Operetta

Trial by Jury

Arthur Sullivan, Trial by Jury 

Glasgow, Theatre Royal, 14 maggio 2025

(video streaming)

La giustizia come reality show

Prima della fortunata serie delle Savoy Operas, Trial by Jury è la seconda collaborazione di Wil­liam Schwenck Gilbert e Arthur Sullivan dopo Thespis. 

Rappresentata per la prima volta nel 1875, la vicenda tratta il classico caso di promesse matrimoniali non mantenute – l’imputato ha abbandonato la ricorrente all’altare – ed è ambientata un un’aula di tribunale dove si svolge un processo ricco di emozioni, assurdità e soprattutto in un caos totale. Si pensi anche solo alla stravagante proposta del giudice di far ubriacare l’imputato per vedere se quando è in preda ai fumi dell’alcol si comporta con violenza sulla sposa: «He says, when tipsy, he would thrash and kick her. | Let’s make him tipsy, gentlemen, and try!». Alla fine tutto si risolve con un’altra proposta del vulcanico giudice, ossia quella di sposare la ragazza, la quale si dimostra ben contenta di sposare un vecchio ricco in un finale tra il giubilo generale.

Anche se breve, il lavoro ha già le caratteristiche delle successive operette di G&S: cori che commentano con arguzia le situazioni, personaggi abilmente caratterizzati e il classico patter song per il protagonista comico (qui il giudice), ossia un brano caratterizzato da un ritmo veloce, parole pronunciate in rapida successione e le impagabili rime di Gilbert, dove otto fa rima con Watteau e usher (usciere) con Russia! In questo numero il giudice racconta come abbia fatto carriera sposando la figlia brutta di un famoso avvocato e una volta diventato ricco l’abbia abbandonata. L’uomo giusto per presenziare un processo come questo!

Musicalmente anche in questa breve farsa c’è posto per la parodia dell’opera seria, qui ne fanno le spese Donizetti e Verdi con il quartetto «A nice dilemma» con il Giudice, l’Avvocato difensore, l’Imputato e la Parte lesa, uno dei tanti divertenti numeri che il giovanissimo direttore Toby Hession dirige con verve alla guida dell’orchestra della Scottisch Opera. Nel cast vecchie glorie del teatro come Richard Stuart (Giudice) e giovani voci come quelle di Chloe Harris, avvocato difensore in gonnella, Kira Kaplan, la parte lesa, o Edward Jowle, l’usciere.

Il regista John Savournin Savournin reinventa Trial by Jury come un reality show degli anni ’80 dove le caustiche fantasie di Gilbert & Sullivan diventano una sorta di realtà, con la giuria estremamente parziale, il giudice esibizionista, le damigelle d’onore professioniste, la querelante che appare in abito da sposa, l’imputat, che sembra un giovane Trump e che viene odiato a prima vista ma che comunque si rivela un vero mascalzone. Il tribunale non è più un simbolo della probità britannica, ma uno spettacolo di intrattenimento distorto in cui il processo legale è teatro e la giustizia ha la battuta finale.

L’atto unico di G&S è giustamente completato in questo double bill da A Matter of Misconduct, un’operetta di Emma Jenkins e Toby Hession, questa ambientata nel mondo della politica – un mondo a suo modo strettamente correlato a quello dei tribunali…

Giuditta

 foto © Klara Beck

Franz Lehár, Giuditta

Strasburgo, Opéra, 20 maggio 2025

★★★☆☆

(video streaming)

Né Carmen né Vedova Allegra

Rappresentata per la prima volta all’Opera di Stato di Vienna il 20 gennaio 1934, con Jarmila Novotná e Richard Tauber nei ruoli principali, Giuditta fu trasmessa in diretta da 120 stazioni radiofoniche in tutta Europa e negli Stati Uniti e rimase in scena per 42 rappresentazioni nella sua stagione di debutto. Nonostante l’interesse iniziale uscì però presto dal repertorio: nel 1938, con l’Anschluss, Tauber lasciò la città, così come la Novotná, mentre il librettista Fritz Löhner-Beda fu deportato e morì ad Auschwitz.

Commedia musicale in cinque scene con una partitura per grande orchestra, fu l’ultima e più ambiziosa opera di Lehár, scritta su una scala più ampia rispetto alle sue precedenti operette. Il libretto è di Paul Knepler e Fritz Löhner-Beda e di tutte le sue opere è quella che più si avvicina a una vera e propria opera lirica. Le somiglianze con la storia della Carmen di Bizet e il suo finale drammatico ne accentuano le risonanze. Un’altra forte influenza, soprattutto per l’ambientazione nordafricana, fu il film Marocco di Josef von Sternberg del 1930, con Marlene Dietrich e Gary Cooper in ruoli molto simili: lei cantante-ballerina, lui soldato.

Come altre opere successive di Lehár, anche Giuditta manca del lieto fine, altrimenti tipico del genere dell’operetta. Tra operetta e grand-opéra e con un’orchestrazione che ricorda spesso Puccini, nonostante questa ambivalenza stilistica, Lehár ha creato melodie immortali, soprattutto la canzone di Octavio “Freunde, das Leben ist lebenswert “(Amici, la vita è degna di essere vissuta) o quella dell’eroina del titolo “Meine Lippen, sie küssen so heiß! (Le mie labbra sono così calde da baciare), due melodie orecchiabili che vengono spesso eseguite anche dai più grandi tenori e soprani nei concerti.

Scena prima. Una città portuale nel sud della Francia, negli anni Trenta. Séraphin e Anita sono teneramente innamorati e fanno di tutto per pagarsi il viaggio verso l’altra sponda del Mediterraneo, dove sperano di fare fortuna grazie al canto e alla danza. Nel frattempo, l’anziano Manuel veglia gelosamente sulla moglie, la giovane e bella Giuditta, che ha conosciuto sulla spiaggia e il cui passato rimane per lui un mistero. La voce magnetica di Giuditta conquista presto l’ufficiale Octavio. Incantati l’uno dall’altra, condividono i loro sogni d’amore e Octavio supplica Giuditta di seguirlo in Africa, dove si unirà a un reggimento della Legione Straniera. Desiderosa di libertà e stanca della possessività del marito, Giuditta accetta infine la sua offerta e si imbarca sullo Champollion, mentre Séraphin e Anita sono già a bordo.
Scena seconda. Saada. Séraphin e Anita hanno trovato rifugio presso Giuditta e Octavio. Hanno lasciato prima il circo e poi il cabaret che li aveva assunti e si sono ritrovati senza alcuna entrata. Séraphin decide di tornare in Europa per guadagnarsi da vivere, promettendo di tornare per Anita e sposarla. Giuditta offre all’amico un posto dove stare al suo fianco, mentre Octavio apprende dal compagno Marcelin che il loro reggimento potrebbe presto essere impiegato in campagna.
Scena terza. Ottavio non ha ancora detto a Giuditta della sua imminente partenza. Profondamente possessivo, teme che, una volta lasciata sola, lei lo tradisca e se ne vada. Mentre si salutano, Giuditta chiede a Ottavio di dimostrare il suo amore restando con lei. Lui è sul punto di cedere, ma la parola “disertore” pronunciata da Marcelin lo frena e lo convince a partire con il resto del reggimento. Disperata, Giuditta si lancia in una danza furiosa.
Scena quarta. Tangeri. Circondata dal suo corpo di ballo, Giuditta trionfa sul palcoscenico del cabaret l’Alcazar, dove il cantante Cévenol si esibisce insieme a diversi intrattenitori, tra cui la giovane Lolitta. I numeri di Giuditta hanno affascinato un ricco inglese, Lord Barrymore, che la ricopre di sontuosi regali e spera di invitarla a cena. Alla fine Giuditta accetta le avances del suo nuovo ammiratore, senza sapere che Octavio, che ha lasciato il suo reggimento per trovarla, la sta osservando dall’ombra.
Scena quinta. Una capitale europea. Giuditta è diventata un’amata celebrità. Dopo un’esibizione, si reca in una suite privata di un hotel per cenare con un aristocratico di alto rango. Il pianista ingaggiato per accompagnare il loro incontro discreto si rivela essere nientemeno che Ottavio. Giuditta lo riconosce e gli rivela che i suoi sentimenti per lui sono immutati, ma lui la respinge: non è più capace di amare.

