Charles Nuitter

Macbeth

 

foto © Roberto Ricci

Giuseppe Verdi, Macbeth

Parma, Teatro Regio, 26 settembre 2024

★★★★☆

Il Macbeth di Parigi, in francese, inaugura il Festival Verdi

Sei anni fa ci aveva fatto conoscere Le trouvère, la versione francese de Il trovatore. Quest’anno il Festival Verdi per inaugurare la sua XXIV edizione, intitolata “Potere e Politica”, mette in scena il Macbeth nella versione di Parigi del 1865 e in francese, anche se dal titolo questa volta non si capisce. Era stata eseguita in forma concertistica all’aperto al Parco Ducale nel 2020 durante la pandemia e registrata su CD, mentre nel 2018 al Teatro Regio era stata allestita la versione del 1847.

Dopo aver esaurito le opere del compositore a cui è dedicato, un festival deve approfondirne la conoscenza con le versioni meno popolari o desuete, oltre che metterle in scena in produzioni non banali. Entrambi gli scopi sono raggiunti da questa produzione del Macbeth con la regia di Pierre Audi, la concertazione di Roberto Abbado e un cast di grande livello. La revisione di Candida Mantica si basa sull’edizione critica di David Lawton.

La versione di Parigi, ma cantata in italiano, non è una novità per il pubblico: molto spesso quello che viene proposto sulle scene è un mix delle due versioni, ossia la seconda senza i ballabili e con l’inserimento del finale della prima versione. Oltre a piccoli cambiamenti per adattarsi alla prosodia francese, sostanziali sono le differenze tra le due versioni, quella del 1847 alla Pergola di Firenze e quella di diciotto anni dopo al Théâtre Lyrique di Parigi. Per questa nuova versione Verdi chiede l’intervento del Maffei per poi far trasporre tutto in francese da Charles Louis Étienne Nuitter e Alexandre Beaumont. Accanto a piccoli cambiamenti di termini, importanti sono la sostituzione della cabaletta di Lady Macbeth del secondo atto «Trionfai! securi alfine | premerem di Scozia il trono» con l’aria «La luce langue» che diventa qui «Douce lumière». Nella versione del 1865 Macbeth si trova accanto la moglie anche nel terzo atto, dove le narra il responso delle streghe e assieme decidono di sterminare Macduff e prole e di cercare il figlio di Banco per ucciderlo. A questo fine la cabaletta di Macbeth solo in scena «Vada in fiamme, e in polve cada» viene sostituita dal duetto tra Macbeth e Lady Macbeth «Heure de mort e de vengence». Sempre nel terzo atto furono inoltre inserite le danze per adeguarsi alle convenzioni teatrali parigine. Nel quarto atto il coro «Patria oppressa» diventa una scena e coro e cambia la morte di Macbeth, che nella prima versione avviene fuori scena dopo che ha cantato «Mal per me che m’affidai | ne’ presagi dell’inferno!», mentre nella seconda abbiamo l’aria «Mais à jamais pourtant | par le crime ma vie | sera flétrie!», poi il duello tra Macduff e Macbeth con la morte di quest’ultimo in scena. Diverso anche il coro finale dei soldati «Un jour brillant rayonne». In questa versione il ruolo propulsivo della Lady, che in quella del 1847 si esauriva a metà del dramma, è molto più evidente: qui la coppia agisce in simbiosi, un organismo indissolubile, e i due coniugi diabolici muoiono in parallelo dopo un flusso di coscienza, irrazionale quello di lei, razionale quello di lui.

Il diverso tono delle seconda versione, la “tinta” come diceva Verdi, è individuato da Roberto Abbado, lo stesso dell’esecuzione del 2020, alla testa della Filarmonica Arturo Toscanini con l’Orchestra Giovanile della Via Emilia per la banda interna, nella corsa inarrestabile verso la catastrofe del protagonista, uno slancio drammatico di grande tensione realizzato con un ampio range dinamico e con l’orchestrale sempre pronta a realizzare le intenzioni direttoriali. Ammirevole è l’impegnativa prova del coro del teatro istruito da Martino Faggiani e particolarmente godibili i ballabili, per la qualità dell’accompagnamento strumentale e la coreografia di Pim Veulings che ha coinvolto in una specie di pantomima i due protagonisti al proscenio, mentre in secondo piano un Macbeth ballerino se la vede con ben tre Lady danzanti.

