Victor Hugo

Rigoletto


foto © Mattia Gaido

Giuseppe Verdi, Rigoletto

Torino, Teatro Regio, 28 febbraio 2025

★★★★☆

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Rigoletto nella Belle Époque

Febbraio, mese di Rigoletto? In queste settimane la Fenice di Venezia riprende l’intrigante produzione di Michieletto, il Maggio Fiorentino quella di Livermore, e ora al Regio di Torino è la volta della nuova lettura di Italo Muscato, che già lo aveva messo in scena a Roma nel 2016. 

Se poi uno avesse voglia di varcare le Alpi, questo mese potrebbe vedere dei Rigoletti in Bielorussia, Moldavia e Ucraina, a Danzica, San Pietroburgo, Praga, Berna e due diverse produzioni in Germania. Giusto per avere ulteriore conferma dell’indiscussa popolarità del titolo verdiano, secondo solo a La traviata, stabilmente al primo posto assoluto per numero di rappresentazioni nel mondo.

Nella stagione del teatro torinese Rigoletto non solo rappresenta al meglio il grande repertorio, quello più amato dal pubblico – che infatti ha esaurito i posti disponibili in tutte le recite – ma è anche, nelle parole del sovrintendente Mathieu Jouvin, «un’opportunità per ribadire il valore di un teatro che incarna i principi culturali europei. Con questa produzione, infatti, aggiungiamo un nuovo tassello al dialogo tra la cultura francese e quella italiana, suggellato dall’incontro tra due “miti”: Giuseppe Verdi e Victor Hugo. Entrambi dovettero confrontarsi con problemi di censura, ma mentre il dramma di Hugo fu a lungo interdetto perché venivano contestati apertamente i facili costumi della monarchia, e dunque si trattava di un testo di natura politica, l’opera di Verdi […] si concentra sull’umanità dei protagonisti e conferisce valore universale ai loro sentimenti e alle loro fragilità».

 

Nelle fasi del lavoro di composizione di questo dramma destinato a quel teatro, la Fenice di Venezia, dove due anni dopo fallirà La traviata, scriveva Verdi: «Io trovo […] bellissimo rappresentare questo personaggio esternamente deforme e ridicolo, ed internamente appassionato e pieno d’amore». Primo pannello di quella che sarà definita la “trilogia popolare”, Rigoletto segna la piena maturità del compositore e un punto di svolta nella sua carriera, dove musica e dramma si fondono in un’unità potente ed emotivamente travolgente. Rivoluzionario è l’irrompere del “vero” nel teatro in musica: protagonisti di un’opera sono un uomo fisicamente deforme (Rigoletto) e una donna moralmente compromessa (Violetta). 

Un’operazione di tale rottura aveva bisogno anche di una musica “diversa”, e quella del Rigoletto lo è in molti punti. Qui Verdi integra musica e dramma in modo innovativo, superando la struttura tradizionale di arie e recitativi e le convenzioni del bel canto: le transizioni tra scene sono fluide, viene privilegiata una narrazione musicale continua e unitaria, in cui i numeri chiusi sono funzionali alla progressione drammatica. L’orchestra commenta l’azione e amplifica le emozioni, come il temporale nell’atto III che riflette il caos interiore dei personaggi. Il tema oscuro e minaccioso associato alla maledizione di Monterone ricorre come un filo conduttore, un uso che anticipa i Leitmotive wagneriani, pur senza la loro sistematicità. Anche nell’orchestrazione Verdi introduce innovazioni usando gli strumenti in modo espressivo, con colori che accentuano le atmosfere: gli archi gravi per la maledizione, i legni per l’ingenuità di Gilda. Tutto è chiaro ed evidente nella concertazione di Nicola Luisotti, uno dei due i punti di forza di questa produzione torinese. 

Interprete raffinato e assiduo frequentatore del repertorio verdiano, Luisotti legge la partitura con grande slancio drammatico, ma altrettanta attenzione alle esigenze del palcoscenico con tempi sempre equilibrati che si dilatano con sensibilità nei momenti lirici e diventano giustamente più incalzanti nelle svolte drammatiche. Mai come sotto la sua bacchetta la strumentazione e la melodia di Verdi mostrano la loro raffinatezza – quanto sono lontani i tempi dello zum-pa-pà con cui veniva eseguito con stanca tradizione il suo repertorio più popolare –, qui tutto è trasparenza ed eleganza, dominano gli equilibri espressivi, le sfumature delicate. L’orchestra non accompagna le voci: ne è l’alter-ego strumentale, il sostegno sonoro ed emotivo di quanto viene espresso nel canto.

Come quando in scena c’è Giuliana Gianfaldoni, l’altro punto di forza di questa produzione, una Gilda memorabile per bellezza di emissione e di timbro. Un canto legato che incanta l’ascoltatore con la soavità dei mezzi suoni, le celesti smorzature, la fluidità delle note, che non sono più solo note, ma suoni di immacolata purezza. Il «Caro nome» fa venire giù il teatro dagli applausi e non viene bissato solo perché si comprometterebbe la continuità dell’azione.

La misura e la perfetta dizione sono due delle qualità del baritono George Petean, un Rigoletto espressivo che sfoggia un bello strumento sonoro impiegato con gusto. Ritorna nella parte che ha interpretato frequentemente Piero Pretti, un Duca di Mantova vocalmente solido ma non attraente, sicuro ma non al massimo dell’espressività. Espressività di cui è ricca invece la Maddalena di Martina Belli, che sfoggia altresì una presenza scenica di tutto rilievo. Doverosamente cavernoso è lo Sparafucile di Goderedzi Janelidze, ma la dizione è un po’ problematica, mentre autorevole è il conte di Monterone di Emanuele Cordaro. Cinque artisti del Regio Ensemble prestano la loro ormai sicura presenza: Siphokazi Molteno (Giovanna), Janusz Nosek (Marullo), Daniel Umbelino (Matteo Borsa), Tyler Zimmerman (Il conte di Ceprano) e Albina Tonkikh (La contessa di Ceprano). Chiara Maria Fiorani come Il paggio della duchessa e Mattia Comandone come Un usciere di corte, completano il cast. Particolarmente convincente il coro del teatro istruito da Ulisse Trabacchin.

