Káťa Kabanová

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Leoš Janáček, Katia Kabanova

★★☆☆☆

Vienna, Staatsoper, 23 aprile 2017

(video streaming)

Quando il Volga diventa lo East River

Nell’ultra tradizionale cartellone della Staatsoper viennese non c’è molto spazio per Leoš Janáček la cui Káťa Kabanová viene ora ripresa in una produzione del 2011 di André Engel. Peccato, perché l’orchestra del teatro si dimostra perfettamente a suo agio sotto la direzione di Tomáš Netopil, ceco lui stesso, che dipana con precisone e sensibilità le note di questo che è tra i lavori più ispirati del compositore moravo. Colori e sentimenti del piccolo villaggio e dei suoi abitanti sono magistralmente riprodotti, ognuno con la sua propria immagine sonora: dalla imperiosa Kabanicha alla sventurata Káťa il cui struggente tema dei violini accompagna tutta l’opera.

Peccato che il cast deluda in varia maniera. Interprete affermata in questo repertorio – la si ricorda come turbata Emilia Marty in un Makropulos di dieci anni fa, o sofferta Marie nel Wozzeck – Angela Denoke non ha mai brillato per la bellezza del timbro, ma qui la voce è spesso sforzata e il registro acuto richiesto dalla parte mette spesso a disagio la cantante con vibrati e incertezze d’intonazione preoccupanti. Non sono meglio i colleghi: Misha Didyk ha bella voce ma un tono stentoreo che non conosce le mezze tinte; Thomas Ebenstein è un Kudriáš dalla dizione e dal timbro che definire peculiari è dire poco; Jane Henschel delinea una Kabanicha megera fino al grottesco, come anche Dan Paul Dumitrescu (Dikoj) suo partner in una imbarazzante scena di sadomasochismo; insicuro e inespressivo il Tichon di Leonardo Navarro. La migliore di tutti risulta la Varvara di Margaret Plummer. Le grandi passioni impetuore come l’uragano del dramma di Ostrovskij da cui deriva il libretto sono del tutto assenti tra gli interpreti a cui viene mancare una credibile interazione nella regia di André Engel, che illustra linearmente la vicenda pur con le incongruenze di un’ambientazione spazio-temporale diversa che nulla aggiunge al succo della vicenda. 

«Parco sulla riva alta del Volga; al di là del fiume, in lontananza, un panorama. A destra la casa dei Kabanov. Un viale con panchine» dice la didascalia della prima scena e qui effettivamente il fiume c’è, le panchine pure, e anche il panorama. Ma quella che si vede è l’inconfondibile skyline di New York e di russo qui c’è solo il pacco da cui il chimico Kudriáš tira fuori un microscopio, mentre Gla fuma una pipa e si fa un pediluvio (!) seduta sulla panchina di fianco.

Siamo nella Brooklyn degli anni tra le due guerre, tra gli immigrati russi. Case di mattoni, scale antincendio sulle facciate, interni spogli, tetti con le cisterne d’acqua, magazzini e il fiume, non il Volga ma l’East River, dietro la palizzata. Tocchi di realismo in un dramma che di realistico non avrebbe nulla: basti il fatto che tra il tuffo nelle acque del fiume e il ripescamento del cadavere passano pochi secondi nell’opera. E il finale che fa scorrere un brivido nella schiena con quella battuta della Kabanicha «Děkují vám, děkují vám, | dobrí lidé, | za úslužnost!» (Grazie, grazie, buona gente, per il vostro gentile servizio!) qui non ha quasi nulla di tragico.

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