Salvadore Cammarano

Il trovatore

Giuseppe Verdi, Le trouvère

★★★☆☆

Parma, Teatro Farnese, 29 September 2018

 Qui la versione in italiano

Robert Wilson’s lunar Trouvère

Parma’s Verdi Festival presents less frequented versions of the composer’s output. After opening with Macbeth in its 1847 original edition, it is now the turn of Le trouvère, the Parisian version of Il trovatore, adapted for Paris in 1857.

Obviously, Verdi had to add a ballet in Act 3 that was requested in the French capital, but Azucena’s role underwent some changes too, with 24 extra bars to her tale when she tries to raise the Count’s compassion. Act 4 was also modified: Leonora is deprived of her cabaletta, thus shifting the dramaturgical balance of the opera towards Azucena…

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Il trovatore

Giuseppe Verdi, Il trovatore

★★★☆☆

Turin, Teatro Regio, 10 October 2018

  Qui la versione in italiano

In Turin’s Trovatore, the women carry the day

Time was when it was the least performed work of Verdi’s popular trilogy. Now there is no theatre in Italy that does not put Il trovatore on stage and many opera seasons open with this title, as is the case of Turin’s Teatro Regio.

A rare work by Umberto Giordano, Siberia, was planned for the opening, but the replacement of the theatre manager and resulting resignation of musical director Gianandrea Noseda led to a revolution in the billboard that now displays an utterly autarchical choice: only works by Italian composers are present, only the most popular and in settings of guaranted tradition, like this 2005 production…

 

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Lucie de Lammermoor

Gaetano Donizetti, Lucie de Lammermoor

direzione di Evelino Pidò

regia di Patrice Caurier e Moshe Leiser

gennaio 2002, Opéra Nouvel, Lione

È disponibile in rete il video tramesso a suo tempo dalla televisione satellitare francese della produzione di Lione del dramma di Donizetti. Si tratta di una ghiotta occasione per conoscere la versione francese data a Parigi nel 1839 al Théâtre de la Renaissance, due anni dopo la presentazione dell’edizione italiana al Théâtre-Italien in cui si erano esibiti la Fanny Tacchinardi Persiani (del debutto italiano) e Giovanni Battista Rubini. Nel 1846 Lucie de Lammermoor ritornerà, ma questa volta all’Opéra con Maria Dolores Nau e Gilbert-Louis Duprez, colui che aveva creato il ruolo di Edgardo a Napoli il 26 settembre 1835.

Nelle parole dell’Ashbrook ecco le differenze nella bella e concisa versione francese di Alphonse Rouer e Gustave Vaëz: «La partitura venne considerevolmente modificata, principalmente per adeguarla alle limitate risorse finanziarie, nonché artistiche, della compagnia del Renaissance. La prima scena spiega gli antefatti della vicenda in modo piú chiaro rispetto alla versione italiana; i recitativi che inquadrano il Larghetto di Henri sono riscritti e Arthur entra finita la cabaletta di Henri mentre viene ripetuto il coro iniziale, dopo di che tutti partono per la caccia. Non vi è cambiamento di scena prima della comparsa di Lucia, manca l'”a solo” di arpa e la protagonista fa la sua entrata con le arie di Rosmonda d’Inghilterra ora diventate “Que n’avons nous des ailes” e “Toi par qui mon coeur rayonne”. Il personaggio di Alisa è soppresso e la sua parte nel sestetto è assunta da un nuovo personaggio, Gilbert, il quale si presenta come un miscuglio di Normanno e Alisa. Egli esce di scena prima delle arie di Lucia, le quali non hanno tempo di mezzo, dopo che essa gli ha consegnato un borsellino in cambio della promessa di vigilare su di lei. Non vi sono altri cambiamenti importanti nel primo atto. Il recitativo che precede il duetto Lucie-Henri è nuovo e rivela la falsità di Gilbert. La scena fra Lucia e Raimondo è soppressa. Subito prima del sestetto, alcune delle esclamazioni generali sono adattate a voci singole e la stretta conclusiva è molto scorciata. Il terzo atto è alquanto rielaborato al fine di ridurre il numero delle scene richieste. Comincia con il coro nuziale, seguito dall’arrivo di Edgard in casa di Ashton al quale lancia la sfida. Il duetto tenore-baritono è seguito da una ripetizione del coro nuziale, ma quando sopraggiunge Raimond con la terribile notizia, questa è annunziata non piú in un’aria ma in un recitativo di otto battute. Il raccordo fra la reazione del coro alle notizie di Raimond e il recitativo prima della scena della follia (qui nella tonalità originale di Fa) è modificato: due frasi di Raimond, senza commento, del coro. Il recitativo iniziale della scena della follia è lievemente abbreviato, ma le arie sono le stesse, il cambiamento principale consiste nell’eliminazione durante il tempo di mezzo (qui in Mi) dei commenti degli altri personaggi mentre canta Lucia e in un cospicuo taglio prima della cabaletta. Dopo quest’ultima viene eliminato il recitativo di Raimond e Normanno. Durante la scena del sepolcro, tutto resta uguale fino al momento in cui Edgard si pugnala; qui figurano tre nuove battute mentre sopraggiunge Henri per battersi in duello. La seconda esposizione della cabaletta corrisponde a quella della partitura italiana. L’ultima diversità riguarda una parte per Henri aggiunta nel corpo del Più allegro conclusivo. Se si eccettuano i brani di recitativo, Donizetti non compose pressoché nulla di nuovo per Lucie de Lammermoor, falcidiando invece l’originale italiano in modo da rendere l’opera eseguibile da parte di una piccola compagnia. Salvo per quanto riguarda la più chiara esposizione della vicenda, Lucie non può essere considerata come una soddisfacente alternativa alla versione originale in italiano». (1)

