Mese: Maggio 2017

La Calisto

Francesco Cavalli, La Calisto

★★★★☆

Strasburgo, Opéra, 2 maggio 2017

(live streaming)

Le equivoche vicende della casta diva

Dopo L’Eliogabalo di Parigi, Il Giasone di Ginevra e in attesa de L’Erismena di Aix-en-Provence, ecco La Calisto dell’Opéra National du Rhin. Sembra che sia il momento di Francesco Cavalli, per lo meno sulle scene francofone.

Nella sua Calisto c’è una sorta di pan-erotismo in cui le relazioni amorose sono declinate in tutti i modi a prescindere dai sessi, dalle età, dalle convenienze coniugali: Giove ama Calisto, Calisto ama Diana, Diana ama ricambiata Endimione, Pan ama Diana, Linfea si sente «intenerire [per] qualche bel giovanetto» e Satirino… beh, è un satiro.

Nella lettura di Mariame Clément la vergine Calisto è già un’orsa quando si alza il sipario sulla fossa di uno zoo in cui il plantigrado riceve le cure amorevoli del guardiano Endimione. Come in un sogno entrano poi in scena i personaggi mitologici: dèi, cacciatrici di Diana, satiri. Diversamente dall’edizione di Jacobs/Wernicke, qui la farsa si attenua, si ride meno dei travestimenti, ma si sorride con una punta di malinconia in più. La sapiente direzione di Christof Rousset privilegia i tempi lenti e languidi e i tredici orchestrali dei suoi Talents Lyriques hanno modo di esaltare i timbri dei loro strumenti nella rilettura di questa scarna partitura.

La scelta di far impersonare dalla stessa interprete sia Diana sia Giove nelle vesti della dea cacciatrice è probabilmente quella originale di Cavalli e rende la vicenda più convincente: Calisto qui non è quella stupidotta che non riconosce il nume quando è travestito e si esprime in falsetto. È vero che così i suoi trasalimenti amorosi sono scopertamente omosessuali e gli scambi di tenerezze con la “dea” hanno una verità che rende poi la sua punizione da parte di Giunone particolarmente struggente.

Nella scena unica di Julia Hansen un cilindro centrale rotante diventa di volta in volta un ambiente funzionale alla vicenda, che sia la gabbia dorata in cui vive Giunone con i suoi pavoni o la piattaforma per osservazioni astronomiche quando la ninfa viene trasformata in costellazione. I bei costumi sono della stessa Hansen a cui si devono anche le maschere e le esplicite protesi dei personaggi semiumani.

Nel reparto vocale si fa notare l’eccellenza di quello femminile: Elena Tsallagova, dalla bella presenza e dal timbro luminoso, affronta con agilità la parte di Calisto. Nei duetti con la falsa Diana il soprano russo, anche se viene catalogato come lirico-coloratura, sa esprimere le giuste sfumature della sensualità. Triplo ruolo per Vivica Genaux, da Eternità a Diana a Giove/Diana cui basta un sigaro in bocca, uno sguardo ironico e un’andatura pesante per far trasparire l’originale nel travestimento. Grande esperta del repertorio barocco non c’è difficoltà tecnica che la fermi e può giocare facilmente con l’espressività e i toni caldi del suo timbro, sia come seducente e malinconica Diana – combattuta, in quanto dea della castità, tra il dovere e l’attrazione per il giovane Endimione – sia, appunto, nell’ennesimo travestimento del nume come figlia, il più rischioso di tutti. Anche la «moglie del gran motore», come si autodefinisce Giunone, trova in Raffaella Milanesi un’interprete autorevole e sensibile.

