Ranieri de’ Calzabigi

Orphée et Euridice

Christoph Willibald Gluck, Orphée et Euridice

★★★★☆

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Milano, Teatro alla Scala, 24 febbraio 2018

Il lutto si addice a Orfeo

Come con L’Orfeo di Monteverdi era nato un nuovo genere teatrale, così con l’Orfeo di Gluck, 150 anni dopo, quello stesso genere veniva messo in discussione e rinnovato.

L’opera cardine di questo processo è conosciuta principalmente in tre versioni differenti: Orfeo ed Euridice (Vienna 1762, in italiano e con la parte del protagonista per un contraltista castrato); Orphée et Euridice (Parigi 1774, in francese per un haute-contre); Orphée et Eurydice, con la y, (Parigi 1859). Tralasciando quest’ultima versione che Berlioz riadattò da quella francese cambiando l’orchestrazione e trasponendo la parte del protagonista per un mezzosoprano, l’allora famosa Pauline Viardot, le due versioni del tempo di Gluck differiscono in modo tale da poter parlare di due opere quasi distinte.

La versione di Parigi infatti contiene numeri musicali assenti in quella di Vienna, parecchie danze e l’“arietta” con cui si conclude il primo atto, un numero musicale quest’ultimo che è talmente diverso nello stile da tutto il resto che per molto tempo si è pensato non fosse neppure di Gluck e si era fatto il nome di Ferdinando Bertoni, il rivale che rappresentò il suo Orfeo ed Euridice nel 1776. Studi recenti confermano invece la paternità di Gluck per questo pezzo di bravura che con le sue agilità e la forma chiusa sembra voler contraddire l’assunto della riforma che Gluck voleva intraprendere con questa sua opera. Riforma che in sintesi intendeva sostituire i pezzi chiusi col da capo e i recitativi secchi con pezzi di breve durata e legati strettamente l’uno all’altro per formare strutture più ampie e dove i recitativi, sempre accompagnati, sfociano in modo naturale e conseguente nelle arie. Ma soprattutto aderenza del canto al testo, senza la libertà di “superflue” colorature.

Per la prima volta sul palcoscenico del Teatro alla Scala in questa versione francese, l’Orphée et Euridice proveniente da Londra si avvale, come là, della voce di Juan Diego Flórez, forse l’unico attualmente che possa far rivivere il virtuosismo della parte creata per Joseph Legros. La novità della parte (l’opera italiana a Parigi a quell’epoca non era ancora in auge come sarebbe stata poi in seguito) fu alle origini del successo del lavoro e proprio la sua difficoltà ha tenuto per molto tempo questa versione lontano dai teatri.

Instancabile dal primo all’ultimo momento, quasi sempre in scena – i personaggi dell’opera sono tre e Amour entra in azione solo nella terza scena ed Euridice al secondo atto – e al debutto nella parte, il tenore peruviano domina con sicurezza ed eleganza il registro acuto con un timbro luminoso, una dizione da manuale, fraseggio e legati impeccabili. Dagli strazianti lamenti iniziali – solo il nome di Euridice ripetuto tre volte riesce a uscire dalla sua bocca – alla gioia che esplode nei virtuosismi di «L’espoire renait dans mon âme» quando si appresta a varcare i confini degl’inferi per rivedere l’amata, la sua prestazione non conosce momenti di stanchezza o cali di tensione.

Lo affiancano in questa impresa Christiane Karg e Fatma Said che dimostrano entrambe temperamento e doti vocali che danno alla prima, Euridice, il tono dolente di chi vede la felicità presto tramutarsi in dolore e alla seconda, Amour, il timbro scintillante come l’oro di cui è vestita.

Nella drammaturgia di John Fulljames la vicenda rappresentata in scena sembra un sogno o una fantasia di Orphée che alla fine vede immolare alle fiamme una seconda volta il corpo dell’amata, ma questa volta ne accetta la morte. Un’interpretazione moderna e affascinante che però è ben lontana dal mito. Ma a parte questo, l’interessante allestimento scenico prevede l’orchestra sul palco dietro i cantanti su una grande pedana che si solleva o si infossa seguendo una sua logica non sempre evidente. Il problema diventa però la resa acustica: i suoni risultano schiacciati quando gli strumentisti sono lassù in alto a pochi metri dai pannelli appesi al soffitto, dispersi quando la pedana con gli orchestrali scende al di sotto del palcoscenico.

