Mese: Maggio 2017

Der Rosenkavalier

Richard Strauss, Der Rosenkavalier

★★★★★

New York, Metropolitan Opera House, 16 maggio 2017

(live streaming)

L’ultima Marescialla della Fleming

Renée Fleming ha cantato più di settanta volte la Marschallin nel Rosenkavalier di Richard Strauss e questa ha deciso che sia l’ultima volta. Abbandona il ruolo che forse l’ha resa più famosa e in cui ha meglio espresso le sue qualità vocali ed espressive. Con meno recite alle spalle, anche Elīna Garanča ha deciso di abbandonare la parte di Octavian per affrontare un nuovo repertorio. Nella serata trasmessa in streaming dal Metropolitan l’intesa tra le due interpreti è palpabile: la Marescialla della Fleming raggiunge il massimo pathos  e quando entra in scena questa commedia giocosa viene trasformata in uno struggente inno alla vita e al tempo che passa.

Per l’occasione Robert Carsen ha approntato una versione della vicenda trasportata dal XVIII secolo agli anni che precedono la Prima Guerra Mondiale, quelli del debutto dell’opera, avvenuto nel 1911. Faninal è un borghese arricchitosi con la vendita di armi e l’ultima immagine che vediamo nello spettacolo è una fila di soldati che muoiono sotto il cannone che avevamo visto esposto nel salone del suo palazzo. È la fine di un’era, non solo quella dell’Austria felix, ma di un intero mondo.

Nel primo atto la scenografia di Paul Steinberg ci aveva introdotti nella camera da letto della Marschallin con la fuga di saloni del principesco palazzo viennese. Nel secondo atto siamo negli ambienti più trendy del palazzo acquistato da Faninal e disegnato da un architetto Jugendstil. Il terzo è l’ambiente di un lussuoso bordello in cui quadri licenziosi  (che a un certo punto si illuminano come in un peep show) rimpiazzano i ritratti degli Asburgo di palazzo Werdenberg.

Altissima è l’attenzione attoriale da parte del regista, ma qui si va sul sicuro con gli interpreti a disposizione. Già si sapeva come la Fleming fosse un’attrice consumata, ma in questa nuova produzione sembra superare sé stessa nell’espressione controllata delle sue emozioni: la vulnerabilità, la coscienza di non essere più giovane (32 anni! ma siamo nel Settecento), il desiderio di fermare il tempo per non arrivare a quel giorno («Heut oder morgen oder den übernächsten Tag») quando sarà abbandonata da Octavian, che ha la metà dei suoi anni, e avrà trovato una ragazza più bella e più giovane di lei. Ma nel finale il regista introduce una trovata maliziosa: invece di uscire al braccio di Faninal, qui è a quello del giovane ispettore di polizia, ex intendente del marito, e probabilmente suo prossimo amante.

Se la Marschallin rappresenta il côté malinconico, crepuscolare del Rosenkavalier, il lato farsesco è impersonato dal barone Ochs, qui uno strepitoso Günther Groissböck, dalla fisicità infaticabile e vocalmente irrefrenabile nel suo marcato dialetto viennese. Mattatore nel primo atto, onnipresente nel secondo, malinconicamente fallito nel terzo, il tour de force è portato a termine in maniera spettacolare dal baritono austriaco che delinea un personaggio ben distante dalla figura bonario del “vecchio zio”: qui è un agguerrito cacciatore di doti necessarie a raddrizzare i declinanti affari di famiglia e uno che non si ferma nemmeno davanti al ricatto quando scopre la relazione della cugina con il giovane.

L’Octavian di Elīna Garanča gioca sul filo del rasoio tra femminilità e mascolinità: per ben due volte il ragazzo si traveste da donna, la seconda come una Marlene Dietrich dell’Angelo Azzurro, con esilaranti risultati. Forse troppo esilaranti per il Rosenkavalier? Sì se si pensa agli allestimenti cui siamo abituati e che spesso sono rivolti a una esaltazione della malinconia della vicenda suggerita da Hofmannsthal, no se si legge con attenzione il libretto. La Vienna di Carsen è la Vienna degli scandalosi Sigmund Freud, Karl Kraus e Arthur Schnitzler – il cui Reigen aveva destato la censura imperiale.

Con il cameo dello strepitoso Matthew Polenzani, il Cantante Italiano, il resto del cast è di ottimo livello. Erin Morley è una Sophie deliziosa ma dalle idee chiare, quasi una agguerrita suffragetta; Markus Brück un tronfio ed efficace Faninal; Tony Stevenson, il proprietario della locanda, è qui la tenutaria del bordello la cui orchestrina tutta al femminile che allieta i clienti viene direttamente dal film di Billy Wilder A qualcuno piace caldo.

Sebastian Weigle dirige con chiarezza e tempi acconci la partitura, ma è difficile dare un giudizio sui volumi sonori a causa dell’audio a tutti decibel con cui le opere in streaming vengono proiettate nelle sale cinematografiche, per lo meno qui a Torino.

