Émilien (Emiliano) Pacini

Le trouvère

Giuseppe Verdi, Le trouvère

Wexford, National Opera House, 17 ottobre 2025

(video streaming)

Verdi in francese a Wexford: un’occasione mancata

Scopo dei festival è soprattutto quello di presentare opere poco conosciute o versioni alternative di quelle presenti nei cartelloni dei grandi teatri. Lo aveva fatto il Festival Verdi di Parma nel 2018; ora è quello di Wexford a riproporre la versione francese de Il trovatore.

Le trouvère non è una semplice traduzione, ma una vera e propria rielaborazione che Verdi realizzò nel 1857, quattro anni dopo la prima romana, per adattare l’opera ai gusti e alle convenzioni dell’Opéra di Parigi. Il libretto fu tradotto da Émilien Pacini, ma la lingua francese comportò modifiche metriche e ritmiche per adattare le frasi al canto, con frequenti riscritture melodiche. L’opera resta divisa in quattro atti, ma Verdi ne riorganizzò parzialmente il contenuto. Alcuni recitativi sostituiscono i dialoghi secchi tipici dell’opera italiana, e diversi pezzi vennero tagliati o riscritti per rendere il dramma più “classico” e meno concitato rispetto all’originale italiano.

Verdi aggiunse ballabili, obbligatori secondo la tradizione del grand opéra francese: una suite di danze gitane, chiamata Ballet des Bohémiens, che occupa una parte consistente del terzo atto. Sono circa 250 battute in Fa maggiore, con episodi in 3/4 e 6/8, dove si alternano danze spagnole, bolero e una marcia gitana. L’orchestrazione è brillante, con tamburini, castagnette e flauti piccoli: un episodio puramente spettacolare ma di notevole fattura orchestrale, che anticipa il gusto “spagnolista” del Don Carlos e della Forza del destino.

Alcuni numeri vocali furono rielaborati in funzione dell’impostazione più lirica e meno virtuosistica del canto francese. Ad esempio, nel secondo atto, nell’aria di Azucena «Vois dans la flamme» («Stride la vampa»), la tonalità di Do maggiore resta la stessa, ma il cantabile è più elaborato, privo di vera cabaletta, e l’aggiunta di arpa e tromboni gravi rende le armonie più cupe e sfumate. Verdi rallenta i tempi e introduce pause più ampie fra le frasi per far risaltare il testo francese, ottenendo una visione più mistica e simbolica, invece di quella allucinata e popolare della versione originale.

Nel terzo atto, l’aria di Manrique «Puisqu’enfin me voilà» («Ah! sì, ben mio»), originariamente in Mi maggiore, viene alzata di un semitono a Fa maggiore per renderla più brillante. L’Andante è più lirico e meno ornato, con fraseggi distesi, mentre l’aggiunta di arpa e clarinetti addolcisce il colore. La linea melodica è quasi identica, ma con pause diverse per adattarsi alla nuova prosodia e con alcune variazioni di ritmo e un maggior numero di sillabe per battuta. Il tono intimo, italiano e affettuoso, diventa qui più solenne, da “romanza cavalleresca” alla francese.

Nel quarto atto, il Miserere conserva la stessa tonalità, ma con armonie più variate, tempi più lenti e finali prolungati. La riscrittura delle linee corali le rende più equilibrate nel fraseggio francese. La religiosità teatrale della versione italiana si trasforma in un misticismo più raccolto e atmosferico: Verdi ammorbidisce il contrasto fra scena sacra e dramma amoroso, seguendo la prassi francese del mélange dei registri.

Leggermente diverso musicalmente è il finale dell’atto quarto, «Plutôt mourir que vivre» («Prima che d’altri vivere»): la chiusa rapida e concentrata dell’originale diventa un finale esteso, più lento e patetico, con riprese orchestrali. Ma subisce anche una modifica drammatica importante: qui Léonore muore davanti a Manrique, e l’ultima battuta sottolinea più esplicitamente il riconoscimento del fratello da parte del carnefice.