In contrasto con la concertazione apollinea ma sensibilissima di Michele Mariotti, che in «J’ai perdu mon Euridice» raggiunge un’intensità indicibile con mezzi musicali prosciugati al massimo, le coreografie di Hofesh Shechter formano un notevole contrasto. Abituato a lavorare sulla musica elettronica, i movimenti scomposti dei suoi ballerini, che saltano e hanno spasmi e convulsioni, causano in certo modo la decostruzione del classicismo che ascoltiamo, ma la lunghezza e la ripetitività dei gesti da danza tribale tendono a diluire la drammaticità che la musica, pur nella sua suprema compostezza, ha cercato di costruire. Ben diversamente emozionante fu l’Orpheus und Euridyke in tedesco di Pina Bausch all’Opéra di Parigi, il suo ultimo lavoro.

L’opera seria

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Florian Leopold Gassmann, L’opera seria

Bruxelles, Cirque Royal, 16 febbraio 2016

★★★★☆

(video streaming)

«Maledetta l’impresa de’ Musici Teatri!»

Il teatro alla moda di Benedetto Marcello, il pamphlet satirico che metteva criticamente alla berlina l’ambiente del teatro musicale veneziano, è del 1720, ma cinquant’anni dopo le cose non sono poi così mutate se ancora nel 1769 nella prefazione al libretto de L’opera seria l’autore si scaglia con dovizia di virgole e maiuscole contro «que’ Maestri di Cappella che senza punto badare alla Poesia, certe loro particolari inezie armoniche, da per tutto, allo sproposito, e contro senso profondano; e che al dire di Plutarco, avendo abbandonata la semplice, maestosa, e divina Musica, quella snervata, stiracchiata, e pettegola hanno introdotta: a quegl’insulsi Rimatori che spacciandosi per Poeti Drammatici, o copiando con impudenza, o imitando senza discernimento inondano di tante mostruose produzioni i nostri Teatri: a que’ Virtuosi di Canto, e di Ballo che intriganti, capricciosi, invidiosi, e qualche volta insolenti, cagionano tante inquietudini agl’Impresari; È principalmente diretta questa Commedia. Suppone l’Autore che pochissimi saranno quelli che vi si dovranno riconoscere, e per questi ne prenderanno motivo di correggersi, o almeno di astenersi».

E l’autore è quel Ranieri de’ Calzabigi che in quegli stessi anni con Gluck stava scrivendo il manifesto di quella riforma che promuoveva la “nobile semplicità” che di certo non troviamo nella divertente presa in giro di questa meta-opera. I personaggi de L’opera seria di Florian Leopold Gassmann si chiamano Fallito, Delirio, Sospiro, Ritornello, Stonatrilla, Smorfiosa, Porporina, Passagallo, Bragherona, Befana, Caverna. Bastano i nomi per farci capire le intenzioni dell’autore che mette in scena una compagnia alle prove di un’opera seria, L’Oranzebe. Dopo i due atti in casa dell’impresario, nel terzo ci si sposta infatti ad «Agra Capitale dell’Indostan» alla corte Moghul, o per lo meno alla sua ricostruzione in scena.