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Maria Stuarda

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Gaetano Donizetti, Maria Stuarda

★★★★☆

Genova, Teatro Carlo Felice, 17 maggio 2017

Antoniozzi conclude la sua trilogia Tudor

Davanti allo specchio dei rispettivi camerini le due regine si danno gli ultimi ritocchi: la sarta aggiusta le pieghe della gonna, la truccatrice sfuma col pennello il rosso delle gote. Poi le due donne si alzano, si salutano affettuosamente come care amiche e salgono in “scena”, una piattaforma quasi circolare, per una volta non rotante, cui si accede da quattro lati tramite gradini. Due inservienti hanno nel frattempo portato via frettolosamente un ceppo e una scure. Così inizia l’allestimento della Maria Stuarda di Donizetti, opera per la prima volta sulle tavole del Teatro Carlo Felice, con cui il regista Alfonso Antoniozzi conclude gli allestimenti della “trilogia Tudor” del compositore bergamasco.

Questo inizio non prelude alla solita declinazione di teatro nel teatro, però. La lettura di Antoniozzi rimane su una meta-teatralità molto sobria e la vicenda, che nel libretto del Bardari di verità storica ne ha ben poca, è fedelmente narrata nella sua drammaturgia. Il regista concentra giustamente tutto il dramma nella tensione psicologica fra le due donne, tensione che culmina nella invettiva che conclude il primo atto e che suggella definitivamente il destino della Stuarda. Questa celeberrima scena è trattata con intelligente sobrietà nella lettura del regista, sobrietà esaltata nel finale: qui non c’è nessun patibolo insanguinato o effetto grandguignolesco – «il truce apparato» è già stato portato via all’inizio, come abbiamo visto – e Maria abbraccia una croce scesa dall’alto e rimane lì, «innocente, infamata, sì», risparmiandoci la testa mozzata e rotolante per il palcoscenico, come s’è visto talvolta.

A sipario aperto appaiono le candide gorgiere e le nere palandrane del coro dei cortigiani; nera è la piattaforma e neri sono i pochi elementi scenografici in stile Tudor della scarna scenografia di Monica Manganelli. Soli accenti di colori sono gli abiti dei sei protagonisti, disegnati come sempre con sontuosa fantasia da Gianluca Falaschi. Preziosamente realizzati e giustamente voluminosi (con fatica si adattano allo stretto trono gotico!) quelli delle due regine, altrettanto volutamente eccessivi quelli degli uomini. Gli ampi gonnoni di Talbot, Cecil e Leicester danno a questi personaggi una figura “femminilizzata” e impacciata che mette in risalto la decisionalità e il temperamento delle due regine, gli unici personaggi “attivi” di questa vicenda, anche se quello di Roberto di Leicester, in raso celeste ricamato, è imposto a un cantante che già di suo dispone di una corporatura generosa. Impietoso diventa il contrasto tra l’elegante bozzetto riportato sul programma di sala e il risultato visto dal vivo.

Per il debutto di Maria Stuarda il teatro genovese non ha lesinato sul cast, anzi sui cast, visto che quello alternativo è parimente superlativo. Alla prima il ruolo della protagonista titolare è stato affidato a Elena Moșuc, soprano rumeno ben noto in Italia, la quale ha incantato il pubblico genovese con le straordinarie mezze voci di «quando di luce rosea» nel suo ultimo incontro con Talbot e poi nella sublime preghiera del finale resa in maniera struggente. Preziosi sono stati in questi momenti i contributi del coro e dell’orchestra diretta da Andriy Yurkevych, concertatore di grande sensibilità e maturità, che ha dipanato la partitura con volumi sonori e tempi sempre giusti riuscendo dalla buca a sostenere in maniera ideale il canto degli interpreti sul palco. Ottima prova hanno infatti dato gli orchestrali del teatro, che si sono distinti sia nei raffinati assoli strumentali sia nei pieni delle pagine più drammatiche.

Inflessibile rivale della Moșuc è Silvia Tro Santafé: il bravissimo mezzosoprano valenciano con la sua voce d’acciaio delinea una Elisabetta di grande carattere che non eccede mai negli effetti, ma sa invece usare in maniera magistrale il suo particolare timbro vocale con colori ed espressività sempre perfettamente dosati. Come la rivale,  anche lei dimostra una grande presenza scenica risolta con eleganza.

Terzo big della serata è nientemeno che Celso Albelo. C’è poco da aggiungere alle qualità canore del cantante tinerfeño, anche qui ampiamente dimostrate: bellissimo timbro, fraseggio affascinante, squillo luminoso, tutto al servizio di un personaggio che vive solo per la bellezza della musica che canta, non certo per quello che fa.

Un po’ sopra le righe il Cecil di Stefano Antonucci, che accenta in maniera esagerata ogni parola, mentre più efficace è risultato il Talbot di Andrea Concetti. Alessandra Palomba è Anna, la fedele nutrice di Maria.