Il giovane baritono Ernesto Petti, debuttante nella parte, delinea un Macbeth dominato dalla moglie ma dai notevoli mezzi vocali, un bel timbro, un declamato chiaro e una grande espressività. Nella maturazione di questo giovane cantante si prevede un interprete di spessore e la conferma sarà probabilmente lo Gérard del prossimo Andrea Chénier a Torino. Aveva saltato la prova generale per un’indisposizione, ma si è presentata alla prima in piena forma Lidia Fridman, Lady Macbeth dal timbro non particolarmente bello, in linea quindi con quanto richiesto dall’autore, ma di grande temperamento. Qualche modulazione meno aspra, qualche passaggio di registro meno discontinuo sarebbe stato apprezzato maggiormente, ma così il suo fraseggio frastagliato definisce vocalmente quello che la figura scenica del soprano russo, ormai quasi italiano, suggerisce visivamente: una figura imponente che sovrasta il marito, l’elemento dominante di questa coppia senza figli. Luciano Ganci dà grande slancio, forse anche troppo, a Macduff nell’aria finale mentre come Malcom si ascolta un sicuro David Astorga. Bene anche le figure minori della Comtesse di Natalia Gavrilan e il Médecin di Rocco Cavalluzzi. 

E infine Banquo, che smette di cantare già a metà del secondo dei quattro atti, ma Michele Pertusi lascia la sua impronta indelebile anche in questa prova in francese dove ogni parola ha il suo senso teatrale, il fraseggio è senza pari, la presenza scenica imponente. È l’unico italiano del cast che con la sua lunga frequentazione di titoli francesi sembra essere nato sui bordi della Senna. Sarà anche perché è di qui, ma gli applausi più calorosi del pubblico sono proprio per lui.

La messa in scena di Pierre Audi è a dir poco austera e cupa, i movimenti sono quasi stilizzati e la recitazione minimalista. Qualche particolare non convince: far leggere la lettera («Je les vis apparaître au jour de la victoire») dalla Lady in presenza del marito – e nello stesso momento farle dire al servitore che annuncia l’arrivo del Re Duncan: «Macbeth l’amène?» – è un errore anche drammaturgico. Qui la Lady deve essere sola con i suoi propositi criminali nel coinvolgere il marito. Complessivamente comunque lo spettacolo convince ma non trascina, è curato ma freddo, come spesso accade con le produzioni del direttore del Festival di Aix-en-Provence. Nella scenografia di Michele Taborelli dei primi due atti la riproduzione della sala del Regio e le tende rosse ricordano il meta-teatro del Don Giovanni di Carsen, poi l’impianto scenico cambia, con delle grate che suggeriscono la gabbia in cui si stanno rinchiudendo i due assassini. Una piattaforma che sale e scende nel mezzo del palcoscenico aggiunge una dimensione alla staticità dell’impianto: qui si inabissa il cadavere di Duncan e risale già nella bara poco dopo. Senza particolari guizzi la realizzazione della scena delle apparizioni e quella delle ondine e silfidi con i giovani allievi di Professione Danza. Nel finale durante il coro finale Macduff gioca con la sedia facendola ruotare come avevano fatto le streghe. Audi vuole forse suggerire così la precarietà del potere?

Ottimo il gioco luci di Jean Kalman e Marco Filibeck e più che appropriati i costumi di Robby Duiveman, elegantissimi all’inizio, poi più dimessi. Certo che vestire la Fridman è facile: col suo fisico e la sua altezza sembra sempre pronta per una sfilata in passerella. Meno facile per gli uomini, eccetto per Pertusi che sfoggia sempre un’invidiabile eleganza innata.

Il caloroso esito con applausi prolungati per tutti gli artefici dello spettacolo, compreso il regista una volta tanto, dimostra l’opportunità di operazioni come queste nel proporre titoli largamente conosciuto in vesti parzialmente inedite, ma conferma anche che il francese è di rigore solo per le opere di Verdi nate in questa lingua, come Les vêpres siciliennes o il Don Carlos. E non è solo questione di abitudine: l’italiano del Macbeth è ben più incisivo della pur pregevole traduzione di Nuitter e Beaumont.