Atto I. In casa dell’impresario Fallito, il poeta Delirio e il compositore Sospiro
si profondono in lodi reciproche per la loro opera che dovrà andare in scena quella sera. A smorzare tanto entusiasmo provvede il padrone di casa: bisogna accorciare l’opera tagliando versi, recitativi e arie, perché lo spettacolo è troppo lungo, ma anche per via dei soliti controsensi che sarebbe bene eliminare una volta per sempre. Delirio e Sospiro sono indignati. Come se non bastasse, già al suo arrivo la celebre (e stagionata) primadonna Stonatrilla s’indigna per l’accoglienza riservatale: troppo dimessa per una del suo rango. E poi non ha ancora provato il suo costume, e le sue arie proprio non vanno… L’incontro con Porporina, di grado inferiore, in quanto terza donna, ma giovane e tutt’altro che remissiva, non fa che darle ancor più sui nervi. Dopo averla messa in riga, Stonatrilla se ne va, seccata: la insegue Fallito, che corre a rabbonirla. Intanto Porporina civetta con Sospiro, da cui si è fatta scrivere un’aria su misura. Arriva intanto anche la seconda donna, Smorfiosa: lei, così delicata, ha appena dovuto sopportare il tanfo di tabacco dei sarti venuti a provarle l’abito di scena. Per fortuna giunge Ritornello, primo “musico”, un castrato dai modi soavi di cui è invaghita la fragile Smorfiosa: Porporina li lascia soli a tubare. Intanto, nel vestibolo, Fallito è incalzato da Passagallo, compositore dei balli, che vuole mostrargli due coppie di ballerini, a suo avviso da ingaggiare. Saputo dell’imminente saggio di danza, i cantanti vengono a vedere. Ma la riunione presto degenera: chi si lamenta dello strascico altrui, più importante del proprio; chi del cimiero della rivale, più imponente; chi, ancora, del poco rilievo che il suo nome ha nel libretto. Insomma, ce ne fosse uno soddisfatto! C’è di che impazzire.
Atto II. Nella galleria dell’appartamento dell’impresario tutto è pronto
per la prova. Delirio e Sospiro già pregustano il successo della loro opera, ma ancora una volta Fallito viene a guastare la festa: Ritornello vuole cambiamenti a una sua aria. Si muti la musica, dice Delirio, facendo insorgere Sospiro che pretende nuovi versi. I due quasi arrivano alle mani, gettando nella disperazione l’impresario. Convinto da Fallito, Delirio stende rapidamente nuovi versi, che Ritornello legge a fatica: i suoi svarioni provocano l’ilarità del poeta. Una volta allontanatosi quest’ultimo, Sospiro convince il cantante a ripescare dal suo baule un’aria di successo (anche se con tutt’altre parole e di tutt’altro carattere) e ad applicarvi i nuovi versi di Delirio. Evitata la grana di scrivere un’aria nuova, Sospiro può dedicarsi all’amata Porporina, insegnandole quanto ha scritto apposta per lei. Arriva l’intera compagnia, per provare il terzo ed ultimo atto dell’opera nuova. Si decide di ripassare solo le porzioni più impegnative: i recitativi strumentati e le arie. La prova inizia e procede spedita, pur con qualche errore da correggere o ridicoli fraintendimenti da chiarire. I problemi maggiori li suscitano però i battibecchi tra poeta e compositore, che diventano più accesi quando Delirio si accorge che Sospiro ha adattato alla sua nuova aria per Ritornello musica vecchia e di tutt’altro genere. La situazione poi degenera ancora una volta, pericolosamente, quando alcuni cantanti cominciano a sparlare di una ballerina, la quale replica senza farsi intimidire. Fallito manda a chiamare le guardie, al cui arrivo le cantanti, ipersensibili, svengono. Avuto campo libero, il corpo di ballo può cominciare le sue prove.
Atto III. Va finalmente in scena, in teatro, L’Oranzebe, l’opera di Delirio e Sospiro. È ambientata nel reame indiano dei Mogol di cui Oranzebe è imperatore. L’Atto I si apre col trionfo del generale Nasercano, impersonato da Ritornello: tra le sue prede esibisce la regina indiana Saebe (Smorfiosa). Nell’opera agiscono anche Porporina, che interpreta un alto ufficiale dell’esercito del Mogol, e ovviamente Stonatrilla, nei panni della principessa Rossanara, sorella di Oranzebe. Nasercano pare sensibile al fascino di Saebe, e Rossanara comincia a ingelosirsi. Ma il pubblico pare poco soddisfatto dell’opera, e inizia a rumoreggiare, chiedendo a gran voce di passare al ballo. Nel retropalco, Passagallo, Ritornello e Delirio commentano l’esito infelice dell’opera, lamentandosi del pubblico incontentabile. Intanto le cantanti si tolgono i costumi con l’aiuto delle rispettive madri, che brontolano perché vengono trattate come serve. Ne approfittano anche per conoscere le reazioni degli spettatori, il malcontento dei quali è addebitato al poeta e al compositore. Ma ben presto sono le madri delle “virtuose” a far baruffa tra loro: ciascuna vanta i meriti della propria figlia, e mette in risalto gli infortunî delle altre in questo o in quel teatro. Ritornello, Delirio e Passagallo prima se la ridono, poi cercano di riportare tutte alla calma. Intanto arriva la notizia che Fallito si è fatto uccel di bosco, lasciando tutti senza soldi. Dopo un attimo di smarrimento, gli artisti decidono di andare a riproporsi altrove, sperando in un pubblico più compiacente. Ma prima, infuriati, giurano odio eterno alla categoria degli impresari, riproponendosi di dar loro sempre filo da torcere e di farli costantemente fallire.

