Mese: settembre 2020

Gismondo

Leonardo Vinci, Gismondo re di Polonia

Vienna, Theater an der Wien, 25 settembre 2018

(video dell’esecuzione in forma di concerto)

Max Emanuel Cenčić porta alla luce un’altra gemma del Settecento italiano

Roma, Teatro delle Dame, 11 gennaio 1727. Va in scena il dramma per musica in tre atti di Francesco Briani Gismondo re di Polonia, musica di Leonardo Vinci.

Il testo era già stato intonato diciotto anni prima a Venezia da Antonio Lotti col titolo Il vincitor generoso in occasione dell’arrivo nella città lagunare di Federico IV di Danimarca. L’opera intendeva magnificare attraverso Gismondo le virtù di Federico quale magnanimo vincitore. Il vincitor generoso era dunque uno strumento di propaganda a favore del re danese, concepito da un intellettuale che per la giovane età – questa era la sua prima opera – e ambizione si curava poco delle convenzioni dell’opera seria, cosa che rende questo libretto così particolare. Vinci mantenne nella sua interezza il testo – a parte le arie, che facevano sempre gioco a sé – ed è quindi lecito pensare che valessero anche per lui gli stessi sottintesi principi filosofici dello stato (per cui ci sono regnanti buoni e regnanti cattivi) e allusioni al presente, con politici camuffati da personaggi storici dell’antichità. In questo caso si trattava della figura di James Edward Stuart, il pretendente cattolico al trono inglese allora in esilio a Roma dove era generosamente mantenuto dal Papa a Palazzo Monti, un tiro di schioppo dal teatro in cui passava le sue serate. Per di più The Old Pretender aveva sposato una polacca, Maria Clementina Sobieska. Tout se tient. Il conflitto tra Gismondo e Primislao era dunque chiaramente trasferibile all’attualità, stratagemma che Vinci aveva già utilizzato nel suo Farnace (1724) e nella Didone abbandonata (1726). Perché non ci fossero comunque dubbi, sul libretto a stampa spiccava la dedica «Alla Maestà di Giacomo III Rè della Gran Brettagna &c»!

I personaggi principali dell’opera sono Gismondo, ovvero Sigismondo Augusto II, re di Polonia, e Primislao, duca di Lituania. Due principi sono alleati di Gismondo: Ernesto di Livonia ed Ermanno di Moravia. Entrambi amano la figlia Giuditta, che ama Primislao.

Atto primo. Scena 1: Veduta di Varsavia, sulle rive della Vistola. Re Gismondo di Polonia sbarca con il suo seguito a Varsavia per ricevere il giuramento di fedeltà da parte dei principati e ducati alleati come concordato nel Trattato di Lublino nel 1569. È felice che il matrimonio tra suo figlio Otone e la figlia di Primislao Cunegonda rafforzerà l’alleanza con la Lituania. I due principi di Moravia e Livonia sono rivali per i favori della figlia Giuditta. Scena 2: le stanze reali di Primislao. Contrariamente al consiglio di Cunegonda Primislao ritira il suo impegno promesso a Lublino. Si rifiuta di prestare giuramento di fedeltà a Gismondo, perché teme improvvisamente la perdita dello status. Otone e Cunegonda invano invano l’ambasciatore reale Ernesto a tentare un’altra incursione contro Primislao. Dopo essersi assicurati l’un l’altro del loro amore eterno e Primislao rimane ancora ostinato, cercano di persuadere Primislao se stessi. Il conflitto di Cunegonda tra dovere e desiderio si esprime dopo l’uscita di Otone. Scena 3: porticato reale con vista su strade e giardini. Cunegonda e Otone hanno avuto successo. Primislao dichiara di essere pronto a prestare giuramento di fedeltà a Gismondo a condizione che la cerimonia non sia pubblica. Gismondo accetta la condizione. Giuditta confessa al fratello di essersi innamorata di Primislao al ballo in maschera a Varsavia. Entrambi sperano che, dopo che la pace sarà stata stabilita, potranno finalmente raggiungere l’obiettivo del loro amore.
Atto secondo. Scena 4: Tenda reale con tavolo e stendardi di guerra. Mentre Primislao rende il giuramento di fedeltà a Gismondo, la tenda reale crolla e fa vergognare il duca inginocchiato davanti agli eserciti riuniti. Primislao accusa Gismondo di tradimento. Anche Cunegonda si separa con rabbia da Otone. La guerra scoppia di nuovo. Scena 5: una sala sotterranea. Giuditta è combattuta tra la paura per suo padre e l’amore per Primislao. Suscita false speranze nei due duchi innamorati di lei per farli combattere per suo padre in guerra, ma allo stesso tempo ordina loro di essere misericordiosi con Cunegonda e Primislao. Gismondo chiede che suo figlio dimentichi Cunegonda e vinca o muoia sul campo. Otone non combatterà contro Cunegonda. Ernesto lo ha sentito e si rende conto di trovarsi esattamente nella stessa situazione con Giuditta. Scena 6: l’armeria di Primislao. Primislao combatte nella sua armeria per l’anima di sua figlia. Davanti alle statue dei re e degli dei polacchi Cunegonda deve giurare morte a Otone e vendetta. Lo fa. Otone entra essere trafitto della spada di Cunegonda. Lei non riesce a usare l’arma contro di lui e lo costringe a darsi alla morte sul campo di battaglia. In questo modo può riscattare il suo onore, il suo dovere filiale e allo stesso tempo l’angoscia dell’amore.
Atto terzo. Scena 7: Il campo di battaglia. Primislao sprona i suoi soldati prima del combattimento. La battaglia. I polacchi sono vittoriosi. Cunegonda, in armatura da cavaliere, resiste ferocemente a Otone. Questi la riconosce e la salva. La voce della morte di Primislao è diffusa all’estero. Cunegonda lancia insulti alla testa di Otone. Giuditta rintraccia il suo amato Primislao, ferito tra i cadaveri. Mentre lei riceve aiuto, arriva Ermanno e vuole ucciderlo per vendicare suo fratello. Giuditta torna a salvare Primislao. Lui ed Ermanno realizzano, ciascuno per sé, la giustizia della legge divina e ne prendono le conseguenze. Scena 8: cortile dove sfilano i bottini di guerra. Gismondo festeggia la sua vittoria. I prigionieri e il bottino vengono messi in parata. Ernesto chiede al re la mano di sua figlia. Gismondo chiede a Cunegonda la sua mano per conto del figlio Otone. Giuditta lotta con la sua coscienza a causa del suo amore per Primislao. Scena 9: Sala del trono. Gismondo ringrazia il suo esercito. Cunegonda persevera nell’odiare Otone, il presunto assassino di suo padre. Primislao appare e mette la sua mano in quella di Otone. Una lettera di Ermanno informa Gismondo di aver fatto crollare la tenda e di aver così svergognato Primislao per vendicare il fratello, ucciso da Primislao. Ha ammesso la sua colpa e si è ucciso. Giuditta ammette il suo amore a Primislao. Gismondo la sposa al principe riformato e il proprio figlio alla figlia di quest’ultimo. Ernesto benedice il matrimonio, perché antepone il bene comune alla sua felicità privata.