Io non sono del tutto d’accordo con lo studioso americano e non lo è neppure Elvio Giudici per il quale nel lavoro dei due librettisti c’è una «migliore modellatura della vicenda, che acquista parecchio sia in comprensione sia in logica di sviluppo pur sfumando parecchie fisionomie la cui sgradevolezza sarebbe invece importante snodo drammaturgico. L’abbastanza repellente figura di Raimondo, classico leccapiedi del potente pronto a ogni riscatto morale pur di favorirne i disegni, perde rilievo circoscrivendo la sua presenza». Diverso il discorso per la parte titolare: l’eliminazione dell’aria “Regnava nel silenzio” sostituita dalla traduzione di “Perché non ho nel vento” della Rosmonda, porta alla perdita del “fantasma” (di cui si è fatto eccessivo uso nelle regie più recenti) e a una minore definizione del personaggio di Lucie – se in scena non ci fosse però Natalie Dessay… Geniale è invece aver eliminato il personaggio di Alisa: Lucie rimane l’unico personaggio femminile in questo universo dominato dal testosterone maschile. Nell’allestimento di Patrice Caurier e Moshe Leiser anche il coro della festa è rappresentato tutto al maschile, le scenografie sono essenziali e tutto è lasciato in ombra affinché risalti la psicologia dei personaggi evidenziati da intensi primi piani dalla regia video. Costumi d’epoca di grande eleganza e luci radenti formano uno spettacolo intrigante.

Non è solo per ragioni di marketing che Sebastian Na è sostituito da Roberto Alagna nell’edizione discografica. Al tenore coreano, di cui si è persa traccia, non è che manchi lo squillo richiesto dalla parte di Edgard Ravenswood, ma a parte la dizione, il tono è generalmente lamentoso. La scintilla fra i due cantanti non scatta mai, nonostante la trascinante direzione di Pidò. Natalie Dessay è una sublime Lucie che fa star male dall’emozione che suscita, purtroppo furono solo due le recite in cui fu presente prima di essere sostituita da Patrizia Ciofi. Un po’ ingessato come il suo solito Ludovic Tézier, l’inesorabile fratello Henri Ashton, ma così risalta meglio il personaggio. Marc Laho è un giustamente fatuo Arthur, Nicolas Cavallier è Raymond (ruolo molto ridimensionato come s’è detto rispetto all’originale Raimondo) e Yves Saelens un incisivo Gilbert, il perfido personaggio nuovo.

Per riassumere, tre sono le edizioni disponibili di questo spettacolo di Lione: il CD Erato con Natalie Dessay e Roberto Alagna; il DVD Bel Air con Patrizia Ciofi e Alagna; la trasmissione video di Mezzo con Dessay e Sebastian Na.

(1) Ecco la struttura dell’opera nella versione di Parigi:
Atto I
1. Introduction et Choeur
2. Scène et air avec Choeur (Gilbert, Henri, Choeur)
3. Scène et Choeur (Arthur, Henri, choeur, Gilbert)
4. Scène et cavatine (Gilbert, Lucie)
5. Scène et Duo (Edgard, Lucie)
Atto II
6. Scène et Duo (Henri, Gilbert, Lucie)
7. Finale (Choeur, Arthur, Henri)
8. Scène et Sextuor (Edgard, Henri, Lucie, Arthur, Raimond, Choeur)
9. Suite et Strette du Finale (Henri, Arthur, Edgard, Raimond, Lucie)
Atto III
10. Entracte
11. Récitatif et Duo (Henri, Gilbert, Edgard)
12. Choeur sur le théâtre
13. Scène et Choeur (Raimond, Choeur)
14. Scène et Air (Lucie, Choeur)
15. Scène et Air (Edgard, Raimond, Choeur)

Il trovatore

Giuseppe Verdi, Il trovatore

★★★☆☆

Torino, Teatro Regio, 10 ottobre 2018

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Nel Trovatore di Torino sono le donne a primeggiare

Una volta era l’opera della trilogia popolare verdiana meno rappresentata, ora non c’è teatro in Italia che non la metta in scena e molti aprono la loro stagione lirica proprio con Il trovatore, così come fa il Teatro Regio di Torino.

Per l’inaugurazione era prevista una rara opera di Umberto Giordano, Siberia, ma le vicissitudini subite col cambio di soprintendente e le conseguenti dimissioni del direttore musicale Gianandrea Noseda hanno portato a una rivoluzione nel cartellone che ora si presenta in forma del tutto autarchica: solo opere di autori italiani, le più popolari e in allestimenti di rassicurante tradizione, come questo spettacolo che recupera una produzione bolognese del 2005.

Ben distante da Le trouvère “lunaire” parmense di Robert Wilson – anche se qui un’enorme luna piena sovrasta la scena – la regia di Paul Curran non aveva destato soverchi entusiasmi tredici anni fa e non li desta neppure adesso. La lettura del regista scozzese è lineare, descrittiva e non si scosta dalla tradizione anche se sposta l’ambientazione in epoca risorgimentale, quella della composizone dell’opera (1851-1853), che i costumi di Kevin Knight aiutano a definire: i soldati del Conte con le loro giubbe rosse qui sembrano volontari di Garibaldi e le donne sfoggiano ampie gonne e corpetti stretti in vita. Alcune trovate sceniche vanno contro la drammaturgia prevista da Verdi, come la presenza di Azucena durante duetto Manrico-Leonora in carcere, mentre il libretto prescrive che si svegli solo poco prima del finale in cerca del figlio. O come l’uccisione di Manrico in scena, con una pistola finta di cui si sente il clic fuori tempo sul tremolo degli archi prima del finale in fortissimo.

