Renato Simoni

Turandot

Giacomo Puccini, Turandot

Bruxelles, Théâtre Royal de la Monnaie, 25 giugno 2024

★★☆☆

(diretta streaming)

Turandot continua a restare senza un finale

Nel 1924 Puccini a Bruxelles, dove era venuto per curare il suo tumore alla gola, moriva lasciando incompiuta Turandot. Cento anni dopo il teatro della capitale belga mette in scena il lavoro del maestro lucchese – l’ultima volta fu nel 1979, durante il regno di Gérard Mortier che non amava Puccini – in una produzione che ha destato qualche perplessità per la drammaturgia e l’ambientazione, non ultima l’aver affidato a una donna la parte dell’imperatore Altoum.

Prima che inizi l’opera con quelle quattro note strappate, sentiamo lontani ritmi da discoteca e vediamo una cameriera pulire il pavimento dal sangue mentre il volto di Liù, anche lei cameriera, è rigato di lacrime. Siamo nel ricco salone di un pent-house di un grattacielo di Hong-Kong – lo sappiamo dalle note del regista – in cui sono mescolati lusso e kitsch di gusto orientale, opere d’arte moderna e antichità cinesi. C’è una festa e gli invitati sono vestiti in modo esagerato, soprattutto le donne che sfoggiano abiti ridicolmente ingombranti. A sinistra una grande vetrata e una scala che porta a un ballatoio superiore. Sulla destra una porta e un salottino rotondo ricavato nel pavimento da cui esce una piattaforma circolare su cui saliranno i personaggi nei momenti topici della vicenda. Alla parete un quadro che sembra rappresentare un sesso femminile sanguinolento. La scritta al neon “entitled cunt” toglie il dubbio. Le mani e le braccia di una scultura in rilievo in alto a sinistra a un certo punto prendono vita mentre una specie di camino a forma di fauci di drago sputa fumo e fiamme aprendosi come una porta dell’inferno. Il regista si rivela un buon decoratore. 

Il “popolo di Pekino” è qui rimpiazzato da una società di miliardari annoiati che aspettano il brivido dell’esecuzione dei pretendenti della figlia della padrona di casa bevendo cocktails. Timur è anche lui uno degli invitati, così come Calaf, entrambi elegantemente abbigliati. I tre ministri di corte prima vestono le livree dei domestici, poi si presentano inopinatamente in smoking. Appare il principe di Persia, che viene spogliato e nudo entra in quella che sembra una camera delle torture dalla intensa luce rossa, ma che si rivelerà invece la camera da letto di Turandot – il che farebbe supporre dei risvolti inediti e imprevedibili della vicenda…

In quella camera si intrufola Calaf e ne esce estasiato dalla bellezza della principessa, che nel finale d’atto scende dall’alto nella sua regale maestà. Nel frattempo abbiamo fatto conoscenza dell’imperatore, o meglio della padrona di casa che sembra la matrigna cattiva che obbliga la figlia a giustiziare i pretendenti, sicuramente per mantenere il potere nelle sue mani – in totale contrasto con quanto però afferma nel libretto: «Un giuramento atroce [… ] basta sangue». Oppure no, la maltratta perché al contrario non cede al matrimonio. Chissà. Non è l’unica incongruenza incomprensibile di questa produzione.

Nel secondo atto la scena degli enigmi è grosso modo quello che ci si aspetta anche se insopportabilmente tutto statica. È nel terzo atto che le cose si complicano. Dopo la morte di Liù, che si getta dalla finestra, attacca il finale di Alfano, quello corto, senza Calaf però: la sua voce esce dal televisore mentre un corpo nudo e coperto di sangue esce dal quadro sulla parete: il principe di Persia, Calaf? Chissà, il mistero è nelle mani della scientifica della polizia che intanto è arrivata e arresta la ragazza, che fino a quel momento ha duettato con lo schermo televisivo. Nel finale ritorna l’enigmatica figura della padrona di casa che accede al piedestallo cilindrico che prima sale e poi si inabissa. Era dunque un ascensore interno?

