David Belasco

Madama Butterfly

foto © Bettina Stoß

Giacomo Puccini, Madama Butterfly

Berlino, Philharmonie, 27 aprile 2025

(diretta streaming della versione da concerto)

I Berliner tornano a casa dopo Baden-Baden

Dopo le trionfali recite in forma scenica al Festspielhaus di Baden-Baden, i Berliner Philharmoniker tornano a casa loro e riprendono in due serate in forma di concerto Madama Butterfly. Stessa direzione musicale, quella del loro direttore Kirill Petrenko, e stesso cast vocale. Ghiotta occasione per riascoltare, con ancora maggior attenzione senza la “distrazione” visiva, un’interpretazione che ha stregato il pubblico, una delle più sconvolgenti degli ultimi anni.

In questa ripresa trasmessa in diretta streaming sul canale in abbonamento dei Philharmoniker, la Digital Concert Hall, complice una regia video attenta agli interventi strumentali, si ammira una volta di più la qualità dell’orchestra pucciniana messa in luce magistralmente dalla bacchetta di Petrenko, che pone in perfetto equilibrio la cura analitica dei particolari con il senso drammatico della vicenda facendo scoprire anche questa volta, come se fosse la prima, momenti di una partitura saldamente proiettata verso il futuro. Un esempio per tutti i valzerini intonati dagli archi nella scena di Yamadori e ancora alla fine del duetto di Cio-Cio-San con Suzuki, che sembrerebbero un evidente plagio del Rosenkavalier – se non fosse che l’opera di Richard Strauss è del 1911, sette anni dopo il lavoro di Puccini! Quei rubati, quegli indugi, quelle minime esitazioni Petrenko li inserisce anche nel coro a bocca chiusa, ponendo così sotto una nuova luce questa celeberrima e usurata pagina facendoci sentire ancora più palpitante l’attesa di Cio-Cio-San. La trasparenza di certe pagine rende più dirompenti i fortissimi orchestrali che giacciono sotto, come dormienti, in quest’opera di una drammaticità sconvolgente. E poi, che cosa dire della fluidità con cui dipana l’intreccio dei motivi ricorrenti, veri e propri Leitmotive, che innervano la partitura? Petrenko, inarrivabile interprete del repertorio tardo ottocentesco, riesce a rendere Puccini il più grande compositore di teatro di tutti i tempi con questa sua Butterfly, esaltando però anche la scrittura sinfonica delle pagine puramente strumentali, rese in maniera inarrivabile dai Berliner con il suono caldo degli archi, gli interventi da pelle d’oca del primo violino, la pienezza degli ottoni, la morbidezza dei legni, il rullo spietato dei timpani. Ogni elemento dell’orchestra meriterebbe di essere citato per lo splendido lavoro individuale che apporta all’insieme.

Soprano, tenore, mezzosoprano, baritono: Puccini riesce a dare nuova vita al tradizionale quartetto di voci, creando un’opera di grande modernità. Anche in questa esecuzione “oratoriale” si rimane stupefatti davanti alla personalità degli interpreti. Di Eleonora Buratto non si può che ripetere le lodi di una parte che ha già interpretato a New York nel 2022 e a Parigi l’anno scorso, così che ora quanto ne esce fuori è un distillato di eccellenza vocale piegato alle forme espressive più varie, dove il tono infantile e civettuolo, o quello drammatico o passionale ricevono perfetta soluzione. I dettagli dinamici sono evidenziati magistralmente non solo nelle scontate pagine di «Un bel dì vedremo» o di «Tu, tu, piccolo iddio», ma anche in ogni suo altro intervento, come i duetti con Pinkerton nel primo atto e poi con Suzuki nel secondo. Anche i momenti di gusto verista sono risolti con grande senso teatrale per accentare la drammaticità del momento, ma sempre tenendo presente la bellezza della linea musicale.

Nella recita di Baden-Baden in cui ero presente, Teresa Iervolino aveva fatto annunciare di essere indisposta e infatti la sua performance non aveva avuto la giusta intensità che qui invece si è rivelata nella sua totalità, donando a questa parte l’importanza drammaturgica che ha: Suzuki, con la sua rassicurante presenza, è il personaggio che cerca inutilmente di riportare la giovane padrona alla realtà. CoI suo timbro sontuoso e le qualità ben note di belcantista, Il mezzosoprano di Bracciano riporta un meritatissimo successo personale.

Se sulla scena il Pinkerton di Jonathan Tetelman, anche lui in una parte affrontata con frequenza nel recente passato, con le sue generose doti vocali sembrava aver fin troppo sottolineato il carattere fatuo e arrogante dello Yankee, a un secondo ascolto si ammira il lavoro di cesello fatto dal tenore americano, come nell’aria «Addio fiorito asil» dove inserisce un Si bemolle in diminuendo non espressamente previsto in partitura, ma bellissimo, o dove con mezze voci e cantabili suadenti riesce a rendere ancora più fascinoso il personaggio.

La voce di baritono è affidata da Puccini al console Sharpless, che il greco Tassis Christoyannis carica di una grande umanità, sincera empatia, fraseggio elegante ed espressivo. Esemplare il Goro di Didier Pieri, che riesce a delineare il viscido personaggio senza eccessive sottolineature e utilizzando solo mezzi musicali e vocali efficacissimi, senza risolvere nel parlato come talora accade. Perfetto anche il resto del cast con Il mezzosoprano Lilia Istratii (Kate Pinkterton), il baritono Aksel Daveyan (il principe Yamadori, i bassi Giorgi Chelidze e Jasurbek Khaydarov (rispettivamente lo zio Bonzo e il commissario imperiale). Prezioso l’apporto del Rundfunkchor di Berlino.