Come sono buone le ciliegine sulla torta, ma una torta fatta solo di ciliegine alla fine risulta stucchevole. Ecco, questo è il caso dell’operetta di Lehár zeppa di melodie fascinose che però dopo un po’ vengono a noia con quell’accompagnamento orchestrale alla linea vocale che ogni tre per due finisce nell’acuto rapinoso. Rispetto alle due operette più famose, La vedova allegra e Il paese del sorriso, Lehár in questo suo ultimo lavoro guarda all’opera: l’orchestra è più grande, l’orchestrazione più meticolosa e il trattamento delle voci più impegnativo – i ruoli vocali erano stati costruiti da Lehár su misura delle voci della Novotná e di Tauber. Un ruolo esigente soprattutto quello del tenore, qui un Thomas Bettinger dai fiati un po’ corti e dalla linea vocale discontinua. La Giuditta di Melody Louledjian è tecnicamente solida, ma la voce del soprano francese con origini armene non seduce, gli acuti non sono potenti, la linea vocale difetta di omogeneità. La presenza scenica e i movimenti di danza sono ricercati ma il risultato è poco convincente. Meglio la coppia comica di Anita e Séraphin, Sandrine Buendia et Sahy Ratia, uniti da una bella complicità, scioltezza vocale e sicura presenza scenica. Ottimo il Cévenol di Jacques Verzier, mentre Nicolas Rivenq e Christophe Gay fanno valere la loro consumata esperienza teatrale in più parti. Sul podio il viennese Thomas Rösner dirige con competenza e precisione, ma non coglie le diversità di colore offerte dalla partitura né le esigenze di un ensemble vocale che forse aveva bisogno di essere meglio accompagnato.

È curioso che ci siano le nacchere nell’orchestra di Giuditta quando nessuno degli eventi si svolge in Spagna. In realtà, è in Spagna che i librettisti avevano originariamente ambientato la vicenda molto simile a quella della Carmen, almeno quando Giuditta incita il suo bell’amante legionario alla diserzione. Ma nel 1933 Mussolini era diventato il principale alleato dell’Austria del cancelliere Dollfuss e Lehár ritenne politicamente più opportuno trasporre l’azione in Italia, trasformando il romantico legionario in un ufficiale italiano diretto in Libia, allora in piena occupazione coloniale. Quanto alle nacchere e alle españolades, sono rimaste al loro posto nelle parti già scritte. Lehár ebbe l’idea di inviare la sua partitura, debitamente autografata, al Duce, il quale, scandalizzato dal soggetto (un ufficiale italiano spinto alla diserzione da una donna promiscua che aveva appena lasciato il legittimo marito!), gliela restituì senza tanti complimenti.

Qui all’Opéra du Rhin l’azione si sposta nel sud della Francia, poi in Marocco, quindi sotto il protettorato francese, e infine in una capitale europea non specificata. Si utilizza infatti la versione in francese di André Mauprey e non quella originale in tedesco. Già il libretto originale non è il massimo della genialità, nella traduzione non migliora, anzi.

La nostra sensibilità contemporanea rivela poi una serie di questioni non secondarie in questo libretto – il maschilismo e la sua violenza (Giuditta viene schiaffeggiata o aggredita in diverse occasioni), l’eroticizzazione sistematica delle donne ridotte a meri oggetti di desiderio sessuale, gli abusi del colonialismo – ma il regista Pierre-André Weitz si astiene da qualsiasi riflessione su questi temi a favore di una lettura superficiale e una scenografia spettacolare, ricca di color. L’ambientazione della prima scena all’ingresso di un tendone da circo con culturisti, trapezisti e personaggi quali una donna cannone, un nano e due gemelle siamesi, ricorda Freaks il film di Tod Browning uscito due anni prima, ma senza l’occhio critico di quest’ultimo. Le tele dipinte, il modello della nave che attraversa il Mediterraneo, il cabaret nella quarta scena e il ristorante elegante nella quinta, sono riusciti e accattivanti, ma il regista non riesce a dare sostanza e vita ai personaggi: Giuditta è senza fascino e mistero, il militare una figura monodimensionale. Che poi la vicenda si svolga negli anni più terribili del Nazismo non ha la minima implicazione nell’allestimento, se non una croce uncinata sul bracciale del lord inglese (?) con cui Giuditta ha un appuntamento galante. La riproposizione di questo raro titolo avrebbe avuto senso con una lettura più problematica della vicenda, cosa che qui è mancata.

Les brigands


foto © Agathe Poupeney

Jacques Offenbach, Les brigands

Parigi, Opéra Garnier, 21 giugno 2025

★★★★☆

(registrazione video)

Un Offenbach che sa di aglio e sudore

Sono pochi i titoli di Offenbach creati per Palais Garnier o l’Opéra Bastille negli ultimi cinquant’anni, da quando cioè il compositore è entrato in repertorio con Les contes d’Hoffmann nella produzione di Chéreau del 1974. La tradizione delle opéras-bouffes di Offenbach si è infatti cementata intorno alla coppia Marc Minkowski e Laurent Pelly all’Opéra de Lyon, con indimenticabili spettacoli di cui rimangono preziose registrazioni in CD e video. Per rimediare, l’Opéra de Paris affida a Stefano Montanari e a Barrie Kosky il compito di far rivivere le deliranti vicende di Les brigands.

È un Offenbach «che sa di aglio e di sudore», dice il regista di questa sua produzione, e per recuperarne l’originaria impertinenza e carica provocatoria, la ambienta in un universo queer popolato da una variopinta mafia malavitosa in cui regna la fluidità del genere e dove il capo dei briganti Falsacappa ha le fattezze di Divine, la drag queen dei film di John Waters, all’inizio nel famoso abito rosso di Pink Flamingos, accessoriato di pistola, e poi in una varietà di outfit rigonfi e con paillettes. Il travestimento è d’altronde uno degli elementi determinanti in questa vicenda dove i briganti si travestono prima da mendicanti, poi da cucinieri, quindi da nobili spagnoli, infine da carabinieri, e dove il ritratto della promessa sposa al Principe di Mantova, il regno “confinante” con quello di Granada (!), viene scambiato con il ritratto della figlia del capo dei briganti.

Nella lettura di Kosky i dialoghi, spregiudicatamente riscritti, hanno molte allusioni all’attualità politica della Francia. La scenografia fissa di Rufus Didwiszus, un salone grigio sbiadito con modanature Secondo Impero, è arricchita da 11 tele dipinte con paesaggi. Nel secondo atto l’arrivo della principessa di Granada e della sua corte dà luogo a uno spettacolare tableau vivant grondante d’oro. Con i costumi di Victoria Behr, Kosky mette in campo tutti i mezzi dell’Opéra di Parigi per allestire un corteo degno di una produzione particolarmente sontuosa, ad esempio del Don Carlos, in cui i membri della corte spagnola avanzano come in una processione della Semana Santa. La principessa è alla testa del corteo, in un abito ampio e rigido ispirato all’Infanta Maria Teresa di Vienna ritratta da Velazquez, mentre le sue dame di compagnia hanno tutte costumi di alta moda disegnati individualmente. Gli uomini arrivano su cavalli da tiro a rotelle in farsetti, gorgiere e pantaloni d’oro. Le ballerine indossano i trajes de luces ricamati in oro dei toreador e tutti hanno i capelli di un vivace colore arancione. In fondo un Cristo in grande scala, quasi nudo e palestrato, ondeggia lentamente affiancato da due vergini dei dolori in nero, su piedistalli d’oro, una circondata da candele, l’altra da gigli. Se tra il pubblico si era alzato qualche sopracciglio al primo atto, questo quadro mette tutti d’accordo per la teatrale e ironica opulenza degna del miglior Kosky.

Anche nelle altre scene il palcoscenico brulica di un numero enorme di persone – solisti, coro, ballerini, figuranti – ma ognuno ha sempre qualcosa di speciale da fare, anche solo dimenare il fondoschiena verso il pubblico. Tutti quei movimenti frenetici e brulicanti della folla, avanti e indietro, mentre si indossano nuovi travestimenti, sono minuziosamente gestiti nella loro finta stravaganza. Si aggiungano le coreografie da cabaret di Otto Pichler per completare uno spettacolo trasgressivo e allegramente oltraggioso.

Coerente con la visione del regista è la recitazione degli interpreti, primo fra tutti il monumentale Marcel Beekman quale Falsacappa/Divine, che mescola registri diversi in una tessitura allungata e androgina. La figlia Fiorella ha le fattezze e la voce di Marie Perbost, soprano agile e corposo, mentre il mezzosoprano Antoinette Dennefeld delinea il vivace amante Fragoletto. Mathias Vidal (Principe di Mantova) dimostra ancora una volta la perfezione del suo stile unita a una sana dose di autoironia. Philippe Talbot era presente nella produzione del 2011 de Les brigands e qui ritorna nella stessa parte del Comte de Gloria Cassis, quello che canta i versi più famosi dell’opera: «Y’a des gens qui se dis’nt Espagnols | et qui n’sont pas du tout espagnols». Cast di lusso anche per le parti secondarie affidate ai veterani delle vecchie produzioni di Pelly/Minkowski: Yann Beuron come Le Baron de Campo-Tasso apporta il suo fraseggio elegante e la sua solita verve; Laurent Naouri affronta con gusto la parte del capo dei carabinieri, qui flic parigini col kepì; l’inconfondibile Franck Leguérinel si fa riconoscere come Barbavano (fu Pietro nel 2011) ed Eric Huchet (allora Falsacappa) come Domino.

Nella ripresa delle recite di giugno, Stefano Montanari è sostituito da Michele Spotti che aveva concertato Barbe-Bleu a Lione e che anche qui si adatta alla perfezione allo spirito dell’Opéra-Bouffe di Offenbach con tempi appropriati e grande gusto strumentale.