All’inizio dell’opera Sospiro e Delirio, il musicista e il poeta, si scambiano i complimenti: «Oh che bell’Opera! | Che bella Musica! | Che stil Drammatico! | Che stil Cromatico! | I più gran critici | tacer farà. | Venezia, e Napoli | Milano, e Genova, | sorprenderà». Ma l’idillio durerà poco e già nel secondo atto emerge la rivalità: «La Musica è diabolica. | La Poesia è perfida. | Eh, va’ impara | Maestruccio da ciechi. | Eh, torna a scuola | poetastro di piazza». Si intromette Fallito, l’impresario preoccupato per le sorti finanziarie del teatro e incomincia a criticare sia testo sia musica proponendo tagli che ovviamente indispettiscono gli autori: «Ho di fuoco nel petto un Vesuvio… | Ho di rabbia nel core un Diluvio». A mano a mano entrano in scena gli altri personaggi, primedonne e seconde donne, madri delle stesse, il primo uomo, il coreografo, tutti a punzecchiarsi l’un l’altro. La primadonna prova la sua scena tragica, il primo musico sbaglia le parole della sua aria, e tra battibecchi e rivalità si arriva finalmente all’opera seria L’Oranzebe. Cambia lo stile dei versi, qui chiaramente metastasiani e declamati in arie con trombone obbligato e gorgheggi commentati rumorosamente dal pubblico che a un certo punto interrompe l’esecuzione tra i fischi e reclama il balletto che salva infine la serata. Nella scena ultima siamo nei camerini e qui entrano in gioco le mamme delle virtuose che se ne dicono di tutti i colori mentre si viene a sapere che l’impresario è fuggito con gl’incassi. La compagnia ritrova la concordia e tutti giurano di fargliela pagare: «A questi perfidi | tiranni d’impresarj, | che sì fiero governo | fanno sempre di noi, un odio eterno». Nel frattempo cercheranno un pubblico più benevolo.

Gassmann era nato in Austria nel 1729, ma parte della sua carriera si era svolta a Venezia, dove aveva diretto il coro delle ragazze del Conservatorio degli Incurabili e dove aveva messo in musica molti libretti di Carlo Goldoni. Ritornato a Vienna divenne compositore di camera dell’imperatore Giuseppe II e maestro di cappella di corte. Nei successivi frequenti viaggi in Italia conobbe il giovane Salieri, che divenne il suo successore a corte, mentre le sue due figlie furono famose interpreti delle opere di Salieri e di Mozart.

La programmazione dell’Opera di Bruxelles continua extra muros al Cirque Royal in attesa che terminino i lavori di restauro della sala di Place de la Monnaie. Ciononostante, non vengono a mancare spettacoli non convenzionali come questo, un intelligente gioco ironico e intellettuale in cui la satira di un’opera seria diventa un’opera buffa, quasi una scommessa per un pubblico non specializzato. Nella vivace ma fluida regia di Patrick Kinmonth, a cui si devono anche scenografie e costumi, l’azione si svolge su due pedane collegate da una passerella attorniata dagli strumentisti della B’Rock Orchestra rimpolpata da membri dell’orchestra de la Monnaie e diretta da un René Jacobs che conosce bene l’opera avendola presentata già nel 1994 a Schwetzingen. I movimenti coreografici di Fernando Melo sono loro stessi una parodia di quelli della coreografa Anne Teresa de Kerrsmaeker, la Pina Bausch belga.

Ottima presenza scenica e buona vocalità (e se non è perfetta poco importa, tanto si tratta di una parodia) nel nutrito cast tra cui riconosciamo il nostro sempre impeccabile Pietro Spagnoli (il poeta Delirio) e poi Mario Zeffiri (il primo musico Ritornello), Markos Fink (l’impresario Fallito), Thomas Walker (il compositore Sospiro), Alex Penda (la prima donna Stonatrilla), Robin Johannsen (l’ipocondriaca seconda donna Smorfiosa), Sunhae Im (la giovane Porporina, parodia del castrato Porporino), Nikolay Borchev (il maestro di ballo Passagallo), Magnus Staveland, Stephen Wallace e Rupert Enticknap (le mamme barbute Bragherona, Befana e Caverna).

Inizialmente in ricchi costumi settecenteschi, poi ne L’Oranzebe fantasiosi abiti orientaleggianti e infine in abiti moderni: il regista vuol dirci che le cose non sono cambiate molto neanche ai giorni nostri.