Nelle sue intenzioni, il regista Leo Muscato vuole «restituire al pubblico l’essenza archetipica e dolente di Rigoletto. La sua doppia identità, la tensione tra sacro e profano e il mondo di specchi in cui si muove riflettono una società in disfacimento, ancora incredibilmente attuale. L’atmosfera decadente richiama anche suggestioni cinematografiche [dove] il mondo appare distorto, quasi onirico, e la realtà si mescola con l’illusione. È questa la suggestione attraverso la quale racconto il terzo e ultimo atto di Rigoletto: la taverna di Maddalena e Sparafucile diventa un luogo rarefatto, permeato da un senso di attesa sospesa; qui Gilda osserva il Duca attraverso un velo di fumo, in un contesto dove i contorni della realtà si dissolvono». Che queste intenzioni non si colgano nella effettiva messinscena sarà probabilmente una mia insufficiente attenzione. L’ambientazione scelta dal regista e dai suoi collaboratori – Federica Parolini per le scene, Silvia Aymonino per i costumi e Alessandro Verazzi alle luci – è quella di un mondo primo novecento gaudente e incosciente, ma visto con la lente deformante di un cauto espressionismo. La vicenda è narrata linearmente a parte qualche variante non del tutto comprensibile: Monterone muore di un attacco di cuore dopo la sua invettiva e appare quindi come “fantasma” quando dovrebbe invece entrare in carcere; la reclusione di Gilda avviene in un educandato femminile gestito da suore che però mal controllano il via vai di uomini all’interno; poco credibile è anche la «casa mezzo diroccata sulle sponde del Mincio» qui diventata fumeria d’oppio e bordello di lusso molto frequentato. Oltre che lineare il racconto messo in scena da Muscato è spesso ridondante: si parla del Duca, ed eccolo lì in carne e ossa; una scala serva al rapimento? qui ce ne sono ben cinque, mentre i rapitori si muovono come il Gatto Silvestro…

Nei saluti finali l’applausometro premierebbe nell’ordine Giuliana Gianfaldoni con ovazioni, il Maestro Luisotti con altrettanto entusiasmo, subito dopo George Petean e infine Piero Pretti. Applausi al minimo sindacale per la regia.

Rigoletto

foto © Michele Monasta – Maggio Musicale Fiorentino
(non ci sono fotografie col protagonista della serata del 18 febbraio)

Giuseppe Verdi, Rigoletto

Firenze, Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, 18 febbraio 2025

★★★★☆

Al Maggio Fiorentino riproposto il Rigoletto di Livermore

Il Rigoletto è titolo che non manca di certo nelle stagioni liriche fiorentine. Subito frequentatissimo – negli anni 1852-62 si ebbero rappresentazioni alla Pergola, al Leopoldo, al Teatro Nuovo, a quello di Borgognissanti, al Pagliano e all’Alfieri – rimase poi stabilmente in repertorio e dal 1934 sui palcoscenici del Comunale e del Verdi si succedettero venti diverse produzioni. L’attuale nuovo edificio nel 2015 ha ospitato la messa in scena di Henning Brockhaus, mentre nel 2018 e 2019 il Rigoletto di Francesco Micheli ha fatto parte del Progetto Trilogia Popolare. In piena pandemia e con i teatri chiusi al pubblico, il 23 febbraio 2021 fu trasmessa in streaming la produzione di Davide Livermore diretta da Riccardo Frizza (con Javier Camarena, Luca Salsi ed Enkeleda Kamani) che nell’ottobre dello stesso anno potè arrivare normalmente in sala in tre rappresentazioni con Piero Pretti, Amartuvshin Enkhbat e Mariangela Sicilia.

Quella produzione è ora riproposta con lo stesso Sparafucile di allora ma con tutti gli altri interpreti nuovi. Nella recita del 18 febbraio Rigoletto ha la voce di Leon Kim, baritono sudcoreano specializzato al Conservatorio Cherubini di Firenze e frequentemente presente nel repertorio verdiano (Germont, fra Melitone, Conte di Luna, Foscari, Macbeth, Amonasro, Miller, Renato, Paolo Albiani…). Voce chiara ma di grande proiezione, fraseggio variegato, accorto uso dei livelli sonori, delinea con sensibilità il personaggio e il suo «Cortigiani, vil razza dannata» va al segno anche senza eccessi espressivi. Straziante ma equilibrato è il tragico finale con lo scoprimento del cadavere della figlia. Non presenta difformità fisiche, ma è ben chiaro il suo ruolo subordinato rispetto al nobile padrone.

Il Duca di Celso Albelo è giustamente superficiale e arrogante, e supplisce con la presenza vocale a una presenza scenica non particolarmente affascinante. Il belcantista di Tenerife ha un inizio non esaltante, poi nel corso della recita migliora sempre più per quanto riguarda colori e agilità, ma il tono è quello di un interprete del passato, con gli stessi vezzi, come la n in «qual piuma al ve-n-to, muta d’acce-n-to…». Con il suo prezioso strumento vocale Albelo evidenzia la unicità del personaggio puntando alla singolarità dei suoi interventi, quasi tutti solistici in un’opera dominata invece da numeri a dialogo. «Ho ideato il Rigoletto senz’arie, senza finali, con una sfilza interminabile di duetti, perché così ero convinto», scrive Verdi, che plasma le forme dei numeri chiusi in una visione di moderna esaltazione della drammaturgia. Come avviene ad esempio nella prima scena del secondo atto, dove la tradizionale successione di recitativo-aria-cabaletta diventa una complessa scena teatrale: l’esclamazione del Duca «agitatissimo», «Ella mi fu rapita!», è seguita dal lirico «Parmi veder le lagrime» e dopo l’intervento del coro attacca la trascinante cabaletta «Possente amor mi chiama» («alzandosi con gioia», dice il libretto) con i pertichini del coro «Oh, qual pensier or l’agita». Di esempi simili ce ne sono altri in questo lavoro che allora si dimostrò in anticipo sui tempi e che nelle intenzioni del compositore doveva essere un primo passo verso la liberazione dagli schemi rigidi delle convenzioni musicali del tempo.

