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Cremona, 24 giugno 2024
Orlando Perera ha intervistato il Direttore Artistico del Monteverdi Festival di Cremona
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Livornese di nascita, 50 anni, da più di venti trapiantato a Cremona, già apprezzato regista d’opera nei principali teatri italiani, Andrea Cigni dal gennaio del 2021 è sovrintendente del Teatro Ponchielli, che ha pilotato con successo fuori della crisi post-covid. Ma è anche direttore artistico del Monteverdi Festival, che ha appena chiuso la sua 41esima edizione, già definita la migliore di sempre. Sale piene, grandi interpreti, nomi prestigiosi, ma anche giovani musicisti in carriera, stupendi palazzi e chiese cremonesi riscoperti come sedi di concerto, una sensazione diffusa di vitalità e di originalità della proposte. Lo intervistiamo sull’onda di tante belle emozioni.
Orlando Perera – Cigni, domenica 23 sera dopo il concerto finale di gala con la sempre divina Cecilia Bartoli e i “suoi” raffinati Musiciens du Prince di Montecarlo, veniva giù il Ponchielli dagli applausi, evviva, standing ovation. La Cecilia nazionale aveva già duettato alla grande con la tromba di Thibaud Robinne. Alla fine i Musiciens hanno deviato sul jazz ed è spuntato fuori Gershwin, pubblico in visibilio, se l’aspettava un finale così scintillante?
Andrea Cigni – Non è difficile immaginare che Cecilia Bartoli, l’artista lirica italiana più importante al mondo, possa affascinare e mandare letteralmente in delirio il suo pubblico. Non sapevo come avrebbe concluso il concerto, ma sappiamo tutti bene che Cecilia Bartoli è artista eclettica, raffinata e sorprendente; dunque, potevamo aspettarci una conclusione così elettrizzante e coinvolgente.
Andrea Cigni con Cecilia Bartoli
OP – Quando si riesce a proporre una star del calibro della Bartoli, certo, si vince facile. Ma bisogna riconoscere che il Festival Monteverdi ‘24 aveva molte altre frecce nel suo arco: da Sir John Eliot Gardiner, decano degli interpreti monteverdiani, fondatore del mitico Monteverdi Choir, (che però ha solo incontrato il pubblico, senza dirigere), a un altro mostro sacro come William Christie con Les Arts Florissants, Fabio Biondi-Europa Galante, Federico Maria Sardelli-Modo Antiquo e via primeggiando. Come si fa a scritturare direttori ed ensemble di questo livello senza sforare il budget?
AC – Il budget è qualcosa che si costruisce prima, non dopo o durante, sulla base delle informazioni che raccogliamo preventivamente. Non costruiamo mai un budget senza avere contezza di quelli che sono i valori: artistici, di personale, di allestimenti. Il controllo di gestione fa il resto. Ovviamente le incognite sono sempre molte, ma per questo serve monitorare costantemente l’andamento economico, per evitare sorprese.
OP – A proposito, quanto costa il Festival Monteverdi e come vanno i vostri conti? In una città benestante come Cremona, che sostegni avete fuori dai circuiti istituzionali? I ricavi dei biglietti vi soddisfano?
AC – I bilanci dei Teatri sono documenti pubblici e si trovano sui siti di ciascuna istituzione. Nella costruzione dei progetti artistici si devono tener conto anche di necessarie risorse private che servono ad integrare quelle pubbliche e i ricavi del botteghino, per questo abbiamo promosso un’intensa attività di fundraising.
OP – Bisogna riconoscere che non avete proposto solo nomi collaudati. Due soli esempi ascoltati nel circuito Monteverdi Incursioni, il 31enne André Lislevand, figlio del sommo liutista Rolf, viola da gamba, e Ludovico Takeshi Minasi, 30 anni, violoncello principale dell’orchestra barocca il Pomo d’Oro. Musicisti di grande talento, la cui giovane età sembra ricca di promesse. L’attenzione ai giovani è un vostro punto di forza. C’è anche un concorso loro riservato, il Cavalli Monteverdi Competition.
AC – La Monteverdi Academy con giovani ed emergenti ensemble che poi si esibiscono al festival, il coinvolgimento di giovani talenti provenienti dalle migliori esperienze artistiche nazionali e internazionali, il talent scouting, sono i punti essenziali da cui partire per far sì che un festival rappresenti per la creatività emergente un luogo di espressione, accanto ai grandi artisti che si trovano in programma.
OP – Altra esplorazione che ho trovato molto interessante è quella di autori poco frequentati, Bonaventura Furlanetto, erede artistico di Vivaldi come maestro della Pietà a Venezia, Barbara Strozzi rara – ahimè – compositrice donna dell’età barocca, il multiforme talento violoncellistico di Ermenegildo Dal Cinque. Ma anche la riscoperta di tre meravigliose messe di Monteverdi. Mi viene da pensare che il vostro Festival stia diventato una delle più interessanti rassegne di musica antica tout-court del panorama europeo. Avete quest’ambizione?