Il regista evidenzia il clima bellico e passionale dell’opera nella scena dell’accampamento che apre il terzo quadro, “Il figlio della zingara”. Prima ancora che si ascoltino le note di inizio, una donna urlante irrompe davanti al sipario braccata da due soldati. La stessa donna la vedremo insanguinata ed esamine alla fine della scena. I disastri della guerra non hanno età e colpiscono sempre i più deboli e le donne in primis. Le scenografie, dello stesso Kevin Knight, sono formate da un’alta scalinata che scorre e si apre per formare altri spazi, e da due bastioni laterali, il tutto scuro e incombente. Le tenebre qui regnano sovrane, punteggiate dalle fioche lampade delle religiose e dalle fiaccole dei monaci durante il Miserere.

All’atmosfera cupa in scena corrisponde la direzione piena di contrasti di Pinchas Steinberg che sceglie la tradizione dei tagli e dei rallentandi per la sua lettura della partitura, non priva di efficacia, però non evita talora l’effetto zum-pa-pa di certi accompagnamenti.

Nel cast vocale primeggiano le voci femminili. Inizialmente Verdi voleva intitolare il lavoro col nome della zingara poi, dopo la morte prematura del librettista Cammarano, il compositore aveva sviluppato ulteriormente la parte di Leonora, salvo poi a evidenziare nuovamente quella di Azucena nella versione francese del 1857. La maggior cura psicologica qui è dedicata ai due personaggi femminili e in scena qui a Torino due grandi interpreti sembrano dar ragione al compositore. Il soprano americano Rachel Willis-Sørensen debutta nel ruolo di Leonora, il suo secondo ruolo verdiano, e incanta il pubblico torinese con la sua bella linea di canto, una voce dal timbro particolare ma molto ben proiettata e dalla dizione perfetta. Più esaltante nei momenti lirici che in quelli di agilità, delinea una Leonora difficile da dimenticare. Sulla prestazione di Anna Maria Chiuri si andava sul sicuro: sono noti il temperamento e la ricca vocalità del mezzosoprano, appropriati per definire la figura di Azucena, una donna investita di una missione ineludibile, quella di vendicare la morte della madre sul rogo. Le alterne passioni che agitano la donna sono rese con grande mestiere dalla Chiuri che alterna a pianissimi sussurrati scoppi di emotività incontrollata, quella stessa emotività che l’ha portata a scambiare sul rogo il proprio figlio con quello dell’aborrito Conte.

Deludente il Manrico di Diego Torre: il tenore messicano, allievo del Domingo-Thornton Young Artist’s Program di Los Angeles, è scenicamente impacciato in un personaggio che il libretto vuole misterioso, sfuggente. Vocalmente è poco gradevole, il timbro è ingolato e la dizione non sempre cristallina. Il momento della “Pira” manca di pathos e gli acuti sono tutt’altro che luminosi. Massimo Cavalletti è un elegante Conte di Luna, qui personaggio meno cattivo del solito, che convince più nei momenti di riflessione lirica che in quelli di sdegno e gelosia. 

Le trouvère

Giuseppe Verdi, Le trouvère

Parma, Teatro Farnese, 29 settembre 2018

★★★☆☆

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Il Trouvère lunaire di Robert Wilson

Continua la proposta del Festival di Parma di opere di Verdi in versioni meno frequentate. Dopo l’inaugurazione col Macbeth nella versione originale del 1847, è ora la volta di Le trouvère, edizione parigina de Il trovatore del 1857.

Ovviamente erano stati aggiunti i ballabili, di prammatica per le abitudini teatrali della capitale francese, ma anche la parte di Azucena aveva subito alcune modifiche con l’aggiunta di 24 battute alle 72 del suo racconto con cui nel terzo atto cerca di impietosire il conte. Modificato è anche l’ultimo atto: Leonora perde la cabaletta della sua aria spostando così l’equilibrio drammaturgico dell’opera sulla figura di Azucena, che in questa nuova versione è dominante, affermando così il predominio dell’amore di Manrico per la madre sull’amore per Leonora – e il fatto che Azucena non sia la vera madre aggiunge un ulteriore beffardo elemento alla tragica vicenda. Il finale diventa più complesso, con la ripresa del tema del Miserere e alcune battute in più. Altre piccole modifiche riguardano soprattutto le arie di Leonora, dettate dalla necessità di adattare il ruolo a quello parigino, interpretato dal soprano Pauline Gueymard-Lauters. (1)

Oltre alla rarità della proposta, altri due sono gli elementi di curiosità dello spettacolo: la location e la messa in scena. Per la terza e forse ultima volta il Festival Verdi sceglie il Teatro Farnese per allestire un’opera di Verdi, ma a parte l’exploit di Graham Vick che l’anno scorso aveva utilizzato in maniera geniale gli spazi straordinari della sala lignea all’interno del Palazzo della Pilotta per il suo Stiffelio, gli altri registi si sono dimostrati intimoriti dall’ambiente e non ne hanno sfruttato le peculiarità. Non fa eccezione neppure Robert Wilson a cui viene affidata la messa in scena di questo Trouvère: il pubblico siede nella parte bassa della sala, l’azione avviene sul piccolo palcoscenico e le gradinate rimangono vuote, inutilizzate. Nell’enorme ambiente il suono riverbera in maniera eccessiva mentre le voci laggiù in quella piccola scatola risultano affievolite e intubate.

Roberto Abbado alla guida dell’Orchestra del Comunale di Bologna si adatta alla visione del regista e dopo essersi abituati alla particolare acustica del luogo si apprezza il suo approccio alla partitura di cui esalta i colori strumentali e gli slanci melodici che non eccedono mai nel melodrammatico. Il Trouvère francese è meno sanguigno di quello italiano e Abbado ne coglie perfettamente l’essenza.