Madama Butterfly

foto © Monika Rittershaus

Giacomo Puccini, Madama Butterfly

Baden-Baden, Festspielhaus, 15 aprile 2025

★★★★

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Una Butterfly deluxe è il regalo d’addio dei Berliner Philharmoniker a Baden-Baden

Kirill Petrenko dirige a Baden-Baden una Madama Butterfly rivelatrice, asciutta e modernissima, con i Berliner Philharmoniker in stato di grazia. Eleonora Buratto è una Cio-Cio-San intensa e dignitosa, Jonathan Tetelman un Pinkerton vigoroso e sprezzante. L’allestimento di Davide Livermore, ambientato nel Giappone postbellico del 1978, unisce eleganza visiva e commozione. Trionfo finale con dodici minuti di ovazioni.

Con i suoi 2500 posti il Festspielhaus di Baden-Baden, tranquilla città termale del Baden-Württemberg occidentale, è il più grande teatro d’opera della Germania – l’unico altro teatro tedesco che abbia più di duemila posti è infatti il Nationaltheater di Monaco di Baviera. Ricostruito sul sito della vecchia stazione ferroviaria, di cui utilizza l’edificio principale per la biglietteria, il guardaroba e un ristorante mentre la parte nuova si sviluppa dietro in tutta la sua modernità, ospita ogni anno a Pasqua un festival di cui fa parte una produzione teatrale che quest’anno prevede Madama Butterfly diretta da Kirill Petrenko alla guida dei suoi Berliner Philharmoniker.

Com’era prevedibile, la lettura del capolavoro pucciniano da parte del direttore russo risulta non solo magistrale, ma per certi versi illuminante e rivelatrice. La partitura è liberata fin dall’inizio di ogni presunta sdolcinatezza, di sentimentalismo, di “puccinismo”: ascoltiamo la musica moderna del XX secolo, tagliente, snella e drammaturgicamente efficacissima. Petrenko mette in luce pagine che si rivelano quasi inedite, come gli struggenti valzerini alla Rosenkavalier nella scena del principe Yamadori, sette anni prima del lavoro straussiano! o, addirittura, certi momenti che anticipano The Turn of the Screw di Britten, ossia l’inciso di «Malo, malo» all’inizio dell’interludio dopo il coro a bocca chiusa. Ma anche senza spingere troppo in là il gioco dei richiami musicali, è indubbio che la partitura della Butterfly (1904) contenga straordinari elementi di modernità svelati in una esecuzione cameristica che riserva i pochi picchi dinamici ai momenti salienti del tragico finale o dell’apparizione dello zio Bonzo o dell’untuoso sensale Goro, quando Butterfly si difende dalle sue beffe nel secondo atto.

La musica di Butterfly ha una violenza di fondo che esplode in vere e proprie eruzioni strumentali, come nella scena d’amore del secondo atto, quando l’orchestra spara un lancinante fortissimo o quando dopo i timpani sembrano insinuare col loro tragico battito il fatto che Pinkerton non tornerà più. E poi il suicidio di Cio-Cio-San anticipato dal lamento dell’oboe nel cupo preludio. Altrimenti il suono è perfettamente amalgamato e rotondo, le fioriture esotiche nei loro giri pentatonici stupendamente ricreati, così come i delicati inserti dei fiati che sembrano provenire da un unico strumento, non c’è nulla che si sfilacci e gli archi, perfettamente fusi, assumono ogni rubato nella loro linea all’unisono. Questo è l’ultimo anno dei Berliner a Baden-Baden, il dodicesimo. Dall’anno prossimo tornano al Festival di Pasqua di Salisburgo. Miglior regalo d’addio non potevano fare.

Eleonora Buratto e Jonathan Tetelman sono già stati assieme nella Tosca diretta da Harding con l’Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia in una registrazione da poco pubblicata, ora si ritrovano per questa Butterfly e la loro interpretazione anche questa volta lascia il segno. La Buratto è passata da tempo da soprano lirico a soprano drammatico mantenendo però la purezza della linea del canto e la sensibilità interpretativa. Il suo timbro, allo stesso tempo scuro ma scintillante, la sua tessitura di ampio respiro e l’ammaliante legato ricreano musicalmente ogni sfaccettatura emotiva di questa donna coraggiosa che non perde mai la dignità e la sua imponente presenza scenica.

Il personaggio spregevole di Pinkerton è punito da Puccini drammaturgicamente, facendolo apparire molto nel primo atto, per niente nel secondo e pochissimo nel terzo, e qui nell’appena credibile aria di pentimento «Addio, fiorito asil» aggiunta solo in una versione successiva. A questo proposito, nell’attuale fase politica, la prima versione di Butterfly, dove lo scontro fra la cultura giapponese e quella americana è più netto e più forte la denuncia del colonialismo, sarebbe un modello perfetto per la critica all’America. Chissà se oggi Puccini otterrebbe il visto per entrare negli USA…

Jonathan Tetelman non fa nulla per rendere moralmente più accettabile il suo personaggio, ma utilizza il suo splendido strumento vocale e la prestanza fisica per rendere plausibile l’innamoramento della giovanissima giapponese per l’aitante yankee. Specializzatosi nel repertorio italiano, il tenore cileno-americano accetta la sfida con una prestazione esuberante, acuti abbaglianti tenuti anche più a lungo di quanto sia previsto in partitura sottolineando così la strafottenza e superficialità del personaggio.

Eccellenti gli interpreti secondari con un bravissimo Tassis Christoyannis quale Sharpless, il sempre efficace Didier Pieri come Goro, Giorgi Chelidze zio bonzo e lo Yamadori di Aksel Daveyan. Annunciata come indisposta, Teresa Iervolino ha comunque convinto lo stesso come Suzuki. Perfetto il Coro Filarmonico Ceco di Brno diretto da Petr Fiala.