Festose accoglienze per tutti i protagonisti dello spettacolo, con particolari ovazioni per i tre interpreti principali da parte di un pubblico, ahimè, poco numeroso. Scoraggiante risultato per un teatro che ha speso le sue migliori risorse per uno spettacolo che si spera attivi un ben maggiore riscontro nelle repliche.


foto © Teatro Carlo Felice

Madama Butterfly

Giacomo Puccini, Madama Butterfly

★★★☆☆

Torino, Teatro Regio, 6 febbraio 2014

Butterfly, un caso di turismo sessuale

«Gli abbonati sono preoccupatissimi. Il teatro è piccolo, la gente mormora e dalle segrete stanze del Regio trapela che la nuova Madama Butterfly non sarà ambientata nel solito Giappone da servizio da thé con i kimono e i ventagli […]. Stavolta Butterfly sarà fatta per quel che è: un caso di turismo sessuale». Così iniziava la presentazione di Alberto Mattioli dello spettacolo che nel novembre 2010 avrebbe turbato i melomani torinesi. Eppure quella discussa produzione verrà riproposta altre due volte nel teatro torinese, nel 2012 e ora nel 2014. E senza destare più troppe polemiche.

La lettura di Damiano Michieletto allora aveva fatto scalpore: la coloratissima scena rappresenta una generica metropoli dell’oriente di oggi (le scritte pubblicitarie sono in giapponese, coreano, cinese e tailandese): la «casa a soffietto» comprata da Pinkerton è un cubo di vetro, una scala metallica porta presumibilmente alla stazione di una ferrovia urbana, enormi poster con visi femminili convivono con carrettini dello street food. In scena non vediamo la casetta sulla collina circondata da alberi fioriti: i fiori sono macchie colorate disegnate da Butterfly e dal figlio sulle pareti trasparenti di questa “gabbia” spersa nella degradata periferia metropolitana. Il “matrimonio” è una raffazzonata festa in cui Goro, macchina fotografica e microfono in mano, fa partire gli applausi a comando come in un set televisivo. Coerente con la messinscena è poi la sostituzione del coltello cerimoniale con un prosaico revolver per il suicidio di Butterfly.

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Ma se la scenografia di Paolo Fantin può in un primo momento rivelarsi spiazzante, la drammaturgia del regista è invece fedele al libretto, anche se qui Pinkerton non arriva su «una nave bianca», ma su una fuoriserie firmata Giugiaro con i fari accecanti. La caratterizzazione dei personaggi è comunque quella di sempre: l’arroganza yankee del luogotenente, l’accomodante passività del console, l’assenza di scrupoli del ripugnante Goro o del pretendente Yamadori, la volgarità dei parenti di Butterfly. E soprattutto rimane la sottile denuncia della compra-vendita sessuale e la sua sconcertante attualità, qui messa sì in drammatica evidenza, ma presente chiaramente nel libretto di Illica & Giacosa. Manca certo il gusto liberty che affiora talora nella partitura, ma l’idea di fondo di Michieletto è portata avanti con coerenza e intelligenza e con momenti di grande sensibilità come la scena del bambino che gioca con le barchette di carta in una pozzanghera prima di essere picchiato crudelmente dai bulletti del quartiere.

La triste fragilità della ragazza giapponese trova in Amarilli Nizza, Butterfly “americanizzata” in jeans e t-shirt coi lustrini nel secondo atto, una sensibile interprete pur dalla voce non grande e affetta da un eccesso di vibrato. Massimiliano Pisapia sfoggia il suo bel timbro e un invidiabile squillo, ma è talora debordante e rinuncia a qualsiasi approfondimento psicologico del personaggio di Pinkerton. Vocalità non del tutto convincente quella di Alberto Mastromarino, uno Sharpless comunque signorile. Nel complesso la parte musicale non è delle più entusiasmanti, neanche la direzione di Pinchas Steinberg, concertatore di sicuro mestiere ma niente più, che già aveva inaugurato la produzione quattro anni fa.

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Don Giovanni

Wolfgang Amadeus Mozart, Don Giovanni

★★★★☆

Milan, Teatro alla Scala, 14 May 2017

bandieraitaliana1.gif   Qui la versione in italiano

Don Giovanni as “unlimited myth” at La Scala

In 2011 Robert Carsen’s Don Giovanni inaugurated the La Scala season amid disputes about its outrageous modernity. The same production now returns at the Milanese theatre and it looks hyper-traditional in comparison to what has been seen in the stagings by Calixto Bieito, Martin Kušej, Claus Guth, Dmitri Tcherniakov or Krzysztof Warlikowski, to name just a few.

On the first notes of the ouverture, and with lights still lit in the auditorium, Don Giovanni comes out of a stage-box and breaks onto the scene by pulling down the curtain…

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Don Giovanni

Wolfgang Amadeus Mozart, Don Giovanni

★★★★☆

Milano, Teatro alla Scala, 14 maggio 2017

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Il mito senza limiti  di Don Giovanni

Nel 2011 aveva inaugurato la stagione del teatro milanese tra contestazioni e critiche di eccessiva modernità. Ora il Don Giovanni di Robert Carsen ritorna in scena nello stesso teatro e sembra una messa in scena ipertradizionale in confronto a quanto si è poi visto nelle letture del capolavoro mozartiano da parte di Calixto Bieito, Martin Kušej, Claus Guth, Dmitrij Černjakov o Krzysztof Warlikowski, per fare solo qualche nome.