Modificate o addirittura soppresse sono numerose cabalette. In «Tranquille est la nuit … D’un si doux feu que dire» («Tacea la notte placida … Di tale amor che dirsi») del primo atto, Verdi smussa il ritmo, sostituisce alcune figurazioni di semicrome con crome legate, riduce le ripetizioni e varia l’orchestrazione (più legni, meno ottoni). Il risultato è meno brillante e virtuosistico, più lirico e continuo, in linea con la declamazione francese. L’aria di Azucena del secondo atto «Dans la flamme» («Stride la vampa») perde la cabaletta «Condotta ell’era in ceppi»; così pure nel Miserere del quarto atto è eliminata la cabaletta sulle parole «Mira, di acerbe lagrime». Anche l’aria di Léonore nel finale «Sur l’aile enchanteresse» («D’amor sull’ali rosee») perde la cabaletta «Tu vedrai che amore in terra».

«Di quella pira» («Supplice infâme») di Manrique passa dal Do maggiore al Si♭ maggiore, e le due strofe simmetriche, ripetute con stretta, diventano una sola, con una transizione orchestrale più lunga. I timbri sono più amalgamati, con rinforzo dei legni e degli ottoni scuri, e manca il do acuto finale (non previsto da Verdi), per un esito più nobile che eroico. Qui la differenza è radicale: Le trouvère rinuncia all’effetto “patriottico” dirompente, concentrando la tensione sull’angoscia di un padre, non sul grido guerriero.

Verdi affrontò la revisione del Trovatore per Parigi non come un rifacimento, ma come un esercizio di lucidatura, un’operazione di cesello su un diamante già tagliato. «Rifinito, non rifatto», avrebbe detto lui stesso: e la formula coglie perfettamente lo spirito di Le trouvère. L’opera del 1857 non cancella quella del 1853, ma ne smussa le spigolosità, sostituendo all’istinto la logica, al furore la nobiltà del disegno. Le transizioni diventano più fluide, la coerenza tonale più rigorosa, i numeri chiusi si incastrano con un senso drammaturgico che guarda già al futuro. In breve: meno sangue, più cervello.

Il risultato è un Trovatore con la patina della cultura francese – elegante, orchestrato con una finezza quasi sinfonica – ma forse meno immediato, meno febbrile. Il fuoco verdiano non si spegne, ma si controlla, come un’incandescenza che il cristallo trattiene.

Proporre oggi la versione francese significa dunque accettare la sfida di misurarsi con un Verdi che si fa architetto del proprio impeto, un Verdi “classico” in senso quasi paradossale. È un’occasione preziosa per restituire pagine rare, scoprire sfumature nuove, riscoprire la teatralità attraverso un diverso equilibrio di passioni e misura. Peccato che la produzione vista al Festival di Wexford sembri non aver voluto davvero giocare questa partita.

Il problema non è tanto nei ballabili – inevitabili nel gusto dell’Opéra e spesso una trappola per registi contemporanei: Robert Wilson, a Parma, ne aveva fatto un pugilato metafisico, tanto assurdo quanto memorabile. Ben Barnes, al Wexford, opta per un approccio più narrativo: il Comte de Lune si addormenta nella sua tenda e sogna la Guerra Civile spagnola del 1936, periodo in cui l’azione è trasposta. Sul fondo scorrono filmati d’epoca in bianco e nero, mentre tre danzatrici eseguono passi più allusivi che simbolici. L’idea non è priva di fascino, ma si esaurisce presto, come un flash di memoria più che una vera chiave interpretativa.