Piuttosto eterogeneo invece il cast maschile. Su tutti svetta l’Endimione di Filippo Mineccia per il quale neanche più si fa caso che canti da controtenore tanta è la naturalezza, la dolcezza, l’omogeneità e la pienezza del timbro di una voce dispiegata in un fraseggio accuratissimo e una dizione perfetta – le origine fiorentine vorranno pur dire qualcosa! Dizione che è invece il punto debole degli altri interpreti stranieri. Il fatto è che in un’opera del 1651 l’esatta articolazione della parola, che qui diventa musica, deve essere al primo punto. Invece, le inflessioni slave di Nikolay Borchev, Vasily Khoroshev e Jaroslaw Kitala (rispettivamente Mercurio, Satirino e Silvano) inficiano la resa di interpreti che comunque sono specializzati in questo repertorio. Giove dal fiato corto è quello di Giovanni Battista Parodi, ma ancora peggio, quasi inascoltabile, il Pan sguaiato di Lawrence Olsworth-Peter mentre Guy de Mey riesce a delineare una Linfea non volgare, anzi dotata di una certa eleganza che si fa ben volere quando appresta il suo picnic con bicchieri di cristallo e doppiere d’argento sognando un marito perché è stufa «tra le selve | seguire belve» ed è risoluta: «d’aver un consorte […] voglio essere goduta». Neppure il tenore belga è esente da imperfezioni di dizione, ma d’altro canto finché Cavalli lo fanno all’estero e non in Italia, non possiamo neanche lamentarci, anzi dobbiamo ancora ringraziare.

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Evgenij Onegin

Pëtr Il’ič Čajkovskij, Evgenij Onegin

★★★★☆

New York, Metropolitan Opera House, 26 aprile 2017

(live streaming)

Trionfo americano per Anna Netrebko

Il Metropolitan riprende il fortunato allestimento con la stessa Tat’jana, Anna Netrebko. Il previsto Dmitrij Hvorostovskij ha dovuto rinunciare per le avverse condizioni di salute che conosciamo e al suo posto si avvicendano due illustri voci baritonali del momento ossia Mariusz Kwiecień e Peter Mattei. Nella recita trasmessa live il 26 aprile il ruolo titolare è stato sostenuto dal cantante svedese dal timbro sontuoso ed elegante. Mattei ha privilegiato il lato cinico del personaggio di Onegin, che solo alla fine esplode nello slancio passionale, mancando però nella sua lettura l’insinuante e più sfacciata personalità di Kwiecień.

Bella performance è quella di Alexey Dolgov, un Lenskij efficace che rende credibile la sua sofferta gelosia che lo porta alla morte nel duello. Altrettanto eccellente è il terzo interprete maschile, Štefan Kocán principe Gremin. Il terzetto femminile è sostenuto da tre grandi cantanti russe: Elena Maximova, vivace Olga, un’ex Olga come Elena Zaremba (Larina) e soprattutto Larisa Diadkova, intensa Filipp’evna.

Di Anna Netrebko, fatta segno di un tripudio di ovazioni da parte del pubblico del teatro, non si può che confermare l’impressione avuta già nella precedente produzione: tre anni dopo la maturità vocale è ancora più stupefacente, l’immedesimazione col personaggio totale. La sua evoluzione da fanciulla sprovveduta e sognante a principessa piena di dignità che riesce a nascondere la passione giovanile che cova ancora in petto trova nel soprano russo un percorso perfettamente realizzato.

La regia di Deborah Warner non intralcia questo progetto che viene illustrato con mezzi tradizionali ma efficaci grazie anche alle scenografie di Tom Pye ben diversificate nei quattro ambienti in cui si svolge la vicenda posticipata in epoca čekoviana.

Altra star della serata si è dimostrato il giovane Robin Ticciati, la cui direzione appassionata ma precisa e sempre rispettosa dei cantanti è stata particolarmente apprezzata.

Medea in Corinto

  1. Bolton/Neuenfels 2010
  2. Luisi/Sicca 2015

★★★☆☆

1.  L’altra Medea. Quella di “papà Mayr”

Mayr nasce come Johann Simon in Baviera nel 1763, sette anni dopo Mozart e sette prima di Beethoven. Diventerà Giovanni Simone poiché si trasferisce in Italia, prima a Bergamo e poi a Venezia a seguito del suo protettore, il barone Thomas von Bassus. Tra il 1794 e il 1823 Mayr scrive quasi settanta opere tra drammi, opere semiserie e farse, diventando il compositore più famoso dell’epoca: Napoleone cerca invano di ingaggiarlo come direttore all’Opera di Parigi, Konstanze Mozart gli chiede di dar lezioni al figlio e ha come allievi Bellini e Donizetti, mentre Rossini lo considera il padre dell’opera italiana e suo modello. Alla morte di Mayr l’orazione funebre è letta da Giuseppe Verdi e le sue spoglie verranno solennemente affiancate a quelle di Gaetano Donizetti nella basilica di Santa Maria Maggiore a Bergamo. Per l’occasione Ponchielli scriverà una cantata.