Sulle prime note dell’ouverture, e con le luci ancora accese in platea, Don Giovanni esce da un palco di proscenio e irrompe sulla scena tirando giù il sipario che scopre un enorme specchio riflettente la sala del Piermarini con il suo pubblico. Don Giovanni è il teatro stesso, in cui abita e di cui prende il controllo – il corridoio di platea, il palco di proscenio appunto, ma anche il palco reale, come vedremo – e Leporello è un lavoratore del teatro, ha la stessa tuta dei servi di scena che aiutano a creare il mondo fittizio cui stiamo assistendo. L’azione che vediamo in scena è spesso teatro nel teatro, in cui Don Giovanni, seduto in poltrona, diventa spettatore lui stesso della vicenda.

Gli elementi scenografici di Michael Levine sono costituiti da sipari rossi su schermi scorrevoli: le ripetute sortite di «Ah chi mi dice mai» sono effettivamente “uscite” da successive porte di scenari di Donna Elvira seguita dalla cameriera con le valigie. Ci saranno poi visioni multiple del proscenio in un’audace mise en abyme, una prospettiva infinita che sembra voler fare riferimento al «mito senza limiti», come lo definisce Carsen nelle sue note di regia.

L’ambientazione in abiti moderni cede il passo a costumi d’epoca in un velluto rosso, uguale a quello del sipario, per la scena del ballo in maschera a casa di Don Giovanni, il momento più teatrale del bellissimo allestimento, momento in cui Carsen dà significato a quel «Viva la libertà» spesso incomprensibile: per un breve attimo tutti quanti si lasciano andare prima del turbinoso finale del primo atto, uno dei più bei finali di quest’opera mai visti in scena, con Don Giovanni che fugge alle spade sguainate dei suoi assalitori facendo calare il sipario che scendendo le fa cadere loro di mano.

Altro coup de théâtre è l’apparizione del Commendatore, momento topico troppe volte disatteso o male inscenato: qui c’è la sua immagine distorta sullo specchio che riflette il cantante in piedi nel lontano palco reale. E infine il finale, in cui i protagonisti sono vestiti come per una prima e hanno in mano il programma della serata – i nobili per lo meno, ché Masetto e Zerlina sono un po’ gli impacciati parvenu in bianco e Donna Elvira non smette il suo négligé di satin nero. Se fino a questo momento la drammaturgia di Carsen ha seguito più che fedelmente il libretto, ora c’è la sorpresa: il suo Don Giovanni non può finire dannato all’inferno in cui non crede: viene sì infilzato dalla spada vendicatrice del Commendatore, ma sono piuttosto i suoi antagonisti che finiscono sottoterra tra fumi rossastri quando lui ricompare all’ultimo minuto, beffardo e con la sigaretta in mano, più vivo che mai: noi siamo prigionieri della nostra mortalità, mentre Don Giovanni è un mito che tende all’immortalità. Le sue prime parole nell’opera erano state «Chi son io tu non saprai», rivolte sì a Donna Anna, ma anche a noi, pubblico del XXI secolo che non saprà mai chi sia veramente questo “sconosciuto” libero pensatore lontano anni luce dalle nostre quotidianità.

Thomas Hampson aveva registrato il suo Don Giovanni con Harnoncourt nel 1991 e ancora con Harding nel 2006. Già allora la voce era affaticata, ora la situazione non è migliorata: il timbro è sfibrato, i fiati corti e il baritono americano si rifugia spesso nel parlato. Nonostante questi mezzi vocali riesce comunque a definire il personaggio grazie a una grande presenza scenica. Come Leporello c’è il genero, Luca Pisaroni, debuttante alla Scala, cantante eccelso dal timbro prezioso e che nei recitativi e nell’aria del catalogo mette in luce tutte le possibili sfumature del testo.

Donna Anna qui è più addolorata che vendicativa, una Hanna Elisabeth Müller di bella voce che risolve con facilità le agilità richieste dalla sua parte. Al suo fianco ha un Don Ottavio meno esangue del solito nell’ottimo Bernard Richter. Donna Elvira di gran temperamento è Anett Fritsch mentre la vivace coppia di popolani trova in Giulia Semenzato e Mattia Olivieri due interpreti efficaci. E infine Tomasz Konieczny, un Commendatore dal volume sonoro impressionante ma dalla dizione inammissibile.

Paavo Järvi stacca tempi non trascinanti ma rispettosi dei cantanti e dà una lettura che pur nella solennità non rinuncia a mettere in evidenza le preziosità orchestrali della partitura.

Semiramide

Gioachino Rossini, Semiramide

★★★☆☆

Nancy, Opéra National de Lorraine7 maggio 2017

(live streaming)

L’Arsace di Fagioli

Dopo tanti Arsaci en travesti – in cui sono sfilati i più grandi contralti del passato, dalla Rosa Mariani del debutto nel 1823 a Giulietta Simionato, da Marilyn Horne a Lucia Valentini Terrani alla recente Daniela Barcellona – per la prima volta il figlio di Semiramide ha corpo maschile, anche se con la voce di un contraltista, quella di Franco Fagioli, operazione di cui si possono capire le motivazioni, ma che porta a risultati discutibili.