Il timbro di Ol’ga Peretjat’ko non è mai stato il punto forte della sua voce: un freddo metallo penetrante, compensato però da ottima intonazione, precise agilità ed efficace utilizzo dei piani sonori, con mezze voci e filati, tutti quanti impiegati nel definire il complesso personaggio di Gilda, innocente vittima dei sentimenti in una società brutale. Aiutata da una direzione di ampio respiro, il suo «Caro nome», distillato con preziosi pianissimi e belle variazioni, entusiasma il pubblico fiorentino.

 

L’interprete di Sparafucile, si diceva, è l’unico in comune con le passate edizioni: Alessio Cacciamani non sfoggia una voce cavernosa, ma delinea con efficacia e una certa eleganza la figura del sicario. Molto scuro è invece il timbro della Maddalena di Eleonora Filipponi, tanto che quasi non se ne sente la voce nel quartetto del terzo atto. Adeguati si rivelano gli altri comprimari con in evidenza il Monterone nobile e autorevole di Manuel Fuentes. Come si è già detto, la direzione di Stefano Ranzani ha tempo molto ampi a favore dei cantanti, ma è comunque funzionale allo svolgersi implacabile del dramma. Gli strumentisti dell’Orchestra del Maggio rispondono con precisione e giusti colori, così come il coro maschile, compatto ma duttile, istruito da Lorenzo Fratini.

A suo tempo la regia di Davide Livermore aveva diviso la critica: chi aveva apprezzato la cupa atmosfera e la serrata interazione tra i personaggi, chi aveva sollevato dubbi su una drammaturgia che non rispetta le indicazioni del libretto. Le scene di Giò Forma, i fantastici costumi di Gianluca Falaschi e le crude luci di Antonio Castro creano ambienti diversi e atemporali che più che la fedeltà alla lettera del libretto, interpretano lo spirito di un dramma sotto il peso della “maledizione”, con l’ineluttabile sconfitta del debole rispetto al più forte.

Il primo suono che ascoltiamo al levarsi del sipario è il rumore di una stazione della metropolitana: è qui infatti che è ambientato il breve preludio, con il cadavere di Gilda per terra e tre personaggi che prima indifferenti poi guardano con tono di condanna il quarto, il padre, sopraffatto dal senso di colpa. La «sala magnifica nel palazzo ducale» del I atto è dominata da un letto dorato per le «orgie» del depravato duca e da un grande affresco con figure e scene barocche ottenute con le proiezioni della D-Wok. Lo stesso sfondo rappresenterà poi il marciapiede visto dalla lavanderia seminterrata che è la casa e il posto di lavoro di Gilda e Rigoletto (atto II), poi un finestrone, attraverso il quale si vede il temporale, nel night club di Sparafucile e Maddalena (atto III), per poi terminare appunto nella squallida stazione della metropolitana vista all’inizio. Nella regia non mancano i rimandi cinematografici cari a Livermore, (qui il Kubrick di Eyes Wide Shut, ad esempio) con il solito horror vacui visivo e abuso di armi. Ma il taglio drammatico rimane efficace, anche se nella ripresa di Gian Maria Sposito si perde un po’ il lavoro sugli interpreti e salta fuori qualche imprecisione, come i fari luminosi sul pubblico durante gli interventi di Monterone.

Lucrezia Borgia

foto © Fabrizio Sansoni

Gaetano Donizetti, Lucrezia Borgia

Roma, Teatro dell’Opera, 16 febbraio 2025

★★★

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La principessa Negroni e il suo cocktail fatale

Solo una regista come Valentina Carrasco poteva far diventare Lucrezia Borgia quasi una proto-femminista! Nella sua lettura dell’opera di Donizetti, infatti, la figlia illegittima di Rodrigo Borgia, futuro papa Alessandro VI, e sorella di Cesare Borgia, è vista come un’eroina noir, non una donna vittima, ma una donna carnefice. «Una donna sola al potere in un mondo di uomini, una donna artefice del proprio destino» e che per una volta non muore per amore, cosa rara nel mondo dell’opera.

Tratta dalla pièce di Victor Hugo Lucrèce Borgia presentata a Parigi il 2 febbraio 1833, il 26 dicembre di quello stesso anno Felice Romani e Donizetti con Lucrezia Borgia introducono in Italia un nuovo genere: il dramma romantico, dove dramma e commedia si mescolano, si ha un «frammischiamento», come scrive Donizetti, di buffo e serio. Lo stesso ibrido di grottesco e tragico che prelude al Verdi di Rigoletto, anch’esso di Hugo (Le Roi s’amuse) e con un altro mostro, qui nella paternità, là nella maternità: «Vittor [sic] Hugo, dal quale è imitato questo melodramma, in una tragedia assai nota aveva rappresentato la difformità fisica santificata dalla paternità: nella Lucrezia Borgia volle significare la difformità morale purificata dalla maternità: il quale scopo, se ben si rifletta, rattempera la nerezza del soggetto, e non fa ributtante il [sic] protagonista», scrive il Romani.

L’elemento della maschera, fugacemente presente nel testo di Hugo, diventa predominante nella messa in scena dello spettacolo ora al Costanzi. Qui le maschere bifronti fanno riferimento a un mondo doppio, dove tutti hanno qualcosa da nascondere. Un enorme viso mascherato incombe poi per buona parte dello spettacolo. Un altro tema sviluppato nella lettura della regista argentina è la maternità: durante la sinfonia vediamo proiettato sullo sfondo l’ecografia di un feto nel ventre materno mentre Lucrezia si agita nel sonno e le viene rapito il figlioletto che ritorna – ahimè non era necessario – nel finale, quando una radiografia mostra il bacino della donna vuoto. O forse è semplicemente uno scheletro che annuncia la morte di Gennaro, il figlio da lei stessa avvelenato una seconda volta?