AC – L’ambizione credo sia uno dei motori necessari per far crescere iniziative culturali. Il Monteverdi propone un repertorio che abbiamo inventato in Italia e che poi, per molti motivi, ci siamo dimenticati, riscoprendolo in tempi recenti con una sorta di Baroque Renaissance. Credo che i numeri e le proposte ci siano tutti per far sì che questo festival si imponga come una delle esperienze più importanti a livello mondiale, in una città che può ben definirsi capitale mondiale della musica, grazie anche alla sua storia legata all’invenzione degli strumenti ad arco. Se pensiamo che qui sono nati Stradivari e Monteverdi…
Il progetto grafico di Imaginarium Studio
OP – Parliamo del vero protagonista del Festival, il divino Claudio. Lo avete trasfigurato nell’icona lead della manifestazione in un signore barbuto in smoking, dai mustacchi imponenti, liberamente ispirato al celebre ritratto di Bernardo Strozzi, conservato a Innsbruck. Lei lo ha definito un “folle rivoluzionario”, è riconosciuto come la pietra miliare del passaggio dal rinascimento al barocco, l’inventore del dramma in musica, la sua musica pur arcaica appare come definitiva, di inossidabile modernità. Qual è il suo rapporto con Claudio Monteverdi, da uomo di spettacolo?
AC – È un debito di gratitudine che abbiamo nei confronti di Monteverdi. Se facciamo quello che facciamo, registi, direttori, cantanti, scenografi, se esistono i teatri d’opera, i grandi compositori e tutto ciò che conosciamo oggi rispetto all’opera lirica, lo dobbiamo a chi per primo ha saputo tradurre in ‘regole chiare’ esperimenti pioneristici in campo musicale, per restituirci un genere che rende l’Italia famosa nel mondo e rende popolare la nostra lingua.
OP – Da regista, lei ha anche curato anni fa una bella edizione dell’Orfeo, direttore Ottavio Dantone con Accademia Bizantina, un allestimento che ricordo fiabesco, molto diverso da quello stilizzato di Oliver Fredji proposto al Festival. Che ne pensa da regista?
AC – Ho trovato molto bella l’impostazione di Fredj data all’Orfeo. Coerente con una visione culturale molto suggestiva, come quella del legame con il teatro di Cocteau. Il pubblico ha apprezzato molto. Anche la necessaria modernità voluta in scena, con un confronto interessante con la tradizione, è servita a far capire che in questo repertorio si può osare molto di più rispetto ad esempio all’Ottocento, senza rischiare di essere criticati.
Il teatro Ponchielli di Cremona
OP – Tornando a Cremona, come vive oggi la città la figura del suo grande concittadino, che condivide la gloria di cremonese più illustre con Antonio Stradivari, da cui lo separano due generazioni. A ben guardare però questa gloria Monteverdi la conquistò più a Mantova e Venezia, che nella città natale. Come rispondono i Cremonesi?
AC – I Cremonesi sono i concittadini di Monteverdi, questo è un fatto. Monteverdi nasce a Cremona. Un po’ come accaduto per altri compositori che si sono poi espressi in tutta Europa (penso a Mozart che poi viene celebrato nella sua Salisburgo). I Cremonesi stanno piano piano prendendo confidenza con la loro preziosa storia musicale e col loro importante passato, per goderne i frutti culturali e proiettarsi verso il futuro.
OP – Nella serata finale ha annunciato per l’anno prossimo Il Ritorno di Ulisse in Patria di Monteverdi e l’Ercole Amante, il capolavoro “francese” del suo allievo Francesco Cavalli. Sappiamo che affrontare la trilogia monteverdiana significa di fatto farne ogni volta una nuova edizione critica, viste le lacune e le incertezze dell’originale. Ciò è particolarmente vero per l’Ulisse, di rara rappresentazione per l’incompletezza della partitura, che contiene solo le parti vocali e una sintetica linea di basso da armonizzare, mentre non tutto il libretto è musicato. Per l’Ercole forse i problemi sono minori, ma il ruolo del direttore resta fondamentale. Chi chiamerete a quest’arduo compito?
AC – Gli interpreti e gli esecutori saranno resi noti più avanti, anche per creare una giusta attesa. Ma come sempre accade saranno specialisti raffinati di questo repertorio.
OP – Per finire, dalla poltrona – non sempre comoda – di sovrintendente e direttore artistico sente mai nostalgia per il seggiolino pieghevole del regista, che pure le ha dato tante soddisfazioni?
AC – Continuo la mia attività di regista, perché corrobora quella di sovrintendente. Avere esperienza di palcoscenico, da cui provengo, si rivela quotidianamente una risorsa nel mio lavoro di manager. Ho avuto un percorso universitario che mi ha formato a livello gestionale e sono riuscito a portare avanti visione e conoscenza artistica. Recentemente ho messo in scena Thaïs negli Stati Uniti e Macbeth a Sassari e la prossima fatica sarà un Andrea Chénier. E comunque non amo stare seduto quando faccio prove di regia… ma corro sulla scena con i cantanti!
⸪