Non nuovo a exploit rossiniani nell’interpretare sulla scena ruoli che sono in genere appannaggio di cantanti femminili, l’esibizione del cantante argentino è come sempre sorprendente per agilità e precisione, ma risulta fine a sé stessa e la vocalità artificiosa, assieme alle continue smorfie, non aiuta a rendere credibile il personaggio. Il problema è che l’Arsace di Rossini non è uno dei tanti manichini stereotipati dell’opera barocca, ma ha uno spessore psicologico che qui viene a mancare. Fagioli è un Arsace settecentesco più che ottocentesco, più Porpora che Rossini – ma quasi cento anni separano i due compositori, anche se l’ultima opera italiana di Rossini è volta al passato, è un omaggio all’opera seria del secolo precedente.

La scelta di questo particolare registro è tuttavia coerente con l’impostazione registica della tedesca Nicola Raab che ricrea uno spettacolo barocco nel suo teatro nel teatro con un palco sopraelevato, i tiranti e le luci, il sipario, al fine di rappresentare le terribili finzioni in cui vivono i personaggi della vicenda. Unico elemento scenico di rilevanza è uno specchio che riflette i protagonisti o fa loro intravedere il fantasma del loro subconscio, uno specchio che Assur spezza attraversandolo. I sontuosi costumi diacronici di Julia Müer sono altrettanti rimandi teatrali: il Re Sole di Idreno, le parrucche incipriate, i panier, le scarpe dorate con la fibbia e il fiocco, il trucco dei visi, i gesti e le movenze. Non mancano momenti di involontario umorismo nella regia, come quando Arsace dice a Oroe «porgi omai [il] sacro acciar del genitor» e questi gli indica il tavolino con sopra la spada come a dire «sta lì, non lo vedi?» o ancora il duetto di Arsace con la madre con tutto quel ballonzolare di crinoline o la lettura delle lettere, sempre rischiosa per il subitaneo cambio di registro della voce con effetti spiazzanti.

Nel ruolo titolare c’è la rivelazione della Donna del lago dello scorso ROF, Salome Jicia, la cui chiarezza di dizione, la padronanza del fraseggio e il timbro omogeneo ancora una volta hanno appagato il pubblico. Talmente efficace e nobile come Oroe si dimostra il nostro Fabrizio Beggi che gli si fa fare anche l’ombra di Nino, vero deus ex machina della vicenda. Di livello inferiore il resto del cast: Matthew Grills è un Idreno senza personalità, Nahuel Di Pierro un Assur talora troppo parlato. Da dimenticare Mitrane e Azena. Insoddisfacente il coro, che unisce quelli di Nancy e di Metz, formato da voci non proprio fresche per le quali non serve l’immobilità catatonica cui lo costringe la regia a rendere più precisi gli attacchi e le intonazioni.

Con i soliti vituperati tagli la direzione ritmicamente precisa ma anonima di Domingo Hindoyan porta la durata dell’esecuzione a poco più di tre ore.

Bomarzo

L’orco, Parco dei mostri (Sacro bosco), Bomarzo (Viterbo)

Alberto Ginastera, Bomarzo

★★★★☆

Madrid, Teatro Real, 5 maggio 2017

(live streaming)

«Mai farei a cambio, anche se son povero, con il duca di Bomarzo» (1)

Come nel Nano di Zemlinsky o Gli stigmatizzati di Schreker, il brutto, il deforme ridiventa soggetto di un’opera del Novecento.

Dopo cinquant’anni esatti dalla sua creazione, torna in scena a Madrid, coprodotta con Amsterdam, la seconda opera del compositore argentino Alberto Ginastera, Bomarzo, op. 34 (2). E sono anche quarant’anni dalla sua ultima rappresentazione al Coliseum di Londra nel 1976. Proibito dal regime militare allora appena insediato, il lavoro debuttò al Lisner Auditorium di Washington il 16 maggio 1967 e fu rappresentato in Argentina solo nel 1972. Il libretto di Manuel Mujica Lainez è basato sul suo omonimo romanzo storico pubblicato nel 1962, primo di una trilogia che comprenderà El unicornio (1965, ambientato nella Francia medievale) e El laberinto (1974, nella Spagna del XVI secolo).

In Bomarzo si narra di Pier Francesco Orsini (1523-1585), duca di Bomarzo, che nasce deformato dalla gobba. Il suo astrologo gli fa bere una pozione che lo renderà immortale, secondo quando predicono le stelle. Ma la pozione viene avvelenata e il duca, nel tempo che gli resta da vivere, in una serie di flashback richiama alla memoria la sua vita passata quando il padre lo trascinava da piccolo in una stanza dove pendeva uno scheletro per il gusto di terrorizzarlo. O quando veniva fatto oggetto di scherno e tormentato dai fratelli. Ancora vergine, il giovane Pier Francesco va a far visita alla cortigiana fiorentina Pantasilea, ma la stanza piena di specchi che riflettono la sua immagine deforme lo fa fuggire. In seguito alla morte in battaglia del padre e poi del fratello maggiore Girolamo, caduto da una roccia, Pier Francesco diventa duca e incontra Giulia Farnese, se ne innamora, però lei gli preferisce il fratello Maerbale. Alla fine comunque si sposano, ma il duca si dimostra impotente. Fa costruire grandi sculture di pietra che raffigurano la sua anima torturata («Puesto que soy un monstruo, me he rodeado de monstruos fraternos que encarnan los episodios de mi vida doliente») e si consuma nella gelosia per il tradimento della moglie con il fratello, che fa uccidere dallo schiavo Abul. Nell’ultima scena, nel gabinetto alchemico dell’astrologo, il figlio di Maerbale, Nicola, avvelena la pozione che dovrebbe renderlo immortale e Pier Francesco muore: «¡Capitán de los Monstruos de Piedra!… Sacro Bosque fatal, oscuro Sacro Bosque, ¿será ésta la inmortalidad que los astros explican?».