È però sul piano musicale che le scelte lasciano perplessi. Se si decide di eseguire Le trouvère, che senso ha eseguire «Di quella pira» esattamente come nella versione italiana compresa la puntatura di tradizione? E non è l’unico caso: altre cabalette sono bellamente ripristinate. Il ritorno di queste consuetudini tradisce il senso stesso dell’operazione: Verdi aveva lavorato proprio per abbandonare quel linguaggio e adattarsi alla misura francese. La direzione di Marcus Bosch poi non aiuta: corretta ma poco ispirata, incapace di restituire la nuova tavolozza timbrica. L’orchestra, di per sé onesta, mostra limiti di precisione e colore.

Il cast si colloca nel solco della tradizione wexfordiana: voci giovani, entusiasmo più che blasone. Lydia Grindatto è una Léonore di bel timbro, intensa ma non sempre a fuoco; Eduardo Niave dà al suo Manrique una verve da spadaccino, più che da trovatore; Kseniia Nikolaieva disegna un’Azucena di linea irregolare; Giorgi Lomiseli offre un Comte de Lune vocalmente non memorabile. La dizione francese resta un campo minato per tutti.

Nell’ambientazione, il duca diventa un ufficiale fascista e Manrique un partigiano idealista. La scenografia di Liam Doona, costruita su uno spazio grigio, modulabile con luci e pochi elementi, riesce però a evocare efficacemente il senso di un mondo distrutto e desolato.

Il trovatore

Giuseppe Verdi, Le trouvère

★★★☆☆

Parma, Teatro Farnese, 29 September 2018

 Qui la versione in italiano

Robert Wilson’s lunar Trouvère

Parma’s Verdi Festival presents less frequented versions of the composer’s output. After opening with Macbeth in its 1847 original edition, it is now the turn of Le trouvère, the Parisian version of Il trovatore, adapted for Paris in 1857.

Obviously, Verdi had to add a ballet in Act 3 that was requested in the French capital, but Azucena’s role underwent some changes too, with 24 extra bars to her tale when she tries to raise the Count’s compassion. Act 4 was also modified: Leonora is deprived of her cabaletta, thus shifting the dramaturgical balance of the opera towards Azucena…

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Le trouvère

Giuseppe Verdi, Le trouvère

Parma, Teatro Farnese, 29 settembre 2018

★★★☆☆

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Il Trouvère lunaire di Robert Wilson

Continua la proposta del Festival di Parma di opere di Verdi in versioni meno frequentate. Dopo l’inaugurazione col Macbeth nella versione originale del 1847, è ora la volta di Le trouvère, edizione parigina de Il trovatore del 1857.

Ovviamente erano stati aggiunti i ballabili, di prammatica per le abitudini teatrali della capitale francese, ma anche la parte di Azucena aveva subito alcune modifiche con l’aggiunta di 24 battute alle 72 del suo racconto con cui nel terzo atto cerca di impietosire il conte. Modificato è anche l’ultimo atto: Leonora perde la cabaletta della sua aria spostando così l’equilibrio drammaturgico dell’opera sulla figura di Azucena, che in questa nuova versione è dominante, affermando così il predominio dell’amore di Manrico per la madre sull’amore per Leonora – e il fatto che Azucena non sia la vera madre aggiunge un ulteriore beffardo elemento alla tragica vicenda. Il finale diventa più complesso, con la ripresa del tema del Miserere e alcune battute in più. Altre piccole modifiche riguardano soprattutto le arie di Leonora, dettate dalla necessità di adattare il ruolo a quello parigino, interpretato dal soprano Pauline Gueymard-Lauters. (1)

Oltre alla rarità della proposta, altri due sono gli elementi di curiosità dello spettacolo: la location e la messa in scena. Per la terza e forse ultima volta il Festival Verdi sceglie il Teatro Farnese per allestire un’opera di Verdi, ma a parte l’exploit di Graham Vick che l’anno scorso aveva utilizzato in maniera geniale gli spazi straordinari della sala lignea all’interno del Palazzo della Pilotta per il suo Stiffelio, gli altri registi si sono dimostrati intimoriti dall’ambiente e non ne hanno sfruttato le peculiarità. Non fa eccezione neppure Robert Wilson a cui viene affidata la messa in scena di questo Trouvère: il pubblico siede nella parte bassa della sala, l’azione avviene sul piccolo palcoscenico e le gradinate rimangono vuote, inutilizzate. Nell’enorme ambiente il suono riverbera in maniera eccessiva mentre le voci laggiù in quella piccola scatola risultano affievolite e intubate.