Oltre alla sinfonia la partitura di Vinci consiste di 28 arie, un duetto, un trio e l’immancabile coro finale. I personaggi principali Primislao, Cunegonda e Otone hanno cinque arie ciascuno, Cunegonda e Otone anche il duetto e con Gismondo il trio, Gismondo e Giuditta quattro arie, Ernesto tre ed Ermanno due. In una delle tre copie a noi pervenute (1) ci sono due arie non previste, una per Otone e una per Cunegonda, prese dall’Ernelinda presentata l’anno prima, 1726. Dall’Ernelinda proviene anche il bellissimo duetto che conclude il secondo atto. Dall’Eraclea (1724) arriva invece l’aria «In questa mia tempesta» di Gismondo nel terzo atto.

Il cast tutto maschile della prima – papa Sisto V aveva bandito le donne dalle scene per aver così interpretato la Prima Lettera ai Corinzi: «le donne nelle assemblee tacciano perché non è loro permesso parlare» – (ossia sei castrati: tre soprani e tre contralti) è invece misto in questa produzione che vede impegnata la {oh!} Orkiestra Historyczna diretta da Martyna Pastuszka. Qui siamo al Theater an der Wien e l’esecuzione è in forma concertistica. Oltre agli archi e al basso continuo l’orchestra conta due corni, due trombe, due oboi/flautini, un fagotto e percussioni. Brillante e piena di colori la direzione e preciso il suono degli strumentisti.

Nel ruolo eponimo il controtenore Max Emanuel Cenčić,  direttore e co-produttore esecutivo della etichetta Parnassus, regista, talent scout e uno dei maggiori fautori della scoperta di Leonardo Vinci: le produzioni di Partenope (2009), Artaserse (2012), Catone in Utica (2015), Siroe re di Persia (2018) portano tutte il suo contributo. Il timbro caldo si accompagna a una grande espressività nel restituire tutto il valore dei recitativi del Gismondo. Le fluide agilità, l’ampia gamma, i lunghi fiati, i trilli precisi e lo stile brillano nelle arie «Se soffia irato il vento» o «Sta l’alma pensosa» in cui si delinea la sofferta regalità del personaggio. Yuriy Mynenko, Otone, è la sorpresa della serata nel finale primo, «Quell’usignolo» con tutti gli effetti onomatopeici offerti dalla voce e dagli strumenti, con abbellimenti, legati e staccati ineccepibili. L’Ermanno di Nicholas Tamagna è forse il meno efficace della compagnia e sarà infatti sostituito nella registrazione in CD. Dell’Ernesto di Jake Arditti si ammira la velocità e la forza in «Tutto sdegno è questo core». Primislao en travesti è Aleksandra Kubas-Kruk, temperamento, volume sonoro ed estensione sono i meriti più evidenti di questo soprano polacco. Cunegunda è personaggio chiave nella vicenda e lo dimostrano i due recitativi accompagnati. Sophie Junker è un’interprete appassionata e intensa quando si rivolge all’amato/odiato Otone in «Tu mi tradisti, ingrato» e «Ama chi t’odia, ingrato». Completa l’eccellente cast Dilyara Idrisova come Giuditta, la figlia un po’ trascurata dal padre Gismondo.

L’operazione di recupero si spera che possa tradursi in uno spettacolo: non chiede di meglio l’opera di Vinci.

(1) Una a Münster, consistente di diversi fascicoli con le versioni presentate a Roma nel 1727 e nel 1729; una ad Amburgo (atto primo) e Bruxelles (atto secondo e terzo); un’altra a Berlino, la più pulita e completa.

Carlo il Calvo

photo © Falk von Traubenberg

Nicola Porpora, Carlo il Calvo

Bayreuth, Markgräfliche Opernhaus, 8 septembre 2020

★★★★

 Qui la versione italiana

Drame familial en intérieur

“Drame pour la musique, destiné à être représenté au printemps de l’année 1738 au Théâtre des Dames. Dédié à celles-ci” : c’est la page de titre du livret anonyme, tiré de L’innocenza giustificata (1698) de Francesco Silvani. Nous sommes à Rome, au moment où rouvrent les grands théâtres romains après que le pape Clément XII eut décrété leur fermeture cinq ans plus tôt. Mais les théâtres de la cité papale sont interdits aux “dames” et seuls les chanteurs masculins peuvent monter sur scène pour jouer les rôles féminins. Il en fut ainsi pour Carlo il Calvo…

la suite sur premiere-loge.fr

7 Deaths of Maria Callas

7 Deaths of Maria Callas

Opera-performance di Marina Abramović, musica di Marko Nikodijević

Monaco, National Theater, 5 settembre 2020

(live streaming)

Maria Callas rimpianta sette volte

Originariamente si trattava di un grande progetto performativo che doveva coinvolgere sette diversi registi cinematografici, uno per ognuno dei sette episodi, ma a causa delle defezioni illustri di Roman Polanski e Alejandro González Iñárritu e ai soliti problemi di budget, il progetto del 2014 naufragò per trasformarsi poi nello spettacolo visto a Monaco. La pandemia ne ha ritardato la presentazione, prevista ad aprile nella capitale bavarese e poi a giugno al Maggio Musicale Fiorentino, e 7 Deaths of Maria Callas ha debuttato solo il primo settembre.

L’opera-performance è suddivisa nettamente in due parti. Nella prima, sette arie di sette eroine dell’opera ottocentesca («Addio del passato», La traviata; «Vissi d’arte», Tosca; «Ave Maria», Otello; «Un bel dì vedremo», Madama Butterfly; «Habanera», Carmen; «Il dolce suono», Lucia di Lammermoor; «Casta Diva», Norma) sono affidate a sette ottime cantanti (Hera Hyesang Park, Selene Zanetti, Lea Hawkins, Kiandra Howarth, Nadežda Karyazina, Adela Zaharia, Lauren Fagan) che però non possono fare a meno di far rimpiangere l’originale – ed era prevedibile.