Giuseppe Gipali non è un Manrico eroico: qui il protagonista è più romantico, la linea di canto è elegante, manca forse di passionalità, ma le sue invettive sono coronate da acuti emessi con sicurezza e luminosità. Franco Vassallo è un Conte di Luna autorevole e poderoso, il più festeggiato della serata. Roberta Mantegna è una Leonora sensibile caratterizzata da un particolare vibrato vecchia scuola. Il soprano mette in evidenza buone doti di belcantista nelle variazioni appositamente scritte per la parte francese che danno al suo ruolo un accento quasi massenettiano. Vocalmente efficace è l’Azucena giovane e attraente di Nino Surguladze. Dizione un po’ approssimativa per comprimari e coro, più che accettabile quella degli interpreti principali.

Se si pensa a un colore da abbinare al Trovatore si pensa al rosso del rogo che ha arso il neonato di cui si racconta a inizio opera o della pira con cui si conclude, per non dire del fuoco delle passioni che avvincono i protagonisti di questo drammone spagnolo. Bob Wilson immerge la vicenda in una fredda atmosfera lunare racchiusa in una scatola dalle pareti grigie in cui si aprono rettangoli luminosi e porte di altezza diversa. La sua lettura è in totale antitesi con lo spirito da grand-opéra del Trouvère parigino e i grovigli passionali ed emotivi intrecciati fra i protagonisti sono immersi in un acquario popolato da figurine bidimensionali. Meglio, ne escono depurati: la geometria delle relazioni si rispecchia nella sua lettura minimalista, una costruzione architettonica di grande fascino. Tanto l’azione del Trovatore è veloce, quanto rallentato è il passo della messa in scena di Wilson.

Assieme a trovate come le luci che intensificano l’intensità nei momenti più drammatici o la presenza in scena di strani personaggi avulsi dalla vicenda, sorprende invece la soluzione dei ballabili del terzo atto: invece di una coreografia più o meno tradizionale, entrano in scena dei pugili che con i loro saltelli riempiono questi interminabili venti minuti. Su una sedia un vegliardo dalla barba bianca, che prima si poteva scambiare per Verdi, ora sembra Degas senza le sue ballerine. Sul fondo ripassa la balia con la carrozzina, ora ridotta a scheletro dopo il rogo.

Quarant’anni fa, subito dopo Einstein on the Beach, gli avevano chiesto di mettere in scena un’opera di Verdi e il regista texano aveva risposto «Non farò mai Verdi!». E invece, eccolo qua alla sua quarta produzione verdiana.

(1) Per un’analisi più estesa delle differenze, vedere qui.

Lucia di Lammermoor

Gaetano Donizetti, Lucia di Lammermoor

★★★★★

Madrid, Teatro Real, 7 luglio 2018

(video streaming)

Se fosse un film, la fotografia sarebbe da premio Oscar

Nel teatro a forma di cassa da morto di fronte al Palazzo Reale di Madrid, va in scena l’opera di Donizetti. Annunciata come la Lucia integrale – in quanto i tagli sono stati eliminati, ripristinate riprese, cadenze e le pagine spesso omesse – la sua durata arriva quasi alle tre ore, compresi i lunghi applausi a scena aperta, il bis del concertato del matrimonio richiesto insistentemente da un pubblico in delirio e i dieci minuti di ovazioni finali.

«La promessa sposa di Lammermoor, istorico romanzo dell’Ariosto scozzese, mi parve subbietto più che altro acconcio per le scene: però non deggio tacere, che nel dargli la forma drammatica, sotto di cui oso presentarlo, mi si opposero non pochi ostacoli, per superare i quali fu mestieri allontanarmi più che non pensava dalle tracce di Walter Scott. Spero quindi, che l’aver tolto dal novero de’ miei personaggi taluno di quelli che pur sono fra i principali del romanzo, e la morte del Sere di Ravenswood diversamente da me condotta (per tacere di altre men rilevanti modificazioni) spero che tutto questo non mi venga imputato come a stolta temerità; avendomi soltanto a ciò indotto i limiti troppo angusti delle severe leggi drammatiche». Così avverte il librettista Salvadore Cammarano a prefazione del suo dramma tragico in due parti. David Alden non pecca di “stolta temerità” e per una volta la sua lettura del lavoro donizettiano non si scosta molto dal dettato tradizionale, se non per l’ambientazione più tarda: dalla Scozia del secolo XVI siamo passati a quella vittoriana, epoca in cui il destino delle donne non è poi cambiato di molto.

Le lugubri note iniziali ci introducono nella severa ma malmessa dimora dei Ravenswood nella magnifica scenografia disegnata da Charles Edwards. Il coro iniziale rimane fuori della grande stanza col lettino di ferro su cui si agita Lucia mentre il fratello riguarda i ritratti fotografici della sua “prosapia”. È ancora con uno di questi in mano che Enrico rimane davanti al sipario che si è abbassato alla fine della scena terza. Il preludiare dell’arpa è qui riferito non alle zampillanti gocce della “fontana della Sirena”, «altra volta coperta da un bell’edifizio, ornato di tutti i fregi della gotica architettura, al presente dai rottami di quest’edifizio sol cinta», ma ai pensieri foschi di Enrico. Non ci sono esterni in questa visione claustrofobica: Lucia è una reclusa, siede sul davanzale interno di quello che sembra un boccascena chiuso da un pesante cortinaggio da cui uscirà Edgardo. Alisa striscia lungo il muro, terrorizzata dall’«orribile periglio» e il racconto della ragazza aumenta ancora di più il suo sgomento: l’atmosfera e l’ambientazione potrebbero essere quelle di un racconto di fantasmi di Henry James. Efficacissimo a questo scopo il gioco di luci – e ombre – di Adam Silverman. Il coro gioioso «Per te d’immenso giubilo» non potrebbe essere più lugubre con quei vestiti e quei visi che gareggiano in tetraggine con i vecchi dagherrotipi appesi alle pareti. L’ormai imprenscindibile glasharmonica qui risulta ancora più spettrale e solo quando Lucia mostra l’altra metà del corpo vediamo il sangue di cui è macchiata. Durante il suo delirio la tenda si apre per rivelare il corpo insanguinato di Arturo con la mano chiusa nel rigor mortis alla sottoveste di Lucia. Un film dell’orrore. Il tutto è visto come una recita («Ditemi: vera è l’atroce scena?» chiede Enrico), una sanguinosa messinscena applaudita al rallentatore dagli invitati, qui morbosi spettatori. Negli interminabili applausi che salutano il termine della scena della pazzia, Lucia rimane in una posa da crocefissa vittima dei maschi: un fratello che usa il suo corpo per ripianare i debiti, un confessore che la raggira, un amante impetuoso che l’abbandona, uno sposo detestato.