Per la prima volta in un teatro tedesco, Davide Livermore ha ideato un allestimento che, anche senza abbandonare la sua cifra stilistica, risulta fondamentalmente tradizionale – c’è il Giappone, ci sono i kimono, i ciliegi in fiore… – e lineare nella narrazione. È però ambientato nel 1978, quando il figlio di Cio-Cio-San parte dall’America e arriva in Giappone per ritrovare le sue radici, la madre e la sua vicenda nel secondo dopoguerra, quando gli USA erano impegnati ad aiutare la ricostruzione del paese sconfitto. Con lui ha portato solo i disegni infantili che vediamo proiettati sugli schermi, e qui incontra la vecchia Suzuki, interpretata, come il figlio di Butterfly, da artisti di Butoh. Assieme rivedono i momenti passati come in un lungo flashback, un espediente che non interferisce in alcun modo con la fruizione della storia, ma aggiunge un elemento di commozione in più. Livermore non rinuncia certo all’apporto dei video della D-Wok con immagini di Nagasaki, di alberi in fiore, di cieli nuvolosi, del cerchio rosso del sole, delle montagne immerse nella nebbia, mentre Giò Forma crea una scenografia semplice ma efficace: una struttura che ruota o si ritrae nello sfondo, la «casa a soffietto» che nel terzo atto diventa una gabbia-prigione per la farfalla Cio-Cio-San che vediamo come in un teatro d’ombre cinesi.

Neppure i giochi di prestigio sono assenti nella regia di Livermore: uno solo, ma bellissimo e fulmineo, quando, come negli spettacoli di Brachetti, il vestito di Butterfly cambia in un istante dietro la bandiera a stelle e strisce che cade dall’alto. È il momento della svestizione per la prima notte d’amore, una scena risolta con molta eleganza dal regista che mette un alter-ego di Cio-Cio-San tra le braccia di Pinkerton, preservando così la purezza dell’amore della ex-geisha. La bandiera che nei video vediamo fluttuare stracciata nell’acqua nel finale diventa il sudario della donna suicida.

Con i costumi di Mariana Fracasso e le luci di Fiammetta Baldiserri la messa in scena conquista il cuore del pubblico e Livermore firma uno spettacolo che si rivela tra i suoi migliori. Gli oltre dodici minuti di standing ovation al termine per i creatori della parte musicale, con il sipario che si chiude e si riapre più volte dietro l’insistenza degli applausi, dimostrano la gratitudine per questo bellissimo regalo di Pasqua.

Madama Butterfly

Giacomo Puccini, Madama Butterfly

Aix-en-Provence, Théâtre de l’Archevêché, 13 luglio 2024

(diretta streaming)

★★★★☆

Il Giappone lontano di Puccini

In inglese “to put your foot in” significa fare un errore imbarazzante. È quello che letteralmente fa Pinkerton fin dal primo momento quando sotto lo sguardo della costernata Suzuki che porta un vassoio di acqua ci mette dentro il piede pensando serva a lavarlo. Non sarà l’ultima gaffe che il goffo yankee compirà verso la cultura del paese che lo ospita in questa messa in scena di Andrea Breth della Madama Butterfly a Aix-en-Provence.

Autore non dei più frequentati in questo festival – bisogna arrivare al 2019 per trovare qui un titolo di Puccini, la Tosca “decostruita” di Christophe Honoré, anche allora con Daniele Rustioni sul podio – non poteva mancare nel centenario della sua scomparsa. La regista tedesca mette in scena la “tragedia giapponese” come un Kammerspiel ambientato nei tempi e nei luoghi dell’azione originale, ma con un forte accento sulla psicologia dei personaggi e sulle loro interazioni. Proprio per esaltare le singole personalità, il coro non è presente in scena, dove invece ci sono dei figuranti muti con maschere giapponesi molto espressive nella loro stilizzazione. Efficace la semplice scenografia di Raimund Orfeo Voigt che ricrea con pochi mezzi la casa “a soffietto” sviluppata in orizzontale e davanti alla quale su un tapis roulant scorrono lentamente certi personaggi come figure di un carillon. Con i costumi di Ursula Renzenbrink e le luci di Alexander Koppelmann la drammaturgia lineare e “tradizionale” lascia spazio alle voci, alla musica raffinatissima di Puccini e al geniale testo di quei due scapigliati Illica e Giacosa che giocano con somma arguzia e intelligenza con le parole, come con le terzine di rime baciate di Sharpless – fortunato-toccato-sbocciato, assai-mai-Butterfly, giudizio-sposalizio-precipizio, scede(!)-fede-crede – o con Pinkerton, che interrompe la sua aria «Dovunque al mondo il yankee vagabondo» per chiedere al console che cosa vuole bere, e così «sprezzando i rischi» fa rima con wisky (sic)!

La lentezza dei movimenti, la staticità della figura di Cio-Cio-San inginocchiata che si pettina come nelle incisioni giapponesi di donne alla toilette, l’utilizzo di mimi e delle maschere del teatro Nō, il volo delle gru, tutto tende a sottolineare la distanza tra i due mondi della vicenda, la stessa che separava Puccini dal Giappone della sua epoca e che Andrea Breth evidenzia utilizzando una visione di quel paese secondo le immagini che circolavano a fine secolo.

Il direttore musicale dell’opera di Lione Daniele Rustioni, sul podio dell’orchestra del teatro che è anche coproduttore dello spettacolo, fornisce una lettura sensibile ed accurata della partitura, esaltandone senza troppe smancerie i momenti lirici e realizzando con precisione i passaggi contrappuntistici. Il secondo e il terzo atto sono eseguiti di seguito: il coro a bocca chiusa si collega direttamente al preludio del terzo atto formando una pagina sinfonica di grande bellezza ed emotività. 