Come si vede, non mancano i temi forti in questa vicenda altamente romanzata del Rinascimento italiano che la Carrasco immerge in un ambiente quasi onirico, delimitato solo da tendaggi (le scenografie sono di Carles Berga) e dove la luce naturale è bandita (il gioco luci è di Marco Filibeck): è sempre notte sia nel prologo veneziano che nei due atti a Ferrara. I costumi moderni di Silvia Aymonino non distinguono i diversi personaggi e impongono gorgiere e gonne di tulle per gli uomini nel prologo. Né gli ambienti né la conduzione registica offrono una particolare tensione narrativa verso il tragico finale, tensione che manca anche nella direzione di Roberto Abbado, la quale risulta certamente corretta ma non esaltante. Eppure Donizetti la sua parte la fa: all’atmosfera notturna annunciata nelle prime note della sinfonia, con quel minaccioso rullo di timpani, il compositore alterna episodi falsamente festosi come il brindisi di Orsini «Il segreto per esser felici», cui risponde il lugubre coro fuori scena «La gioia de’ profani è un fumo passegger». Tutto è ben eseguito, ma senza quel guizzo che ci si aspetterebbe da questo peculiare prodotto del bergamasco dal tono cupo e sulfureo.

Abbado ritorna per la seconda volta alla Lucrezia Borgia: la prima volta fu al Festival di Bergamo del 1988 e ora utilizza la versione critica eseguita senza tagli, anzi propone insieme tutte le diverse versioni che Donizetti ha approntato in un lungo arco di tempo. Ecco quindi i due distinti finali qui uniti: quello con l’aria di Gennaro morente «Madre se ognor lontano» e l’altro con la cabaletta piena di agilità di Lucrezia «Era desso il figlio mio». Forse è proprio questo scrupolo di utilizzare tutto il possibile a togliere mordente e forza drammatica alla esecuzione.

45 anni dopo Joan Sutherland, Lucrezia Borgia ritorna a Roma con la voce e la figura di Lidia Fridman, che si alterna con Angela Meade. Cosa che accade anche per gli altri interpreti principali: Enea Scala si alterna con Michele Angelini nella parte di Gennaro; come Maffio Orsini abbiamo Daniela Mack e Teresa Jervolino e Alfonso d’Este è interpretato da Alex Esposito e da Carlo Lepore.

Ancora una volta è Alex Esposito a catturare l’attenzione degli spettatori con una performance come sempre maiuscola, dove il suo Alfonso d’Este vive di una foga attoriale e vocale tali da rendergli impreciso un attacco, presto aggiustato. Di Lidia Fridman si sono sempre apprezzati il temperamento e la figura scenica, un po’ meno i salti di registro e un timbro non felicissimo, che qui magari sono di aiuto alla personalità contorta di Lucrezia Borgia, ma che non sempre esprimono l’essenza del belcanto donizettiano. Nel complesso comunque la sua performance è stata apprezzata dal pubblico che dopo l’aria di bravura finale, ricca di agilità e variazioni, è esploso in grandi applausi.

I generosi mezzi vocali di Enea Scala hanno fatto di Gennaro un personaggio sofferto e genuinamente drammatico, soprattutto in questa versione completa in cui rispetto a quella originale del 1833 ci sono le due arie aggiunte per la ripresa di Londra del ’38 e di quella di Parigi del ’40. Come L’Oscar di Un ballo in maschera, anche il Maffio Orsini di Lucrezia Borgia è affidato a una voce femminile, quella di Daniela Mack, efficace e scenicamente spigliata anche se non sempre a suo agio nel registro contraltile della parte. Adeguatamente realizzati sono i personaggi minori di Jeppo Liverotto (Raffaele Feo); Don Apostolo Gazella (Arturo Espinosa); Ascanio Petrucci (Alessio Verna); Oloferno Vitellozzo (Eduardo Niave, diplomato “Fabbrica”, Young Artist Program del Teatro dell’Opera); il perfido Gubetta (Roberto Accurso); Rustighello (Enrico Casari), Astolfo (Rocco Cavalluzzi) e l’usciere (Giuseppe Ruggiero). Non meno importanti sono gli interventi del coro istruito da Ciro Visco.

Rigoletto

    

Giuseppe Verdi, Rigoletto

Parigi, Opéra Bastille, 11 aprile 2016

(video streaming)

Rigoletto in scatola

Claus Guth debutta per la prima volta nel 2016 all’Opéra National di Parigi con il Verdi del Rigoletto di cui dà una lettura come sempre personale anche se non totalmente condivisibile. Sia come sia, la produzione rimarrà in cartellone fino al gennaio 2025 con varie riprese.

Ecco che cosa scriveva Alessandro di Profio di Connessi all’opera sull’edizione andata in scena nel novembre 2021: «Il regista tedesco immagina un buffone di corte torturato dai rimorsi che ritira fuori una scatola di cartone in cui sono stati riposti ricordi angoscianti. La scatola occupa l’intero palcoscenico e resta, quasi senza alcun cambiamento, per i tre atti. Dunque, tutta l’opera è un riportare a galla e rivivere i rimorsi atroci di un vecchio padre, omicida suo malgrado della figlia. Per il costante oscillare, tra passato e presente, di Rigoletto ce ne sono due: certo il cantante, ma anche un doppio, ovvero un mimo. L’idea del doppio non è nuovissima: Guth l’aveva già sfruttata in Fidelio. Comunque, insieme all’espediente del mega-scatolone di cartone, teatralmente potrebbe funzionare. Purtroppo, arrivano tanti altri “segni” che rendono la regia non sempre limpidissima. Perché i costumi oscillano tra evocazioni rinascimentali e abiti da primo Novecento? Perché chiedere ai coristi mimiche senza alcun senso, incoerenti tanto rispetto al testo quanto alla situazione? Perché lasciarsi andare con balletti caricaturali che hanno l’unico effetto di creare un grottesco non per forza voluto (o che fosse un ammiccamento all’estetica del “brutto” ricercata da Victor Hugo..?)? Le ballerine piumate che sgambettano al suono de “La donna è mobile” sono legittimamente accolte solo da risa. Geniale nella rilettura della trilogia dapontiana di Mozart, Guth non ritrova in questo Verdi le stesse vette».