Ma non è questo che conta per la Abramović. Alla performer interessa mettere in scena la morte di sette donne per amore – consumption, jumping, strangulation, hara-kiri, knifing, madness, burning sono i titoli  –  e le interpreta nei video di Marco Brambilla proiettati su uno schermo dietro le cantanti. In scena c’è solo un letto con la Abramović dormiente mentre sogna le sette vicende di morte. L’attore Willem Defoe assume ogni volta la parte dell’antagonista maschile.

Dopo un’introduzione sulla sobria musica di Marko Nikodijević, inizia il “recital”. I diversi numeri musicali sono legati da atmosferici interventi orchestrali e dalle parole di un testo di Petter Skavian e Marina Abramović recitato in inglese dalla artista. Un testo non privo di qualche banalità: «Non è pericoloso cadere, pericoloso è atterrare» è ad esempio quello relativo a Tosca…

Vediamo dunque Violetta Valéry giacere nel letto con accanto l’amato; Floria Tosca precipitare da un grattacielo su un’automobile; Desdemona se la deve invece vedere con due serpenti che le avvolge sul collo il maschio; Cio-cio-san si libera dallo scafandro che la protegge in un ambiente contaminato, probabilmente dalla bomba atomica, per suicidarsi; Carmen è vestita da toreador ma è trattata come un toro da domare dal suo uomo che la lega con una corda; Lucia Ashton strappa il velo nuziale e spezza gli specchi coprendosi poi di sangue; Norma vestita da uomo avanza verso un Pollione truccato e en travesti e assieme camminano verso il rogo. Questa volta è anche l’uomo a sacrificarsi.

L’evocativa musica di Nikodijević introduce a questo punto delle grida umane deformate dall’elettronica prima di una drammatica pagina affidata alle percussioni e a un coro.

Inizia quindi la seconda parte. Il letto che avevamo visto è quello di una lussuosa camera da letto. È stato lì fin dall’inizio, ma un velatino nero ci impediva la vista del resto della stanza. E anche la Abramović è sempre stata lì, immobile, come ha fatto spesso nelle sue performance. È la Callas nel suo appartamento parigino di avenue Georges Mandel: si alza dal letto lentamente, sposta un vaso di fiori, si mette gli occhiali, guarda delle vecchie fotografie, apre la finestra. La luce inonda la stanza. Lei esce. Entrano delle domestiche con guanti e mascherina – scopriremo essere le cantanti che abbiamo ascoltato prima. Fanno le pulizie e coprono i mobili e lo specchio con dei veli neri, richiudono le tende, spengono le luci. Si abbassa di nuovo il sipario nero e la Abramović si presenta in un luccicante abito da sera. Si risente  «Casta Diva», questa volta però con la voce della Callas. Buio.

Riccardo Tisci for Burberry firma i sontuosi costumi. Funzionale la direzione di Yoel Gamzou alla testa della Bayerisches Staatsorchester, mentre la regia televisiva di Nabil Elderkin non aggiunge nulla di nuovo alla performance riprendendo per la maggior parte del tempo l’orchestra e quanto avviene in scena come visto da uno spettatore di platea.

Sarà per il fatto che questo spettacolo nasce in una certa misura già vecchio, sarà per una qualche stanchezza della Abramović, ma 7 Deaths of Maria Callas non aggiunge molto alla carriera dell’artista serbo-americana. Appartengono al passato sue ben più pregnanti esplorazioni sui limiti del corpo o sulle relazioni tra l’artista e il pubblico. Le istanze femminili (sembrerebbe troppo definirle femministe), qui rivissute tramite le eroine dell’Ottocento operistico, sbiadiscono nei confronti della realtà di oggi.

Onore comunque all’artista che fin dagli anni ’70 ha un posto essenziale nel panorama dell’arte moderna.

Carlo il Calvo

photo © Falk von Traubenberg

Nicola Porpora, Carlo il Calvo

Bayreuth, Markgräfliches Opernhaus, 8 settembre 2020

★★★★

bandiera francese.jpg Ici la version française

Dramma di famiglia in un interno

Carlo, il protagonista eponimo di quest’opera, non canta e non parla: è un bambino attorno al quale ruota tutta questa vicenda di eredità in una famiglia che sarebbe semplicistico definire disfunzionale. Ecco i rapporti di parentela tra i sette personaggi: Lottario è padre di Adalgiso che ama Gildippe figlia di Giuditta e sorella di Edvige amata da Berardo; Carlo è figlio di Giuditta e fratellastro di Lottario. Vero motore dell’azione è però l’infido Asprando, confidente sia di Giuditta sia di Lottario.