In uno dei suoi rôle fetiche più convincenti, Ermonela Jaho, che festeggia proprio durante questa produzione il suo 50° compleanno, incarna una Cio-Cio-San di sconvolgente intensità. Da giovane ragazza fremente di innocente trepidazione, a donna ferma nella sua convinzione del ritorno dell’amato, alla coerenza con cui affronta il suicidio, così come aveva fatto il padre, la Jaho esibisce sicura tecnica ma soprattutto trasmette una forte idea del personaggio, come quando canta «Un bel dì vedremo» in pianissimo, ma con un filo di voce di grande proiezione. Il tenore inglese Adam Smith non esibisce grandi mezzi vocali, ma riesce a rendere Pinkerton ingenuo e goffo, non arrogante e quindi meno odioso del solito. Non ricorre al canto di forza, anzi utilizza piani e pianissimi e nel duetto raggiunge momenti di dolcezza veri ed emozionanti. Insomma, meglio così che un Pinkerton berciante e stentoreo. La Suzuki di Mihoko Fujimura si rivela migliore attrice che cantante, dalla dizione per di più poco comprensibile. Lionel Lhote è un signorile Sharpless dal fraseggio elegante mentre giustamente autorevoli sono lo zio bonzo di Inho Jeong e il Commissario Imperiale di Kristján Jóhannesson. Semplicemente perfetto il Goro di Carlo Bosi. Due ex allievi dell’Académie d’Aix-Marseille, Kristofer Lundin e Albane Carrère, danno vita al Principe Yamadori e a Kate Pinkerton.

Lo spettacolo è disponibile in video streaming sul circuito ArteTv.

La fanciulla del West

foto © Daniele Ratti – Teatro Regio Torino

Giacomo Puccini, La fanciulla del west

Teatro Regio, Torino, 23 marzo 2024

★★★☆☆

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L’omaggio del Regio torinese a Puccini continua col suo western

«Il poema sinfonico di Puccini» lo aveva definito Arturo Toscanini che ne aveva diretto la prima a New York nel 1910. In effetti la musica dispiegata dal compositore ne La fanciulla del West è opulenta e sproporzionata rispetto alla vicenda narrata e si è talmente trasportati dalla musica e ammaliati dalla ricercata orchestrazione che quasi danno fastidio i banali interventi dei minatori che si lamentano del loro stato e piangono la mamma lontana.

Nella sua incessante volontà a «innovare lo stile», dopo Madama Butterfly Puccini aveva cercato nuove strade che lo avevano portato all’insolito progetto della Fanciulla e in seguito de La rondine, una “colonna sonora” la prima, un’“operetta” la seconda. Anche il successivo Trittico, se non sperimentale, era comunque qualcosa di mai affrontato prima. Quella della Fanciulla è una musica sontuosa che nel secondo atto non si fa scrupolo di ricordare la suspence della fucilazione nella Tosca, mentre nel terzo la perorazione di Minnie per il suo Dick sembra voler citare «N’est-ce plus ma main que cette main presse?» dell’“altra” Manon, quella di Massenet. Puccini era un musicista attento verso la cultura musicale della sua epoca, con Strauss e Debussy in prima linea, e nella Fanciulla questa apertura è ben evidente. Ma resta il problema di un lavoro che si stacca totalmente dagli altri per la mancanza dei sensuali sfoghi melodici a cui Puccini aveva abituato il suo pubblico. Per non dire del libretto di Carlo Zangarini rielaborato in seguito da Guelfo Civinini e con ingenui versi spezzati e goffe rime, non all’altezza di quelli di Adami, Forzano e soprattutto Illica & Giacosa.

Tra le meno apprezzate opere di Puccini, ogni volta spero che una nuova esecuzione mi faccia cambiare idea, ma neanche questa volta ciò è avvenuto. Non per la qualità dello spettacolo, ma perché ci vorrebbe qualcosa di veramente speciale per produrre il miracolo, cosa che non è avvenuta con questa produzione del Teatro Regio. La direzione di Francesco Ivan Ciampa esalta la superba orchestrazione e il tono drammatico della vicenda ma ne sottolinea anche il carattere di colonna sonora, con la musica sempre in primo piano e con i cantanti spesso coperti dagli strumenti, vuoi per la non perfetta acustica della sala e della scenografia, vuoi per la qualità delle voci. Il soprano americano Jennifer Rowley è quella che più risente del volume orchestrale con una voce di bel timbro ma di scarsa proiezione e con acuti talora problematici. Il Dick di Roberto Aronica è al contrario molto sonoro, sicuro negli acuti ma con una declamazione stentorea che nuoce al fascino del personaggio. Il baritono Gabriele Viviani connota con efficacia il carattere detestabile di Jack Rance mentre nel folto gruppo di comprimari si evidenziano per le indubbie qualità vocali e sceniche il Nick di Francesco Pittari e l’Ashby di Paolo Battaglia. Filippo Morace lascia i consueti ruoli comici del teatro napoletano per delineare il personaggio più umano di tutta la vicenda, Sonora. Completano il cast voci di esperienza e altre ormai consolidate uscite dalla scuola del Regio Ensemble: Gustavo Castillo (Wallace), Cristiano Olivieri (Trin), Eduardo Martínez (Sid), Alessio Verna (Bello e Harry), Enrico Maria Piazza (Joe), Giuseppe Esposito (Happy), Tyler Zimmerman (Larkens), Adriano Gramigni (José Castro) e Alejandro Escobar (Un postiglione). Ksenia Chubunova è Wowkle, il personaggio della squaw che con il suo linguaggio fatto di verbi all’infinito e Ugh! fa rizzare i capelli anche a chi poco sopporta il politically correct – e la regista ironicamente fa entrare in scena Billy inalberando il cartello «Native Lives Matter»!