La messa in scena di Alden, nata nel 2008 per la English National Opera, punta a una forte definizione dei personaggi: l’Enrico e gli scagnozzi ubriachi nella scena della torre (qui tutt’altro che discussione tra gentlemen), l’Edgardo un po’ truzzo in kilt, la fragilità infantile di Lucia, con le sue bambole e i suoi orsacchiotti, il che rende ancora più sconvolgente il suo atto di sangue.

Peccato per gli applausi che spezzano la tensione drammatica di questa tesa e coinvolgente lettura, ma il pubblico madrileno non riesce a contenere il suo entusiasmo per un cast difficilmente uguagliabile. Lucia è Lisette Oropesa dal timbro affascinante e dal gradevole vibrato. Perfettamente in sintonia con la lettura del regista, il soprano lirico americano emoziona con la sua intensa presenza scenica, l’espressività delle frasi e una performance vocale sorprendente fatta di filati e legati impeccabili, acuti luminosi, lunghi fiati e mezze voci purissime. Debuttante nel ruolo, ma sicuro e con puntature prodigiose, è l’Edgardo di Javier Camarena, timbro chiaro e ben proiettato, mezzi vocali ben padroneggiati, declamati scolpiti nella parola, incantevoli mezze voci, slanci lirici appassionati e una dizione perfetta. Per una volta gli interpreti stranieri non sono da meno, riguardo alla corretta pronuncia, nei confronti dell’unico italiano del cast, l’autorevole Roberto Tagliavini, elegante e signorile Raimondo. Artur Ruciński è un Enrico che ha un rapporto autoritario ma anche morboso con la sorella. Il baritono polacco dimostra anche qui il suo grande temperamento e la sicura vocalità. Pur nella sua perfetta tecnica vocale Yijie Shi non fa molto per rendere più consistente la figura di Lord Arturo da vivo.

Assieme al magnifico coro, la direzione di Daniel Oren svela particolari quasi inediti di una partitura restituita con colori e dinamiche sempre cangianti. Il direttore non frena i cantanti che con le loro puntature galvanizzano il pubblico. Difficile restare insensibili dopo il sopracuto lanciato nel finale di una cabaletta: è fisiologico, un riflesso condizionato a cui non si sfugge. Ma l’opera, soprattutto quella dell’Ottocento, è anche questo.

Lucia di Lammermoor

Gaetano Donizetti, Lucia di Lammermoor

★★★☆☆

Losanna, Opéra, 4 ottobre 2017

(video streaming)

La Lucia splatter di Poda

Questa produzione dell’Opéra de Lausanne del capolavoro romantico di Donizetti si avvale della visionarietà di Stefano Poda. Come al solito il regista si occupa anche di scene, luci e costumi: un mondo astratto e stilizzato tutto al maschile, nero, opprimente quando non brutale. Strutture geometriche che salgono e scendono, il castello degli Ashton è una scaffalatura di tubi che pullula di minacciose figure maschili in lunghe palandrane nere, altre strutture geometriche scenderanno e saliranno: una cubica a ingabbiare Lucia nella scena del parco dell’atto primo. Nella stessa gabbia Edgardo canterà «Tombe degli avi miei».

L’attualizzazione dell’ambientazione è ormai di prammatica di questi tempi, né sfuggono a questo neoconformismo i costumi, tutti rigorosamente in nero. Sola macchia di colore è quello di Lucia prima in rosso e poi in bianco come lo sposo, un bianco però presto insozzato di sangue. La freddezza della lettura di Poda nella scena della pazzia incontra lo splatter con una profusione di liquido rosso sul corpo nudo di Arturo assassinato su cui si adagia la donna scambiandolo per Edgardo. Nel finale Edgardo li raggiunge tagliandosi la gola e aggiungendo altro sangue a quello già presente.

Come sempre totale è l’assenza di regia attoriale e gli interpreti ci mettono del loro, ma continuano a vagare per la scena come il resto del coro deambulante al rallentatore. Momenti efficaci come quando Lucia denuda il petto quale vittima sacrificale allorché cede alle pressioni del fratello a sposarsi, si alternano ad altri più lambiccati o al limite del ridicolo come nell’“assunzione” finale quando i due salgono “in cielo” e per terra rimane il cadavere insanguinato di Arturo.

L’accompagnamento della glasharmonica è ormai, giustamente, di rigore e in questo allestimento il suono irreale dello strumento si riflette nella miriade di coppe di cristallo sulla tavola degli invitati che, pure loro chini sui bicchieri, passano il dito sull’orlo con sguardo stralunato.

I due protagonisti sono entrambi debuttanti nel ruolo e ciò rende ancora più pregevoli le loro performance. Lucia è Lenneke Ruiten, che supera le difficoltà della parte con una tecnica ragguardevole e un bel volume di voce. Se risulta un po’ fredda all’inizio nel cantabile «Regnava nel silenzio», nella seconda parte della scena della pazzia in «Spargi d’amaro pianto» le agilità sono grida di dolore e il soprano olandese raggiunge un’intensità stupefacente appena incrinata da due acuti un po’ troppo gridati. Airam Hernández è un Edgardo giovanile e squillante che però offre il meglio nel finale con colori e toni molto ben sfumati. Grossolano e stentoreo l’Enrico di Ángel Ódena che non conosce mezze tinte. Sarebbe meglio il Raimondo di Patrick Bolleire se non fosse per una voce ingolata e una improponibile dizione impastata in cui poche sono le parole non storpiate. Eppure siamo a pochi chilometri dal confine italiano! Non molto meglio sono Normanno e Arturo. Eccellente, invece, pur nella parte esigua, l’Alisa di Cristina Segura.