Antefatto. L’imperatore Ludovico il Pio (778-840) sposò due donne: Ermengarda, da cui ebbe il figlio Lotario (qui Lottario) e Giuditta, da cui ebbe Carlo. Nell’817 Ludovico divise il regno e fece imperatore Lotario salvo cambiare idea dodici anni dopo preferendo Giuditta e il figlio di sei anni.
Atto primo. Ingresso nel palazzo di Giuditta. Ludovico è morto. Lottario ha intenzione di usurpare ancora una volta l’eredità di suo figlio Carlo. A tal fine il confidente di Lottario, Asprando, ha diffuso la voce che Carlo non è il figlio di Ludovico, ma un bastardo nato dal rapporto adultero di Giuditta con il suo confidente Berardo. Ma la vedova, ignara di questi intrighi, spera di conciliare i diversi interessi e ristabilire l’armonia familiare sposando Gildippe, sua figlia dal primo matrimonio, con il figlio di Lottario Adalgiso. Poiché Adalgiso e Gildippe sono davvero innamorati, Lottario ordina ad Asprando di non rivelare nulla dei suoi piani ad Adalgiso. Berardo annuncia l’arrivo di Giuditta e Gildippe e Lottario finge il suo piacere. Adalgiso nota che c’è qualcosa di strano nell’atteggiamento di Lottario e chiede ad Asprando perché suo padre è così agitato. Asprando spiega che questo viene dagli oneri del governo. Anche Gildippe prova una sensazione di disagio il giorno del suo matrimonio. Adalgiso cerca di rassicurarla, ma Gildippe non può nascondere i suoi presentimenti. Gabinetto di Giuditta. Giuditta è convinta che la lite in famiglia si sia placata. Berardo la avverte del desiderio di potere di Lottario e le giura la sua fedeltà. Giuditta rivela alla figlia Edvige che deve sposare Barardo per motivi di stato ed Edvige promette di obbedire. Giuditta e Lottario si rendono omaggio con insidiosi complimenti ma alla fine Lottario ammette che non riconoscerà il diritto di eredità di Carlo, dal momento che circolano voci che Carol non è il figlio di Ludovico. Giuditta ordina alla figlia Gildippe di stare alla larga da Adalgiso e, se necessario, rompere il fidanzamento. Gildippe lamenta il suo dolore. Sala del trono. Giuditta ignora lo scontro con Lottario e cerca di ottenere il potere legalmente come stabilito dal marito morto. Asprando rende omaggio a lei e – subdolamente – al “figlio di Ludovico”. Berardo esige che Carlo salga al trono del suo regno parziale. Lottario glielo impedisce definendo pubblicamente Berardo un adultero e Carlo un bastardo. Ordina alle sue guardie di uccidere madre, amante e figlio. Adalgiso si intromette e anche Asprando finge di prendere la parte di Giuditta. Tutti coprono di insulti Lottario che però rifiuta il figlio. Adalgiso lamenta che le sue speranze siano state deluse.
Atto secondo. Giardino. Gildippe si sforza di obbedire alla madre e di separarsi da Adalgiso, ma non ci riesce. Lottario e il figlio Adalgiso litigano sulla corretta procedura nella questione ereditaria.I rimproveri di Adalgiso confondono Lottario. Asprando lo sfida a rimanere saldo e Lottario giura di farlo. Asprando continua il suo inganno e dice a Guiditta che le truppe di Lottario stanno invadendo il palazzo, la porta al panico e si offre di mettere in salvo Carlo. Giuditta traveste Carlo da pastorello perché nessuno lo riconosca e lo consegna ad Asprando. Edvige e Berardo riferiscono che Asprando ha consegnato Carlo a Lottario. Giuditta maledice Asprando. Le sorelle Gildippe ed Edvige chiedono a Berardo che liberi Carlo e Berardo parte per la battaglia. Edvige ammette a Gildippe di essere innamorata di Berardo. Gildippe spiega il suo amore. Edvige è piena di gioia per il suo matrimonio con Berardo ma ha paura che possa diventare una prigione. Piazza antistante il castello del Lottario sul Reno. I soldati di Berardo e Giuditta stanno invadendo il cancello. Asprando lo difende con i suoi soldati. Lottario appare in alto sul balcone e minaccia di gettare Carlo nel Reno che scorre sotto se Berardo non si ritira. Adalgiso si getta tra le braccia del padre e ordina a Berardo di andare a prendere Giuditta. Nel frattempo proteggerà Carlo. Lottario rimprovera il figlio. Adalgiso spera che tutto possa ancora andare bene.
Atto terzo. Cortile interno del palazzo. Edvige ringrazia Berardo per i suoi sforzi e simpatizza con Adalgiso, con la quale sua madre è ancora arrabbiata. Berardo la avverte di non lasciare che la sua compassione la domini. Edvige lo calma. Berardo e Asprando si incontrano. Berardo accusa Asprando di essere un traditore, Asprando Berardo un adultero. Vogliono risolvere la loro faida in un torneo. Berardo minaccia Asprando. Asprando ha paura ma si fa coraggio. Piccolo studio. Gildippe rimprovera Adalgiso di non aver strappato Carlo dalle mani di Lottario, che poi si arrende a lei come ostaggio. Il suo cuore è combattuto tra l’amore per Adalgiso e l’obbedienza a sua madre. Adalgiso chiede una decisione. Giuditta si lamenta per la perdita di suo figlio. Adalgiso si nasconde dietro una porta tappezzata. Lottario è alle strette nel conflitto militare. Riporta Carlo a Giuditta e desidera confessare il suo crimine davanti a lei sola. Giuditta ordina alle sue guardie di andarsene. Lottario chiude la porta e la ricatta. O inventa una confessione che Carlo è un bastardo, o Lottario lo pugnalerà a morte. Quando Lottario ha il coltello alla gola del bambino, Adalgiso balza fuori dal suo nascondiglio, trascina via il ragazzo dal padre e apre la porta per far entrare le guardie. I rimproveri di Adalgiso riportano Lottario alla ragione e chiede perdono a Giuditta. Giuditta ringrazia Adalgiso, gli promette la mano di Gildippe e gli rende omaggio come futuro imperatore del Sacro Romano Impero. Esige da Carlo di non dimenticare mai l’azione di Adalgiso. Adalgiso si rallegra di poter finalmente guardare avanti, dopo tutte le calamità, a un futuro sereno al fianco di Gildippe.

«Drama per musica da rappresentarsi nella primavera dell’anno 1738 nel Teatro delle Dame. Dedicato alla medesime»: così recita il frontespizio del libretto, anonimo, tratto da L’innocenza giustificata di Francesco Silvani intonata da Benedetto Vinaccesi (Venezia, 1698). Siamo a Roma, alla riapertura dei maggiori teatri romani dopo che papa Clemente XII ne aveva decretato la chiusura cinque anni prima. Ma i palcoscenici della città papalina sono vietati alle “dame” e in scena possono salire solo cantanti maschi a interpretare le parti femminili. Così fu per Carlo il Calvo: alla prima Lottario fu Giuseppe Galletti, Adalgiso Lorenzo Ghirardi, Giuditta Geremia del Sette, Edvige Giuseppe Lidotti, Gildippe Antonio Uberti, Berardo Francesco Signorili e Asprando Francesco Boschi, l’unico tenore. I sette personaggi si suddividono le 27 arie in maniera molto gerarchica: Lottario, Adalgiso e Gildippe hanno cinque arie ciascuno, Giuditta quattro, Asprando e Berardo tre, Edvige due.

Rispetto a Händel la musica di Porpora è armonicamente più semplice e risponde pienamente alle caratteristiche della scuola napoletana, con melodie cantabili, di grande piacevolezza e una strumentazione pulita. Diverso è invece il trattamento delle voci, qui molto elaborato e con punte di acrobazie vocali che superano quelle di Vinci e di Vivaldi. Ed è soprattutto nelle voci che avviene il carico di emotività e di drammaticità della situazione, come succede ad esempio nella scena decima del primo atto di Gildippe, quando l’accompagnamento cullante degli archi si interrompe, l’orchestra tace e la voce sola si lancia in pagine che quasi anticipano quelle della pazzia della Lucia di Lammermoor. L’orchestra si riprende la rivincita nelle marce e nelle due sinfonie del terzo atto – dopo la scena terza e la settima – che si aggiungono ovviamente a quella introduttiva all’opera. Tutte le arie sono solistiche e proprio per questo spicca l’unico struggente duetto in cui i due amanti Adalgiso e Gildippe, dopo tante traversie, possono finalmente giurarsi amore.