Nel manifesto della prima al Metropolitan Opera House la “special performance – first time on any stage” di The Girl of the Golden West – dove Minnie era Emmy Destinn, Dick Enrico Caruso e il direttore d’orchestra Arturo Toscanini – sono indicati uno stage manager, un chorus master e un technical director, ma non la regia, come era la prassi del tempo. Ora invece i responsabili dell’allestimento hanno il loro giusto peso nell’economia dello spettacolo e i nomi di Valentina Carrasco (regista), Carles Berga e Peter van Praet (scene), Silvia Aymonino (costumi) e Peter van Praet (luci) sono elencati a pieno titolo assieme a quelli degli interpreti sul palcoscenico. La regista di Buenos Aires firma sempre i suoi spettacoli con un’idea forte e questa Fanciulla è presentata come la ripresa di un film western. Il saloon dove si rifocillano i minatori dopo il duro lavoro e la baracca di Minnie sono ambienti isolati nella nudità del palcoscenico trasformato in un set cinematografico dove compaiono macchine da presa, un regista e alcuni assistenti. L’idea non è tra le più originali – la stessa regista l’aveva utilizzata nella sua Tosca a Macerata – ma si giustifica per la fascinazione di Puccini per la nuova musa che in quegli anni sfornava innumerevoli pellicole sull’epopea della “corsa all’oro” nel West americano, anche se la Carrasco pensa agli “spaghetti western” e ai film di Sergio Leone piuttosto che alle lontane pellicole mute e in bianco e nero. Anche Robert Carsen nella sua produzione alla Scala aveva utilizzato una lettura cinematografica, ma con risultati più convincenti. Nello spettacolo della Carrasco su uno schermo che scende dall’alto sono proiettate le immagini che vengono riprese in tempo reale, talora per evidenziare i primi piani dei personaggi oppure per farci vivere la vicenda da una prospettiva diversa, come quella di Dick nascosto nella baracca di Minnie all’arrivo dello sceriffo Jack. L’espediente non è però utilizzato al meglio, l’utilizzo delle camere da presa non ha una sua chiara logica e gli interpreti del “film” si confondono con quelli della “realtà” dell’opera, come quando alla colletta per Larkens partecipa anche il regista o quando alla ricerca del bandito non partono solo i minatori armati di fucili ma anche i macchinisti con i loro martelli e in maniche di camicia sotto la neve… Nel secondo atto la trovata registica è meglio realizzata e risulta più efficace, con il suo gioco di interni-esterni e la nevicata con i fiocchi bianchi sparsi dall’alto e il grande ventilatore. Meglio ancora l’atto terzo quando ci mostra la coppia incamminarsi su una strada verso un futuro più sereno con la citazione del celeberrimo finale di Modern Times di Charlie Chaplin.

Sugli applausi finali scorrono i titoli di coda del film che abbiamo visto ripreso in diretta. E sono applausi calorosi per tutti.

La fanciulla del West

Giacomo Puccini, La fanciulla del west

Berlino, Staatsoper unter den Linden, 13 giugno 2021

★★★☆☆

(video streaming)

Tra Far West e Las Vegas

Riapertura al pubblico della Staatsoper di Berlino dopo la pandemia. Cinquecento spettatori sono ammessi in sala, alcune centinaia davanti allo schermo gigante rizzato nell’area del defunto aeroporto di Tempelhof e molte altre migliaia sono davanti agli schermi casalinghi per la trasmissione in streaming di La fanciulla del west, in una produzione con nomi stellari, a cominciare dal maestro concertatore, Antonio Pappano, in una delle sue poche apparizioni nel teatro berlinese, che si conferma il raffinatissimo esecutore che è. Il punto di forza dell’opera sta proprio nell’orchestrazione, che passa dalla trasparenza strumentale al pieno da musica per film ante litteram, con una forza teatrale che riscatta l’ingenuità del lavoro. E Pappano realizza tutto magistralmente, sia che si tratti del fragoroso incipit, sia dei rari momenti lirici di cui il lavoro è parco rispetto agli altri di Puccini. La partitura è in una versione ridotta, di Ettore Panizza, per poter mantenere gli strumentisti con il distanziamento previsto dalle norme sanitarie, ma il risultato non ne risente. Chi ama quest’opera non soffrirà. E chi non la ama continuerà a non amarla…

Completamente assente l’aspetto romantico o nostalgico, il Far West messo in scena dalla regista americana Lydia Steier evidenzia la violenza e la brutalità della vicenda quasi con cinico sadismo: fin dall’inizio si vede un impiccato che viene scaricato su un pickup sotto lo sguardo di un adolescente che è obbligato ad assistere allo spettacolo. Altre esecuzioni sommarie seguiranno assieme alle continue scazzottate che incorniciano la lezione biblica dei rudi cercatori d’oro e della finale caccia all’uomo. Ambientato ai nostri tempi, la California di Belasco non è distante da Las Vegas a cui si ispirano alcuni momenti dello spettacolo, come la discesa dall’alto in un cuore di luci di Jake Wallace per la sua nostalgica ballata affiancato da due – inutili – acrobate. La “Polka” è un furgone delle bibite con insegna al neon, sul fondo si intravedono proiezioni di immagini naturalistiche, la capanna di Minnie è un’incongrua monocamera in cui bivaccano Wowkie e Billy, due drogati sfatti con un bambino, lo stesso adolescente dell’inizio, di chissà chi. Nel terzo atto la “Polka” è rovesciata, un altro impiccato penzola al cappio e il campo è come investito da un’apocalisse tinta dal cielo rosso e livido dello sfondo. La storia d’amore e redenzione di Minnie e Dick è costretta a forza in questa visione e non risolve la inattualità della vicenda.

Anja Kampe è una fervida Minnie dal registro un po’ limitato per il suo impervio ruolo (la crudeltà di Puccini per i soprani…) e il suo «Anch’io vorrei trovare un uomo» è un grido sforzato. Più a suo agio Marcelo Álvarez come Dick Johnson e Michael Volle come lo sceriffo Rance. Nick (Stephan Rügamer) è qui incomprensibilmente en travesti come bartender in paillettes e nel folto gruppo maschile si notano Viktor Rud (Happy), Łukasz Goliński (Sonora) e Grigory Shkarupa (Jake Wallace), tutti efficaci.