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Alceste

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Christoph Willibald Gluck, Alceste

★★★☆☆

Venezia, Teatro La Fenice, 24 marzo 2015

(streaming TV)

Tra archi e plissé

Per Venezia è la prima volta di Alceste mentre è la quarta per Pizzi (1966, 1984 e 1987 le precedenti produzioni), il quale ripropone qui la sua visione dell’opera manifesto della riforma gluckiana nella versione viennese (1767) del Calzabigi, in italiano quindi. In leggero ritardo, il nuovo allestimento della Fenice, in coproduzione col Maggio Fiorentino, vuole celebrare il tricentenario della nascita di Gluck (1714).

Se era sembrata freddamente stilizzata e statica la messa in scena di Robert Wilson vista a Parigi (ispirata al teatro Nō giapponese), Pizzi qui non è da meno: una polvere bianca sepolcrale ricopre la pelle dei personaggi, le scene e i costumi (francamente ridicoli quelli maschili con quella tenda plissettata sulla pancia, mentre le donne del coro il plissé ce l’hanno in testa). In un ossessivo bianco e nero con qualche tocco di giallo, le scenografie con archi, colonnati, pavimento a scacchiera e scalinate (realizzati in economia se visti da vicino) con quella loro fredda monumentalità ricordano il Piacentini dell’EUR.

Coerenti con la pulizia formale della musica e l’essenzialità dei contenuti e dei sentimenti – amore, morte e sacrificio sono le uniche nozioni sublimate in questa vicenda che vede le sue origini nella tragedia greca – le scenografie di Pizzi, ben illuminate dalle luci di Vincenzo Raponi, sono indubbiamente funzionali: grandi archi per il primo quadro, un albero con teschi appesi per il bosco degl’inferi, un letto matrimoniale sfatto per la camera regale. Pizzi si dimostra al solito bravo scenografo, mentre come regista attoriale si limita a suggerire agli interpreti e ai coristi pose statuarie o movimenti lungo linee geometriche semplici. Completamente mancato registicamente è poi l’intervento di Apollo, deus ex machina dell’affrettato happy end (1). I balletti sono qui ridotti a un unico intervento coreografico che riesce a essere stucchevole anche nella sua estrema brevità.

La direzione musicale di Guillaume Tourniaire ha dinamiche trattenute e fraseggi monocromi che stentano a valorizzare gli affetti in scena e le sfumature della partitura. Il giovane maestro francese suda a profusione (2), ma non sempre il suo sforzo viene espresso dall’orchestra della Fenice.

Anche l’interpretazione di Carmela Remigio nel ruolo titolare è coerente con la lettura scelta da regista e direttore: controllo del vibrato, valorizzazione della parola, passione trattenuta. Dal timbro chiaro e dal volume limitato nel registro medio e basso, talora sovrastato dall’orchestra, il soprano abruzzese non ha la luminosità della Plowright o la sontuosità della Norman, grandi interpreti della parte, per non dire della più recente e sorprendente Antonacci a Parma. I duetti con Admeto, un Marlin Miller che denota quasi subito difficoltà vocali e un accento ben poco musicale soprattutto nei recitativi, non riescono a commuovere poiché non scatta nessuna scintilla di empatia tra i due interpreti e le due voci rimangono emotivamente distanti. Di avvenente figura e discreta voce la Ismene di Zuzana Marková. Accettabili gli altri cantanti. Imbarazzanti come sempre i pur volonterosi bambini.

(1) Per una messa in scena molto più intrigante e coinvolgente dell’opera di Gluck si veda quella di Krzysztof Warlikowski diretta da Ivor Bolton. L’ultimo prodotto della gestione al Teatro Real di Madrid di Gérard Mortier (morto l’8 marzo 2014 poco dopo la prima dell’opera), a differenza di questa di Venezia ha avuto grande risalto sulla stampa internazionale e di settore.

(2) Nella ripresa televisiva di FranceTv per CultureBox il regista video insiste impietosamente su primissimi piani, esaltati dall’alta definizione, poco lusinghieri per gli artisti e controproducenti alla visione d’insieme della scena.

Alceste

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★★★★☆

L’opera manifesto della riforma gluckiana

Per festeggiare la riapertura nel 1999 dello storico Théâtre du Châtelet dopo un periodo di restauri, vengono affidate a Sir John Eliot Gardi­ner (direttore) e a Robert Wilson (regista) le due opere di Gluck Orphée et Euridice e Alceste.