Roberto Abbado alla guida dell’Orchestra del Comunale di Bologna si adatta alla visione del regista e dopo essersi abituati alla particolare acustica del luogo si apprezza il suo approccio alla partitura di cui esalta i colori strumentali e gli slanci melodici che non eccedono mai nel melodrammatico. Il Trouvère francese è meno sanguigno di quello italiano e Abbado ne coglie perfettamente l’essenza.

Giuseppe Gipali non è un Manrico eroico: qui il protagonista è più romantico, la linea di canto è elegante, manca forse di passionalità, ma le sue invettive sono coronate da acuti emessi con sicurezza e luminosità. Franco Vassallo è un Conte di Luna autorevole e poderoso, il più festeggiato della serata. Roberta Mantegna è una Leonora sensibile caratterizzata da un particolare vibrato vecchia scuola. Il soprano mette in evidenza buone doti di belcantista nelle variazioni appositamente scritte per la parte francese che danno al suo ruolo un accento quasi massenettiano. Vocalmente efficace è l’Azucena giovane e attraente di Nino Surguladze. Dizione un po’ approssimativa per comprimari e coro, più che accettabile quella degli interpreti principali.

Se si pensa a un colore da abbinare al Trovatore si pensa al rosso del rogo che ha arso il neonato di cui si racconta a inizio opera o della pira con cui si conclude, per non dire del fuoco delle passioni che avvincono i protagonisti di questo drammone spagnolo. Bob Wilson immerge la vicenda in una fredda atmosfera lunare racchiusa in una scatola dalle pareti grigie in cui si aprono rettangoli luminosi e porte di altezza diversa. La sua lettura è in totale antitesi con lo spirito da grand-opéra del Trouvère parigino e i grovigli passionali ed emotivi intrecciati fra i protagonisti sono immersi in un acquario popolato da figurine bidimensionali. Meglio, ne escono depurati: la geometria delle relazioni si rispecchia nella sua lettura minimalista, una costruzione architettonica di grande fascino. Tanto l’azione del Trovatore è veloce, quanto rallentato è il passo della messa in scena di Wilson.

Assieme a trovate come le luci che intensificano l’intensità nei momenti più drammatici o la presenza in scena di strani personaggi avulsi dalla vicenda, sorprende invece la soluzione dei ballabili del terzo atto: invece di una coreografia più o meno tradizionale, entrano in scena dei pugili che con i loro saltelli riempiono questi interminabili venti minuti. Su una sedia un vegliardo dalla barba bianca, che prima si poteva scambiare per Verdi, ora sembra Degas senza le sue ballerine. Sul fondo ripassa la balia con la carrozzina, ora ridotta a scheletro dopo il rogo.

Quarant’anni fa, subito dopo Einstein on the Beach, gli avevano chiesto di mettere in scena un’opera di Verdi e il regista texano aveva risposto «Non farò mai Verdi!». E invece, eccolo qua alla sua quarta produzione verdiana.

(1) Per un’analisi più estesa delle differenze, vedere qui.

Stradella

★★★☆☆

A Liegi il soprano e il tenore sono a mollo

L’Opéra Royal de Wallonie-Liège si distingue da tempo per la meritevole proposta di titoli desueti, soprattutto di compositori dell’area belga e francese (1). Nello stesso tempo ci fa capire perché certe opere non sono più in repertorio e sono state dimenticate – e perché è bene che rimangano dimenticate in alcuni casi!