La direzione musicale di Jesús López-Cobos è intensa e teatrale ma se la deve vedere con un coro piuttosto impreciso che mette spesso in sfasamento il palcoscenico con la buca. Il maestro apre giustamente tutti i tagli di tradizione, compresa la scena della torre di Wolferag, dando però così più spazio al ruolo di Enrico, purtroppo.

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Il trovatore

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Giuseppe Verdi, Il trovatore

★★★☆☆

Londra, Royal Opera House, 31 gennaio 2017

(live streaming)

Il tank del Conte di Luna

Non sempre l’attualizzazione fa bene a un’opera: trasformare una faida famigliare di inizio ‘400 in una guerra moderna con tanto di carri armati e mitragliatrici, trasportando quindi la vicenda – con annessi e connessi di trovatori, duelli al pugnale, roghi di streghe, fughe in convento, serenate e liuti – ai giorni nostri, non trasforma Il trovatore in qualcosa di più logicamente ammissibile di quanto sia, né rende più accettabile l’assurda vicenda di infanticidio e vendetta narrata dal Gutiérrez, messa in rima dal Cammarano e musicata da Verdi.

David Bösch e lo scenografo Patrick Bannwart non usano la mano leggera nel trasferire la storia del giovane combattuto tra l’amore per l’infelice amata e l’affetto per la donna che crede essere sua madre in paesaggi, presumibilmente balcanici, devastati da guerre civili, divisi da fili spinati e teatro di crudeltà gratuite e incongrue. Ovunque è devastazione nella messa in scena del regista tedesco, un mondo tutto grigio ravvivato solo dai colori sgargianti dei costumi degli zingari, una troupe di circo felliniano che si muove su veicoli improvvisati, con Azucena su una roulotte disseminata di lugubri bambolotti. Il regista ha infantili cadute di gusto come quando Leonora incide L♡M sul tronco di un albero spoglio, o la bottiglietta di veleno che porta appesa al collo con una catenina, i bianchi fiori di carta sugli alberi scheletriti, le ingenue proiezioni video. Questa è la terza ripresa della produzione di Bösch alla Royal Opera House e molti particolari di quella originale sono stati abbandonati o modificati – un selfie col prigioniero, farfalle sfarfallanti, la testa di Manrico che rotola come una palla… – ma la messa in scena ancora non convince e la regia attoriale è sempre latitante.

Non si contesta invece l’aspetto musicale della rappresentazione. Star indiscussa della serata è ancora una volta Anita Rachvelishvili, fatta segno di meritate ovazioni. Debuttante nel ruolo, si è subito dimostrata un’Azucena memorabile: pur con tutta la potenza vocale in possesso, è nelle mezze voci del suo racconto allucinato, nella mesta dolcezza di «Ai nostri monti», nel soffocato grido finale «Era tuo fratello!» che va ricercata la grandezza di un’artista che tramuta in oro tutto quello che fa, contendendo spesso i riflettori ai protagonisti titolari – che si tratti della sua Amneris in Aida, Ljubaša ne La sposa dello zar o Končakovna nel Principe Igor. Per non parlare delle sue indimenticabili Carmen o Dalila.

Non che il ruolo del titolo non sia affidato a un illustre interprete, ma qui (magia dell’opera) il figlio Manrico ha il doppio degli anni della madre Azucena! Gregory Kunde è vocalmente il miracolo che conosciamo: il nobile fraseggio, l’espressività della parola, gli acuti luminosi – Kunde non ci priva neppure delle puntature di tradizione della «pira», anche se qui un po’ corte – ma è scenicamente che si fa fatica a riconoscere il giovane e irruente Manrico, qui travestito da hippy, nell’affascinante uomo di mezza età che porta con orgoglio i suoi anni.

Molto festeggiato dal pubblico anche l’altro interprete femminile, il soprano armeno Lianna Haroutounian che dipinge una Leonora dal bel timbro, eccellente dizione e con frasi splendidamente legate in cui è la liricità a prevalere, meno l’agilità richiesta dal compositore nell’aria «D’amor sulle ali rosee» con quei trilli un po’ schiacciati.

Conte di Luna è qui un terzo cantante di area orientale, l’ucraino Vitaliy Bilyy dalla generosa e bella vocalità. Assiduo del ruolo, ne «Il balen del suo sorriso», un suo cavallo di battaglia, ha infiammato il pubblico londinese, ma è forse quello che più ha sofferto della mancanza di regia sugli interpreti e il personaggio rimane rigido e indefinito.

Ancora un altro ucraino per Ferrando, cui presta la possente voce Alexander Tsymbalyuk, l’intenso Boris Godunov di Calixto Bieito.

In questa ripresa il direttore Richard Farnes prende il posto del nostro Noseda alla guida dell’orchestra reggendo bene il confronto: tempi non trascinanti ma complessivamente giusti, buona resa dei colori e delle frasi musicali, rispetto per la voce di cantanti. Ma qui c’è il sospetto di una amplificazione, cosa difficile da verificare in una sala cinematografica con il volume a pieni decibel.

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Lucia di Lammermoor

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Gaetano Donizetti, Lucia di Lammermoor

★★★☆☆

Torino, Teatro Regio, 13 e 14 maggio 2016

Il fantasma col secchio

Non ancora ripresi dallo choc della produzione londinese della Katie Mitchell di tre settimane fa vista in live streaming, i melomani torinesi affrontano un’altra Lucia senza tartan né romantiche rovine. Non solo non siamo tra le brughiere della Scozia di Sir Walter Scott e della sua Bride of Lammermoor, ma neanche «al declinare del secolo XVI», come indica Salvadore Cammarano, il librettista della quarantacinquesima opera di Gaetano Donizetti (1835).