The Gondoliers

Arthur Sullivan, The Gondoliers

Glasgow, Theatre Royal, 28 ottobre 2021

★★★★☆

(video streaming)

L’ultimo grande successo e capolavoro di G&S

Terz’ultima delle Savoy Operas, The Gondoliers or The King of Barataria fu anche l’ultimo grande successo di William Schwenck Gilbert e Arthur Sullivan, 553 repliche successive alla prima del 7 dicembre 1889, ed è forse il loro massimo capolavoro.

Le relazioni tra librettista e compositore, anche a causa del tiepido successo della loro ultima collaborazione, The Yeomen of the Guard, erano diventate tese. Alle smanie di Sullivan per scrivere un’opera seria in cui la musica «doveva essere predominante» Gilbert aveva risposto: «Se voi avete la sorprendente impressione di essere stato negletto negli ultimi dodici anni, e se siete serio nella vostra intenzione di voler scrivere un’opera in cui “alla musica debba essere assegnato il riguardo primario” (dal che capisco trattarsi di un’opera in cui il libretto, e di conseguenza il librettista, devono occupare un posto subordinato), non c’è certo la possibilità di trovare un modus vivendi soddisfacente per entrambi. Voi siete un esperto nella vostra professione, e io nella mia. Se ci vogliamo rimettere insieme deve essere come maestro e maestro, non come maestro e servo». Essi si riappacificarono, ma rimase sotterranea una vena di rancore fra i due che alla fine sarebbe uscita allo scoperto.

Nell’aprile del 1890 Gilbert scoprì che le spese di manutenzione del teatro, tra cui un nuovo tappeto per l’atrio anteriore del teatro, erano state addebitate alla partnership invece che a carico di Carte. Gilbert affrontò Carte, ma il produttore si rifiutò di riconsiderare i conti, cosa che fece infuriare Gilbert. Le cose degenerarono presto, Gilbert perse le staffe con i suoi soci e intentò una causa contro Carte. Sullivan sostenne Carte rilasciando una dichiarazione giurata in cui affermava erroneamente che c’erano delle piccole spese legali in sospeso a causa di una battaglia che Gilbert aveva avuto nel 1884 con Lillian Russell, mentre in realtà quelle spese erano già state pagate. Quando Gilbert lo scoprì, chiese la ritrattazione della dichiarazione giurata; Sullivan rifiutò e Gilbert si sentì tradito. Sullivan sentiva che Gilbert stava mettendo in dubbio la sua buona fede, e Sullivan aveva altri motivi per rimanere nelle grazie di Carte: Carte stava costruendo un nuovo teatro, la Royal English Opera House (oggi Palace Theatre), per produrre l’unica grande opera di Sullivan, Ivanhoe. Dopo la chiusura di The Gondoliers nel 1891, Gilbert ritirò i diritti di rappresentazione dei suoi libretti, giurando di non scrivere più opere per il Savoy. L’aggressiva azione legale di Gilbert, anche se coronata da successo, aveva amareggiato Sullivan e Carte. Dopo molti tentativi falliti da parte di Carte e di sua moglie, Gilbert e Sullivan si riunirono grazie agli sforzi del loro editore musicale, Tom Chappell. Nel 1893 produssero la loro penultima collaborazione, Utopia, Limited, ma The Gondoliers si sarebbe rivelato l’ultimo grande successo di Gilbert e Sullivan. Utopia fu solo un modesto successo e la loro ultima collaborazione, The Grand Duke, nel 1896, fu un fallimento. Dopo di allora, i due non collaborarono mai più.

Il tempo trascorso su The Gondoliers fu più lungo che per le altre opere, Sullivan dimostrò tutta la sua maestria in cori e concertati complessi dal punto di vista del contrappunto delle voci e trascinanti ritmi di danze di gusto spagnolo. I loro sforzi non furono inutili e i risultati non delusero le aspettative: i critici furono estremamente favorevoli e il pubblico in delirio. Come era successo con The Mikado l’ambientazione esotica, qui una Venezia di fantasia nel primo atto e il palazzo del regno di Barataria nel secondo, aveva spinto Gilbert a premere sul pedale della satira sociale. Il libretto è un’incantevole presa in giro delle attrattive e delle insidie del potere, del privilegio e del clientelismo.

Atto I. A Venezia, ventiquattro contadine dichiarano la loro passione per i bei fratelli gondolieri Marco e Giuseppe Palmieri, che si bendano per scegliere equamente le loro spose. Alla fine, Giuseppe sceglie Tessa e Marco sceglie Gianetta, e tutti e quattro si recano in chiesa per un doppio matrimonio. Il Duca e la Duchessa di Plaza-Toro, insieme alla figlia Casilda, arrivano dalla Spagna per incontrare Don Alhambra del Bolero, il Grande Inquisitore. Mentre il loro tamburino Luiz parte per annunciare l’arrivo del Duca, il Duca e la Duchessa rivelano alla figlia un segreto che hanno custodito per vent’anni: quando lei aveva solo sei mesi, è stata data in sposa al figlio neonato del Re di Barataria, che è stato portato a Venezia da Don Alhambra e ora è lui stesso Re dopo la morte del padre in un’insurrezione. Casilda è quindi diventata regina di Barataria e i suoi genitori l’hanno portata a Venezia per farle conoscere il marito. Segretamente innamorata di Luiz, Casilda si rassegna a una vita separata da lui. Don Alhambra arriva e spiega che il piccolo Principe di Barataria è stato allevato dal gondoliere veneziano Baptisto Palmieri, che aveva un figlio della stessa età e che ha dimenticato quale dei due fosse. I due ragazzi – Marco e Giuseppe Palmieri – crebbero e divennero a loro volta gondolieri. Solo la balia Inez, che li ha accuditi (e che è anche la madre di Luiz), sa chi è il primo, ma ora vive con un brigante in montagna. Il Grande Inquisitore invia Luiz a cercarla. Quando Marco e Giuseppe arrivano con le loro mogli, Don Alhambra spiega che uno di loro è il Re di Barataria, ma nessuno sa quale. Nonostante le loro convinzioni repubblicane, i “fratelli” sono entusiasti e accettano di recarsi subito a Barataria, regnando insieme fino a quando non sarà possibile identificare il vero Re. Don Alhambra avvisa le mogli che non possono essere ammesse a Barataria fino a quando il Re non sarà stato dichiarato, trascurando di dire che il vero Re è già sposato con Casilda.
Atto II. A Barataria, Marco e Giuseppe, fedeli alle loro radici repubblicane (d’adozione), insieme governano in uno stile idealista, anche se un po’ caotico. Vivono una vita splendida, ma sentono la mancanza delle mogli. Ma ben presto, faticando a sopportare la separazione, le signore arrivano da Venezia e tutti festeggiano con un gran ballo. Don Alhambra arriva a palazzo e scopre che Marco e Giuseppe hanno promosso tutti alla nobiltà, e comunica che il vero Re è stato sposato con Casilda da bambino ed è quindi un bigamo involontario. Le mogli dei gondolieri sono sconvolte nello scoprire che nessuna di loro sarà regina. Il Duca e la Duchessa di Plaza-Toro arrivano con Casilda e, sconvolti dalla mancanza di sfarzo e di cerimonie di benvenuto, si impegnano a educare Marco e Giuseppe a un corretto comportamento regale. I due ex gondolieri rimangono soli con Casilda, che promette di essere una moglie fedele per uno di loro, e quando arrivano le altre mogli, tutti e cinque cantano della loro strana situazione. Don Alhambra arriva con la nutrice Inez, che conosce la vera identità del Re. La donna confessa che quando il Grande Inquisitore è arrivato per portare via il Principe bambino, ha sostituito il proprio figlio piccolo, tenendo il vero Principe sotto la propria guardia. Così il Re non è né Marco né Giuseppe, ma Luiz, e Casilda scopre di essere già sposata con l’uomo che ama. I due gondolieri, sebbene delusi per non essere diventati Re, tornano a Venezia felici con le loro mogli.

La produzione della Scottish Opera, realizzata in collaborazione con la D’Oyly Carte Opera Company e la State Opera South Australia, è diretta con brio da Derek Clark che dà vita alla più solare e gioiosa delle Savoy Operas. Sotto la sua guida la Schottish Opera Orchestra si dimostra un duttile strumento per realizzare la non facile partitura ricca di invenzioni musicali argute e sapienti allo stesso modo. Frizzante è il est di interpreti efficacissimi nel tratteggiare i sapidi personaggi di questa storia surreale: i fratelli Palmieri, i gondolieri del titolo, Marco (William Morgan) e Giuseppe (Mark Nathan); le spose Gianetta (Ellie Laugharne) e Tessa (Sioned Gwen Davies); gli spiantati e altezzosi aristocratici spagnoli The Duke of Plaza-Toro (l’esilarante Richard Suart) e The Duchess of Plaza-Toro (Yvonne Howard); il Grande Inquisitore Don Alhambra del Bolero (Ben McAteer); Casilda (Catriona Hewiston), Luiz (Dan Shelvey) e tutti gli altri.