Nel tempo si sono susseguiti numerosi cast. Nella prima edizione Rigoletto fu Quinn Kelsey, Gilda Ol’ga Peret’jatko, il Duca di Mantova Michael Fabiano, Maddalena Vesselina Kasarova, Monterone Mikhail Koleshvili, Sparafucile Rafal Siwek. Ecco quello che scrisse su Forum Opéra Yannnick Boussaert: «La Gilda di Ol’ga Peret’jatko è al limite della grandezza. Esperta belcantista, impreziosisce il suo canto in ogni momento: trilli a bizzeffe, note filate, piani delicati, tutto contribuisce a caratterizzare una giovane donna meno interessata alle posizioni di ballo che il padre vorrebbe che ricoprisse che a realizzare i suoi desideri o l’ingenuo sacrificio a cui acconsente. Quinn Kelsey mostra molte qualità. Il suo carisma sul palcoscenico è innegabile, ben supportato da una voce potente e facile al massimo della sua gamma. Gli manca un pizzico di oscurità e di mordente per differenziare completamente il vile buffone e vendicatore cieco dal padre amorevole e iperprotettivo. Michael Fabiano è più a suo agio nel secondo tempo. Nel primo atto, ha inciampato su acuti approssimativi e attacchi di note prese dal basso. Questo problema è stato risolto dopo l’intervallo, quando ha navigato tra valore e resistenza. Mentre alcuni debuttano, Vesselina Kasarova torna all’Opéra di Parigi in un ruolo che forse non ci si aspettava. Il ricco timbro della bulgara è immediatamente riconoscibile, così come la sua particolare pronuncia, a cui manca un po’ di potenza in più. Il Monterone di bronzo di Mikhail Kolelishvili e il cupo Sparafucile di Rafal Siwek sono entrambi ottimi nella tonalità di Fa. I comprimari sono complessivamente di ottimo livello, così come gli uomini del Coro dell’Opéra di Parigi, con le loro voci calde e unificate, attente allo stile e alle sfumature verdiane. In buca, Nicola Luisotti ha dato vita al dramma alla testa di un’orchestra concentrata su un ritmo e movimenti limpidi. L’orchestra falange segue le pause di ritmo e le sfumature volute dal direttore italiano, in particolare nei finali d’atto. I dettagli si accumulano, i crescendi colpiscono nel segno e la tensione sale sempre dalle vibrazioni dei violini o dai cinguettii dei fiati».

 

Ernani

 

Giuseppe Verdi, Ernani

★★★

Roma, 3 giugno 2022

(video streaming)

L’Ernani riproposto a Roma denuncia ben più degli anni che ha

È una capsula del tempo questa produzione di Hugo de Ana dell’Ernani che aveva inaugurato la stagione lirica romana nel 2013: regia, scene e costumi sembrano risalire non a nove anni fa, ma a un passato assai più remoto. Le incombenti scenografie – un richiamo alla facciata del palazzo di Carlo V a Granada col suo forte bugnato e le colonne – invece che tridimensionali potrebbero essere dipinte e non cambierebbe molto dell’efficacia drammatica, mentre così costringono a una scena unica. I pesanti arredi e i sontuosi costumi d’epoca connotano i personaggi ma sembrano inutilmente ingombranti e costosi: i bordi di pelliccia, i broccati e i ricami dell’ultima/o corista vanno del tutto persi nella affollata visione d’insieme. Le interazioni fra i personaggi sono prevedibili con il tenore che si piazza a gambe larghe al proscenio e il soprano che risponde alla descrizione di una cantante d’epoca con le forme abbondantemente generose e che solo un’altrettanto abbondante dose di suspension of disbelief può far passare per «aragonese vergine» giovinetta di cui tutti cadono innamorati cotti.

Vero è che la drammaturgia dell’Ernani di Francesco Maria Piave poco si presta a una lettura teatralmente contemporanea della vicenda, ma c’è un momento quasi da pochade in questo lavoro che un regista un po’ più disinibito avrebbe potuto sfruttare in modo intrigante: una donna è concupita da due diversi pretendenti e viene scoperta nel mezzo della notte e nelle stanze più intime del suo castello dal terzo pretendente, quello che conta di sposarla il giorno dopo. Il tenore (amato dalla donna), il baritono (qui addirittura il monarca) e il basso (il terzo e vecchio intruso) si affrontano e quest’ultimo crede di risolvere con le armi la questione prima di scoprire di avere di fronte a sé il proprio re. Poi la faccenda si sviluppa tra perdoni che hanno secondi fini, finte rese, scoppi d’ira e gelosie presto sedati, repentini cambiamenti di alleanze, patti sciagurati e congiure. Eppure Ernani aveva rappresentato un lavoro sperimentale per il Verdi 32enne qui alla sua quinta opera, presentata alla Fenice dopo le quattro alla Scala. Il compositore sembra voler superare il sistema della forma a numeri chiusi per dar vita a un teatro vivo e romanticizzato. Ecco allora la scoperta del ruolo archetipo del baritono o l’utilizzo dei terzetti per le strette in cui concentrare la tensione drammatica dopo lo slancio lirico degli incisi melodici.

Nove anni fa alla guida dell’orchestra del teatro c’era Riccardo Muti, ora è la volta di Marco Armiliato che dà buona prova realizzando una lettura quasi completa della partitura – manca la cabaletta della cavatina di Silva «Infin che un brando vindice» che Verdi non aveva potuto utilizzare a Venezia per la modestia del “basso comprimario” a disposizione – e con le riprese delle arie, che però talora mettono in difficoltà il tenore. I momenti migliori sono nelle impennate dinamiche degli ensemble finali e nel sostegno delle voci, anche se alcune, tenore e basso, risultano spesso sopraffatte dall’orchestra.