Tannhäuser

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Richard Wagner, Tannhäuser

★★☆☆☆

Montecarlo, Salle Garnier, 19 febbraio 2017

(video streaming)

A Montecarlo va in scena le Tannhäuser. Sì, in francese.

Intensi ma tempestosi furono i rapporti di Wagner con Parigi. Il compositore era entrato nella cultura francese nel 1840 non come musicista, ma come scrittore: i suoi articoli apparsi sulla “Revue et gazette musicale” ne stabilirono la prima affermazione nella vita culturale parigina. Dopo Dresda, in cui aveva fatto debuttare il suo Tannhäuser, Wagner era ritornato nella capitale francese abbandonando da fuggiasco la patria in seguito alla sua partecipazione ai moti rivoluzionari del ’48. Frattanto era apparso sul “Journal des débats” un articolo di Liszt sul Tannhäuser, mentre altri articoli di Wagner e gli attacchi personali di Fétis avevano contribuito a creare un’atmosfera di grande polemica attorno alla figura del musicista tedesco i cui concerti del gennaio e febbraio 1860 causarono un deficit finanziario enorme e incontrarono l’opposizione della stampa parigina, sebbene fossero ben accolti da un ristretto pubblico di intenditori. Tra i brani eseguiti al Théâtre-Italien in forma di concerto (1) ce n’erano di quelli tratti dal lavoro che sarebbe presto andato in scena.

Per l’allestimento del Tannhäuser a Parigi non si lesinarono i mezzi e ci furono ben 160 prove prima che si raggiungesse un risultato soddisfacente per l’autore. Nel mentre la stampa parigina organizzava una grossa campagna denigratoria verso il musicista tedesco: sciovinismo e politica si mescolavano ancora una volta alle questioni più propriamente musicali – così come era già successo nel passato con la “querelle des bouffons” e con quella tra Gluck e Piccinni. Polemica accentuata anche da Wagner stesso, che non volle venire a patti con il pubblico parigino e le sue consuetudini teatrali opponendosi con tutti i mezzi alla proposta del direttore del teatro di inserire un balletto nel secondo atto – decisione più che saggia pensando al carattere solenne e tutt’altro che mondano della contesa poetica della Wartburg.

Il 13 marzo 1861, Tannhäuser andò dunque in scena all’Opéra di rue Le Peletier nella traduzione in francese di Charles Nuitter. Il pubblico in tumulto e la critica tagliente furono i motivi che indussero il musicista a ritirare il lavoro dopo appena tre rappresentazioni, ma per mesi la sua opera fu cause célèbre nei salotti di Parigi tra musicisti, esteti e politici.

Attualmente nella minuscola e iperdecorata sala Garnier del Principato di Monaco, Tannhäuser viene allestito proprio in quella versione parigina. Dal punto di vista musicale non è una vera e propria novità: già l’edizione viennese del 1875 comunemente rappresentata ai nostri giorni tiene conto delle modifiche del 1861. Semmai la curiosità qui sta nel libretto in francese e nella sua congruenza con la musica – soprattutto con tre interpreti che non hanno il francese come madrelingua e incespicano in una dizione a tratti improponibile: il «laisse-moi fuir» di Tannhäuser che diventa «lasse-moi fuir» (ripetuto ben tre volte) e le vocali mal accentate, i suoni nasali assenti sono alcuni dei tratti distintivi di questa produzione monegasca.

A capo dell’orchestra c’è il mezzosoprano Nathalie Stutzmann; nel ruolo titolare il tenore-baritono-direttore-regista José Cura e alla messa in scena l’ex-politico locale Jean-Louis Grinda. Tale commistione di ruoli porta a un risultato quantomeno discutibile.

Nell’allestimento di Grinda uno schermo semicircolare a mo’ di circarama (2) risolve economicamente con proiezioni tutta la scenografia richiesta dalla vicenda: il Venusberg è un bordello illuminato da luce rossa con cuscinoni di velluto, il paesaggio campestre è tutto un turbinio di fronde verdi, la Wartburg è l’interno di una cupola gotica tutta oro e azzurro lapislazzuli, il paesaggio finale è invernale e sotto l’immancabile neve, qui solo in videografica però.