Fedele alla tradizione della d’Oyly Carte ma con un pizzico di modernità è l’arguto allestimento di Stuart Maunder, direttore artistico della State Opera South Australia di cui si ricorda il delizioso Mikado. Assieme alle scene di Dick Bird, al gioco luci di Paul Keogan e alle fluide coreografie di Isabel Baquero il risulato è uno spettacolo visivamente godibilissimo che il culmine nei costumi dello stesso Bird, uno per tutti quello della Duchessa: una gonna di due metri e mezzo di larghezza, sbrindellata e sbiadita nel primo atto, riportata allo splendore di sete dorate nel secondo assieme alla parrucca in cui è infilzata una lunga gondola. Il costumista si diverte non solo con la profusione di fiori e nastri degli abiti settecenteschi delle contadine, ma con il costume dei fratelli gondolieri che devono condividere il ruolo di re. Per non parlare dell’abito da fenica spagnola di Casilda che sfoggia anche una benda nera su un occhio – non sempre lo stesso… – a mo’ di principessa Eboli!

La recita è stata filmata e trasmessa dalla rete BBC4 ed è attualmente disponibile su Operavision oltre che su YouTube.

Die Fledermaus

Johann Strauß figlio, Die Fledermaus

Monaco, Bayerische Staatsoper, 31 dicembre 2023

★★★★☆

(video streaming)

Uno scatenato Pipistrello

Tempo di feste, tempo di Die Fledermaus, l’operetta che festeggia i 150 anni, essendo stata eseguita la prima volta al Theater an der Wien nel 1874 diretta dallo stesso autore, Johann Strauß figlio. Almeno quattro sono le produzioni nei teatri europei in questo periodo: Bologna, Vienna (Staatsoper ovviamente), Zagabria (video disponibile su Operavision) e Monaco di Baviera (disponibile su Arte). Sulla carta quest’ultimo era il più promettente e si è rivelato tale anche nella realtà con Vladimir Jurovskij alla direzione d’orchestra, Barrie Kosky alla regia e un cast di rilievo.

Si tratta del terzo Pipistrello in tempi moderni alla Bayerische Staatsoper dopo quello di Leander Haußmann degli anni ’70 soppiantato da quello di Otto Schenk nel 1997 e ora da quello del regista australiano-tedesco che, dopo l’operetta tedesca e Offenbach, ha affrontato la regina delle operette viennesi con il suo teatralissimo e irriverente approccio che gioca con il travestimento: il principe Orlofski, il più delle volte interpretato da una cantante femminile in vesti maschili, qui è invece un controtenore in versione drag-queen sgargiante, drappi turchesi e sete smeraldo su crinoline esagerate mentre il coro del secondo atto è vestito nei colorati e genderfluid costumi di Klaus Bruns, con piume a profusione.

Lo spettacolo inizia con il sonno di Gabriel von Eisenstein infestato da pipistrelli ballerini nella sua camera da letto al centro di una piazza attorniata da facciate di vecchi palazzi viennesi, la Judenplatz – un’allusione all’ebraismo in qualche modo nascosto del compositore e a quello invece dichiarato del regista. Nella scenografia disegnata da Rebecca Ringst, dalle porte escono ed entrano a ritmo incalzante personaggi spesso ignari gli uni degli altri come in una pochade di Feydeau.

Il secondo atto con il ballo dal principe Orlofsky fonde coristi e ballerini in un’atmosfera dove l’identità di genere svanisce tra piume di struzzo, glitter e paillettes. La festa culmina con un balletto sulle irresistibili musiche di Unter Blitz und Donner, prima del trascinante finale in cui tutti intonano l’inno al piacere «Ha, welch ein Fest, welche Nacht voll Freud’! | Liebe und Wein gibt uns Seligkeit! | Ging’s durch das Leben so flott wie heut, | Dann wäre jede Stund’ der Lust geweiht! (Ah, che festa, che notte piena di gioia! L’amore e il vino ci danno la beatitudine! Se la vita andasse così veloce come oggi, allora ogni ora sarebbe dedicata al piacere!). Irriverenti quanto mai, e quindi esilaranti , le coreografie di Otto Pichler.

Il terzo atto, il più breve, è arricchito da Kosky di sorprese. Il carceriere non è uno: ci sono ben sei Frosch diversi. Uno che parla, quattro che danzano e un sesto che si rivela ballerino di tip tap sulle note del Pizzicato Polka. Ma è il direttore della prigione nel suo dopo sbornia a rivelare gli aspetti più sfrontati, con un Martin Winkler che spinge al limite la sua performance scenica presentandosi in tacchi a spillo, perizoma glitterato e copri capezzoli con nappe. Evidenti residui di una serata sopra le righe. Ma si sa, la colpa è tutta dello champagne!

Kosky si impegna al massimo nella direzione dei personaggi, li  ridefinisce e reinterpreta la trama satirica della società e dei costumi viennesi creando uno spettacolo a metà strada tra il burlesque e il vaudeville, ma con risvolti meno superficiali: mentre si dipana la storia di intrighi e mascherate, le facciate si trasformano per mostrare le tenui strutture metalliche che le sorreggono e poi si sgretolano, come il matrimonio borghese degli Eisenstein. Mentre l’atmosfera utopica di fraternizzazione del secondo atto lascia il posto a un finale sgargiante su cui scende una batteria di lampadari scintillanti da cui si appende Eisenstein.

La vivacità della messa in scena trova il corrispettivo sonoro della direzione di Vladimir Jurovskij, un miracolo di verve, rubati, temi seducenti realizzati da quel meraviglioso strumento che è l’orchestra del teatro e da un cast di livello. Georg Nigl è un Gabriel von Eisenstein di collaudata presenza scenica e indiscusse doti vocali, del Frank di Martin Winkler si è già detto, così come del Principe Orlofsky di Andrew Watts che si sarebbe preferito un po’ più sfrontato. Breve ma succulenta la parte di Sean Panikkar, il galante Alfred punto debole di Rosalinde, qui una Diana Damrau, ex splendida Adele, con qualche stanchezza negli acuti. Quasi perfetta invece l’Adele di Katharina Konradi, bel talento di attrice e cantante dotata di grande tecnica vocale. Markus Brück (Dr. Falke) e Kevin Conners (Dr. Blind) completano il cast.

Il prossimo appuntamento è a Zurigo, dove a marzo Kosky metterà in scena La vedova allegra con Michael Volle, Marlis Petersen e ancora Katherina Konradi. Tempi felici per l’operetta.

Il paese dei campanelli

photo © Mario Finotti

Virgilio Ranzato e Carlo Lombardo, Il paese dei campanelli

Novara, Teatro Coccia, 29 settembre 2023

★★★★☆

Scambio di coppie a ritmo di foxtrot

Anche a Novara diverte il pubblico lo spettacolo di Martina Franca, felice incursione nel mondo dell’operetta del Festival della Valle d’Itria, ossia Il paese dei campanelli, prodotto con la Fondazione Teatro Carlo Coccia.

Con la medesima scintillante massa in scena di Alessandro Talevi e quasi lo stesso cast, qui di diverso c’è il direttore d’orchestra, e si sente. Roberto Gianola dirige con passione e gusto l’Orchestra Filarmonica Italiana, ma non c’è la leggerezza e la trasparenza della concertazione di Fabio Luisi, il volume sonoro è talora eccessivo e copre le voci, si perdono le preziose nuances e le sottigliezze strumentali della sapiente orchestrazione. In questa esecuzione si ha anche l’occasione di ascoltare per intero i due finali primo e secondo, due numeri complessi con intervento del coro, mentre qui a Novara è meno evidente il contrasto tra i momenti lirici, quelli dovuti soprattutto alla firma di Ranzato, e quelli più ritmicamente marcati, usciti dalla penna di Lombardo. Tra i primi, il “duetto del ricamo” e il numero di Bombon «Quello che egli ama in te», ripreso in seguito da Nela e da Hans. Tra i secondi, i ritmi di foxtrot, shimmy, charleston e java: un catalogo dei balli alla moda in quegli anni. I numeri musicali hanno la classica struttura delle canzoni di quel periodo: un’introduzione e un refrain, dove si concentra l’elemento melodico più evidente, spesso ripetuto in modo che il motivo ben si imprima nella memoria del pubblico. Ripreso più volte nel corso dello spettacolo, quello più intrigante accompagnava spesso la passerella finale degli artisti tra l’entusiasmo del pubblico.