Seconda opera della sua riforma di cui è il vero manifesto e prima delle sue opere a non utilizzare castrati, Alceste vie­ne rappresentata nel 1767 a Vienna in italiano su libretto del Calzabigi tratto dalla omonima tragedia di Euripide e in seguito ri­presa in francese su libretto di Le Bailly de Roullet come tragé­die-opéra in una versione più breve (Parigi, 1776) ed è questa la versione contenuta nel DVD.

Nella dedica all’arciduca d’Asburgo Leopoldo I, «l’umilissi­mo, devotissimo e obbligatissimo servo Cristoforo Gluck» così enuncia i suoi pro­positi: «Quando mi accinsi a scrive­re la musica per Alceste, ri­solsi di rinunziare a tutti quegli abusi, dovuti od a una malintesa va­nità dei cantanti od a una troppo docile remissività dei compositori, che hanno per troppo tempo deformato l’opera italiana e reso ridi­colo e seccante quello che era il più splendido degli spettacoli. Mi sono sforzato di ri­condurre la musica al suo vero compi­to di servire la poesia per mezzo della sua espressione, e di seguire le situazioni dell’intreccio, senza in­terrompere l’a­zione o soffocarla sotto inutile superfluità di ornamenti».

L’opera è caratterizzata da un rigore melodico e da un lirismo trattenuto che non l’hanno resa molto popolare. A ciò è da aggiungere un li­bretto che non può procurare lo stesso intrattenimento di altre opere, anche serie, trattando di sacrificio, morte e ricompensa della fedeltà coniugale.

Nella vicenda il re Admeto sta morendo e la moglie Alceste scopre da Apollo che il re si salverà solo se qualcuno si sacrificherà per lui. La donna accetta il sacrificio, ma il marito com­mosso dalla sua dedizione la segue nell’Ade. Come nell’Orphée et Euridice gli dèi alla fine concederanno ai due sposi di vivere entrambi. Fidelio e Alceste sono le opere della celebrazione dell’amore coniugale.

Ispirato dal teatro giapponese Nō, Robert Wilson affida agli interpre­ti una gestualità da bassorilievo, statica e solenne, coerente con il classicismo di quest’opera austera in cui si consuma il confronto, più intellettuale che appassionato, tra due sposi di fronte alla morte e la possibilità che il sacrificio di uno porti alla salvezza dell’altro. Anche qui come nell’ Orphée il blu è il colore domi­nante della scena sobria, se non minimalista. Un enig­matico cubo ruota len­tamente sul fondo e tutto è giocato dalle luci. In scena c’è soltanto l’immagi­ne di una statua colossale di un Apol­lo-kuros e alcuni pilastri. Pochi e sobri i movimenti coreografici di Giuseppe Frigeni e austeri i costumi della Par­meggiani. Il coro, quasi onnipresente come nella tragedia greca, qui canta nella fossa orchestrale. Tutto tende a creare un insieme perfetta­mente conso­no alla musica sostenuta dalla raffinata direzione di Sir Eliot Gardiner degli English Barock Soloists con i loro stru­menti d’epoca.

Nell’ottimo cast anche Yann Beuron, qui fisso in pochi gesti stereotipati, che non può sfogarsi nelle gag delle sue interpreta­zioni in Offenbach o Rameau. Più a suo agio sembra Anne So­phie von Otter nel ruolo del ti­tolo, vocalmen­te perfetta nella lim­pida linea melodica e intensa nell’ac­cento – qui bisogna esprimere tutto solo con la voce. Da notare che nel finale del pri­mo atto non canta la celeberrima aria «Divinités du Styx, mi­nistres de la mort» (cavallo di battaglia della Callas che interpretò la parte alla Scala nel 1954 con Giulini), bensì una sua versione «Ombres, larves, pâ­les com­pagnes de la mort», tratta da quella italiana, che solo nel primo verso ha lo stesso tema melodico. Il teno­re americano Paul Groves presta voce e pre­senza al tormentato re Admeto.

Bella la ripresa video di Brian Large. 135 minuti di musica e nessun extra.

  • Alceste, Bolton/Warlikowski,  Madrid, 27 febbraio 2014
  • Alceste, Tourniaire/Pizzi, Venezia, 24 marzo 2015

Orfeo ed Euridice

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★★★★☆

L’Orfeo iperstilizzato di Bob Wilson

Solo tre personaggi e 100 minuti di musica per una delle creazioni più importanti del teatro musicale occidentale e l’unica opera del settecento, al di fuori di Mozart, che sia rimasta stabilmente in re­pertorio. Ma­nifesto della riforma gluckiana dell’opera seria, qui vengono infrante e su­perate le vecchie convenzioni dell’opera ita­liana, con lo scopo di dare maggior impeto dram­matico all’azione. Non più arie con da capo e recitativi secchi, bensì pezzi di breve durata e legati strettamente l’uno all’altro per formare strutture più ampie mentre i recitativi, sempre accompagnati, sfociano nelle arie in modo naturale.