Grazie a una pipa da oppio Tannhäuser ha le sue visioni in compagnia di signorine in négligé con i bordi di bianche piume di struzzo. Ad ogni crescendo dell’ouverture il protagonista aspira una lunga boccata per poi gettarsi sui suddetti cuscini fino all’arrivo di Venere, una rossa con le piume rosa. Anche lei si fa un tiro e finisce l’ouverture. Si dà quindi via al baccanale orgiastico che tanto aveva scandalizzato il pubblico parigino del tempo. Qui l’acme è il gilet sbottonato del protagonista a piedi nudi – che sembra abbia appena abbandonato il lavoro dei campi – e la proiezione di immagini da trip psichedelico anni ’60 mentre tutti si fanno una pennichella prima che le copie di Venere accennino a movimenti di danza che vorrebbero essere lascivi.

Dopo il doppio incontro con i pellegrini e poi con il langravio e la sua compagnia, Tannhäuser è ammesso alla Wartburg dove rivede Élisabeth con cui si rotola sul pavimento poco prima dell’arrivo di Hermann che però fa finta di niente. Il tradizionale corteo di nobili impettiti prelude allo svolgimento della gara poetica. Tannhäuser, ora tirato a lucido, scandalizza come previsto l’inclita assemblea e si becca un ceffone da Élisabeth che poi lo difende dall’ira generale minacciando di uccidersi con una pistola, cosa piuttosto contraddittoria per una pia vergine. Che infatti si taglierà le vene rendendo del tutto incongrua la domanda di Wolfram: «Élisabeth, permets-tu que je t’accompagne?». Finale a sorpresa: è Wolfram che se ne va con Venere mentre arrivano gli uomini a vendicare la morte di Elisabetta uccidendo Tannhäuser, anche se in effetti non si sente lo sparo delle pistole mentre il sipario si abbassa.

José Cura è al suo primo Wagner, autore che mai avrebbe affrontato, dice, a causa della lingua. Fosse solo un problema di lingua! Ormai il vibrato eccessivo, gli acuti sforzati, i suoni ingolati, fanno parte della sua performance vocale. Si salverebbe l’espressività, ma Tannhäuser non è Turiddu, e certi effettacci nel suo racconto del terzo atto sono decisamente di pessimo gusto. Sembra la caricatura del peggiore Domingo. A suo merito va comunque lo sforzo di aver imparato un ruolo che non canterà mai più. Non molti fra i suoi colleghi l’avrebbero fatto.

Annemarie Kremer è una Élisabeth il cui timbro un po’ metallico e l’intensità della voce non aiutano a delineare il lato angelico del personaggio. Nulla da dire sulla presenza scenica della Vénus di Aude Extrémo, ma qui sono la linea di canto e gli acuti strozzati la parte meno piacevole. Tra gli interpreti in lingua francese delude un po’ il Wolfram di Jean-François Lapointe che rende sì con eleganza il suo lied «Ô douce étoile, feu du soir», che prende il posto di «O du, mein holder Abendstern», ma è piuttosto carente nel registro basso in cui il suono è sfibrato. Steven Humes è un autorevole langravio, ma è il coro il punto più debole: non sempre riesce a mantenere un livello di intonazione accettabile soprattutto nelle pagine a cappella dei pellegrini e manca di precisione nei passaggi polifonici.

Specialista del repertorio barocco e fondatrice dell’Orfeo 55, la Stutzmann ha a disposizione un’orchestra non eccelsa che probabilmente non esprime al meglio le sue intenzioni. Il risultato se non negativo è comunque senza particolare rilievo. L’utilizzo dei microfoni per la ripresa video non permette di giudicare sull’equilibrio sonoro tra palcoscenico e buca orchestrale, anche se sembra che la fossa copra talora la voce dei cantanti.

(1) Ecco il programma dell’8 febbraio: Le vaisseau fantôme (Der fliegende Holländer), ouverture; Tannhäuser, marcia e coro II atto, preludio al III atto, lied di Wolfram, coro dei pellegrini, ouverture; Tristan und Isolde, preludio con finale da concerto; Lohengrin, preludio atto I, corteo nuziale e preludio atto III, coro nuziale con finale da concerto.

(2) Una delle principali attrazioni di “Italia ’61”!

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