Qui non c’è la passerella, ma la regia di Alessandro Talevi rimane comunque un miracolo di eleganza e ironia che induce gli spettatori alla risata con una serie di trovate, come l’ingresso di una zebra, di fenicotteri danzanti e di un gorilla, elementi che aggiungono un tocco surreale alla strampalata vicenda dei campanelli che suonano quando avviene un incontro extraconiugale in un improbabile paese olandese qui diventato una sala di caffè concerto dove sono gli abat jour sui tavolini a “tintinnare”. Il palcoscenico del Coccia è più profondo e meglio accoglie le eleganti scenografie di Anna Bonomelli a cui si devono anche i preziosissimi costumi e più curate sono qui le luci di Ivan Pastrovicchio. Sempre godibili sono le coreografie di Anna Maria Abruzzese. Cinque palme danno il tocco esotico e rimandano a quell’Italietta che negli anni ’20, l’epoca in cui Talevi ambienta la vicenda e anche quella del debutto dell’operetta di Lombardo-Ranzato, si scopriva colonialista sotto il regime fascista: negli anni successivi sarebbe nata l’Africa Orientale Italiana e sarà stato proclamato ufficialmente l’Impero italiano, ma a casa propria il paese era cambiato poco, soprattutto per la condizione delle donne, qui esemplificate nella figura di Nela, «la pupa da étagère o il bibelot», come le fa notare la più smagata Bombon che ha viaggiato per il mondo intero – e le mancano solo Giappone, Honduras e Nepal! L’ingenuità disarmante del personaggio di Nela è tale che nessuno pensa a un doppio senso quando, nella sua prima romanza, esalta le virtù del latte appena munto: «Oh quanto è buono il latte che v’offriamo […] ne prenda chi ne vuol»… In evidente contrasto sono le “inglesine” capeggiate da Ethel, «Sempre rapida e sicura, | va l’intrepida inglesina | per il monte e per il pian! | Pronta sempre all’avventura». Altamente spregiudicate ed emancipate dovevano sembrare al pubblico femminile che affollava il Lirico di Milano esattamente cento anni fa.

I cantanti confermano le doti già ammirate: Francesca Sassu (Nela) e Norman Reinhardt (Hans) vestono i personaggi in cui maggiormente sono richieste qualità canore, che troviamo nell’afflato lirico e patetico della prima, e nell’eleganza e il “british touch” del secondo (anche se è americano…). I caratteri “brillanti” sono affidati alla vivacità e alla presenza scenica di Marina Tampakopoulos (Bombon) mentre una new entry è Francesco Tuppo (La Gaffe). Silvia Regazzo (Ethel) completa il quintetto di voci cantanti e si confermano spigliati attori Federico Vazzola (Pomerania), Stefano Bresciani (Attanasio Prot), Fabio Rossini (Tarquinio Brut), Pasquale Buonarota (Basilio Blum) e Leonardo Alberto Moreno (Tom) nei ruoli solo recitati.

Sia a scena aperta sia alla fine applausi scroscianti salutano gli artefici dello spettacolo da parte di un pubblico variegato e divertito. Oggi si replica.

Il paese dei campanelli

photo © Clarissa Lapolla

Virgilio Ranzato e Carlo Lombardo, Il paese dei campanelli

Martina Franca, Palazzo Ducale, 30 luglio 2023

★★★★★

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L’operetta al massimo livello a Martina Franca

«Duetti con sgambettamenti e molta pornografia sparsa nei dialoghi e nell’intreccio del libretto». Così bollava il genere operettistico il “Giornale del teatro” nel 1918. Non andava meglio nel 1926 in piena era fascista quando su “Il Giornale d’Italia” si potevano leggere questa parole: «Guasto prodotto industriale che non ha nulla a che vedere con l’arte […] Musica fox-trotteggiante che sa di cocaina lontano un miglio […] Apoteosi della negromusicomania». L’operetta italiana, insomma, non si voleva conformare a quella “italianizzazione” propugnata dal regime, si rifiutava di risalire «alle fonti della nostra sana comunità, immortalata in opere che sono il vanto della nostra letteratura nazionale, ripetere i motivi di quella che fu la gloriosa opera buffa italiana». Ma al pubblico poco importava e si lasciava trasportare da quelle storie assurde piene di musica accattivante.

Già poco dopo l’unificazione del paese, nel 1866 a Milano le folle andavano in delirio per Se sa minga, “rivista” su testo di Antonio Scalvini e musica di Antonio Carlos Gomes, regista e librettista molto attivo nella scena milanese il primo, l’autore del Guarany il secondo. Con El barchett de Boffalora (1870) di Cletto Arrighi, massimo esponente della Scapigliatura, un pastiche di musiche di vari autori tra cui Offenbach, proseguiva questa straordinaria esperienza milanese che si protrasse fino al 1876. 

Bisogna arrivare invece agli anni ’20 del nuovo secolo per ritrovare il massimo sviluppo dell’operetta in Italia, che riprende quella danubiana, soprattutto di Emmerich (Imre) Kálmán, adattandola alla cantabilità italiana. Uno dei maggiori esponenti fu Carlo Lombardo, impresario, librettista, direttore d’orchestra e compositore, che dal 1915 con La duchessa del Bal Tabarin al 1925 con Cin-Ci-La collezionò grandi successi. Di quel felice periodo è appunto Il paese dei campanelli, presentato al Lirico di Milano il 23 novembre 1923 con musiche di Virgilio Ranzato e sue.

L’operetta è ambientata in un paesino olandese in cui su ogni tetto sono posti dei campanelli. Secondo una leggenda, questi sarebbero le guardie del focolare domestico e inizierebbero a suonare nel momento in cui una donna si appresta a tradire il marito.
Atto I. Nel villaggio sono messi in evidenza tre personaggi con le rispettive mogli: Attanasio Prot è il borgomastro e marito di Pomerania, donna vecchia e brutta; Basilio Blum è il marito di Nela, la più dolce delle ragazze del villaggio; Tarquinio Brut è il marito di Bombon, la più vivace del villaggio e l’unica ad aver girato un po’ il mondo e aver avuto «dei precedenti». Un giorno una nave inglese attracca al porto a causa di un guasto ai motori. Il capitano Hans si invaghisce di Nela e resta abbastanza scettico rispetto alla storia dei campanelli che crede sia appunto solo una leggenda non verificata. Entra in scena La Gaffe, marinaio pasticcione, come suggerisce il nome. Hans gli comunica che nel paese non ci sono donne, o meglio, che le donne non sono per loro, visto che nessuna vuole verificare se la leggenda è vera o meno. La Gaffe propone quindi di inviare un telegramma all’Olympia Theatre di Londra per far arrivare delle canzonettiste e allietare la compagnia. Viene parimenti incaricato da Hans di spedire un telegramma alle mogli dei marinai per avvisarle del ritardo. Di notte il capitano riesce alla fine a sedurre Nela mentre Bombon conquista La Gaffe invitando il marinaio a raggiungerla in casa, ma lui non sa quale sia la dimora della amata e così fa un’altra gaffe ed entra in quella di Pomerania. Nel frattempo i cadetti raggiungono le altre donne del villaggio così che i campanelli iniziano a squillare su tutte le case e ciò fa capire ai mariti che la loro quiete coniugale è stata turbata. Inizia l’ostilità contro i nuovi venuti.
Atto II. Il giorno seguente La Gaffe ha un breve dialogo con Pomerania che scopre che lui è venuto a visitarla il giorno precedente e se ne esalta, ma il marinaio riesce a liberarsene. Segue una lite tra Bombon, La Gaffe e Tarquinio, dopo il quale si decide che sarà La Gaffe a posare con Bombon per le foto per delle cartoline. Quando i tre mariti si trovano faccia a faccia con La Gaffe, Hans e un altro ufficiale viene deciso che i mariti potranno svagarsi con le canzonettiste in cambio del danno subito. Bombon cerca di disincantare Nela facendole capire che il capitano non la ama davvero (lei infatti sa che è già sposato, ma non lo dice all’amica). Ma Nela, anche se incerta, cede ancore alle lusinghe del capitano. Arrivano al villaggio anche le canzonettiste che vengono riconosciute come le mogli degli ufficiali da La Gaffe, che si rende conto di aver invertito i telegrammi. Per via degli accordi, i marinai decidono di mandare in visita alle ragazze i mariti del villaggio, per scoprire presto che quelle sono le loro mogli.
Atto III. Il capitano Hans cerca di riappacificarsi con la moglie e Nela capisce di essere stata ingannata. Si viene ora a conoscenza del resto della leggenda: se in un particolare giorno dalle sei del mattino alle sei di sera non ci saranno tradimenti, il villaggio sarà liberato dalla magia dei campanelli, altrimenti durerà per altri venticinque anni. Si dà il caso che il particolare giorno sia proprio quello della partenza dei marinai. La Gaffe decide di portare l’orologio del paese avanti di un’ora per potersi unire a Bombon prima di partire; ma il trucco di La Gaffe non funziona e suonate le sei (che sarebbero le cinque) i campanelli iniziano a squillare. I cadetti e le loro mogli partono, lasciando infranto in cuore di Nela e alleggerendo quello dei mariti del villaggio, che alla fine si riappacificano con le spose.

A distanza di cento anni la improbabile vicenda ritorna sulla scena prestigiosa di un festival: il direttore artistico Sebastian Schwarz ha infatti inserito il titolo nella 49esima edizione del Festival della Valle d’Itria dedicata quest’anno allo studio della commedia con cinque opere, cinque sfumature di buffo. Qualcuno ha arricciato il naso e ha disertato: peggio per lui, si è perso un bellissimo spettacolo diretto in maniera impareggiabile da uno dei più grandi direttori di oggi.