È il Calzabigi a spingere Gluck verso una nuova via, come dice egli stesso: «gli lessi l’Orfeo e gliene declamai più volte parecchi frammenti, sottolineando le sfumature della mia declamazione, le sospensioni, la lentezza, la rapidità, i suoni della voce, ora pesante, ora flessibile, di cui desideravo facesse uso nella sua composizione. Lo pregai contemporaneamente di bandire i passaggi, le cadenze, i ritornelli, e tutto ciò che di gotico, di barbaro, di stravagante è stato inserito nella nostra musica».

Orfeo ed Euridice fu rappresentato per la prima volta a Vienna il 5 ottobre 1762 su impulso del direttore generale degli spettacoli teatrali conte Giacomo Durazzo. Le danze furono curate dal coreografo italiano Gasparo Angiolini, che si faceva portatore di analoghe aspirazioni di riforma nel campo del balletto, in un’epoca che vide la nascita della nuova forma coreutica del “ballet d’action”.

Scrive Calzabigi nell'”Argomento” del suo libretto: «È noto Orfeo e celebre il suo lungo dolore nell’immatura morte della sua sposa Euridice. Morì ella nella Tracia; io per comodo dell’unità del luogo la suppongo morta nella Campagna felice presso al lago d’Averno», dove gli antichi poeti volevano uno degli accessi all’oltretomba. «Per adattar la favola alle nostre scene ho dovuto cambiar la catastrofe» introducendo un lieto fine.

Atto I. Scena prima. Un coro di ninfe e pastori si unisce ad Orfeo intorno alla tomba di Euridice, sua moglie, ed intona un solenne lamento funebre, mentre Orfeo non riesce se non ad invocare il nome di Euridice . Rimasto solo, Orfeo canta la sua disperazione. Scena seconda. Amore appare in scena e comunica ad Orfeo che gli dèi, impietositi, gli concedono di discendere agli inferi per tentar di riportare la moglie con sé, alla vita, ponendogli, come unica condizione, che lui non le rivolga lo sguardo finché non saranno ritornati in questo mondo. Amore incoraggia Orfeo: la sua sofferenza sarà di breve durata e lo invita intanto a farsi forza. Orfeo decide di affrontare il cimento .
Atto II. Scena prima.In un oscuro panorama di caverne rocciose, mostri e spettri dell’aldilà rifiutano inizialmente di ammettere Orfeo, in quanto persona vivente, nel mondo degli inferi, invocando contro di lui “le fiere Eumenidi” e “gli urli di Cerbero”, il mostruoso guardiano canino dell’Ade. Quando Orfeo, accompagnandosi con la sua lira, si appella alla pietà delle entità abitatrici degli inferi, egli viene dapprima interrotto da orrende grida di “No!”, ma, poi, gradualmente, intenerite dalla dolcezza del suo canto, esse gli dischiudono i “neri cardini” delle porte dell’Ade. Scena seconda. Siamo nei Campi Elisi. Orfeo arriva in scena ed è estasiato dalla bellezza e dalla purezza del luogo, ma non riesce a trovare sollievo nel paesaggio perché Euridice non è ancora con lui e implora quindi gli spiriti beati di condurgliela, cosa che essi fanno con un canto di estrema dolcezza.
Atto III. Scena prima. Sulla strada di uscita dall’Ade, Euridice si mostra dapprima entusiasta del suo ritorno alla vita, ma poi non riesce a comprendere l’atteggiamento del marito che rifiuta di abbracciarla ed anche solo di guardarla negli occhi e dato che a lui non è permesso rivelarle le condizioni impostegli dagli dèi, comincia a rimproverarlo e a dargli del traditore. Visto che Orfeo insiste nel suo atteggiamento di ritrosia e di reticenza, Euridice interpreta ciò come un segno di mancanza d’amore e rifiuta di andare avanti esprimendo l’angoscia che l’ha invasa. Incapace di resistere oltre, Orfeo si volta a guardare la moglie e ne provoca così di nuovo la morte. Orfeo canta allora la sua disperazione nell’aria più famosa dell’opera, la struggente “Che farò senza Euridice?” e decide, al termine, di darsi anch’egli la morte per riunirsi infine con lei nell’Ade. Scena seconda. A questo punto, però, deus ex machina, Amore riappare, ferma il braccio dell’eroe e, in premio alla sua fedeltà, ridona una seconda volta la vita ad Euridice. Scena terza ed ultima. L’ultima scena si svolge in un magnifico tempio destinato ad Amore, dove, dopo un balletto i tre protagonisti e il coro cantano le lodi del sentimento amoroso e della fedeltà.