Madama Butterfly

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Giacomo Puccini, Madama Butterfly

Amsterdam, het Muziektheater, 18 novembre 2008

★★★★☆

(registrazione video)

«Pigri ed obesi son gli dèi giapponesi»

Eterea, minimalista, zen. Si sprecano gli attributi per la messa in scena che Robert Wilson (regista e scenografo, mentre i costumi sono di Frida Parmeggiani) crea nel 2008 per Amsterdam. In scena ci sono solo un quadrato di legno, che rappresenta la casa, e un sentiero serpeggiante, un sasso, una sedia stilizzatissima. Nient’altro nel primo atto, ancora più spogli gli altri due. Gli oggetti sono mimati e tutto è suggerito dalle luci, come sempre magiche e non naturalistiche nei suoi spettacoli.

I gesti non sono legati ai sentimenti dei personaggi, talora addirittura li contrastano, cosa che sembra scombussolare un po’ sia il direttore che i cantanti che, non potendo sottolineare così le emozioni, devono affidare tutto alla voce. Ma proprio per questo il risultato è valido e Bob Wilson trasforma così la vicenda italo-giapponese-americana in un qualcosa che ha lo stile rigoroso di una tragedia greca. Secondo e terzo atto sono senza soluzione di continuità qui, con l’intermezzo centrato sulla figura del bambino mentre Butterfly veglia insonne nell’attesa di Pinkerton. La regia mette perfettamente a fuoco i contrasti fra le due culture senza calcare la mano sulla giapponesità di porcellana di Cio-Cio-San o sull’arroganza yankee di Pinkerton.

Pinkerton decisamente ingessato e poco aitante quello di Martin Thompson, ma certo non hanno aiutato costumi e regia, molto più convincente la Butterfly di Cheryl Baker, di bel timbro, sicurezza negli acuti e grande espressività. Ognuno di noi ha la Butterfly di riferimento e «Un bel dì vedremo» preferito, ma il soprano australiano non sfigura al confronto di quello che abbiamo in mente e il pubblico olandese dimostra di apprezzare la sua interpretazione.

La direzione intensa ma pulita di Edo de Waart mette bene in luce la modernità della partitura, come quel valzerino straussiano (Richard, non Johann) della scena con il console e il principe Yamadori o l’esplosione da musical della presentazione del figlio (inspiegabilmente dai capelli corvini invece che biondi come dice il libretto e come suggerisce la situazione).

La produzione è stata ripresa a Parigi e in molti altri teatri ed è ancora in cartellone oggi.

Madame Butterfly

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Madama Butterfly

Giacomo Puccini, Madama Butterfly

Palermo, Teatro Massimo, 16 settembre 2016

★★★★☆

(diretta video)

Butterfly, tragedia al femminile

Negli ultimi anni registi intelligenti ci hanno fatto capire che cosa è veramente Madama Butterfly: una sordida storia di compravendita sessuale e di scontro di culture, non una cartolina di leziose giapponeserie.

Coprodotto con Macerata, lo spettacolo del Massimo di Palermo pone nella giusta luce il capolavoro pucciniano senza nulla togliere all’emozione, anzi tendendola allo spasimo proprio per la crudezza con cui viene tratteggiata la storia. Tutto merito della drammatica conduzione di Jader Bignamini e della coinvolgente lettura del regista Nicola Berloffa.

Ambientata dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale durante l’occupazione americana della città di Nagasaki, che durò fino al 1952, la vicenda si svolge in un vecchio teatro Kabuki trasformato in locale di incontri di piacere per i marinai americani. Costruito alla perfezione da Fabio Cherstich, l’ambiente claustrofobico è teatro dello scontro fra due mondi e della tragica storia di due donne, Cio-Cio-San e Suzuki, che diventano le protagoniste femminili in un mondo maschile arrogante e crudele: il codardo yankee, il console nobile ma anche lui ipocrita in fondo, il mellifluo procacciatore di matrimoni, lo spietato zio bonzo, il vecchio riccastro che cerca moglie. Si immagina che ci si trovi in un quartiere malfamato della città portuale da cui non si vede il mare – l’arrivo della nave è comunicato al telefono (non avevamo mai notato che le battute di Cio-Cio-San avessero i ritmi giusti di una telefonata!) – e meno che mai il giardino fiorito: qui gli alberi di ciliegio non ci sono, ci sono solo due vassoi di petali bianchi. Neanche la notte stellata c’è: è tutto e solo negli occhi e nella mente illusa di Butterfly, prima della notte d’amore sul misero materassino srotolato sul nudo pavimento.

Nel secondo atto nella sala vieppiù degradata e ingombra di casse di birra troneggia un vecchio proiettore cinematografico per intrattenere i clienti. È appena terminata la visione del film di Irving Rapper Now, Voyager (Perdutamente tua, 1942) con Bette Davis: la vita di Cio-Cio-San ormai non è che un sogno, infranto. «Un bel dì, vedremo» è cantata sullo sfondo dello schermo vuoto, come se la pellicola si fosse bruciata o non contenesse immagini. Durante il coro a bocca chiusa che collega il secondo al terzo atto sullo schermo scorrono le immagini a colori di Esther Williams, bellezza al bagno di quegli stessi anni. Nel terzo atto le “signorine” hanno smesso i kimono del primo atto, indossano abiti occidentali e non si muovono più con passettini incerti sui loro geta, ma hanno passi sicuri nelle gonne variopinte. Derubate della loro identità, dimostrano il crollo delIa loro cultura piegata dall’arroganza del vincitore. I costumi di Valeria Donata Betella e le luci impietose di Marco Giusti completano il quadro visivo dominato da un’attenta regia attoriale e da movimenti sempre giusti e coerenti, come i gesti goffi di B. F. Pinkerton che fa cadere le statuette degli ottoké, e il gioco di sguardi tra le due donne o tra queste e Sharpless e poi con con Kate Pinkerton.