Il regista Christophe Coppens, che si definisce artista multidisciplinare e designer, firma regia, scenografia e costumi, ma il gioco luci lo lascia al bravissimo Peter van Praet. Il ruolo di decoratore prevale su quello di regista che ha difficoltà a muovere le masse corali e lascia i personaggi senza personalità, gli interpreti sono abbandonati a loro stessi, l’azione è quanto mai inconcludente: quando Liù viene torturata, nessuno si muove per aiutarla, neanche Calaf che rimane al suo solito posto sulla sinistra, rivolto verso il pubblico. E quando Liù attraversa metà del palcoscenico per andare alla finestra nessuno, in una sala affollata di persone che bramano di sapere il nome di Calaf e con tanto di guardie armate, si muove di un centimetro per fermarla.

Rimpiazzando il previsto Kazushi Ono indisposto, il suo assistente Ouri Bronchti spinge un po’ troppo sul volume sonoro e fa perdere all’opera i suoi momenti magici. Quello che prevale è lo slancio teatrale e drammatico e sono sacrificate le mezze tinte. Anche il Calaf di Stefano La Colla esalta il volume, ma gli acuti sono forzati e la linea di canto perde di eleganza. Scenicamente poi è il più inespressivo e il meno convinto. Non molto diversa la situazione vocale della Turandot di Ewa Vesin, mentre come spesso avviene è Liù che vince, qui affidata al legato e al timbro soave di Venera Gimadieva che però stenta a commuovere. Inossidabile, ma scenicamente impacciato, il Timur di Michele Pertusi mentre come “Imperatore” invece di un tenore si ascolta il mezzosoprano Ning Liang. Dei tre dignitari di corte il più convincente è il baritono Léon Košavić, anche Mandarino. Il coro del teatro non è sempre preciso negli attacchi e anche qui si privilegia il forte. 

Si apprezza sempre quando un teatro cerca nuove strada, e il Théâtre Royal de la Monnaie si è sempre distinto in questo, ma questa volta il finale dell’opera incompiuta di Puccini, di per sé problematico, affidato a Christophe Coppens è risultato al di là di ogni plausibilità. Turandot a Bruxelles rimane un’opera aperta.

Turandot

     

Giacomo Puccini, Turandot

Milano, Teatro alla Scala, 4 luglio 2024

★★★☆☆

(diretta streaming LaScalaTv)

Mille lumini e un minuto di silenzio per Puccini

Il 25 aprile 1926 ci fu la prima della Turandot. Puccini era mancato da 17 mesi. Come sappiamo, Arturo Toscanini dopo la morte di Liù posava la bacchetta sul leggio e rivolto al pubblico diceva «Qui finisce l’opera, perché a questo punto il Maestro è morto».

98 anni dopo nello stesso teatro e nello stesso momento della vicenda l’orchestra tace, sullo schermo circolare appare il ritratto del compositore e coristi e figuranti sul palcoscenico si mostrano con un lumino a led in mano. Lo stesso fanno gli spettatori in sala e nei palchi, ai quali era stato distribuito dalle maschere nell’intervallo tra secondo e terzo atto. Segue un minuto di silenzio e poi riprende il finale, il solito brutto finale di Alfano.

La Scala con questa produzione omaggia Puccini nel centenario della morte affidando la direzione d’orchestra a Michele Gamba che esegue la partitura con grande senso teatrale e drammatico e ampi livelli sonori più che attenzione ai particolari strumentali. Determinante si rivela il ruolo del coro magistralmente istruito da Alberto Malazzi mentre nel cast spiccano le voci femminili di Anna Netrebko e Rosa Feola. La prima è la Turandot di riferimento oggi per le magistrali intenzioni espressive, i formidabili sonori pianissimi, e pazienza se la voce è talora un po’ intubata e l’intonazione perfettibile. La sua presenza scenica e la definizione del personaggio, qui tutt’altro che gelida e ieratica ma donna complessa e tenera figlia, sono al momento quasi uniche nel panorama operistico. Anche la Liù di Rosa Feola è tutt’altro che lacrimevole, una donna di carattere che rende la sua morte ancora più commovente. Il timbro naturalmente d’argento e i legati rendono la sua performance indimenticabile. Il Calaf di Yusif Eyvazov è una presenza costante nell’ultima opera del compositore lucchese, sia che si tratti della tradizionalissima produzione dell’Arena di Verona che della contestata versione del russo Barkhatov al San Carlo di Napoli. Pregi e difetti della sua voce sono già stati ampiamente discussi. Autorevole è il Timur di Vitalij Kowaljow e insolito l’Imperatore, bonario vecchietto che entra in scena a braccetto con Calaf, con la voce cesellata di Raúl Giménez. Vengono invece dall’estremo oriente le tre maschere, scenicamente spigliate ma non sempre con limpida dizione, di Sung-Hwan Damien Park, Chuan Wang e Jinxu Xiahou, rispettivamente Ping, Pang e Pong.