L’unico a ritornare nei panni titolari dopo il 2013 è Francesco Meli di cui si ammirano il colore e le intenzioni interpretative, anche se ora la voce manca a tratti di fermezza e gli acuti risultano sforzati. Per di più il suo è il personaggio a cui la regia ha reso il peggior servizio, sempre con la mano sulla spada anche nelle dichiarazioni d’amore. Non gioca poi a suo favore il confronto con il volume vocale dei colleghi Angela Meade (Elvira) e Ludovic Tézier (Carlo). Il soprano americano non mostra alcuna difficoltà a padroneggiare le insidie vocali del ruolo anche se dal punto di vista interpretativo non esibisce un fraseggio né una recitazione particolarmente coinvolgenti: resta il mirabile controllo della sua enorme voce, ma manca l’emozione. Tézier è invece il miglior Carlo disponibile, con un mezzo vocale altrettanto potente e controllato, ma con in più uno scavo sul personaggio che lo porta a ricevere il più caloroso applauso a scena aperta dopo il suo meraviglioso «O de’ verd’anni miei». Evgenij Stavinskij è un Don Ruy Gomez de Silva di non enorme voce ma elegante, autorevole ed espressivo. Bene i comprimari, usciti dalla Fabbrica-Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma: la Giovanna di Marianna Mappa, lo Jago di Alessandro Della Morte e il valido Rodrigo Ortiz, Don Riccardo.

Statico e impacciato scenicamente, non si può dire che compattezza e precisione siano le maggiori qualità vocali del coro dell’Opera di Roma istruito da Roberto Gabbiani, come si è sentito nell’iconico «Si ridesti il leon di Castiglia» reso con una certa fiacchezza. Definiti giustamente “movimenti mimici” gli strani gesti dei ballerini di Michele Cosentino.

  

Rigoletto

Giuseppe Verdi, Rigoletto

★★★★☆

Milano, Teatro alla Scala, 20 giugno 2022

(video streaming)

Rigoletto è scandalosamente politico anche oggi

«Non toccatemi Verdi». Questo sembra essere il mantra del melomane che frequenta i teatri italiani. Ignaro di tutto quello che avviene al di fuori dei patri confini, se nel Rigoletto  non c’è la gobba, manca il Mincio e i costumi non sono quelli cinquecenteschi del dramma di Victor Hugo da cui deriva il libretto, allora si tratta di vera e propria lesa maestà nei confronti del compositore. Che poi questa lettura non avvenga per mano di un tedesco della Regietheater ma di uno dei più apprezzati registi italiani non conta: le contestazioni rivolte ai realizzatori della produzione alla fine della rappresentazione lo stanno a dimostrare – anche se come al solito questo succede solo alla prima e nelle repliche i bu spariscono.

Eppure Rigoletto è una delle opere più sconvolgenti di Verdi, quella per cui più ha dovuto combattere con la censura, un’opera che allora doveva essere un pugno nello stomaco per gli spettatori. Come dovebbe essere anche oggi. Il punto di partenza della lettura di Martone è la disparità sociale, del rapporto tra il potere e i deboli, reso molto chiaramente molto chiaramente dalla scenografia di Margherita Palli: da una parte il lusso, la droga, il sesso a pagamento nel loft del ricco; dall’altra il degrado dei tuguri dei miseri. Una semplice rotazione della grande scenografia ci porta in un mondo o nell’altro, due mondi che sono contigui: una porticina permette di passare dal loft ai sotterranei, così che Rigoletto possa fornire di cocaina le feste del padrone o che questi possa trastullarsi con la sorella di Sparafucile. E prima i suoi compagni di baldoriaavevano varcato la stessa porta per rapire Gilda. Dal primo piano ricco vengono gettati nei bassifondi i “rifiuti umani” quando non servono più, come le prostitute che dopo il lavoro sono ricacciate fra quelle luride mura e quando la porta rimane aperta permette di avere uno sguardo dal basso di quell’ambiente con i sofà bianchi e gli oggetti di design. Tutto quel bianco alla fine però si macchierà di sangue: con un finale a sorpresa, e non del tutto convincente in verità, gli emarginati si vendicano e uccidono il Duca e i suoi compagni come nel film Parasite di Bong Joon Ho. Una lotta di classe dal finale cruento e di gusto pulp che ha scatenato le rumorose contestazioni di parte degli spettatori.

Era ovvio che uno spettacolo come questo dividesse il pubblico, ma dalla critica sono pervenute quasi unanime lodi, con Angelo Foletto affermare che il Rigoletto di Martone non piace ai “prepotenti”: «succede che le prime della Scala siano ostaggio di pochi appassionati, si fa per dire, che con la prepotenza di scomposti ‘bu’ e ‘vergogna’, addirittura a sipario ancora aperto, decidono cosa l’autore avrebbe disapprovato condizionando il giudizio complessivo sullo spettacolo». Eppure era già nelle intenzioni di Verdi fare un’opera di denuncia sociale e Martone la rende soltanto più cruda e disturbante, più contemporanea – in una città le cui acque reflue sono piene di cocaina consumata non solo nei fine settimana ma tutti i giorni… Che poi questa lettura non sia neanche così originale a partire dal Rigoletto della Mafia di Little Italy di Jonathan Miller (ed era il 1982!) non è ovviamente alla portata del melomane medio (cit.). Lo spettacolo molto “teatrale” di Martone si distingue per la ricchezza di particolari che gettano luce su una drammaturgia di grande impatto e soprattutto per la intensa recitazione degli interpreti, prima fra tutti l’incantevole Gilda di Nadine Sierra nella sua tragica parabola da ragazza giovanilmente innamorata a donna che sceglie la morte essendo la sua prevedibile esistenza ancora peggiore. La tecnica sicura le permette di affrontare le agilità di «Caro nome» con facilità ed espressività, mentre la felice presenza scenica è ancora più convincente qui che non nella precedente vecchia produzione scaligera.

Arriva in scena e la voce riempie il teatro: Amartuvshin Enkhbat ritorna in una parte felicemente frequentata molte volte. Senza i cachinni di tradizione, la sua performance vocale ha una pulizia e un’autorevolezza che hanno pochi uguali, timbro pastoso e sonoro, proiezione mirabile e dizione scolpita sono le qualità della suainterpretazione. Migliorata è anche la resa attoriale e se non nella espressione del volto – ma questo è colpa delle regie televisive e dei loro spietati primi piani che ci hanno male abituati – il cantante riesce a dare una decisa caratterizzazione del personaggio anche senza la gobba, con un’andatura caracollante e nervosa che rispecchia la sua disturbata psicologia. Efficace il Duca di Piero Pretti, che tenta di dare spessore al personaggio senza esagerare nella spavalderia. Cupo più del solito il Monterone homeless di Fabrizio Beggi, meno cupo del solito invece lo Sparafucile di Gianluca Buratto. Marina Viotti è una convincente Maddalena.