Mayr ha la disgrazia di essere nato tedesco in un periodo di forti nazionalismi e durante il Risorgimento le sue opere scompaiono dai teatri italiani perché straniero, ma neppure vengono rappresentate in quelli tedeschi perché è considerato italiano!

Medea in Corinto appartiene ai lavori della maturità ed è considerato il capolavoro del compositore. Viene commissionato dal Teatro San Carlo di Napoli dove debutta il 28 novembre 1813 con Isabella Coltran protagonista titolare, l’Egeo di Manuel García e la figlia Maria Malibran a cinque anni come figlio di Medea. Dopo il grande successo l’opera viene ripresa con interpreti quali la Pasta e il Duprez nel 1829 a Milano.

Il libretto di Felice Romani si basa sulla tragedia euripidea con alcune libertà.

Atto I. Il regno di Corinto esulta per le prossime nozze tra il principe Giasone e Creusa, figlia del re Creonte. La felicità generale viene però funestata dalla presenza di Medea, moglie abbandonata di Giasone, famosa e temuta maga, e di Egeo, principe di Atene, pretendente alla mano di Creusa ma sprezzato da Creonte. Nel momento del matrimonio Medea rovescia l’altare sacro interrompendo il rito e profanando il tempio, mentre Egeo guida un manipolo di suoi uomini per impossessarsi di Creusa.
Atto II. Il colpo di Egeo è fallito: il principe ateniese è in prigione e il popolo si appresta a festeggiare e riprendere le interrotte nozze. Medea, intanto, medita una vendetta più tremenda: fingendo di chiedere perdono a Creonte, manda i suoi figli per offrire in regalo a Creusa la sua veste nuziale, intrisa di un potente veleno mortale (non prima di aver liberato dal carcere Egeo). Appena Creusa la indossa, muore tra atroci dolori: Giasone e Creonte, infuriati, corrono verso la casa della maga per vendicare la fanciulla. Ma Medea afferma di dover essere punita di una colpa ben più grave: non ancora esauritasi la sua sete di vendetta, per far soffrire ancora di più Giasone, ha ucciso i figli che ha avuto da lui. Dopo aver maledetto l’infedele, Medea fugge verso Atene con Egeo, mentre il regno di Corinto viene sconvolto dalle sue magie.

«Rispetto alla raffinata, classica compostezza della Médée cherubiniana [di sedici anni prima], l’opera di Mayr propone una rilettura fortemente drammatica della tragedia, come si evince chiaramente dall’epilogo di grande efficacia scenica di entrambi gli atti. La violenza espressiva della musica (che forza i termini di un libretto comunque modellato sull’opera metastasiana, in cui si confrontano ancora due coppie simmetriche di amanti) risulta particolarmente nella ‘scena d’ombra’ di Medea (secondo atto), anch’essa tipica dell’opera seria. In tutta la partitura, eminente è il ruolo dell’orchestra, memore sia dei classici viennesi che dei clangori delle musiche rivoluzionarie francesi, nonché arricchita dall’apporto – in Italia all’epoca decisamente insolito – di singoli strumenti capaci di conferire un colore specifico alla scena (le percussioni, l’arpa, i tromboni). In un secondo momento i recitativi secchi previsti dapprima da Mayr vennero, probabilmente su richiesta del teatro stesso, ridotti drasticamente e trasformati in recitativi accompagnati». (Raffaele Mellace)

In epoca moderna Medea in Corinto rivive solo nel 1977 con Leyla Gencer, ancora a Napoli, la prima di varie edizioni anche discografiche. Questa è la registrazione dello spettacolo presentato a Monaco di Baviera nel 2010.

Nadja Michael, che aveva cantato nel 2011 la Médée di Cherubini a Bruxelles nell’adattamento pop di Warlikowski, riprende il ruolo in questo lavoro di Mayr in cui può dispiegare la sua forte personalità. Entra in scena come uno sciamano, ma ben presto resta in négligé di satin nero. Le note scure e un intenso vibrato caratterizzano la sua performance non impeccabile dal punto di vista del bel canto, ma indubbiamente molto teatrale. All’opposto, il Giasone di Ramón Vargas è vocalmente più accurato, ma scenicamente insipido. Molto brava Elena Tsallagova come Creusa e piacevole vocalmente l’Egeo di Alek Shrader. Un Creonte gobbo e sgradevole è efficacemente impersonato da Alastair Miles. Ivor Bolton riporta al massimo fulgore la partitura accentuandone gli aspetti drammatici, ma senza tralasciare le finezze dell’orchestrazione di una partitura intensa.