Nel 2008, infatti, mentre lo dirigeva per la radio tedesca, Fabio Luisi si era innamorato della qualità musicale del lavoro di Lombardo e Ranzato ed ecco ora l’eccelso interprete di Anton Bruckner e Richard Strauss alle prese con la più popolare operetta italiana. Alla guida dell’orchestra del Teatro Petruzzelli di Bari, l’ex direttore dei Wiener Symphoniker, della Staatskapelle di Dresda e direttore principale della Metropolitan Opera di New York ricrea con ineffabile trasparenza e impareggiabile gusto i ritmi di danza (“Balla la giava boccuccia di baci…”) e le marcette, come quelle che accompagnavano i giovani del Ventennio – Ranzato sarà anche l’autore dell’inno fascista Rataplan delle camicie nere… Ma soprattutto delle suadenti melodie che ti si appiccicano alle orecchie: “Nella notte misteriosa, se un tintinnar…”, “Notte di mister, notte di piacer…”, “Luna tu, non vuoi dirmi cos’è…”, “Nell’oscurità una coppia va…”. Sotto la sua bacchetta diventano più evidenti i rimandi alla musica danubiana e qualche momento tradisce un certo mahlerismo nella sua direzione. Nulla di male, anzi, si può benissimo nobilitare l’operetta togliendola dal genere dell’avanspettacolo dove qualcuno vuole continuare a confinarla.

Il perfetto equilibrio tra orchestra e palcoscenico è ancora più ammirevole in questa situazione all’aperto dove non si perde nulla dei suoni emessi dagli strumenti anche nei più esili pianissimi e dove le voci non sono mai coperte nei momenti di maggior intensità sonora. Mirabile anche la chiarezza e la precisione dei tre complessi finali che si ascoltano qui nella loro interezza. Deve essere infatti la prima volta che si può ascoltare nella sua completezza e con questa qualità musicale un lavoro spesso bistrattato da volonterose compagnie di giro o amatoriali. Una riscoperta che incanta per la freschezza di una partitura a cui viene data nuova vita con tale eleganza.

La compagnia di canto è all’altezza della situazione, a iniziare dalla vivace Bombon di Maritina Tampakopoulos dalla potente voce che svetta negli acuti, o dalla Nela di Francesca Sassu che risolve con grande sensibilità la parte della donna che vede infranto il suo sogno d’amore. In questo contesto di suoni delicati e leggeri non poteva starci un tenore stentoreo e squillante e Norman Reinhardt delinea alla perfezione Hans, incerto tra l’amore “sicuro” della moglie e il fascino della donna “bibelot”, dal «corpetto a calice di fior» di Nela. Il tenore americano ha sostituito con poco preavviso Paolo Fanale, l’interprete inizialmente previsto, e si può comprendere il suo non perfetto adattamento alla lingua e conseguente non ineccepibile dizione, ma dal punto di vista musicale riesce a risolvere il suo ruolo con seducenti mezze voci. Sia nei momenti solistici sia nei duetti con Francesca Sassu si apprezzano l’eleganza di stile e il timbro particolare. Silvia Regazzo presta la sicura voce di mezzosoprano al personaggio di Ethel, la moglie del capitano Hans, mentre come La Gaffe Matteo Macchioni esibisce una qualità vocale di tutto rispetto e uno spirito umoristico esemplare. Negli altri ruoli parlati si sono distinti gli attori Stefano Bresciani (Attanasio), Fabio Rossini (Tarquinio) e Pasquale Buonarota (Basilio), i tre mariti noiosi. Federico Vazzola en travesti è stato un’esilarante ma sempre misurata Pomerania. Perfetto il coro del teatro barese nei molti momenti in cui è previsto.

L’aspetto visivo dello spettacolo ha trovato la magia del tocco di Alessandro Talevi, che ha ambientato la vicenda nella sala da ballo di un transatlantico negli anni ’30, sottolineando così il gusto per l’esotico dell’Italia di allora mentre si costruiva un impero oltre mare. Con le belle scene e gli eleganti costumi d’epoca di Anna Bonomelli, il regista si sbarazza dell’Olanda prevista dal libretto, ma del tutto assente nella musica, nei nomi dei personaggi e nella loro vicenda, per ricreare l’Italia tra le due guerre, un periodo dove si realizzavano nuove opportunità ma nello stesso tempo si vivevano nuove repressioni per le donne, le quali per Mussolini dovevano ritornare a un destino dedicato alla procreazione. «In un certo senso, la storia de Il paese dei campanelli è un riflesso di un cosmopolitismo sottosopra degli anni ’20 e del suo oscurarsi verso il nazionalismo e militarismo degli anni ’30», scrive Talevi, «la rigidità stordente del codice morale seguito nel paese dei campanelli è in contrasto con la moralità liberale personificata dagli “esotici” inglesi e può forse essere letta attraverso la prospettiva italiana di quel tempo, un “guardare al di fuori” verso qualcosa di moderno, affascinante, straniero, desiderabile in un paese ancora dominato dalla struttura maschile e conservatrice di Chiesa e Stato». Ecco allora che dopo il breve momento di liberazione vissuto dalle donne con i cadetti, tutto ritorna nella solita tetra normalità. L’unica che si salva in questa produzione è la brutta Pomerania che alla fine riesce a imbarcarsi sulla nave. Chissà, il digiuno e la lontananza da casa indurranno qualche giovane ad accontentarsi anche della vecchia…

Talevi riesce a risolvere con grande intelligenza questa assurda vicenda di scambio di coppie scandita dall’alternanza di lunghi dialoghi recitati con momenti cantati e ballati costruendo un ambiente artificiale dove tutto è possibile, anche che entri una zebra e si metta a ballare tra le coppie. Sotto palme finte che danno il tocco esotico, gli abat-jour dei tavolini da tabarin con la loro luce sfarfallante simulano il tintinnare dei maledetti campanelli. Sulla destra tre portelloni danno accesso alla rugginosa fiancata della nave sul cui ponte superiore si vedono sfilare prima i cadetti, poi «le inglesine» con i mariti in mutande colti in flagrante adulterio. In mezzo una pedana per le esibizioni danzate, uno spazio ridotto per le quattro girls e i quattro boys del balletto che hanno fatto meraviglie con le ironiche e gustose coreografie di Annamaria Bruzzese. Tocchi di surreale umorismo punteggiano la paradossale vicenda che si dipana con ritmo preciso e una divertita e divertente partecipazione di tutti gli artisti coinvolti: cantanti, attori, ballerini, coristi.

Mio padre, che mi ha cresciuto a pane e operette, avrebbe molto apprezzato lo spettacolo, così come ha fatto il pubblico che ha applaudito a scena aperta dopo ogni numero musicale e alla fine della rappresentazione. Aspettiamo con curiosità la proposta di Schwarz per il prossimo anno, cinquantesimo nella storia del Festival della Valle d’Itria. È infatti sua intenzione di inserire un titolo operettistico ogni anno. E per dimostrare il suo interesse per il genere ha organizzato un convegno di due giorni il 30 e 31 luglio, “Operetta – An Assessment”, assieme all’Europäische Musiktheater-Akademie con la presenza di musicologi, direttori, registi e cantanti che hanno offerto il loro contributo su un argomento analizzato da ogni lato.

Il prossimo 29 settembre lo spettacolo sarà al Teatro Coccia di Novara con gli stessi cantanti. Sarà interessante riascoltare questa delizia con una differente direzione musicale.

La Périchole

  

Jacques Offenbach, La Périchole

Parigi, Théâtre des Champs Élysées, 15 novembre 2022

★★★★☆

Dopo un quarto di secolo si ricostituisce il team Minkowski/Pelly per Offenbach

Recensendo il DVD del 2004 de La Grande-duchesse de Gérolstein scrivevo: «Terza produzione offenbachiana della premiata ditta Minkowski & Pelly dopo Orphée aux enfers e La Belle Hélène, ci aspettiamo ora al­meno La Périchole fra le tante operette del Mozart degli Champs-Élysées che ancora mancano all’appello».

Molto tempo dopo, sulle tavole del Théâtre des Champs-Élysées si realizza quell’auspicio e si rinnova quel glorioso sodalizio – delle vere “nozze d’argento”, essendo passati 25 anni dal 1997 dell’Orphée – che ha visto Marc Minkowski alla direzione, Laurent Pelly alla regia e ai costumi, Agathe Mélinand ai dialoghi e Chantal Thomas alle scenografie.

Nel 1829 Prosper Mérimée aveva pubblicato su “La Revue de Paris” la pièce in un atto Le Carrosse du Saint-Sacrement ispirata a un personaggio reale, Micaela Villegas, un’attrice del XVIII secolo divenuta amante del viceré del Perù Don Maluel da cui si era fatta regalare una carrozza con cui andare in chiesa con grande scandalo dei benpensanti. Chiamata dal suo spasimante perra chola (cagna di meticcia), da cui il nome Périchole, divenne la protagonista dell’opéra-bouffe su testo di Ludovic Halévy e Henri Meilhac che Jacques Offenbach presentò il 6 ottobre del 1868 al Théâtre des Variétés di Parigi in una versione in due atti che divennero tre nella nuova versione del 25 aprile 1874. In entrambe le edizioni la protagonista fu Hortense Schneider.