Carlo il Calvo è la quarantesima delle oltre cinquanta opere di Nicola Antonio Porpora (1686-1768), compositore e cantante tra i massimi della sua epoca. Rivale di Händel e Bononcini, fu il maestro di canto di Farinelli e Caffarelli, i più celebrati evirati cantori dell’epoca. In tempi moderni solo le sue opere Germanico in Germania, Polifemo e Semiramide riconosciuta sono state riproposte nella loro interezza. Max Emanuel Cenčić, che ha già inciso Germanico e ha inserito l’aria «Se rea ti vuole il Cielo» nel suo ultimo album di arie barocche, fa di questo spettacolo il clou del Bayreuth Baroque, uno dei pochi festival sopravvissuti alla pandemia. La vicenda ha suggerito al regista e direttore del festival di ambientarla a Cuba negli anni ’20, come saga di una famiglia mafiosa allargata ben oltre i personaggi del libretto – qui hanno un ruolo anche i vari fratelli e sorelle e relativi consorti e figli, una vecchia paralitica (la madre di Ludovico Irmengarda?) e un’amante di Lottario che uccide Asprando. Con una regia che non lascia vuoti, la storia dei Franchi qui si trasforma in una sorta di telenovela, che inizia e finisce con la morte del patriarca di un gruppo di narcotrafficanti. Un certo eccesso di regia riempie la drammaturgia di controscene molto divertenti ma che talora distraggono dal cantante impegnato nell’aria. Le scenografie dello stesso Cenčić fanno dimenticare che siamo in un teatrino di legno del XVIII secolo, il favoloso teatro margraviale della cittadina dell’Alta Franconia e Patrimonio dell’umanità per l’UNESCO: le sue scene “viscontiane” hanno una grande profondità e sono ricche di particolari realistici. I costumi elegantissimi impreziosiscono il secondo atto ambientato in un lussureggiante giardino dove si tramano atti criminali.

La recitazione è sempre molto accurata e grande attenzione è riservata alla psicologia dei personaggi: Adalgiso è un introverso e complessato occhialuto che ricorre alla iperventilazione quando vuole dare sfogo ai suoi tormentati pensieri; Carlo è il simbolo del decadimento della famiglia, un povero bambino afflitto da una forma di poliomielite con protesi correttive alle gambe, l’apparecchio per i denti e gli occhiali con una lente opaca; Lottario è sì un vilain, ma Cenčić lo rende più umano quando nella terza scena del secondo atto ci viene rappresentato con le sue debolezze, ossia la sua infatuazione per Asprando, «Quanto ti debbo amico. Il figlio mio fosse fedel così!». E non si sa se rammaricarsi di più per la falsità di Asprando o per i tardivi impulsi erotici del vecchio Lottario per l’aitante giovanotto.

Un certo humour macabro pervade la lettura di Cenčić: durante la prima parte dell’ouverture tripartita, a una grande tavolata dove la famiglia è riunita, vediamo accasciarsi morto Ludovico, mentre la vecchia in carrozzella scoppia in una scomposta sghignazzata. Simmetrica sarà l’ultima scena: stessa tavola, ma stavolta a lasciarci le cuoia è Lottario stesso.

Prima il dramma aveva lasciato spazio all’ironico divertimento: dopo l’aria di Adalgiso «Con placido contento», Gildippe intona «Come nave in mezzo al mare» dal Siface dello stesso Porpora in una rilassata atmosfera generale in cui tutti si lanciano in una specie di charleston – il ballo in voga in quegli anni. Ma non è l’unico auto-imprestito: alla fine della scena tredicesima, nel secondo atto, Lottario aveva intonato «Se tu la reggi al volo» dall’Ezio dello stesso Porpora.

Tutto quanto viene dipanato con grande sapienza e gusto da George Petrou a capo della Armonia Atenea con i suoi strumenti originali. Nell’orchestra di Carlo il Calvo predominano gli archi con i loro accompagnamenti ondulanti tipici dell’opera napoletana, ma preziosi sono gli interventi degli altri strumenti: due oboi, due corni, due trombe, fagotto e timpani. Petrou si diverte a inserire elementi swinganti in alcuni momenti per evidenziare la “ballabilità” delle melodie e l’orchestra risponde in maniera ineccepibile alle sue indicazioni.

Se nel Lottario di Max Emanuel Cenčić si ammira la duttilità e l’ampiezza di tessitura del suo strumento vocale nel delineare le tante sfaccettature del personaggio, nell’Adalgiso di Franco Fagioli si rimane incantati per la precisione e facilità con cui il controtenore affronta e risolve le incredibili agilità richieste. Nell’aria «Saggio nocchier che vede», che conclude il primo atto, riesce a eguagliare la prodezza dell’analoga «Vo solcando un mar crudele» dell’Artaserse di Vinci presentato otto anni prima nello stesso Teatro delle Dame (anche musicalmente sono molte le affinità) e il pubblico ne ripaga la fatica con grandiose ovazioni. Altrettanto copiosi gli applausi per la Gildippe di Julija Ležneva: nel tempo la voce ha acquistato spessore e drammaticità senza perdere nulla delle acrobatiche agilità, mentre la presenza scenica dimostra ora una capacità drammatica insospettabile. Suzanne Jerosme rivela un particolare temperamento come Giuditta e Nian Wang delinea una sensibile Edvige. Berardo trova in Bruno de Sá un sopranista dai sopracuti prodigiosi mentre il tenore Petr Nekoranec se non nel timbro poco piacevole si fa notare per il vigore e l’intelligenza con cui tratteggia l’infido personaggio di Asprando.

Alla fine delle cinque ore la mole degli applausi compensa una platea decimata dalle disposizioni per la sicurezza anti-Covid-19. Il video dello spettacolo è al momento disponibile su youtube, un’ottima occasione per rivivere le emozioni provate da chi c’era o per far conoscere a chi mancava questa ritrovata gemma dell’opera italiana.


Il Nabucco

Michelangelo Falvetti, Il Nabucco

Festival d’Ambronay, 13 settembre 2012

(registrazione video)

Il primo Nabucco

Nel 1683, un anno dopo la composizione de Il Diluvio Universale, Michelangelo Falvetti affronta un altro “dialogo” ed è anch’esso una storia biblica: Il Nabucco, secondo dei suoi oratorii scritti a Messina – seguiranno Il trionfo dell’anima (1685) e Il sole fermato da Giosuè (1692). Precedentemente a Palermo aveva creato Abel Figura dell’Agnello Eucaristico (1676), La spada di Gedeone (1678) e La Giuditta (1680). In questi sette titoli stanno le principali composizioni di questo straordinario e misconosciuto musicista calabrese diacono della diocesi di Mileto, quindi Maestro di Cappella della cattedrale palermitana e poi del Senato messinese.