E in parte è il caso di questo Stradella che César Frank, il più famoso cittadino di Liegi, compose nel 1841 su libretto di Émile Deschamps e Émilien (Emiliano) Pacini – un testo che nel 1837 era già stato intonato da Louis Niedermayer per l’Opéra di Parigi (con un cast sensazionale: Nourrit, Levasseur, Falcon!), ma la vicenda ispirerà ancora le opere quasi omonime di Friedrich von Flotow (Amburgo, 1844), Adolfo Schimon (Firenze, 1846), Giuseppe Sinico (Lugo di Romagna, 1863) fino ad arrivare al recentissimo Ti vedo, ti sento, mi perdo di Salvatore Sciarrino.

La vicenda è molto vagamente ispirata alla vita del compositore e cantore Alessandro Stradella (1639-1682), che fu vittima di un delitto passionale ordito da un nobile genovese. Atto I. In un vicolo di Venezia in pieno Carnevale, Spadoni, braccio destro del Duca di Pesaro, Senatore e membro del Consiglio dei Dieci, si appresta con alcuni uomini a rapire la bella Léonor, un’orfana di cui il Duca è follemente innamorato. Un gruppo di persone che festeggia il Carnevale sopraggiunge a disturbare il misfatto: si tratta del celebre cantante Stradella accompagnato dai suoi allievi. Egli vuole cantare una serenata alla stessa Léonor, che Stradella segretamente ama, da lei ricambiato. Allontanatosi il gruppo, Spadoni ed i suoi forzano la porta di Léonor. Le grida di aiuto della donna richiamano l’attenzione delle guardie di Venezia che pattugliano la città nel periodo del Carnevale, ma intercettate da Spadoni che le distrae, esse giungono quando ormai il rapimento è compiuto. Si intromettono poi allegre maschere che si divertono a coinvolgere le guardie nelle loro follie carnevalesche, obbligandole a partecipare a balli e danze.
Atto ll. Léonor ritorna in sé in una stanza del Palazzo del Duca, dov’è tenuta prigioniera. Sgomenta, piange sulla sorte che l’attende. Nel frattempo Spadoni, che il Duca ha lasciato a guardia della donna, riceve mercanti carichi di fiori, gioielli e stoffe pregiate. Il Duca intende infatti lusingare Léonor con doni preziosi; inoltre, ignorando i sentimenti che legano Stradella e Léonor, incarica il cantante di recarsi a Palazzo con alcuni allievi e di conquistare la fanciulla per suo conto con una serenata d’amore. Quando Stradella scopre che deve prestarsi per intenerire proprio Léonor, escogita un modo per fuggire con lei, aiutato da un suo allievo, il fedele Beppo. Quest’ultimo ha il compito di venire nel canale che si trova sotto il balcone del Palazzo, per fornire ai due giovani l’imbarcazione che ne consentirà la fuga. Di ritorno dal Consiglio dei Dieci, Il Duca è convinto di trovare Léonor meglio disposta verso di lui. È desideroso di congedare tutti per restare solo con lei, ma Stradella si rifiuta d’obbedire. Provoca anzi deliberatamente il suo rivale; poi lo affronta e lo ferisce, riuscendo a fuggire con Léonor sulla barca condotta da Beppo.
Atto III. Stradella è riparato a Roma; qui si prepara a cantare nel giorno di Giovedì Santo, ma è preoccupato per la sorte della bella Léonor che non ha più rivisto. Anche Spadoni è a Roma, mandato dal Duca sulle tracce del rivale perché sia catturato e portato ai Piombi di Venezia; ma l’uomo ha altri piani e assolda due miserabili malviventi per assassinare Stradella, anche se per convincerli ad uccidere il famoso cantante si trova costretto ad offrire loro una somma molto più consistente di quella inizialmente prevista. Léonor tuttavia ha assistito di nascosto alla scena e per salvare il suo amato segue le tracce degli assassini e giunge nella Chiesa dove Stradella deve esibirsi davanti al pubblico nella solennità del Giovedì Santo. Ma l’emozione, per lei troppo forte, la fa soccombere. La magnifica voce di Stradella e la natura dei canti, che richiamano visioni del giudizio universale, per un attimo fanno tremare la mano agli assassini, ma alla fine portano a termine il delitto e Stradella raggiunge così la sua amata nell’eternità. Commosso, il popolo celebra la gloria e la felicità della coppia ed il loro amore con un grande canto di lode, al quale persino il Duca si unisce accordando il suo perdono.