Anche se non è per nulla evidente nel libretto, gli abitanti di Corinto vivono nel terrore e nell’oppressione, o per lo meno questo è il Konzept del regista Neuenfels in questa vicenda di re in guerra, matrimoni utilizzati come alleanze e una pericolosa ex-moglie alquanto psicotica. Scene di torture, violenze, stupri e uccisioni si susseguono ad ogni passo, soprattutto quando i cantanti intonano le arie più liete. Così quando Creonte intona «Vederti felice | d’un prode consorte, | il core d’un padre | chiedeva alla sorte» si ha il cruento sacrificio di tre fanciulle e l’uccisione di due giovani gladiatori, mentre durante l’aria di Creusa, con quell’ineffabile sublime accompagnamento dell’arpa, soldati stuprano delle prigioniere e così via. Per buon peso anche Egeo ammazza inspiegabilmente i suoi uomini quando viene liberato da Medea. Spesso presenti in scena sono Imene e Amore, due mimi-ballerini che interagiscono, spesso inutilmente, con i personaggi.

Ricchi i costumi di Elina Schnitzler dei corinzi e magnifica la «gemmata vesta» che uccide Creusa, qui una giacchetta preziosamente ricamata. La scenografia di Anna Viebrock consiste in una casa borghese aperta e su due piani sormontata da una casetta in bilico che solo alla fine svelerà la sua funzione: si librerà infatti in volo con dentro Medea, che secondo il libretto fugge «attraversa[ndo] la scena sul suo carro tirato da due draghi».

Sottotitoli in otto lingue, compreso l’italiano che però è zeppo di errori. Quasi 50 minuti di bonus extra.


★★★☆☆

2. Papaveri e colombe

L’horror vacui di certi registi non risparmia da tempo la sinfonia introduttiva: durante l’esecuzione di questa Medea di Mayr al Festival della Valle d’Itria vediamo ballare una coppia di giovani che scopriremo essere i figli, cresciutelli, di Medea e Giasone. Assieme ad altri ballerini e mimi imperverseranno per tutta l’opera a punteggiare le arie dei solisti o gli interventi corali. L’idea del regista Benedetto Sicca è quella della famiglia spezzata, cui allude lo squarcio nella piattaforma fiorita di papaveri, unico elemento della scenografia di Maria Paola di Francesco che utilizza come sfondo la facciata del Palazzo Ducale abilmente illuminata da Marco Giusti.

Suggestivo, ma l’opposto della drammaticità cui voleva giungere l’autore, il finale: Medea appare a una finestra del palazzo e dalla “tomba” in cui sono stati deposti i cadaveri dei figli escono delle colombe bianche, come nella più scontata scenografia nuziale, mentre il coro canta «A tanto orror deh! tolgasi… | Ah! par che da’ suoi cardini | si svelga il mondo tutto… | Che scena! oh dèi! che lutto! | che sanguinoso dì!».

Corpetto strizza-tette aperto fino all’ombelico per Creusa, gonna-tenda-plissettata per Giasone e parrucche di lana costituiscono i brutti costumi di epoca imprecisata di Tommaso Lagattolla.

Nel ruolo titolare Davinia Rodríguez lascia una performance di rilievo seppure non omogenea, con difficoltà nel registro grave. Non sempre convincente la Creusa di Mihaela Marcu dal colore scuro e non impeccabile nel fraseggio. Michael Spyres spara con agio i suoi acuti ma la parte di Giasone qui non dà modo di eccellere nella definizione di un personaggio che rimane superficiale. Roberto Lorenzi è un Creonte troppo giovane che parte con difficoltà riprendendosi solo dopo. Altrettanto giovane ma meglio adatto al carattere bellicoso di Egeo il tenore Enea Scala dal particolare timbro e dallo squillo luminoso.

Non trascurabile il ruolo del coro, qui quello Filarmonico di Stato della Transilvania, impegnato in moderne architetture musicali. Alla testa dell’Orchestra Internazionale d’Italia Fabio Luisi concerta con sicurezza seguendo il respiro melodico della partitura e lasciando respirare i cantanti.