Se nel Diluvio c’era un dio irato contro l’umanità peccatrice, nel Dialogo a sei voci del Nabucco (come è in origine intitolato) il libretto di Vincenzo Giattini mette l’accento sul martirio della città e dei suoi abitanti: era ancora cocente il ricordo della sanguinosa repressione spagnola del 1678 quando Messina fu messa a ferro e fuoco e una statua del re di Spagna, ottenuta col bronzo fuso delle antiche campane, fu eretta con arroganza di fronte alla cattedrale.

Il testo riprende il secondo e il terzo capitolo del Libro di Daniele relativi alla cattività babilonese, con la narrazione degli eventi legati all’erezione voluta dal re Nabucodonosor II di una colossale statua in oro con le sue sembianze che tutto il popolo avrebbe dovuto adorare. Mentre al suono di un ricco e vivace strumentario accorrono tutti i rappresentanti delle autorità e dei popoli dell’intero regno babilonese, tre giovani governatori ebrei rifiutano di ottemperare all’ordine ingiunto e vengono condannati a essere gettati vivi in una fornace ardente. Ma i giovanetti, compagni del profeta Daniele, escono illesi dalle fiamme, lasciando annichilito il potente re babilonese.

All’inizio dell’oratorio troviamo un prologo nel quale il fiume Eufrate dialoga con Idolatria e Superbia. Tiorba e arciliuto arpeggiano in modo da suggerire il chiaro riverberarsi delle onde con i fiati che descrivono il nobile fluire delle acque, mentre si erge la maestosa voce di basso del fiume in trio con le due voci sopranili per esaltare la gloria e lo splendore del regno.

«Seguono le pagine dedicate a Nabucco e al suo attendente Arioco, dove si narra dell’angoscioso sogno di Nabucco e della sua interpretazione ad opera del profeta Daniele. Nell’oratorio Arioco, capitano delle milizie, con un intenso recitativo “Ombre timide ed oscure” ci introduce ad una “Sinfonia larga da sonno” durante la quale il re è sconvolto da un terribile sogno del quale chiede, senza risultati, spiegazioni ai saggi del regno. L’angoscia del re e la riflessione sulla condizione precaria della regalità e dell’umanità è rappresentata da Falvetti nella splendida aria “Per non vivere infelice”. Ma da Daniele e dai fanciulli Azaria, Mesaele e Anania, Nabucco non trova altro che una incitazione a glorificare l’unico Dio, abbandonando i sogni di una gloria terrena che vuole confrontarsi audacemente con quella divina. In una serie di interventi sia solistici che corali il Profeta e i suoi tre compagni dileggiano il sovrano che intende erigere una maestosa effige “ritratto in oro, original di polve”, e a fronte dei Caldei che osannano in coro al loro re e alla sua Statua, si rifiutano di adorarla. Qui si situano le pagine più affascinanti dell’oratorio. Prima i due cori dei Caldei osannanti: a sei voci “Vola la fiamma” e a tre “All’augusto simulacro”, poi la collera furiosa di Nabucco che ordina di gettare i tre fanciulli in una fornace ardente nell’aria “Sì, mi vendicherò”. Ma soprattutto le tre arie dei fanciulli che si inanellano l’una dopo l’altra, inframmezzate da interventi di Daniele: “Risolvo morire” a tre, “Tra le vampe di ardenti fornaci” di Anania, “La mia fede dal fuoco nasce” di Azaria, e “Le facelle che qui si accendono” di Misaele. La grazia sublime di queste tre arie è meravigliosa, i fanciulli in tutta la loro innocente purezza sono rappresentati da Falvetti mentre impavidi entrano nelle faci ardenti e ne escono indenni come se fossero usciti da un giardino fiorito. Un maestoso coro finale ricorda come la superbia sia uno dei maggiori peccati dell’uomo, chi vuole troppo alzarsi dalla sua condizione umana è destinato ad essere abbattuto: “Mortale, è più che vero, | l’innocenza bambina ove combatte, | gli idoli atterra, e i superbi abbatte”». (Isabella Chiappara)

La varietà di scritture musicali e la cangiante paletta timbrica degli strumenti trovano piena realizzazione nella lettura di Leonardo García Alarcón a capo della Cappella Mediterranea e al coro da camera di Namur. Come per il Diluvio (portato alla luce nel 2010) non si sa quanto quello che si ascolta sia di mano di Alarcón e quanto risalga all’originale che non contiene né coro né strumentazione, ma l’abbagliante sonorità mediterranea che scaturisce dall’esecuzione non fa che rendere merito al ritrovato compositore.

Eterogeneo l’insieme dei cantanti che vanno dagli ottimi Mariana Flores (Idolatria/Azaria), Alejandro Meerapfel (Daniele), Matteo Bellotto (Eufrate),  all’accettabile tenore Fernando Guimarães (Nabucco) allo sfiatato controtenore Fabian Schofrin (Arioco).

Germanico in Germania

Nicola Porpora, Germanico in Germania

Cresce l’interesse per l’opera seria settecentesca: dopo Händel, Vivaldi, Hasse e Vinci, anche Porpora guadagna i favori dei teatri d’oggi. Il compositore napoletano era nato nel 1686 e aveva debuttato nella sua città natale con un’Agrippina presentata a Corte nel 1708. Fino al 1721 si era fatto notare come maestro di canto al Conservatorio San Onofrio della sua città, istruendo le voci più famose del tempo e tra il 1726 e il 1733 fu a Venezia quale “maestro delle figlie” nell’Ospedale degli Incurabili mentre è a Roma che avvenne la prima del suo Germanico in Germania al Teatro Capranica l’11 febbraio 1732.

Su libretto dell’abate Niccolò Coluzzi dedicato al cardinale Pietro Ottoboni, la vicenda narra di Nerone Claudio Druso diventato l’imperatore Germanico dopo la vittoriosa campagna di Germania del 10-13 d.C. Immersa nella storia c’è però una famiglia coi suoi drammi: un capo germanico che è sceso a patti con gli invasori romani, due figlie in discordia perché una è innamorata di un nemico e l’altra rinfaccia al padre il suo tradimento.