Ginastera affida a due atti suddivisi in quindici quadri separati da interludi orchestrali (su modello del Wozzeck di Berg) un linguaggio aperto alla tecnica seriale e allo sprechgesang. L’orchestra è smisurata, il numero di strumenti a percussione è sorprendente (ben 73!), i legni intonano intervalli microtonali e i trilli di un clavicembalo evocano sì il Rinascimento, ma hanno anche un colore macabro. In certi passaggi agli esecutori viene richiesto di improvvisare simultaneamente e il coro, nascosto in buca, fa talora parte del tessuto orchestrale. La tecnica dodecafonica qui è ben lontana dall’essere rigorosamente applicata, lasciando spazio a momenti in cui le note si organizzano in un tema, come è il caso di quello del “dies irae”, che appare nel ballo del settimo quadro, o in scarni lacerti di madrigali e temi popolari.

Nella lettura allucinata e antinaturalistica del regista Pierre Audi non ci sono gobbe (o pavoni o liuti): la deformità di Orsini è nel suo senso di inferiorità, così come la sua impotenza è conseguenza dell’attrazione omosessuale per il suo schiavo Abul. Il supposto tradimento della moglie Giulia è qui rappresentato esplicitamente e il duca ammazza la sposa il giorno delle nozze, o per lo meno così crede nella sua allucinazione. Costante è il contrasto tra l’immagine che Pier Francesco percepisce di sé e la figura atletica del fratello Girolamo («atlético, hermoso, musculoso, petulante, obtuso, procaz y despótico», che si mostra spavaldamente nudo prima di morire, qui per mano della nonna. Sette figure maschili di età differenti e vestite come Orsini sono spesso in scena a rappresentare l’ossessione del duca per l’immortalità mentre un gruppo di danzatori si muove sulla coreografia di Amir Hosseinpur e Jonathan Lunn nel rappresentare le scene orgiastiche che avevano fatto scattare la censura dei colonnelli argentini. La scenografia di Urs Schönebaum utilizza tubi luminosi che formano disegni e strutture cangianti che scandiscono gli spazi mentre i video di Jon Rafman riempiono il fondo della scena. Belli i costumi di Wojciech Dziedzic che per il protagonista ha cucito una giacca dorata fatta di sole maniche!

Costantemente in scena, Pier Francesco ha la voce di John Daszak che affronta con coraggio la fatica della parte e in una lingua non sua. Eccellente il cast femminile in cui Nicola Beller Carbone, Milijana Nikolic e Hilary Summers impersonano le tre donne della vicenda – Giulia Farnese, la cortigiana Pantasilea e la complice nonna. Sia vocalmente sia scenicamente si dimostrano efficaci anche gli altri interpreti maschili, tra cui Germán Olvera e Thomas Oliemans (rispettivamente il fratello Girolamo e l’astrologo).

Il trentenne tedesco David Afkham nella buca orchestrale tiene le redini di questa sfuggente partitura con ottimi risultati.

(Nel 2007 il regista Jerry Brignone ha diretto in soli quattro giorni un lungometraggio dallo stesso titolo, reperibile in rete, con la base musicale dell’incisione discografica e ambientato nel palazzo Orsini e nel “parco dei mostri”).

(1) Sono le prime parole della canzone del pastore con cui inizia l’opera: «Lui ha un gregge di rocce, il mio è un gregge di pecore. A me basta tutto quello che ho: la pace di Bomarzo, la dolce voce del ruscello, il canto delle cicale e l’allegra solitudine di Dio che vaga per i campi».

(2) Le altre sono: Don Rodrigo, op. 31, su libretto di Alejandro Casona (1964) e Beatrix Cenci, op. 38, su libretto di William Shand (1971).

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La fanciulla di neve

Nikolaj Rimskij-Korsakov, La fanciulla di neve

★★★★☆

Parigi, Opéra Bastille, 15 aprile 2017

(live streaming)

L’opera preferita da Rimskij-Korsakov

La fanciulla di neve (Снегурочка, Sneguročka) è una “fiaba di primavera” in un prologo e quattro atti su libretto del compositore stesso basato sull’omonimo lavoro di Aleksandr Ostrovskij del 1873. Su questo stesso racconto fiabesco si era basato, nove anni prima, il balletto di Čajkovskij. La prima rappresentazione ebbe luogo al teatro Mariinskij di San Pietroburgo nel febbraio 1882. Nel 1898 il compositore completò la revisione dell’opera nella versione con cui oggi è nota.