Tre sono le versioni principali di quest’opera:

  • Orfeo ed Euridice, Vienna 1762, tre atti, in italiano, su libretto di Ranieri de’ Calzabigi con la parte del protagonista per il contraltista castrato Gaetano Guadagni;

  • Orphée et Euridice, Parigi 1774, tre atti, in francese, su libretto ampliato di Pierre-Louis Moline con nuovi numeri musicali, nuova orchestrazione e la parte del protagonista traspo­sta per l’haute-contre Joseph Legros; alla fine della scena seconda dell’atto I è aggiunta l’aria di  bravura all’italiana “L’espoir renaît dans mon âme”; alla fine della scena prima dell’atto II una “Danza delle furie”; all’inizio della scena seconda il breve balletto del 1762 diventa la più elaborata “Danza degli spiriti beati” in quattro movimenti; nella scena terza dell’atto III coro “L’Amour triomphe” precede il balletto.

  • Orphée et Eurydice, Parigi 1859, quattro atti, ovviamente in francese, riadattamento di Berlioz con la parte principale trasposta per il mezzosoprano Pauline Viardot, nuovi recitativi e nuova orchestrazione.

John Eliot Gardiner, che nel 1989 aveva inciso l’opera nell’edizione Berlioz e nel 1991 quella viennese con gli English Ba­rock Solists, in questa edizione del 1999 allo Châtelet ritorna alla versione Ber­lioz con l’Or­chestre Révolutionnaire et Romantique, ma per con­cludere degnamente il primo atto non rinuncia a in­trodurre l’aria «Amour, viens rendre à mon âme», un bellissimo pezzo di bravura e agilità con tanto di da capo con variazioni e cadenza finale, che sembra contraddire l’assunto della riforma che Gluck voleva intra­prendere con quest’opera. (1)

L’azione drammatica in questo Orfeo di Gluck è semplificata al massimo: Euridice è già morta all’alzarsi del sipario e nel­la prima scena, mentre Orfeo piange la dipartita dell’amata, giunge Amore che gli comunica come gli dèi impietositi gli concedano di riporta­re dall’Ade la sposa a condizione che non le ri­volga lo sguardo fin­ché non ne è fuori. Come sap­piamo, Orfeo non resiste, perde Euri­dice e vuole uccidersi. Amore però ri­torna e come premio di fedel­tà ridona una seconda volta vita alla spo­sa.

Gardiner dirige con piglio e grande sensibilità la bellissima orchestra (che meraviglia gli ottoni!), assecondato dai tre eccel­lenti interpreti: la splendida Magdalena Kožená nel ruolo del titolo, Madeline Bender come Euridice e nel ruolo di Amore una Petibon ancora non così famosa.

Un altro punto di forza dello spettacolo è ovviamente la visualizzazione di Bob Wilson. In un total blu e in assenza o quasi di scene (una roc­cia, due cipressi…), tutto è giocato dalla luce e dai contrasti visivi tra le silhouette bidimensionali dei personaggi e gli sfondi, come nel teatro giavanese di marionette. Niente ballet­ti, ma solo i movimenti rarefatti e stilizzati degli interpreti e dei coristi. Ottima la ripresa televisiva di Brian Large.

Nessun extra nel disco – come se regista e direttore non avessero nulla da dire! – ma tonnellate di pubblicità. Nemmeno uno straccio di opuscolo, l’EMI aveva proprio necessità di risparmiare…

(1) Si tratta di un’aria che Gluck aveva già utilizzato in due precedenti lavori:  Il Parnaso confuso (1765) e l’atto di “Aristeo” ne Le feste d’Apollo (1769). L’aria, la cui paternità è contesa con il musicista italiano coevo Ferdinando Bertoni, fu poi notevolmente rimaneggiata da Camille Saint-Saëns e Pauline Viardot per l’edizione Berlioz del 1859 e fu infine tradotta in italiano (“Addio, addio, miei sospiri”) nella versione a stampa della Ricordi del 1889.