Atto I. Rosmonda dice a suo marito, Arminio, capo dei Germani, che suo padre Segeste ha tradito e consegnato la città ai Romani; Arminio parte per il campo a pianificare un contrattacco. I romani entrano in città, ma Rosmonda sfida il loro leader Germanico e rimprovera Segeste per il suo tradimento. Germanico ordina al capitano Cecina di incontrare Arminio e offrirgli la pace. Cecina, avvertito da un sogno, rifiuta, così Segeste si offre di andare al suo posto. Germanico rimprovera Cecina per la sua debolezza. Ersinda, sorella di Rosmonda e amata da Cecina, lo rassicura che lei gli è fedele quanto lo è a Roma e al padre. Nella tenda di Arminio, Segeste gli dice che si è alleato con i Romani per evitare spargimenti di sangue e distruzione, ma Arminio risponde con orgoglio che, per amore della libertà, preferirebbe morire. Anche Ersinda cerca di convincere Rosmonda dei vantaggi di diventare romana, ma invano. Germanico la prende in giro dicendo che Arminio accetterà i suoi termini di pace, ma Rosmonda lo disprezza e giustamente perché ora Segeste annuncia che Arminio ha effettivamente rifiutato tutte le aperture. Germanico si prepara alla battaglia. Segeste si rammarica che solo una delle sue figlie gli sia rimasta fedele. Rosmonda rimane sola con i suoi sentimenti contrastanti.
Atto II. Nella battaglia Arminio è sconfitto e pensa al suicidio, ma viene catturato da Cecina. Rosmonda ed Ersinda si preoccupano per la sorte dei loro cari. Segeste ritorna, annuncia la sconfitta e la cattura di Arminio e rimprovera ulteriormente Rosmonda. Germanico guida Arminio in una processione trionfale. Rosmonda desidera morire con suo marito, ma Arminio le dice che deve vivere per prendersi cura del figlio. La riunione di Ersinda e Cecina è felice. Segeste dice a Germanico che avendo il figlio sotto la sua cura può convincere Rosmonda a giurare fedeltà a Roma. Quando viene condotto Arminio, sfida Germanico, così come Rosmonda. Germanico condanna a morte Arminio.
Atto III. Segeste persuade l’ormai vacillante Germanico che Arminio deve morire. Rosmonda ora supplica Germanico per la vita del marito, chiedendogli di poterlo visitare in prigione: forse, se vede la sua angoscia, si sottometterà. Sia Ersinda che Segeste sono turbati dalla sua evidente angoscia, ma non osano aiutarla. Germanico, e poi Cecina, dicono a Ersinda che deve ancora aspettare prima che il suo amore si compia, ma lei non può sopportare il ritardo. In prigione, Arminio si lamenta del suo destino ed è indignato quando Rosmonda, accompagnata da Segeste, lo supplica di fare pace con i romani. Rosmonda dice a suo padre che tutto ciò che ha detto è stato solo uno stratagemma per scoprire la vera profondità del patriottismo di Arminio: ora è rassegnata alla sua morte. Segeste li lascia a cantare un triste addio. Tutti ora si riuniscono per assistere alla morte di Arminio, che accoglie con favore la fine della sua sofferenza. Bacia l’altare e l’ascia sacrificale e maledice il potere di Roma. Impressionato dalla sua orgogliosa sfida, Germanico chiede ad Arminio se gli piacerebbe vedere suo figlio prima di morire. L’orgoglioso addio di Arminio commuove Germanico, e quando Rosmonda minaccia di uccidersi, lui cede: l’orgoglio di Arminio non supererà la sua misericordia. Non morirà, ma sarà portato a Roma come amico di Roma o come prigioniero, deve decidere. Appellandosi agli dèi, Arminio seppellisce la sua inimicizia e tutti lodano l’unione del Reno con il Tevere.

«L’idea dell’autore era di terminare il presente Drama col fine tragico, ma per accomodarsi al gusto del moderno Teatro, glielo dà lieto» si scusa il librettista. E in effetti il finale è quanto mai posticcio dopo tanto discutere di orgoglio patrio.

Lo spettacolo originale ebbe un cast napoletano e tutto maschile in osservanza al divieto papale di ammettere donne sulle tavole dei palcoscenici. Le parti femminili furono affidate a giovani cantori, Angelo Maria Monticelli (Rosmonda) e Felice Salimbeni (Ersinda), mentre due tra i più acclamati castrati dell’epoca furono utilizzati nelle parti di Germanico e Arminio: rispettivamente il Domenichino (Domenico Annibali) e il Caffarelli (Gaetano Majorana), quest’ultimo allievo di Porpora. Completarono il cast il sopranista Agostino Fontana (Cecina) e il tenore Felice Checacci (Segeste). Fu il trionfo dell’opera napoletana, una novità nel conservatore panorama romano, e Germanico ebbe ai suoi tempi un grande successo prima di cadere nell’oblio.

Equamente distribuiti tra i personaggi sono i quasi trenta pezzi musicali: cinque arie per Rosmonda ed Ersilia, quattro per Germanico, Arminio e Cecina, tre per Segeste, il quale però ha per sé un recitativo accompagnato, come Rosmonda mentre Arminio ne ha due, il secondo particolarmente bello. Assieme alla sinfonia tripartita, un duetto, un terzetto e il coro finale si arriva a 3 ore e 40 minuti di musica. Non c’è evoluzione dei personaggi, che rimangono psicologicamente immutabili fino alla fine: dei sei personaggi tre sono “amici di Roma” e tre nemici, ci sono contrasti tra padre e figlia e tra sorelle, ma il tutto è solo occasione per sfoggio di meraviglie vocali. Un settimo personaggio è il figlioletto di Rosmunda e Arminio, personaggio muto che la madre così descrive al padre per convincerlo a non morire: «Dunque morir vorrai, | né crescer mirerai l’amato figlio, | che mostra già ne’ fanciulleschi giochi | la grand’alma d’Arminio aver nel seno; | ei scherza ognor tra aste, e le bandiere, | e si legge negli occhi il bel desio, | che colla voce palesar non puote, | di gire incontro a mille armate schiere. | Gode veder di sangue aperti, e tinti, | elmi ed usberghi, ed in quel sangue intride | la bianca mano, e al minaccioso lume | dell’elmo, si vagheggia, e ride.» Chissà che cosa ne avrebbe detto Maria Montessori…

In tempi moderni Germanico in Germania è stato presentato alle Innsbrucker Festwochen der Alten Musik del 2015: cinque ore e mezza di spettacolo nella messa in scena di Alexander Schulin e la direzione musicale di Alessandro de Marchi alla guida della Accademia Montis Regalis. Nel cast il mezzosoprano Patricia Bardon (Germanico) e il controtenore David Hansen (Arminio).