Prologo. Sneguročka prega i suoi genitori, Vesna Krasna (Fata Primavera) e Ded Moroz (Nonno Gelo), di lasciarla vivere fra gli umani, poiché questo rappresenta il suo più grande desiderio; Ded Moroz riluttante, acconsente, ma la fa seguire dallo spirito del bosco per controllarla. Sneguročka arriva all’insediamento dei Berendeijani e viene adottata da un buon uomo e da sua moglie.
Atto primo. Alla capanna giunge Lel’, che canta due canzoni in omaggio a Sneguročka, chiedendole in cambio un bacio. Nell’ascoltare le canzoni del pastore la fanciulla si commuove e pensa di ricompensarlo più adeguatamente offrendogli invece un fiore, ma Lel’ sembra non apprezzare il gesto. Sneguročka si rimprovera di avere un cuore freddo come quello del padre. Arriva a consolarla Kupava, seguita dal fidanzato Mizgir’, il quale però si innamora di Sneguročka non appena la scorge e decide di rompere il fidanzamento con Kupava che, estremamente offesa, propone di lasciar giudicare la questione allo zar.
Atto secondo. Interpellato, lo zar sentenzia la colpevolezza di Mizgir’ e lo fa allontanare dal villaggio. Zar Berendeij possiede doti profetiche, e sa che se Sneguročka si innamorasse di qualcuno la loro terra finalmente si riscalderebbe, visto che si trovano ormai prossimi alla kupala (che nel calendario russo è il solstizio d’estate) ma fa ancora freddo; perciò promette una ricompensa a colui che farà innamorare di sé la Fanciulla, concedendo anche a Mizgir’ il permesso di provare.
Atto terzo. A conclusione della riunione, lo zar chiede a Lel’ di cantare per lui, in cambio del permesso di baciare una fanciulla fra quelle presenti; al termine della canzone, con sorpresa di tutti, Lel’ sceglie Kupava, optando per il calore umano piuttosto che per il freddo fascino di Sneguročka. La fanciulla ora desidera più di ogni altra cosa la capacità d’amare ma è Mizgir’ che appare e cerca di prenderla con la forza. L’intervento dello spirito del bosco la salva però subito dopo assiste all’incontro amoroso tra Lel’ e Kupava e chiama la madre affinché esaudisca il suo desiderio d’amore.
Atto quarto. Vesna Krasna arriva ma la mette in guardia contro il sole. Arriva anche Mizgir’ e Sneguročka ricambia finalmente il suo amore, ma quando viene colpita dai primi raggi di sole si scioglie e Mizgir’, disperato, si getta nel lago. I Berendeijani, che hanno assistito alla scena, sono sconvolti; ma vengono confortati dallo zar, che spiega loro la ragione divina per cui quegli avvenimenti dovevano aver luogo: il dio del sole era in collera con Sneguročka e voleva punirla; ora che si è sfogato, può rasserenarsi e scaldare la loro terra.

L’opera, molto frequentata in Russia, altrove è di raro ascolto. Ora rimedia l’Opéra di Parigi con questa acclamata produzione affidata alle amorevoli cure di Dmitrij Černjakov. Si tratta della sua terza messa in scena di un lavoro di Rimskij-Korsakov dopo La leggenda della città invisibile di Kitež e La sposa dello zar. Entusiasta ambasciatore della musica russa, quando si tratta di opere della sua terra il regista dà il meglio di sé, come in questo caso e il successo sta a dimostrare l’apprezzamento del pubblico parigino per questa Fanciulla di neve. La sua pur audace lettura non è irrispettosa e a suo modo rende omaggio alle tradizioni popolari russe pur senza accentuare la dimensione fantastica del racconto: la fiaba è come virgolettata, la mitologia russa pagana e arcaica è vista con gli occhi della modernità: dalla palestra di danza in cui insegna Vesna Krasna (idea che risolve genialmente il problema della canzone degli uccelli) alla comunità neorurale che vive in un camping di roulotte dove lo zar è il capo villaggio – un vecchio pittore davanti al suo cavalletto con un ritratto di Vesna Krasna – alla magia del bosco notturno rotante del quarto atto, un effetto teatrale molto suggestivo anche se già visto nel Don Giovanni di Guth.

I costumi sono un mix di folclorico e di moderno e grande è la cura attoriale messa in luce da un cast di interpreti eccellenti sia come vocalità sia come presenza scenica e plausibilità psicologica. Incantevole e fresca è Aida Garifullina perfetta nel ruolo titolare, voce di cristallo dal delizioso vibrato cui fanno da contrasto la voce ben temprata e il carattere temperamentoso della Kupava di Martina Serafin. Il tenore Maxim Paster sostituisce degnamente Ramon Vargas previsto nelle vesti dello zar Berendeij mentre cavernosa e affaticata è la voce di Thomas Johannes Mayer, rozzo Mizgir’. Sontuosa presenza è quella di Elena Manistina, fata primavera. Nella piccola parte di Bermjata è Franz Hawlata ormai destinato alle parti secondarie. Come Lel’, invece del contralto en travesti di tradizione, qui abbiamo un controtenore, il bravissimo ucraino Yuriy Mynenko, dalla studiata indolenza e dai lunghi capelli biondi che si accarezza languidamente.