Proveniente da Zurigo e Barcellona, l’allestimento di Damiano Michieletto si avvale della fedele collaborazione dello scenografo Paolo Fantin per costruire una scena unica minimalista costituita da una struttura sventrata e sbilenca in acciaio e cristallo («L’avvenimento ha luogo in Iscozia, parte nel castello di Ravenswood, parte nella rovinata Torre di Wolferag»), simbolo onnipresente della decadenza della casata. Questa volta però il regista veneziano non apporta nessuna sostanziale novità alla lettura del capolavoro donizettiano, tuttavia lo scarno allestimento ha il merito di mettere bene in luce lo straordinario taglio narrativo della vicenda: dal prolisso romanzo il librettista ha saputo ricavare sapientemente una serie di scene dal taglio quasi cinematografico in cui tutto è essenziale e non c’è nulla di ridondante.

Come ormai è invalso nelle produzioni degli ultimi anni anche qui abbiamo il fantasma della donna uccisa che vaga per il palcoscenico con cappellino e guanti bianchi (siamo negli anni ’50 secondo i costumi di Carla Teti), una “signorina grandi firme” che incede come su una passerella di moda portando un secchio d’acqua (!), sineddoche della fontana in cui è annegata, oppure una rosa che si infilza rumorosamente sul palcoscenico. Ed è lei che spingerà Lucia al suicidio dalla predetta torre.

Lo spettacolo non era iniziato male, con quella caccia a Edgardo che si rifugia nella torre braccato da uomini in divisa con torce elettriche che fendono il buio e con un cane lupo, poco interessato in verità a seguire le tracce del fuggitivo. L’arrivo di Enrico, testa pelata da gerarca fascista e cappottone di pelle, è anche efficace, ma poi la direzione attoriale si perde in trovate infelici come i calci nella pancia di Enrico nella scena del matrimonio, il twist degli invitati nella torre, l’arroganza di Arturo.

Jessica Pratt ha fatto di Lucia il suo ruolo di predilezione. Con un’emissione continua e omogenea nei registri, acuti luminosi e timbro di grande dolcezza, il soprano australiano mette in evidenza la liricità del ruolo piuttosto che l’agilità, anche se la sua coloratura è sempre perfetta pur con un che di dosato e cauto. Non nel primo duetto con Edgardo però, in cui invece del sib previsto in partitura ha sparato un sorprendente fa sopracuto.

Nella scena della pazzia ormai è imprescindibile l’utilizzo della glasharmonica originariamente prevista dal compositore e qui un esperto dello strumento, formato da coppe di cristallo, ha accompagnato in maniera mirabile il canto spettrale della Pratt che ha incantato il pubblico con le sue note tenute e di una purezza altrettanto cristallina.

Piero Pretti è un Edgardo corretto, ma non emoziona e la scintilla col soprano non scocca mai. Decisamente più efficace l’Enrico di Gabriele Viviani, mentre successo personale è stato quello di Aleksandr Vinogradov, un Raimondo dalla voce grave e potente, anche troppo: più che un «educatore e confidente» sembrava un pope uscito da un’opera russa. Per non parlare della dizione.

Secondo cast di pari livello, se non superiore. Il soprano rumeno Elena Moșuc ha da tempo al suo attivo il ruolo di Lucia. Linea vocale forse meno pura della Pratt, ma con più temperamento e presenza scenica e neanche lei rinuncia alle puntature nel primo duetto, più riuscite di quelle della collega. Superiore è anche l’altro Edgardo, quello di Giorgio Berrugi, che oltre a cantare le note scolpisce e dà significato ad ogni parola e rende credibile il suo rapporto con il soprano e, finalmente, emoziona. Simone del Savio ha un po’ meno presenza fisica come Enrico, per cui supplisce con effetti vocali talora meno controllati. Con Mirco Palazzi, infine, abbiamo il Raimondo ideale con il timbro di voce giusto e la dizione perfetta.

La direzione di Noseda è talora un po’ sostenuta, ma rende comunque con efficacia i momenti di lirismo o di rarefatta sospensione della partitura.

Platea con ampie defezioni in entrambe le recite di fine settimana. Se neanche un titolo di repertorio come questo riesce a riempire un teatro di 1582 posti (ricordiamo che il vecchio Regio aveva 3000 posti quando Torino non arrivava a trecentomila abitanti) allora la Ditta Vergnano & C. deve incominciare a preoccuparsi.

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La glasharmonica di Sascha Reckert

La battaglia di Legnano

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★★☆☆☆

L’Italia della Lega

Gli anni 1848-49 sono anni decisivi per la futura nazione italiana: il 1848 era iniziato con il boicottaggio a Milano del tabacco, sfociato in una rivolta repressa dall’esercito austriaco (gennaio); era poi avvampata la rivoluzione siciliana seguita dalla promulgazione della Costituzione del Regno delle due Sicilie da parte di Ferdinando II, seguito da Leopoldo II in Toscana, mentre Carlo Alberto in Piemonte concedeva lo Statuto (febbraio); a Venezia si proclamava la Repubblica di San Marco e a Milano si avevano le Cinque Giornate (marzo) e il regno di Sardegna dichiarava guerra all’Austria; nel febbraio del 1849 nasceva la Repubblica Romana e a marzo Carlo Alberto abdicava a favore del figlio Vittorio Emanuele che firmava la pace ad agosto.