Qui con la Capella Cracoviensis diretta da Jan Tomasz Adamus, la parte di Germanico è affidata a un controtenore e quella di Arminio a un mezzosoprano, invertendo quindi i generi dei due personaggi maschili principali. L’esecuzione registrata è stata il fulcro del Festival Opera Rara di Cracovia del 2017. La direzione musicale è di grande vivacità e l’orchestra dimostra ottima competenza pur con le evidenti difficoltà dei corni e nel talora farraginoso continuo che accompagna i lunghissimi recitativi qui totalmente mantenuti – c’è un solo taglio: l’ultima aria di Arminio prima del tutti finale.

Cast di eccellenza quello messo in campo. Germanico ha in Max Emanuel Cenčić un interprete autorevole anche se qui è meno pirotecnico del solito e l’aria di bravura «Qual turbine» è altrove affrontata con ancor maggior cipiglio. Il nemico Arminio è nelle mani e nella voce di Mary-Ellen Nesi, convincente ma non esaltante, che ha a disposizione l’aria più lunga dell’opera, quel «Parto. Ti lascio, cara» che sfiora gli undici minuti.

Julija Ležneva è l’interprete migliore per tecnica e stile: la sua Ersinda è l’ingenua entusiasta di Roma: «degli uomini splendor, piacer de’ Numi, | la veneranda maestate, i riti, | i placidi costumi, | e l’ampie strade, e le superbe moli | d’ostro lucente e d’oro, | i senatori, i sacerdoti, i Tempj, | gli archi, i teatri, il Campidoglio e i foro». In forte contrasto è la sorella maggiore e sposa di Arminio, Rosmonda, che invece dichiara: «Me della Patria alletta il sacro orrore, | non la beltà di Roma, e lo splendore: | quel che m’affligge ogn’ora. | onde traggo ogni dì l’ore infelici | è, che scelta tu sei | la stirpe a propagar de’ miei nemici». L’interprete Dilyara Idrisova dimostra eccellente vocalità, eleganza ed espressività. Segeste è Juan Sancho, il tenore spagnolo nel tempo non è migliorato nel timbro, il temperamento è come sempre generoso ma ha acquisito più agilità vocale. Hasnaa Bennani completa degnamente il cast come Cecina. Dizione talora un po’ imprecisa – nessun interprete è italiano – ma l’operazione è sommamente lodevole per aver fatto conoscere nella sua completezza questo importante lavoro.

Falstaff

Giuseppe Verdi, Falstaff

★★★★☆

New York, Metropolitan Opera House, 14 dicembre 2013

(live streaming)

Hotel Falstaff

Si ride molto nel Falstaff di Carsen che dopo Londra e Milano approda a New York per il sollazzo del pubblico americano, che infatti non risparmia su risate e applausi a scena aperta. Il regista sceglie la strada della commedia brillante con tempi teatrali perfetti, continue gag e uno splendido gioco attoriale. Le sfumature di malinconia sono appena accennate, qui si tratta di un umorismo massiccio, quanto lo sono il protagonista, Alice e Mistress Quickly.

Ambientato in una nostalgica Inghilterra anni ’50, le splendide scenografie di Paul Steinberg ci portano in interni di hotel di lusso (altro che “osteria della Giarrettiera”!) con stuoli di valet e carrelli per il pranzo e la biblioteca dalle pareti in pannelli di legno; in una moderna cucina tutta formica a tinte pastello come luogo della burla in casa Ford; il parco di Windsor è invece un non-luogo notturno dove la quercia di Herne è finita nella boiserie e la foresta è quella delle corna di cervo in testa a tutti i personaggi. C’è poi il risveglio del cavaliere dopo il tuffo nel Tamigi: sulla paglia di una stalla compresa di cavallo, vero, che mastica tranquillo il suo fieno.

Il decadimento di Falstaff è il decadimento della vecchia Inghilterra: il cavaliere vive in un lusso provvisorio ma nella sporcizia: la sua biancheria intima è lurida sotto l’impeccabile tenuta da caccia, la giacca rossa, il cilindro; luride le lenzuola del letto sfatto. Falstaff è l’ultimo esempio di nobiltà decaduta, gli altri personaggi sono la borghesia che avanza, anche in maniera grossolana e invadente: il cicaleccio delle comari scandalizza i clienti del ristorante dell’hotel in cui esse si sono date appuntamento per il tè e in cui Fenton è uno dei camerieri. Per non parlare del Ford travestito da volgare petroliere texano che fa scappare gli altri ospiti. I costumi di Brigitte Reiffenstuel sono capolavori di realismo e ironia, soprattutto quelli delle donne.

L’attualizzazione di Carsen funziona a meraviglia ed è perfettamente integrata nella sua ironica lettura. Nel secondo atto il paravento non c’è, ma la tovaglia del tavolo della cucina serve perfettamente come nascondiglio per i due giovani. E come fare col liuto con cui si accompagna Alice? Va benissimo una radio a transistor! Prima il sacco di monete di Ford era diventato una più moderna valigetta di banconote, tanto il tintinnio dei pezzi di metallo è nella musica! Ogni nota della partitura trova un esatto corrispettivo visivo in questa attentissima regia.

Questa era la 56esima volta che James Levine affrontava l’ultima opera di Verdi. Dopo il lungo periodo di inattività per motivi di salute, il maestro è ritornato con baldanza sul podio e la sua è una direzione orchestrale che ha stupito per freschezza, vivacità, senso della musica e tenuta nelle difficili pagine contrappuntistiche. Nel fluido canto di conversazione Ambrogio Maestri si dimostra il Falstaff par excellence dei nostri tempi, il personaggio che ha portato in scena più volte. Degno concorrente della sua imponente presenza fisica è Stephanie Blythe, vocalmente autorevole e scenicamente auto-ironica Mistress Quickly. Sontuosa la vocalità di Angela Meade (Alice), forse troppo, e vivace la Meg di Jennifer Johnson Cano. Lisette Oropesa e Paolo Fanale formano l’adorabile coppia di giovani amanti. Discutibile il Ford di Franco Vassallo la cui interpretazione vocale è spesso sopra le righe e manca di finezza. Carlo Bosi delina da par suo un dott. Caius da caricatura senza eccessi, mentre Keith Jameson e Christian van Horn formano un Bardolfo e un Pistola da antologia, tra i migliori mai visti e sentiti in scena.