Mikhail Tatarnikov nella buca orchestrale dosa bene i suoni di questo capolavoro orchestrale musicalmente generoso e cerca di dare unitarietà a un lavoro frammentario in cui l’azione è spesso interrotta da canti e danze. Eccellente come sempre il coro dell’Opéra.

 

Il Settecento

Elvio Giudici, Il Settecento

2016 Il Saggiatore, 824 pagine

Il secondo tomo dell’ambiziosa opera del Giudici sulla catalogazione e analisi delle registrazioni video commercialmente disponibili delle opere liriche si sviluppa con un numero di pagine ancora più considerevole del primo ed è dominato dalla figura di Mozart che, da sola, occupa il 70% delle 824 pagine del volume. Nel caso del Don Giovanni l’autore analizza in 54 pagine ben trenta diverse edizioni video. Altrettante solo le pagine dedicate al Flauto magico (venti edizioni) e addirittura 99 per le ventinove edizioni de Le nozze di Figaro. Ma anche al resto non viene meno l’impegno di approfondimento dell’autore: per il Fidelio, l’unica opera di Beethoven, sono ben 57 le pagine di analisi.

Per ragioni puramente contingenti Pergolesi riceve un’attenzione molto maggiore di Paisiello, nonostante il fatto che quest’ultimo sia autore di un numero decuplo di opere. Ma il fatto è che al compositore jesino la città nel tricentenario della sua nascita ha dedicato un festival con la rappresentazioni di tutte le sue opere in pregevolissime produzioni prontamente riversate su disco e quindi disponibili.

Gli altri compositori di cui vengono prese in esame le edizioni video sono: Cherubini, Cimarosa, Gluck, Haydn, Salieri e Spontini. Non mancano nomi meno noti come Carl Heinrich Graun, Giovanni Battista Martini, François-André Danican Philidor e Vicente Martin y Soler cui la sorte ha voluto che fosse registrato su DVD almeno un loro lavoro.

Anche in questo volume il Giudici riprende la questione della messa in scena dell’opera lirica con parole molto chiare: «ogni messinscena è […] una sorta di traduzione che lo spettatore legge attraverso la gestualità e la voce degli attori […] Siccome gli spettatori contemporanei non possono provare le stesse reazioni di quelli settecenteschi nei confronti di eventuali aspetti sovversivi e innovatori di certi testi (quelli di Da Ponte ad esempio, che poi nel caso di Don Giovanni e Nozze sono a loro volta traduzioni) può essere d’aiuto ricrearli non rielaborando il testo, bensì adoperando un linguaggio contemporaneo. Altrimenti detto, può essere utile separare la fedeltà nei confronti dello stile di rappresentazione dalla fedeltà alla drammaturgia di base e proprio allo scopo di evidenziare quest’ultima in modo il più evidente possibile a un pubblico di oggi, si può venir meno ai rigidi schemi visuali impiegati al suo nascere. È quanto […] hanno fatto e ancor più stanno oggi facendo un numero sempre maggiore di registi».

Il Seicento


Elvio Giudici, Il Seicento

2016 Il Saggiatore, 502 pagine

Con il sottotitolo “L’Opera. Storia, teatro, regia” è il primo volume di una monumentale storia dell’opera raccontata attraverso gli allestimenti registrati in video, testo che prosegue l’ambizioso lavoro iniziato dal Giudici nel catalogare l’opera lirica dei nostri tempi su supporto discografico. Ma se ovviamente il precedente L’Opera in CD e video, guida all’ascolto di tutte le opere liriche si basava nella quasi totalità su registrazioni audio, questi nuovi volumi prendono in esame i DVD, il nuovo mezzo per poter fruire più compiutamente dei tesori di questo genere – in attesa che i video streaming disponibili in rete non facciano passare in secondo piano anche questo mezzo.

Nel primo tomo la disamina dell’autore riguarda la nascita dell’opera, da Monteverdi a Cavalli, per includere poi gli autori di quell’epoca che viene convenzionalmente definita Opera Barocca, epoca che si inoltra ben addentro nel Settecento con le figure di Händel e Vivaldi, passando prima per Lully, Rameau e Purcell, per citare solo i maggiori. Il tutto è reso possibile dall’attuale rinascita, per lo meno al di fuori dell’Italia, dell’interesse per questo repertorio, evidenziato da una quantità crescente di allestimenti nei teatri di tutto il mondo con produzioni che impegnano i migliori registi della nostra epoca e direttori che hanno approfondito la prassi esecutiva di queste antiche opere. Ciò è dimostrato dalla mole di recensioni che hanno come oggetto ad esempio il teatro händeliano: del solo Giulio Cesare in Egitto si hanno ben 42 pagine, oltre alla copertina.

Nel saggio introduttivo il Giudici prende in considerazione i problemi legati all’esecuzione  delle opere di questo repertorio e ai conseguenti problemi filologici, come l’uso degli strumenti originali o il ricorso alle voci dei controtenori .