Verdi non era ancora uscito dagli “anni di galera” durante i quali aveva composto a ritmi serratissimi i suoi primi capolavori, si era trasferito per un certo periodo a Parigi per la sua Jérusalem e poi era ritornato in Italia. Il soggetto de La battaglia di Legnano, tragedia lirica in quattro atti, gli era stato proposto da Salvadore Cammarano, che avrebbe voluto vedere l’opera rappresentata nel teatro della sua città, Napoli. Essendosi rovinati i rapporti fra Verdi e il Teatro San Carlo, il maestro si ritenne libero da ogni impegno con esso, ma non con il povero Cammarano che versava in pessime condizioni economiche. Nel 1848 era già pronta la musica e il 27 gennaio del 1849 l’opera andava in scena con enorme successo al Teatro Argentina in una Roma che aveva appena cacciato il papa: il primo atto venne bissato interamente a furor di pubblico. In effetti l’opera inizia con un coro a cappella che intona. «Viva Italia! sacro un patto | tutti stringe i figli suoi […] Questo suol che a noi fu cuna, | tomba fia dello stranier!» Più esplicito di così il messaggio non potrebbe essere. A causa della censura, per le successive rappresentazioni negli altri teatri della penisola se ne dovette cambiare il titolo in L’assedio di Arlem e Lida.

Tratto da La bataille de Toulouse di Joseph Méry, il libretto ambienta la vicenda  a Milano (atti I, III, e IV) e a Como (atto II) nel 1176, durante la lotta tra i Comuni riuniti nella Lega Lombarda quando Milano è minacciata dalle truppe dell’imperatore tedesco Federico I Hohenstaufen, il Barbarossa.

Atto I – Egli vive. Mentre in una piccola contrada di Milano si festeggia la vittoria della Lega Lombarda, il milanese Rolando abbraccia l’amico Arrigo, creduto morto in battaglia. Lida, in passato fidanzata di Arrigo, ha sposato nel frattempo Rolando, cedendo alla volontà del padre. Un araldo comunica l’arrivo dell’esercito di Federico Barbarossa. Mentre Rolando è in riunione nel senato, Arrigo rimprovera Lida di infedeltà, ma la donna cerca di giustificarsi.
Atto II – Barbarossa! Su invito della Lega Arrigo e Rolando arrivano a Como per convincere i capi dell’esercito a spostare il campo. L’imperatore minaccioso dichiara di voler distruggere l’esercito lombardo a Milano, mentre i due eroi lombardi inneggiano alla liberazione dall’imperatore straniero.
Atto III – L’infamia. Arrigo decide di entrare a far parte dei Cavalieri della Morte, contro il volere di Lida, che gli invia una lettera per dissuaderlo. La missiva viene intercettata da Marcovaldo, un prigioniero tedesco, invaghito di Lidia, e consegnata a Rolando, che si accinge a partire. Lida incontra di nascosto Arrigo e gli confessa il suo amore pur dichiarandosi fedele a Rolando. Scoprendo Lida e Arrigo a colloquio, Rolando rinchiude Arrigo nella torre: impedendogli di raggiungere i Cavalieri della Morte verrà così disonorato. Arrigo fugge dalla finestra gettandosi nel fiume.
Atto IV – Morire per la patria! Le donne dei soldati milanesi, fra cui Lida, pregano per i loro uomini in guerra. I soldati tornano dopo aver sconfitto Barbarossa, ferito gravemente da Arrigo. Anche quest’ultimo, ferito a morte, spira poco dopo, confermando a Rolando, con solenne giuramento, l’innocenza di Lida.

La Battaglia di Legnano non ha mai convinto del tutto la critica per la sua troppo esplicita carica patriottica. Tra clangori di piatti e cori si inseriscono sì pagine di rilievo, ma i personaggi non vengono definiti e restano convenzionali. Sarà l’ultimo lavoro di Verdi di questo genere: il compositore era sempre più interessato all’opera di carattere, come dimostrerà con la sua successiva trilogia popolare.

Nel 1961 fu memorabile la rappresentazione che inaugurò la stagione del Teatro alla Scala per il centenario dell’Unità d’Italia con Gavazzeni sul podio e in scena Corelli, Bastianini e la Stella.

Nel 2012 l’opera viene data al “Giuseppe Verdi” di Trieste con la regia di Ruggero Cappuccio, le scenografie e i costumi di Carlo Savi. Le intenzioni del regista non sono palesate né nel fascicolo allegato al disco né in un extra: solo il programma del teatro poteva far luce. Lì Cappuccio nelle quattro pagine distribuite in sala spiegava che siamo nel magazzino di un museo, allegoria di una nazione in cui l’arte è trascurata, l’arte che costituisce l’identità culturale di un paese. Unica speranza sono i restauratori sempre all’opera in scena. Sono i registi che difendono questa identità prendendosi cura del passato? Sarà, ma il lavoro dei restauratori e la vicenda narrata procedono in parallelo senza un minimo reciproco coinvolgimento.

Tutto preso da questo non evidente Konzept, Cappuccio si è però dimenticato della regia dei cantanti che si muovono e recitano in maniera insopportabilmente convenzionale: il tenore a gambe larghe, il soprano con le mani al petto o alla fronte, il coro a blocchi statici. Il quale coro è in abiti moderni mentre i protagonisti sono in un confuso mix di tempi e stili: i tagli al budget della cultura non permettono altro che attingere al guardarobato di opere precedenti, sembra suggerire il regista.

La voce di Dīmītra Theodosiou evidenzia momenti di difficoltà, acuti striduli e stanchezza crescente in un ruolo decisamente impegnativo. Con un timbro non sempre gradevole, l’Arrigo di Andrew Richards è generoso vocalmente, ma non fa nulla per far uscire il personaggio dalla più bieca tradizione. Più convincente il Rolando di Leonardo López Linares.

La direzione di Boris Brott è disomogenea con momenti apertamente bandistici – i piatti saranno stati deformati alla fine della rappresentazione… Buona la prestazione del quasi onnipresente coro.

Ripresa da Tiziano Mancini e registrata su DVD della Unitel, questa produzione non sembra possa riportare in auge quest’opera negletta di Verdi.