Questa attenta concertazione non avrebbe il risultato che ha senza dei convinti e convincenti interpreti, e qui ci sono. Hui He assume per l’ennesima volta una parte in cui ha acquistato in maturità senza perdere in bellezza vocale e intensità espressiva. Specialista pucciniana (notevoli sono anche le sue Tosca e Turandot) e verdiana (Aida), ma anche Gioconda, la cantante dosa con abilità la potenza sonora e la dolcezza di emissione in momenti di tenerezza quasi infantile. Il Pinkerton di Brian Jagde ha la giusta baldanza e “innocenza” di chi non sa di far del male. Lo smalto vocale è brillante e il registro acuto sicuro e sempre ben proiettato. Non è poi tutta colpa sua se però non rende efficace il coinvolgimento emotivo con la ragazza giapponese: Hui He sembra si dimostri innamorata solo a parole. Più incisiva del solito, come s’è detto, è la parte di Suzuki, qui un’intensa Anna Malavasi che ha accenti quasi veristi. Confermata la nobiltà di portamento dello Sharpless di Giovanni Meloni, non altrettanto si può dire delle parti minori, qui a un livello decisamente inferiore. Ottima, per quel che si può giudicare da una registrazione che non brilla per presenza e chiarezza di suono, la mano di Jader Bignamini in un flusso incalzante che non trascura però le frasi più liriche.

Però, neanche stavolta il bambino di Cio-Cio-San è biondo! Possibile che in tutta la Sicilia non si possa trovarne uno? Per di più il bimbetto, un tantino cresciuto per i suoi tre anni, si dimostra poco partecipe e chiaramente annoiato e la sua presenza risulta talora distraente. Nella trasmissione televisiva è poi insopportabile la presenza di una presentatrice in kimono giallo (!) che imperversa con le sue “spiegazioni”. Se ne poteva fare francamente a meno.

La fanciulla del West

Giacomo Puccini, La fanciulla del west

★★★★☆

Monaco di Baviera, Nationaltheater, 30 marzo 2019

(diretta streaming)

Una Fanciulla di successo a Monaco

Con l’addio alle scene della Gruberová nel Devereux e il Parsifal diretto da Petrenko, Monaco avrebbe già tutte le carte per essere una meta operistica di grande interesse in questo periodo, ma per buona misura c’è anche questa intrigante produzione de La fanciulla del West.

Nell’allestimento di Andreas Dresen se non tra i cercatori d’oro del Far West ottocentesco, siamo comunque tra i minatori di una qualche miniera d’oggi. L’atmosfera maschile e violenta non cambia, i colori sono cupi sia nella scenografia di Mathias Fischer-Dieskau (il figlio maggiore del rimpianto baritono) sia nei costumi di Sabine Greunig. Unica macchia chiara e colorata è quella della figura di Minnie. Perfetto il gioco luci di Michael Bauer che evidenzia i personaggi sul fondo nero di un palcoscenico per lo più vuoto: una scala nel primo atto, una microscopica capanna nel secondo, un traliccio a cui impiccare Dick nel terzo. Il regista segue fedelmente la vicenda con un ottimo lavoro attoriale anche nei personaggi minori, il che rende la storia particolarmente coinvolgente.

Il giovane direttore americano James Gaffigan gioca con la drammaticità della partitura in modo molto abile e dà allo spettacolo il giusto taglio cinematografico. Seppure a livelli generosi, l’orchestra è sempre rispettosa delle voci in scena. La wagneriana Anja Kampe non è certo intimorita del volume sonoro che esce dalla buca cui replica con acuti possenti. Di tutto rispetto è poi la sua presenza scenica. Brandon Jovanovich ha il physique du rôle perfetto dello yankee Dick Johnson alias bandito Ramerrez, ma la voce cambia nei passaggi di registro e il timbro si sbianca nell’acuto. L’unica vera aria dell’opera, «Ch’ella mi creda libero e lontano», è comunque efficacemente resa. Convincente lo sceriffo Rance di John Lundgren, così come il barista Nick di Kevin Conners. Della folta schiera dei minatori si fanno ricordare lo Ashby di Bálint Szabó e il Sonora di Tim Kuypers.

Sì, questa produzione mi ha fatto apprezzare di più questo titolo pucciniano che non è mai stato tra i miei favoriti.

Madama Butterfly

Giacomo Puccini, Madama Butterfly

Torino, Teatro Regio, 6 febbraio 2014

★★★☆☆

Butterfly, un caso di turismo sessuale

«Gli abbonati sono preoccupatissimi. Il teatro è piccolo, la gente mormora e dalle segrete stanze del Regio trapela che la nuova Madama Butterfly non sarà ambientata nel solito Giappone da servizio da thé con i kimono e i ventagli […]. Stavolta Butterfly sarà fatta per quel che è: un caso di turismo sessuale». Così iniziava la presentazione di Alberto Mattioli dello spettacolo che nel novembre 2010 avrebbe turbato i melomani torinesi. Eppure quella discussa produzione verrà riproposta altre due volte nel teatro torinese, nel 2012 e ora nel 2014. E senza destare più troppe polemiche.

La lettura di Damiano Michieletto allora aveva fatto scalpore: la coloratissima scena rappresenta una generica metropoli dell’oriente di oggi (le scritte pubblicitarie sono in giapponese, coreano, cinese e tailandese): la «casa a soffietto» comprata da Pinkerton è un cubo di vetro, una scala metallica porta presumibilmente alla stazione di una ferrovia urbana, enormi poster con visi femminili convivono con carrettini dello street food. In scena non vediamo la casetta sulla collina circondata da alberi fioriti: i fiori sono macchie colorate disegnate da Butterfly e dal figlio sulle pareti trasparenti di questa “gabbia” spersa nella degradata periferia metropolitana. Il “matrimonio” è una raffazzonata festa in cui Goro, macchina fotografica e microfono in mano, fa partire gli applausi a comando come in un set televisivo. Coerente con la messinscena è poi la sostituzione del coltello cerimoniale con un prosaico revolver per il suicidio di Butterfly.