Lo spettacolo di Davide Livermore pullula come al solito di moltissime idee, alcune non portate avanti, come quella delle tre maschere che qui la maschera la portano ed è quella col volto di Calaf poiché ne rappresentano lo sdoppiamento della personalità, ma questo solo la prima volta che entrano in scena. Personaggio muto sempre presente assieme a Turandot è quello di Lo-u-Ling, l’«ava dolce e serena» dalla quale nasce l’odio della «principessa di gelo» per il genere maschile. Nella sua regia Livermore fa dare il bacio fatale all’ava stessa e solo in quel momento Turandot è libera di amare Calaf. Tante altre sono le idee registiche che si esprimono in scene e controscene sviluppate con teatrale efficacia ma con un horror vacui quasi “zeffirelliano”.

Nella sua scenografia Livermore ingloba la tecnologia e la creatività di Paolo Gep Cucco, direttore creativo della D-Wok la società che rende virtuali le scenografie per i palcoscenici operistici fondendo analogico e digitale. Assieme a Eleonora Peronetti Cucco disegna una scenografia dominata da un gigantesco impianto video capace di creare una realtà aumentata sulla scena, in questo caso una Pechino dark in 3D alla Blade Runner proiettata su un ledwall di 12×9 metri. Un altro ledwall circolare serve per proiettare le riprese di materiali in slowmotion: pioggia, polvere, petali, inchiostri, foglie, fiamme, ripresi a 1400 frame al secondo per creare effetti di sospensione e magia e nello stesso tempo dare immagine al personaggio della Luna, tante volte invocata nel libretto. Con i costumi di Mariana Fracasso e le luci di Antonio Castro le simulazioni digitali mescolano corporeità e fantasia con dosi di suggestioni cinematografiche, tutto per ricreare la favola della vicenda ambientata «in Pekino, al tempo delle favole». Indubbia è l’eccellenza tecnica dimostrata dal regista, ma troppo invadenti risultano le azioni coreografiche che interessano il Principe di Persia e gli sgherri dell’Imperatore. E poi di mimi che sdoppiano i personaggi ne abbiamo abbastanza.

Turandot

Giacomo Puccini, Turandot

Vienna, Staatsoper, 16 dicembre 2023

★★★★

(video streaming)

A Vienna Turandot è vista attraverso gli occhiali di Freud 

Turandot ha aperto la stagione del San Carlo di Napoli, ancora Turandot chiude l’anno dell’Opera di Stato viennese. Nello stesso giorno in cui la Scala inaugura con uno spettacolo che è stato definito un «concerto in costume» per l’assenza quasi totale di regia, Vienna ne mette invece in scena uno in cui la regia, affidata a un regista come Claus Guth massimo esponente del Regietheater, è tra gli elementi più caratterizzanti della produzione. 

Anche se l’ultima opera di Puccini fu presentata a Vienna appena sei mesi dopo la prima della Scala del 1926, non è così frequentemente eseguita nei teatri austriaci – Turandot è stata vista la prima volta a Salisburgo solo nel 2002 – ma ora il teatro sul Ring ha fatto le cose in grande, arruolando i due cantanti più richiesti del momento: Asmik Grigorian, debuttante nel ruolo del titolo, e Jonas Kaufmann, molto atteso dopo il periodo di problemi di salute e anche lui debuttante scenicamente nel ruolo dopo averlo cantato a Roma in forma di concerto. 