Incomprensibilmente contestata anche la direzione di Michele Gamba che invece ha dato una lettura innovativa della partitura eliminando puntature di tradizione – ma il la bemolle alla fine di «Vendetta» è stato concesso – e scegliendo tempi adeguati. Si sa, la tradizione e Verdi non si toccano.

 

La Gioconda

 

Amilcare Ponchielli, La Gioconda

★★★☆☆

Milan, Teatro alla Scala, 11 juin 2022

 Qui la versione italiana

La Gioconda, retour à la Scala après 25 ans d’absence

Il avait disparu de la Scala depuis 25 ans, pourtant l’opéra de Ponchielli n’est pas une rareté dans le temple de l’opéra milanais. Si l’on regarde les dates des représentations, après la première du 8 avril 1876, La Gioconda a été reprise 15 fois jusqu’en 1952 (la fameuse production avec Callas) ; on note ensuite une absence de 45 ans jusqu’en 1996, avec Abbado : il est donc clair que la fortune de l’œuvre appartient à une période très spécifique qui ne s’est pas prolongée jusqu’à nos jours, même si cet  « opéra mélodramatique  » a encore de nombreux admirateurs…

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La Gioconda

 

Amilcare Ponchielli, La Gioconda

★★★☆☆

Milano, Teatro alla Scala, 11 giugno 2022

bandiera francese.jpg  Ici la version française

La Gioconda, melodramma melodrammatico

Mancava da 25 anni dalla Scala, ma non si può dire che l’opera di Ponchielli sia una rarità nel teatro milanese: se si guardano le date delle rappresentazioni però – dopo la prima dell’8 aprile 1876, La Gioconda fu ripresa altre 15 volte fino al 1952, quella con la Callas, poi un’assenza di 45 anni fino al 1996 con Abbado – è evidente che le fortune del lavoro appartengono a un periodo ben preciso, che non arriva ai giorni nostri nonostante questo «melodramma melodrammatico» abbia ancora molti estimatori.

I motivi perché La Gioconda, ispirata dal drammone Angelo, tyran de Padoue di Victor Hugo trasportato da Boito a Venezia, fosse tanto apprezzata allora ci sono tutti: vicende da feuilleton a tinte forti, quasi sadiche («bieca enormità dell’intrigo» la definiva Massimo Mila), coups de théâtre improbabili e personaggi scolpiti con la fiamma ossidrica. E poi una musica ben costruita, che sembra guardare al futuro – leggi il Verismo – ma è invece rivolta a un passato che in un certo qual modo rifaceva il grand opéra rivisto con le lenti del post-wagnerismo: le dimensioni in quattro atti, la presenza dei ballabili, i numerosi concertati e interventi corali richiamavano proprio quella stagione della musica francese dell’Ottocento i cui momenti d’oro si erano estinti negli anni ’50 con le ultime opere di Auber. Ma negli ultimi decenni del XIX secolo una nuova generazione di compositori francesi continuava a produrre opere in quel solco, parliamo di Massenet, Gounod, Saint-Saëns, Thomas, D’Indy, mentre in Italia musicisti come Gomes, Marchetti e appunto Ponchielli si collocavano anch’essi sull’evoluzione del grand opéra per arrivare a Verdi con quel sublime ossimoro con cui si può definire l’Aida: una grandiosa opera intimista.

Il gusto moderno fa fatica ad appassionarsi alle vicende narrate nei datati versi del giovane Arrigo Boito, che qui si firma per prudenza con l’anagramma Tobia Gorro, e ci vorrebbe un regista che volgesse quella assurda drammaturgia in parodia, o almeno ne facesse una lettura critica, come ha cercato di fare Olivier Py a Bruxelles tre anni fa. Ma ciò non succede con Davide Livermore, che alla Scala riserva sempre le sue letture più “moderate”.

Il regista torinese ricrea una Venezia lugubre e onirica, tra la Venise Céleste di Mœbius e il Casanova di Fellini, con i ponti, le scalette, i palazzi trasparenti disegnati da Giò Forma – anche se fin troppo realistico è invece il brigantino del secondo atto. La scena è infestata dai crudeli Pulcinelli del Tiepolo di Ca’ Rezzonico qui scherani del capo dell’inquisizione, dagli angeli della morte e dai genii del male calati dall’alto. Lugubri gondole, capitelli sospesi, bifore e colonnine in garza connotano la città lagunare. L’impianto ipertecnologico a cui ci aveva abituato Livermore è limitato alle proiezioni della D-Wok, qui poco più che decorative, con i profili delle chiese nella nebbia che sale dal mare, i soffitti a cassettone di palazzi grandiosi e una figura femminile che fluttua nell’acqua e che vuole forse accennare alla Cieca affogata nel canale. Meno curata del solito è anche apparsa la cura attoriale dei cantanti. Saioa Hernández è ritornata nella parte del titolo con cui aveva debuttato nei teatri emiliani quattro anni fa. Volume enorme, grande temperamento e tecnica impeccabile si alleano a un timbro particolarissimo che in questo repertorio è manna dal cielo per delineare il carattere del personaggio, tanto che il pubblico l’ha compensata con un diluvio di applausi al termine di «Suicidio!» e nei saluti finali. Anna Maria Chiuri, che in quella produzione era Laura Adorno, qui veste i panni della Cieca con efficace vocalità e buona presenza scenica, mentre Laura qui è Daniela Barcellona, interprete belcantista che in questo repertorio truculento ha fornito la bellezza del suono e la cura del fraseggio che le riconosciamo. Straordinariamente inciso è stato l’Alvise Badoèro di Erwin Schrott, che ha rinunciato a ogni gigioneria per concentrarsi sulla qualità della sua voce rendendo memorabile la sua scena e aria all’inizio del terzo atto. Altrettanto perfido ma non caricaturale il Barnaba di Roberto Frontali, risolto con grande mestiere dal baritono romano. L’indisposto Fabio Sartori è stato sostituito all’ultimo momento da Stefano La Colla le cui incertezze di intonazione, giustificate alla prima, sono continuate anche nella recita dell’11, ma il pubblico ha reagito pavlovianamente al suo acuto finale “col rinforzo” di «Cielo e mar» applaudendo una modesta prestazione caratterizzata da un volume ragguardevole ma pochezza di colori e di intenzioni. Fabrizio Beggi (Zuàne) e Francesco Pittari (Isèpo, Boito ama mettere gli accenti anche là dove non servono…) sono tra gli altri convincenti comprimari. Come sempre ottimo il coro istruito da Alberto Melazzi. Nella Danza delle Ore, prosaicamente coreografata da Frédéric Olivieri, si sono distinti gli allievi della scuola di ballo dell’Accademia del teatro.