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Ma se la scenografia di Paolo Fantin può in un primo momento rivelarsi spiazzante, la drammaturgia del regista è invece fedele al libretto, anche se qui Pinkerton non arriva su «una nave bianca», ma su una fuoriserie firmata Giugiaro con i fari accecanti. La caratterizzazione dei personaggi è comunque quella di sempre: l’arroganza yankee del luogotenente, l’accomodante passività del console, l’assenza di scrupoli del ripugnante Goro o del pretendente Yamadori, la volgarità dei parenti di Butterfly. E soprattutto rimane la sottile denuncia della compra-vendita sessuale e la sua sconcertante attualità, qui messa sì in drammatica evidenza, ma presente chiaramente nel libretto di Illica & Giacosa. Manca certo il gusto liberty che affiora talora nella partitura, ma l’idea di fondo di Michieletto è portata avanti con coerenza e intelligenza e con momenti di grande sensibilità come la scena del bambino che gioca con le barchette di carta in una pozzanghera prima di essere picchiato crudelmente dai bulletti del quartiere.

La triste fragilità della ragazza giapponese trova in Amarilli Nizza, Butterfly “americanizzata” in jeans e t-shirt coi lustrini nel secondo atto, una sensibile interprete pur dalla voce non grande e affetta da un eccesso di vibrato. Massimiliano Pisapia sfoggia il suo bel timbro e un invidiabile squillo, ma è talora debordante e rinuncia a qualsiasi approfondimento psicologico del personaggio di Pinkerton. Vocalità non del tutto convincente quella di Alberto Mastromarino, uno Sharpless comunque signorile. Nel complesso la parte musicale non è delle più entusiasmanti, neanche la direzione di Pinchas Steinberg, concertatore di sicuro mestiere ma niente più, che già aveva inaugurato la produzione quattro anni fa.

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Madama Butterfly


Giacomo Puccini, Madama Butterfly

Londra, Royal Opera House, 30 marzo 2017

★★★☆☆

(video streaming)

Tra Mikado e kabuki la Butterfly di Leiser-Caurier

Per la quinta volta la Royal Opera House riprende l’allestimento di Madama Butterfly di Moshe Leiser e Patrice Caurier del 2003. Una period production, stilizzata ma estremamente tradizionale che non si fa mancare nulla: il ramo di magnolia che perde i fiori, il bambino bendato con la bandierina americana, la mini statua della libertà. Altri particolari sono però fuori posto: il Budda nell’altarino shintoista o il suicidio di Cio-Cio-San come seppuku, mentre per le donne è previsto un rito diverso, lo jigai con il taglio della gola.

Senza una vera regia attoriale gli interpreti sono lasciati a loro stessi e quindi ecco che il Pinkerton di Marcelo Puente, lo stesso de La Monnaie, continua a essere impacciato mentre la Ermonela Jaho non rinuncia ai manierismi affettati che accompagnano come sempre le sue performance. Soprattutto nel primo atto con i costumi, i trucchi pesanti e i gesti leziosi sembra di essere in una rappresentazione del Mikado di Gilbert & Sullivan mentre i movimenti della protagonista sembrano voler attingere al teatro kabuki, con il torcere del collo, lo strabuzzare degli occhi o lo svolazzare delle maniche nel finale a mo’ di farfalla «ghermita» e «palpitante».

La scenografia di Christian Fenouillat consiste in uno stanzone vuoto a forma di parallelepipedo con ante scorrevoli, in orizzontale o in verticale, e ogni volta si gioca a indovinare che cosa ci sarà dietro: la prima volta è la gigantografia del porto di Nagasaki, poi un disegno a pastello di alberi sfocati, poi la vetrina di un negozio di fiori artificiali o la silhouette minacciosa della nuova Mrs. Pinkerton. Anche il facile coup de théâtre dei ciliegi in fiori qui è mancato, il cielo stellato ha tardato ad arrivare e l’idillio tra l’americano e la geisha è guastato dalle mossette e dalle smorfie di quest’ultima e la legnosità del primo.

Fortunatamente dal punto di vista uditivo i risultati sono ben superiori. Pappano si conferma uno straordinario interprete e qui della partitura pucciniana mette in risalto la grande liricità e la modernità di scrittura, facendoci scoprire ad esempio quegli accenni di valzerini del secondo atto che non possono non richiamare lo Strauss del Rosenkavalier di sette anni dopo.

Butterfly non regge se non c’è una grande Butterfly, e qui vocalmente Ermonela Jaho regge il confronto con le grandi Cio-Cio-San di sempre. La Jaho non interpreta Butterfly, è Butterfly. Che sia Violetta o Desdemona o Suor Angelica l’immedesimazione del soprano albanese con i personaggi è sempre devastante e si capisce come alla fine neanche gli applausi riescano a farla staccare dalla parte. È la forza – e il limite – della cantante, che qui come fanciulla giapponese mostra un po’ la corda. Era stata più efficace scenicamente la Siri di Milano con il suo volto impassibile dietro il trucco gessoso. Ma se non ci si fa distrarre da quello che si vede, la purezza della linea di canto, pur nell’intensità dell’interpretazione, porta a risultati eccellenti e la Jaho supera brillantemente la prova dell’«Un bel dì, vedremo» emesso con filati luminosi e intonazione cristallina.

Marcelo Puente ha il physique du rôle giusto («Alto, forte» come dice Butterfly e anche belloccio, diciamo noi), ma vocalmente è sempre troppo stentoreo, ha un timbro un po’ ingolato e prende tutti gli acuti con un fastidioso portamento. Al ruolo è comunque affezionato: lo dimostra il fatto che il tenore argentino lo abbia portato in scena parecchie volte – oltre a Londra, a Lipsia, ad Oslo, a Bruxelles, a Tokyo e prossimamente ad Amburgo.

Vocalmente deplorevole e dalla dizione improponibile lo Sharpless di Scott Hendricks mentre come Goro abbiamo il sempre efficace Carlo Bosi. Molto ben caratterizzata è la Suzuki di Elisabeth Deshong.