Con la scenografa Etienne Pluss, Guth concepisce una pièce da camera di un’attualità senza tempo, lontana da qualsiasi decoro pseudo-cinese: una scatola bianca che diventa anticamera e poi camera da letto di Turandot, la quale non è la principessa mistica e orgogliosa di molte produzioni, ma una donna traumatizzata che è stata vittima di un uomo e ora rivolge la sua aggressività verso l’esterno, diventando lei stessa carnefice. Guth tenta così di decifrare la fiaba dal punto di vista psicologico con un costante riferimento a Sigmund Freund e Franz Kafka, alternando realismo e simbolismo. I video della Rocafilm mostrano una Turandot gigante dietro una lastra di vetro smerigliato su cui viene spalmato sangue e Liù ha quattro sosia nel primo atto mentre Timur, cieco che cammina con un bastone, sembra invece uscito da una produzione più tradizionale. 

Nella camera da letto di Turandot, luogo di politica e di punizione dove una donna delle pulizie cancella la macchia di sangue dell’esecuzione precedente, la principessa è accovacciata nel suo letto, circondata da quattro comparse in abiti rosa e con teste di bambole bianche sovradimensionate che riflettono il suo non voler uscire dallo stato di adolescente. Il fatto che la principessa Turandot ponga tre indovinelli irrisolvibili ai pretendenti e raccolga le loro teste tiene occupata la burocrazia del regno del terrore: le teste mozzate vengono pesate, catalogate e raccolte in scatole. Ursula Kudrna veste la corte di questo regime totalitario con abiti/uniformi che ricordano la Corea del Nord ma anche figure Playmobil, con la stessa parrucca rossa, occhiali, abito verde menta. Figure che si muovono meccanicamente, ingranaggi di una macchina burocratica kafkiana mentre le grandi porte doppie rinforzate in acciaio richiamano quelle dell’appartamento di Freud nella Berggasse.

Turandot è una sposa che non adotta il passato come un mantello protettivo, ma si sente intrappolata in un momento terribile della sua vita, un momento in cui matrimonio e stupro sono una cosa sola. Asmik Grigorian dimostra ancora una volta la sua classe: quello di Turandot può essere un ruolo vocalmente pericoloso per lei ma, come per la sua Salome, l’intelligente interpretazione si avvale di un timbro dai colori luminosi in un insieme del tutto convincente. Delle sue doti di attrice non si discute, così come della sua capacità magnetica di riempire la scena.

Riesce a tenere il passo il Calaf molto umano di Jonas Kaufmann, stralunato in questo mondo grottesco e oppressivo. Più che un conquistatore spavaldo, il suo Calaf si presenta come un compagno sensibile che tende la mano a una donna in lotta con i suoi dèmoni. Kaufmann non si risparmia vocalmente, gli acuti di tradizione ci sono tutti, ma è soprattutto nelle mezze voci che si ammira la sua grande espressività.

Anche il terzo personaggio decisivo dell’opera, la serva Liù, viene reinterpretato dalla prospettiva di Guth: la schiava che si sacrifica per amore non è qui una vittima, a differenza di Turandot, ma una donna forte e fiera, mai lagnosa come talora vien interpretata Liù. Vestita di nero, è anche la controparte della bianca ed eterea Turandot e la voce sontuosa e di grande proiezione del soprano russo Kristina Mkhitarian si conforma magnificamente a questa lettura. Il prezioso cast vocale è completato dal meno decrepito del solito Altoum di Jörg Schneider, dal Timur autorevole di Dan Paul Dumitrescu, dal Mandarino di Attila Mokus e dal vivace trio di maschere formato da Martin Häßler (Ping), Norbert Ernst (Pang) e Hiroshi Amako (Pong).

La sontuosità zeffirelliana che manca nell’aspetto visivo dello spettacolo la ritroviamo a livello sonoro nella magnificenza orchestrale dei Wiener sotto la sicura guida di Marco Armiliato. che ha sostituito il previsto e indisposto Hans Welser-Möst. La bellezza e modernità della partitura è mirabilmente messa in evidenza dagli strumentisti e dal magnifico coro. Armiliato esegue il finale di Alfano originale, non quello ridotto da Toscanini e da lui utilizzato a partire dalla seconda rappresentazione. Il lungo finale chiarisce le varie fasi che il rapporto tra Turandot e Calaf deve ancora superare per raggiungere un’unione credibile e Claus Guth coglie l’occasione per unire psicologicamente i protagonisti: una volta che si sono professati il loro reciproco amore, il matrimonio viene immediatamente celebrato in modo burocraticamente ufficiale, con sedie poste a metri di distanza l’una dall’altra. Calaf è sconcertato, Turandot non ce la fa più, lo afferra e fugge con lui in un gioioso e inaspettato happy ending.