Anche il pubblico, seppure formato in gran parte dai visitatori della Settimana del Design, ha compreso la scarsa qualità della direzione di Frédéric Chaslin: la sua è una concertazione senza nerbo con dinamiche improvvisate e assenza di colori strumentali. Eppure il fascino di una partitura come questa sta proprio nell’iridescenza dei toni orchestrali più che negli improvvisi slanci melodici che si estinguono prima di essere sviluppati. Purtroppo il direttore francese non sembra che l’abbia compreso.

 

La Gioconda

Amilcare Ponchielli, La Gioconda

★★★☆☆

bandieraitaliana1.gif   Qui la versione in italiano

Modena, Teatro Comunale Luciano Pavarotti, 25 March 2018

La Gioconda in Modena: a popularly acclaimed, small-town grand opera

For no other opera is the gap between scholars and public opinion so wide. Since 1876, when Amilcare Ponchielli’s La Gioconda debuted at La Scala in Milan with a success of unheard-of proportions, every time this drama is set up in some Italian theatre, its popular fortune is renewed.

Yet also the diffidence of the musicography in this colourful work, taken from Angelo, tyran de Padoue that Victor Hugo had written forty years before, remains unchanged. Nevertheless, audiences are subjugated by the opulence of the music of this small-town grand opera, which is not devoid of sections of undoubted effect and a wise musical construction. The problem is that in La Gioconda the characters have minimal psychological depth, being more like the representation of extreme feelings rather than credible dramatic characters…

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Lucrezia Borgia

Gaetano Donizetti, Lucrezia Borgia

Bergamo, Teatro Sociale, 22 novembre 2019

★★★★☆

(diretta streaming)

La maternità infranta di Lucrezia

La Lucrezia Borgia che viene ora presentata a Bergamo è l’edizione critica curata da Roger Parker e Rosie Ward e non coincide con nessuna delle tante versioni realizzate da Donizetti. È piuttosto un incrocio di due di esse: quella per la prima alla Scala del 1833 e quella realizzata per il Théâtre Italien a Parigi nel 1840. La versione realizzata per il Festival Donizetti Opera 2019 conserva tutti i cambiamenti adottati a Parigi nel 1840 – il cantabile con cabaletta di Lucrezia («S’involi il primo a cogliere») nel Prologo, la cabaletta rifatta a Firenze per Lucrezia e Alfonso nel primo atto, la romanza di Gennaro («Anch’io provai le tenere») dopo il coro del secondo atto, l’arioso finale per Gennaro («Madre, se ognor lontano») con la cabaletta scorciata per Lucrezia – ma mantiene il duetto Orsini-Gennaro («Onde a lei ti mostri grato») che fu cantato a Milano e tagliato a Parigi.

Alla guida dell’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini Riccardo Frizza tiene in perfetto equilibrio i diversi registri espressivi di questo lavoro, ossia il tragico e il comico, un grottesco scespiriano utilizzato da Hugo nella sua Lucrèce Borgia, ripreso con genialità da Donizetti ed efficacemente realizzato sulla scena da Andrea Bernard con la scenografia di Alberto Beltrame e i costumi di Elena Beccaro. L’elemento cardine della sua lettura registica è la maternità infranta di Lucrezia: prima dell’inizio vediamo una figura acconciata come il papa rapire dalla culla il neonato che la donna aveva dolorosamente allattato. Nel prosieguo altre culle punteggeranno la scena formata da una piattaforma persa in un nulla nero e scabro e sormontata da un soffitto a cassettoni dorati che si trasforma nel muro del palazzo ducale con la scritta dorata BORGIA a cui Gennaro toglie la B dopo averci pisciato sopra. Bernard muove benissimo il coro diviso in bande di giovinastri violenti e sbronzi e i personaggi principali ed è l’aspetto recitativo quello che contraddistingue l’interpretazione di questa Lucrezia Borgia, non più usignolo canterino preoccupato di dipanare le agilità vocali richieste, ma un personaggio psicologicamente contorto cui dà corpo Carmela Remigio con un’espressività intensa, al limite del manierato. Certo, il timbro è quello che è, il registro medio è roco, la dizione innaturale (le e strette sostituiscono quelle larghe e viceversa), le smorfie impietosamente evidenziate dai primi piani, ma con tutte queste limitazioni la figura della protagonista esce fuori in maniera efficace. Il Don Alfonso di Marko Mimica è perfettamente a fuoco come personaggio dal punto di vista scenico, non sempre lo è la vocalità, con bassi poco proiettati. Non ha problemi di proiezione invece la voce il Gennaro di Xabier Anduaga, bellissimo timbro, acuti facilissimi e mezze voci incantevoli. Una performance difficile da dimenticare. Nella parte di Maffio Orsini Varduhi Abrahamyan si dimostra ancora una volta un’eccellente interprete. Più eterogeneo il gruppo di comprimari, in cui si stacca per bellezza di suono il Rustighello di Edoardo Milletti. Molto bene il coro del Teatro Municipale di Piacenza istruito da Corrado Casati.