sono tutti attori. L’unica che sembra ribellarsi è la donna/Micaëla: «Vous êtes tous fous!».

Nel medesimo ambiente è la scena della taverna di Lillas Pastia dove arriva Escamillo, doppio petto bianco, occhiali da sole e sigaro. Il “torero” incanta tutti con il suo racconto. Carmen riesce a convincere Don José a disertare e a seguirla tra i contrabbandieri. Anche «La fleur» all’inizio è resa con uno straniamento che sarebbe piaciuto a Brecht, ma poi l’atteggiamento di José verso la donna cambia.

Nel terzo atto “José” dovrebbe abbandonare il gioco, ma si rifiuta di farlo: ormai è emotivamente coinvolto da Carmen mentre Micaëla non sembra indenne al fascino di Escamillo e le sue paure non sembrano tanto per il «lieu sauvage» quanto del cadere in tentazione. In effetti i due fanno proprio una bella coppia!

All’inizio del quarto atto un altro paziente entra al posto di “José”, che è stato estromesso dal gioco e che ora si aggira come invisibile nelle scene che ripetono quelle con il coro di bambini e l’arrivo delle sigaraie e poi di Escamillo. Quando Carmen e José rimangono soli avviene quello che sappiamo: l’uomo accoltella la donna per gelosia, «Ceci n’est pas un jeu!» aveva detto a un certo punto. Ma il coltello è un coltello di scena, di quelli con la lama retrattile. Anche questo era tutto finto. Il gioco è ancora saldamente in mano di chi l’ha ideato e l’unico che continua a crederci è “José”. “Micaëla” può riportarselo via.

Ecco, bisognava raccontarla tutta passo dopo passo questa Carmen per chi non l’ha vista al Grand Théâtre de Provence. Non è certo la Carmen per chi non conosce l’opera, ma dal regista russo nemmeno ci si poteva aspettare la Spagna da cartolina con le mantiglie (le nacchere invece ci sono), ma questo di Černjakov è un punto di non ritorno nell’allestimento di un’opera: nelle interviste il regista ha dichiarato di non amare quest’opera, di non credere alla storia di gitane provocanti e toreador di cui qui ha fatto una specie di parodia. Non è Carmen, ma è comunque uno spettacolo intrigante che per riuscire deve avere degli interpreti “speciali” con una presenza scenica fuori del comune e qui tutti ce l’hanno grazie all’eccezionale lavoro attoriale fatto dal regista russo.

Di Stéphanie d’Oustrac conoscevamo l’intelligenza drammatica e la dizione esemplari, qui ampiamente confermate. Il tenore americano Michael Fabiano si rivela del tutto convincente nel ruolo di chi finge di essere nel ruolo di José, con bellurie vocali soprattutto nei momenti lirici. Il soprano franco-danese Elsa Dreisig è una luminosissima e mai remissiva Micaëla. Purtroppo il baritono statunitense Michael Todd Simpson ha grande prestanza scenica ma è vocalmente insufficiente. Della coppia Frasquita-Mercedes meglio la prima, Virginie Verrez, della seconda, Gabrielle Philiponet. Vocalmente equilibrati invece i contrabbandieri Guillaume Andrieux e Mathia Vidal. Efficaci le parti minori e ottimo il Choeur Aedes molto disinvolto in scena.

Successo senza riserva da parte del pubblico francese. Ma forse solo qui si può osare tanto con Carmen.

Černjakov può essere doppiamente contento: la settimana prima la Corte di Cassazione francese gli ha dato ragione sulla disputa con gli eredi di Francis Poulenc a proposito del suo allestimento a Monaco dei Dialogues des Carmélites.

CARMEN (Dmitri Tcherniakov 27 juin 2017)

CARMEN (Dmitri Tcherniakov 27 juin 2017)

CARMEN (Dmitri Tcherniakov 27 juin 2017)

CARMEN (Dmitri Tcherniakov 27 juin 2017)

CARMEN (Dmitri Tcherniakov 27 juin 2017)