Questa è la sua prima di quattro opere, tutte poco fortunate. (2) Franck fu soprattutto organista e compositore di musica strumentale e sacra. Sono ancora oggi eseguiti i suoi oratorii, la Sinfonia in re op.48 e vari pezzi di musica da camera con pianoforte, ma specialmente le opere per organo. Stradella ci è pervenuta particamente completa ma solo nella redazione per canto e pianoforte. Non si conoscono i motivi per cui Franck non abbia scritto la parte orchestrale, forse la mancanza di tempo è il più probabile. Per la rappresentazione scenica del 12 settembre 2012 l’orchestrazione è stata curata dal compositore belga Luc van Hove.

Oscillante tra melodramma romantico e grand opéra, bel canto italiano e sentimentalismo alla Gounod, il lavoro non manca di pagine pregevoli (poche) ma il libretto ingenuo e i personaggi senza il minimo spessore psicologico rendono l’opera una curiosità e poco più, talora sembra quasi solo un pretesto per intonare inni religiosi.

Paolo Arrivabeni mette in luce il buono della partitura mentre dei cantanti si fa notare lo Stradella di Marc Laho, il grande tenore che si è specializzato, giustamente, nel repertorio francese meno conosciuto. Efficaci Werner van Mechelen, perfido Spadoni, e il Duca, ancor più perfido, di Phippe Rouillon. In difficoltà nelle agilità la Léonor di Isabel Kabatu. Il domestico Beppo, in origine un mezzosprano en travesti, qui è stato invece affidato a un tenore del coro con risultati deludenti.

Per l’apertura della sala dopo un breve periodo di chiusura per restauri, viene incaricato della messa in scena il regista cinematografico Jaco Van Dormael, per la prima volta impegnato in una regia lirica, il quale sembra voler prendersi gioco della vicenda ed esibire le capacità tecnologiche del teatro rinnovato. Essendo i primi due atti ambientati a Venezia, pensa bene di far costruire allo scenografo Vincent Lemaire una piscina che occupa tutto il palcoscenico in cui i cantanti sguazzano perennemente con l’acqua alle ginocchia. Non aiutano i costumi secondo impero con la gonna tutta balze di tulle di Léonor e le marsine degli uomini. Anche nel terzo atto sono tutti a mollo, come se il Tevere fosse straripato. Qui è a suo modo notevole la scena dei sicari che tirano sul prezzo, affioranti solo con la testa dall’acqua ormai lurida, come nutrie di fiume. Un tocco di humour del regista dell’esilarante Dio esiste e vive a Bruxelles. Un enorme specchio circolare talora scende a riflettere la buca orchestrale o quanto avviene in scena, come il pozzo luminoso in cui “fluttuano” i due amanti finalmente uniti nell’aldilà.

Il sospetto che il regista abbia messo tutto in burla diventa più forte quando oltre alle treccine di Stradella e ai palloncini neri ancorati alla schiena del Duca, nel finale un pesce pieno di elio e telecomandato, un grosso Nemo, si mette a volteggiare sugli interpreti e poi sull’orchestra fino alla platea. Ah, ces Belges…

(1) L’officier de fortune e Zémire et Azor di Gretry, Le domino noir e Manon Lescaut di Auber, Le Roi d’Ys di Lalo, Thérèse di Massenet e La fille de madame Angot di Lecocq sono alcuni degli esempi più recenti.

(2) Le altre sono Le valet de ferme (1853), Hulda (1885), Ghiselle (1890).