Il conservatore pubblico dello Staatsoper alla prima rappresentazione sembra abbia contestato la regia di Guth, ma questa si è rivelata una delle produzioni più interessanti degli ultimi anni, dove la profondità di lettura è pari all’eccellenza della realizzazione. D’altronde, è piaciuta anche a Enrico Stinchelli!

Lo spettacolo è stato trasmesso in diretta dalla Radio Televisione Austriaca.

Turandot

Giacomo Puccini, Turandot

Napoli, Teatro di San Carlo, 9 dicembre 2023

★★★★☆

(video streaming)

Da Pechino all’abbazia di San Galgano

Quinta inaugurazione di stagione dei maggiori enti lirici italiani: dopo Torino, Venezia, Roma e Milano, c’è quella del San Carlo di Napoli, l’unico teatro a celebrare in apertura il centenario della morte di Puccini mettendone in scena la Turandot. Diversamente dal tempio della lirica milanese di due giorni prima, il teatro napoletano sa osare, sia nella direzione musicale sia in quella registica. Dopo il Rossini di Bieito, quello che fa più scalpore in questo Puccini è infatti la regia di Vasilij Barkhatov, quarantenne moscovita attivo tra i tanti teatri di Mosca, il Mariinskij di San Pietroburgo e la Lituania, dove ha conosciuto e poi sposato la cantante Asmik Grigorian. 

Dopo aver messo in scena con successo Čajkovskij e Prokof’ev, per il suo debutto italiano Barkhatov ha scelto l’ultima opera di Puccini con una drammaturgia che si stacca decisamente dall’ambientazione (invece di Pechino l’interno dell’abbazia in rovina di San Galgano ricreata dallo scenografo Zinoviy Margolin), dall’epoca (siamo nella contemporaneità), dalla mera vicenda suggerita dal libretto. Una drammaturgia che sicuramente può sconcertare ma ha una sua logica: il livello fiabesco della favola del Gozzi (presente nei costumi di Galija Solodovnikova) è solo uno dei due livelli con cui Barkhatov racconta la storia, l’altro è l’universo reale di due innamorati che al ritorno da un funerale (quello del vecchio Timur) discutono sul rifiuto della donna (Turandot) di sposarsi (con Calaf). In auto hanno un incidente e da qui si hanno varie possibili alternative (come nel film Sliding Doors): sopravvive lei (primo atto), oppure lui (secondo atto), oppure entrambi (terzo) e nel video finale si vede che lei sembra accettare la proposta di matrimonio. Dopo tanta morte un vero happy ending.

Ricca di simbolismi (l’abbazia di San Galgano è il luogo dove si svolge il finale di Nostal’gija, il film del 1983 di Andrej Tarkovskij), kolossal e divertente – come quando Altoum entra in scena tempestato di gemme in una bara di cristallo su una barca (simbolo ricorrente della morte) condotta da due guardie in kilt e maschera di Halloween – la lettura di Barkhatov prende strade bizzarre che portano lontano dalla Cina «al tempo delle favole». All’inizio del primo e secondo atto una citazione letteraria – prima il canto III dell’Inferno di Dante, poi il tema di Orfeo ed Euridice da Le metamorfosi di Ovidio – in cui domina il tema della morte, precede un video in cui vediamo gli ultimi istanti prima dell’incidente d’auto. Sospesi tra vita e morte, Calaf e Turandot alternativamente rivivono la storia raccontata dalla fiaba a modo loro. Nella dimensione fiabesca entrano spesso, e talora “a muzzo”, scendendo dall’alto, l’auto dell’incidente a portiere spalancate e la camera di rianimazione nel cui lettino si alternano lui o lei. Che la camera di ospedale richiami quella di Puccini gravemente ammalato dove si era portato la partitura di Turandot senza terminarla è una facile supposizione, così come il suicido di Liù, qui la prima fidanzata sedotta e abbandonata da Calaf, la cui coincidenza con la vecchia vicenda della giovane cameriera Doria Manfredi, probabile amante di Puccini anche lei suicida, fa venire i brividi.