Atto I. A Lima, il Viceré del Perù (Don Andrès) esce per intrattenersi in incognito, o per lo meno lo crede, con i suoi uomini che sono stati pagati per adularlo. Due cantanti di strada, La Périchole e il suo amante Piquillo, cercano invano di guadagnare il denaro necessario per sposarsi. Mentre Piquillo si allontana, La Périchole si addormenta per alleviare la fame. Il Viceré, affascinato dalla sua bellezza, le offre di essere la sua damigella d’onore. La Périchole non vulle farsi ingannare, ma in preda alla fame, accetta e scrive una lettera di addio a Piquillo. La lettera lo getta nella disperazione e vuole impiccarsi. Fortunatamente, viene salvato dal primo gentiluomo di corte che sta cercando un marito per la futura favorita del Viceré per mantenere le apparenze. Dopo essersi saziati e notevolmente ubriacati, Piquillo e La Périchole si sposano, senza che il giovane cantante si renda conto dell’identità della moglie.
Atto II. Il giorno dopo il matrimonio, smaltita la sbornia, Piquillo fa sapere alla “moglie” di amare un’altra donna, ma il galateo esige che prima presenti ufficialmente la sua sposa al Viceré. Quando scopre che La Périchole è diventata la sua amante e la sua favorita, scoppia in un’esplosione di rabbia, insulta il monarca e viene immediatamente mandato nella prigione per i mariti recalcitranti.
Atto III. Prima scena. La Périchole viene a visitare Piquillo in prigione. Dopo una scenata da parte di lui, la donna lo informa di non aver ceduto alle avance del Viceré. Il suo piano di fuga è semplice: corrompere il carceriere. Il carceriere si presenta, ma non è altro che il Viceré travestito, che fa rinchiudere insieme i due colpevoli. Ma un vecchio prigioniero permette loro di fuggire attraverso un tunnel che ha scavato. Nella seconda scena Piquillo e La Périchole si trovano in città, ma vengono individuati da una pattuglia. Al Viceré la Périchole e Piquillo cantano le loro disgrazie, commuovendo il monarca che, magnanimo, permette loro di vivere liberi e felici.

Con La Périchole Offenbach si allontana dal solco dell’opéra-bouffe fino a quel momento tracciato per affrontare il cammino che lo porterà ai Contes d’Hoffmann. Il compositore, che si era specializzato nel mettere la musica in burla, sa anche avvicinarsi alle rive del lirismo con una storia di amori contrastati dalla miseria e dal potere tiranno dove la malinconia tinge le inquietudini e i tormenti della Périchole e del suo amante Piquillo. Questo è il motivo per cui il pubblico dell’epoca rimase perplesso davanti a un lavoro che si avvicinava più all’opéra-comique che al turbine satirico de La Belle Hélène o de La vie parisienne. Quello del 1868 fu un mezzo fiasco: una donna ubriaca in scena e un matrimonio con entrambi gli sposi ubriachi furono gli elementi che indispettirono parte del pubblico e il successo di alcune pagine – furono particolarmente apprezzati i couplet «On sait aimer quand on est espagnol!» e la lettera firmata «La Périchole | qui t’aime mais qui n’en peut plus!…» – non bastarono a mantenere il lavoro in repertorio. Il contesto politico poi si era fatto particolarmente critico col conflitto franco-prussiano e solo dopo il 1870 Offenbach potè riprendere la sua operetta. La versione del 1874 si arricchiva di un atto, dei 19 numeri del 1868 cinque venivano eliminati, il primo atto rimaneva immutato, il secondo atto si concludeva con l’ensemble dei “maris récalcitrants”, il terzo comprendeva la scena della prigione che richiamava ironicamente l’analoga scena de L’Africaine di Meyerbeer qui arricchita dallo spassoso duetto di Miguel de Panatellas e Pedro de Hinoyosa e della lunga aria del tenore «Voilà donc le lit de l’honnête homme».

È questa la versione scelta da Minkowski e Pelly i quali separatamente hanno già affrontato il capolavoro offenbachiano: Minkowski nel 2018 in una registrazione a Bordeaux per Palazzetto Bru Zane e Pelly nel 2003 all’opera di Marsiglia. Ed è la terza produzione de La Périchole a Parigi quest’anno (!) dopo quella al Théâtre du Gymnase (Gossaert/Coudray) a gennaio e quella all’Opéra-Comique (Leroy/Lesort) a maggio.

Per questa nuova produzione Pelly ha sottolineato i due aspetti complementari di questo lavoro, quello comico/satirico e quello serio/drammatico: qui c’è una donna che si prostituisce per fame mentre un uomo abusa del suo potere. Il personaggio del viceré è sì burlesco, ma è pur sempre un predatore e l’ambientazione è ai giorni nostri poiché la figura del dittatore libidinoso non ha mai smesso di essere attuale. Nettamente distinte sono le ambientazioni dei vari quadri: la piazza della città, con la facciata di un condominio proletario e un immenso poster del faccione del viceré, c’è un chiosco di fast food e tavoli per la mescita di alcolici a buon mercato; il palazzo è tutto specchiere dorate, divani di velluto, donne in crinoline d’argento e uomini in polpe argentate; la prigione è una grande gabbia metallica che prende tutto il palcoscenico; nella scena finale il poster del viceré è danneggiato e coperto di scritte. La regia di Pelly è come sempre attentissima alla musica, con i movimenti che seguono i suoni con grande fluidità e una cura attoriale maniacale, dove ogni singolo personaggio in scena ha il suo ruolo in un meccanismo preciso. I dialoghi attualizzati dalla Mélinand rendono ancora più vivace e piccante la vicenda.

Alla testa dell’agile compagine dei Musiciens du Louvre formata da 37 eccellenti strumentisti, Marc Minkowski riprende la lettura leggera e trasparente che ha consegnato su disco. Cesellati sono i preludi strumentali, le dinamiche sono varie, i tempi lenti languorosi, quelli vivaci briosi ma senza eccesso, il volume sonoro quello previsto da Offenbach per le orchestre che aveva a disposizione mentre il diapason a 440 Hz fornisce un suono brillante. Le migliori condizioni per una compagnia di canto perfetta nei personaggi secondari, se secondario si può considerare il ruolo di Don Andrès de Ribeira, uno strepitoso e vocalmente autorevole Laurent Naouri che del viceré offre un ritratto completo, dai fremiti libidinosi, ai moti di dispetto per la sconfitta alla versione clemente del monarca che dona la libertà ai due giovani evasi – ma non al vecchio prigioniero il quale neanche più si ricorda perché è in galera ma è contento di ritornarci per continuare il suo decennale lavoro di scavo per evadere. Efficaci caratteristi sono Rodolphe Briand e Lionel Lhote, Comte Miguel de Panatellas e Don Pedro de Hinoyosas rispettivamente, così come le scatenate «trois cousines», e poi altezzose cortigiane, Chloé Briot, Alix Le Saux, Éléonore Pancrazi. Nei ruoli parlati del Marquis de Tarapote e del vecchio prigioniero si distingue l’attore Eddy Letexier. Salvatore Caputo dirige il sempre vivace e preciso coro dell’opera di Bordeaux.

Nella parte della Périchole si avvicendano Antoinette Dennefeld e Marina Viotti. Alla seconda recita è il turno della cantante francese. Il mezzosoprano strasburghese ha bella voce, anche se non grandissima, ottima presenza scenica ed elegante fraseggio, ma manca di quella verve che ci si aspetta da un personaggio talmente caratterizzato, così che sono i momenti lirici che convincono maggiormente rispetto a quelli più ironici. Lo stesso si può dire per il Piquillo di Stanislas de Barbeyrac, che per di più accusa qualche leggera difficoltà nel registro acuto e nelle agilità pur in una linea vocale di grande eleganza e simpatica presenza scenica. Il pubblico ha apprezzato e ha risposto con calorosi applausi. Ancora una volta, evviva Offenbach!

Benamor

Pablo Luna, Benamor

★★★☆☆

Madrid, Teatro de la Zarzuela, 22 aprile 2021

(video streaming)

Personaggi in cerca del loro genere

L’ambientazione esotica fa sì che questa non possa essere considerata una zarzuela in cui il tono castizo è un elemento necessario. Questo “capricho exótico” di Pablo Luna (musica), Antonio Paso Cano e Ricardo González del Toro (libretto) è una vera operetta, in tre atti, la cui azione è ambientata nel XVI secolo nella città di Isfahan, l’antica capitale della Persia. La vicenda prende spunto da un barbaro costume dell’epoca secondo il quale il primogenito del sultano doveva essere maschio e il secondogenito una femmina, pena la morte. La moglie gli dà due figli, ma nell’ordine sbagliato: di necessità vengono cresciuti nel genere opposto con le prevedibili e imprevedibili conseguenze.