Nonostante tutto, quello che avviene in scena non disturba la musica e la direzione di Dan Ettinger si fa ammirare per la tensione, la lucidità, la modernità esaltata di una partitura che guarda costantemente al futuro nelle scelte musicali che rimandano ad atmosfere ben al di là dell’epoca: quasi stravinskiani sono certi secchi attacchi orchestrali o passaggi dalla dubbia tonalità. Mirabilmente sottolineato è il cambiamento del colore strumentale quando entra in scena Liù nell’ultimo atto: la sua presenza riesce a cambiare il mondo verso la redenzione d’amore, anche se qui è evidente che Turandot aveva finto di non amare Calaf, facendo di tutto per suggerirgli la risposta finale nella scena degli enigmi. 

La proposta del regista russo non mette in imbarazzo gli interpreti, anzi nelle interviste si dichiarano a loro agio. Sondra Radvanovsky dichiara che la produzione «è moderna ma a suo modo tradizionale»… Sovente frequentata, la sua Turandot è sicura, potente, espressiva, a tre dimensioni, una vera donna. Peccato per la dizione: le sue prime parole sono infatti «In questa retta, or son mil’anni e mile». Anche lui habitué della parte, Yusif Eyvazov è un Calaf romantico e particolarmente convincente come personaggio, non fa solo sfoggio di acuti e il suo «Nessun dorma» non scatena un meritato applauso a scena aperta solo perché Ettinger prosegue con decisione. Prima però Eyvazov si era preso il suo momento tenendo a lungo la corona sulla prima o di «e all’alba morirò». Timur di lusso è Alexander Tsymbalyuk, re usurpato di grande nobiltà, ma come avviene spesso gli applausi più calorosi del pubblico vanno a Liù, qui una Rosa Feola di grande sensibilità e linea vocale ineccepibile. Meno soddisfacente il terzetto delle maschere di Ping (Roberto de Candia), Pang (Gregory Bonfatti) e Pong (Francesco Pittari). Glorioso Calaf degli anni passati, l’ottantenne Nicola Martinucci dà voce al vecchio imperatore Altoum. Cori impegnati con buoni risultati, sia quello di voci bianche diretto da Stefania Rinaldi, che quello diretto da Piero Monti.

Pubblico unanime per gli applausi diretti agli interpreti musicali, diviso per il regista e i collaboratori. Come sempre. Il video dello spettacolo è disponibile su RaiPlay e su  youtube. Una bella differenza tra la presentazione televisiva offerta dai soliti Carlucci e Vespa a Milano, meno dilettantesca e “gaffosa” questa di Stefano Catucci ed Elena Biggioggero e senza le interviste ai soliti noti, anche se sarei stato curioso di sentire l’opinione sullo spettacolo del presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca presente nel palco reale…

Turandot

 

Giacomo Puccini, Turandot

Salzburg, Großes Festspielhaus, agosto 2002

★★★☆☆

(registrazione video)

Gli spettatori del Festival di Salisburgo incontrano per la prima volta Turandot

Puccini non è proprio tra i compositori più frequentati dal più blasonato festival del mondo di musica classica e lirica: rinato alla fine della Prima Guerra Mondiale, solo nel 1989 Karajan porterà a Salisburgo la sua Tosca, e ci vorranno altri tredici anni per questa Turandot. Il punto di forza dello spettacolo sta nella messa in scena di David Pountney poiché né la concertazione di Valerij Gergiev né gli interpreti sono all’altezza del loro compito.

Alla testa dei Wiener Philharmoniker Gergiev non sembra voglia dare il meglio di sé: la sua direzione è dura e impostata solo su fortissimi e pianissimi e con agogiche estreme. Uno dei pochi meriti di Gergiev – se è davvero suo e non del regista – è l’aver scelto il finale di Berio, rappresentato pochi mesi prima ad Amsterdam da Chailly e da Lehnhoff, che riproporranno lo spettacolo, con una diversa messa in scena, alla Scala. Dall’ascolto però non sembra che poi sia tanto convinto della scelta.