Atto I. Cortile interno del palazzo reale del Sultano. L’eunuco Alifafe e i giannizzeri stanno alle porte dell’harem lodando la bellezza delle odalische mentre queste ultime si lamentano che il sultano non presti loro molta attenzione. Appare il gran visir Abedul dopo aver appena passato la notte con una ragazza (diventa sempre sordo quando lo fa). Alifafe finge di chiedergli un aumento per i suoi servizi ma il visir non lo sente. Arriva Pantea, la Sultana, che è preoccupata perché suo figlio Dario, il Sultano, ha deciso di far sposare presto sua sorella e vuole confessare un grande segreto al visir. Lei gli racconta che secondo la legge persiana, se il primogenito è una femmina, deve essere ucciso e se il secondo è un maschio, anche lui deve essere ucciso, ma quando ha partorito per la prima volta, ha avuto una femmina; per salvarla, l’ha nascosta a tutti e l’ha cresciuta facendole credere che fosse un maschio, Dario appunto. Il suo secondo figlio era un maschio e ha fatto la stessa cosa e ora è la principessa Benamor, che suo “fratello” vuole sposare. Il visir non può sentirla, ma lei pensa che l’abbia fatto e se ne va soddisfatta di averglielo detto pensando di poter contare sul suo aiuto. Dario, il Sultano appare e va a ricevere i tre pretendenti di sua “sorella”: Giacinto, un giovane gracile, Rajah-Tabla, un guerriero feroce, e infine Juan De Leon, un cavaliere spagnolo che finge di essere qualcun altro ma non riesce a ingannare il Sultano. Per qualche motivo il Sultano è molto affezionato al cavaliere Juan De Leon. Quando i pretendenti, la corte e il Sultano se ne sono andati, Benamor appare con gesti molto rudi e viene fermata dai membri della guardia che vogliono fuggire. Pantea, sua madre, la rimprovera e minaccia di rinchiuderla nel castello di Mudarra. Dario arriva e dice a sua sorella che ha deciso di farla sposare e lei non sembra opporsi troppo, pensando che questo la renderà più libera, ma quando le viene detto che deve scegliere tra uno dei tre pretendenti, decide di fuggire e così fa. Termina l’atto ordinando al Sultano di cercare sua sorella
Atto II. Nel mercato di Isfahan ci sono il visir, i giannizzeri e Alifafe, che cercano la principessa scomparsa. Un mercante, Babilón, propone al visir di comprare una bella ragazza di nome Nitetis, ma lui non accetta perché è sopraffatto dai problemi che deve affrontare e vuole essere in possesso di tutte le facoltà. Appare Pantea, che cerca anche lei sua figlia-figlio e si rende conto che il visirnon l’ha capita quando gli ha raccontato il problema. Vanno con lui nella tenda e decidono di ascoltare la conversazione di sua madre con il visir, dalla quale apprendono che i loro sessi sono stati scambiati. Benamor, più impaziente, vuole agire immediatamente, ma Dario crede che il visir troverà una soluzione. Nel frattempo il visir cerca di consultare Zaratrusta per avere un’illuminazione. Anche i due pretendenti arrivano al mercato e incontrano i principi e fanno delle avances alla principessa Benamor, ma lei li rifiuta. Appare anche il cavaliere spagnolo che vuole comprare la ragazza Nitetis ma non ha soldi. Quando scopre Dario gliela chiede e Dario, preso dalla gelosia, decide di comprarla per il suo harem. Gli altri due pretendenti rifiutati sono giunti alla conclusione che Benamor deve essere innamorato del cavaliere spagnolo e siccome entrambi hanno bisogno di sposarla perché è ricca e sarà in grado di tirarli fuori dalle difficoltà finanziarie che entrambi stanno attraversando, escogitano un piano per sfidarlo e toglierlo di mezzo.
Atto III. Al palazzo del sultano, Babilón è venuto a vedere se riscuoterà il compenso per la nuova odalisca che ha fornito per l’harem. Benamor, ora che sa di essere un uomo, si gode l’harem senza che le odalische se ne accorgano. Il visir è preoccupato perché Zaratrusta non gli propone nessuna soluzione e non sa come affrontare il problema. Parla con Juan de Diego e decide di raccontargliquello che sta succedendo, includendo nella storia che Darío è follemente innamorato di lui. Anche Benamor si confessa con Nitetis e le dichiara il suo amore, promettendole che sarà la sua favorita quando sarà sultano. Il cavaliere spagnolo propone che entrambi i principi vadano in Europa a studiare per tre anni in modo che il popolo non scopra il cambiamento e al loro ritorno nessuno li riconoscerà. Benamor paga gli altri due pretendenti e li convince a partire e a rinunciare alle loro pretese. Alla fine tutti cantano felici all’amore.

La lepida vicenda è molto simile a quella dell’opéra-bouffe di Jacques Offenbach L’île de Tulipatan (1868) in cui Alexis, figlio ed erede del re Cacatois XXII di questa lontana isola («distante 24 mila miglia da Nanterre»), si rivela essere in realtà una ragazza che il dignitario Romboïdal ha fatto allevare come un ragazzo per ragioni dinastiche. Hermosa, la figlia di Romboïdal, invece, è un ragazzo che sua madre, Théodorine, ha fatto crescere come una ragazza per evitare il servizio militare. Le cose sfuggono di mano quando Alexis e Hermosa si innamorano l’uno dell’altra e quando Romboïdal dice a sua figlia che non può sposare Alexis perché il principe ereditario è una ragazza. Hermosa dice al suo sbalordito padre che non le importa, da cui nasce un duetto sulle gioie di un potenziale matrimonio omosessuale.

Presentata al Teatro de la Zarzuela il 12 maggio 1923 e appartenente a una “trilogia orientale” assieme a El asombro de Damasco (1916) e a El niño judío (1918), Benamor è la penultima operetta scritta da Pablo Luna (1879-1942), il suo lavoro più ambizioso e quello che lo ha reso più popolare, ma è sorprendente come solo pochi mesi prima del golpe militare reazionario di Primo de Rivera in Spagna si offrissero al pubblico questioni così aperte sugli stereotipi sessuali e sulle identità transgender. In quello stesso 1923 un altro operettista, Franz Lehár, metteva in scena l’oriente, nel suo caso la Cina de Il paese del sorriso mentre Oscar Straus si faceva beffe dell’antico Egitto nella sua irriverente Die Perlen der Cleopatra.

Luna è stato anche un prolifico autore di zarzuelas, riviste e musiche per film: i sottogeneri sono tutti abbondantemente rappresentati nella sua produzione che diventò frenetica negli anni ’20-’30. Il preludio, i 14 numeri musicali e il finale che formano Benamor vengono presentati per la prima volta nello stesso teatro dove avvenne il debutto 98 anni fa. La versione musicale è di Enrique Viana, che si occupa anche della regia, mentre l’Orquesta de la Comunidad de Madrid è diretta da José Miguel Pérez-Sierra. La scenografia è affidata a Daniel Bianco, il direttore del Teatro de la Zarzuela, che riprende quelle originali di gusto orientalista del ’23.

Enrique Viana, che sembra voler emulare Esperanza Iris, la grande stella della zarzuela e dell’operetta nel primo terzo del secolo scorso per la quale fu scritto il lavoro, riserva per sé tre personaggi: quello del visir (presente nel libretto) e quelli di una logorroica coppia di panettieri i cui interventi sarebbero molto più apprezzati se fossero più concisi. Viana allestisce uno spettacolo grandioso che non bada a spese per le scenografie, i ricchi costumi di Gabriela Salaverri, le attente luci di Albert Faura e le coreografie di Nuria Castejón, che esaltano la varietà di toni e colori di questa operetta. La regia calca un po’ la mano sulle caratterizzazioni e il ritmo ne risente, ma i cantanti si dimostrano nel complesso efficaci attori. Vocalmente sono i ruoli minori i più riusciti, Damián del Castillo nella parte dell’avventuriero spagnolo Juan de Leon ha una voce solida ma risolve tutto forte e senza sfumature, così è anche per Vanessa Goikoetxea, testosteronica/o Benamor dall’emissione generosa ma poco controllata. Più belcantista il mezzosoprano Carol García (Darío) la cui vena lirica trova sfogo nel duetto d’amore del terzo atto. La direzione di José Miguel Pérez-Sierra si adegua alle esigenze di sfoltimento imposte dalla pandemia e il risultato è talora meno trascinante di quello che si vorrebbe. Così pure per il coro, decimato nei ranghi.

Die Fledermaus

Johann Strauss figlio, Die Fledermaus

★★★☆☆

bandieraitaliana1.gif   Qui la versione in italiano

Milan, Teatro alla Scala, 21 January 2018

Fledermaus debuts at La Scala but misses some sparkle

The Temple of Opera has opened its doors to operetta. For the first time the Teatro alla Scala is staging Johann Strauss’ Die Fledermaus, a work which launched a successful sequence of stageworks.

German language operetta was a genre that adjusted Offenbach’s and Suppé’s French works to the tastes of the Austro-Hungarian Empire. The perfect balance of panache and glamour, the melodic easiness, the stylish parody of opera seria models, the use of dances and popular themes were appreciated by Mahler himself who wanted to insert the work in the playbills of German theaters and personally directed it in Hamburg in 1894...

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