Turandot è Gabriele Schnaut dai suoni duri, frasi slegate, acuti stremati e una “recitazione” da cinema muto. Di recitazione non si parla certo per Johan Botha, che si sposta da una sedia all’altra ed esibisce una voce sforzata nel registro alto e fioca in quello centrale. Christian Gallardo-Domâs sarebbe una convincente Liù se non fosse per il tono un po’ lamentoso e il vibrato eccessivo. Sul Timur di Paata Burchuladze meglio sorvolare mentre neanche i tre ministri si salvano dal punto di vista vocale. Come Altoum si ascolta un glorioso Robert Tear, per niente efficace il Mandarino di Robert Bork. Per di più la dizione è al limite dell’accettabile e non conta che siano tutti stranieri: ci sono dei cantanti non italiani che possono darci lezione di pronuncia della nostra lingua.

Peccato perché lo spettacolo offerto visivamente da David Pountney è notevole: senza ricorrere a una Cina di maniera, il regista inglese si ispira al film Metropolis di Fritz Lang per elaborare il timore che negli anni ’20 i progressi tecnici sarebbero sfuggiti dal controllo e avrebbero portato all’inghiottimento e sfruttamento dell’individuo in un’enorme massa grigia. Le spettacolari scenografie di Johan Engels trasformano gradualmente uno «stato disumano capace solo di uccidere» in uno stato di umanità. Meccanismi in movimento e ruote dentato coprono l’intera enorme larghezza del palcoscenico del Großes Festspielhaus qui popolato da umani robotizzati, chi con un braccio chi con una gamba trasformata in arto meccanico – sega, o chiave inglese, forbici… In proscenio due grandi robot col viso di maschera cinese, e le cui gambe e braccia sono mosse con pertiche, rappresentano il Mandarino e l’Imperatore. Spettacolare il secondo atto: una moltitudine di statue rosse – il riferimento all’esercito di terracotta di Xian è evidente – con dietro ognuna un corista assiste alla scena degli enigmi con Turandot celata con un velo di nove metri all’interno di una gigantesca testa dorata. Quando Calaf risolve il terzo indovinello, la testa si schianta e la irraggiungibile principessa scende a livello del palcoscenico assumendo un aspetto fragile. Alla morte di Liù si spoglierà della sua veste e resterà con una veste bianca uguale a quella della schiava che si è uccisa mettendo il pugnale nelle mani di Turandot.

Con la morte di Liù cambia tutto: la musica, innanzitutto, con le note di Berio, ma anche perché tutti perdono gli arti meccanici assumendo un aspetto più umano e si abbracciano. La regia di Pountney è piena di momenti felici, come quando Turandot e Calaf lavano il cadavere di Liù, riempiendo così quei lunghi minuti dell’interludio strumentale di Berio. Forse sarebbe uno spettacolo da riproporre, non sembra per niente invecchiato nel tempo.

Turandot

   

Giacomo Puccini, Turandot

Ginevra, Grand Théâtre, 22 giugno 2022

★★★☆☆

(video streaming)

Turandot, femmina castratrice

Ho scoperto (santa ingenuità!) che il finale di Turandot è scelto dal regista, non dal maestro concertatore, ma questa volta sono d’accordo con Daniel Kramer: «Il finale di Alfano è Disney, saccarina, non mi interessa. Non credo che Turandot si sciolga in cinque secondi e “vissero felici e contenti” in un regno macchiato di sangue». Ecco quindi che il regista americano opta per il finale di Berio, molto più adatto alla sua lettura in un mondo distopico con il rituale degli enigmi che diventa un gioco alla Hunger Game in cui uomini cercano di risolvere tre indovinelli e se vincono hanno la principessa, il regno, tutto quanto, me se perdono… beh lo sappiamo, anche se qui non è la testa che viene mozzata, bensì gli attributi virili, ai quali hanno già rinunciato i tre ministri e il mandarino, qui eunuchi, ma non gli energumeni a torso nudo che infestano questa società in cui il popolo è in alto dietro un velino bianco e solo alla fine viene liberato, dopo che i tre si sono accoltellati vicendevolmente e anche gli uomini cattivi sono stati fatti fuori. Per Calaf i tre enigmi formano una specie di viaggio personale dove incoraggiamenti e ostacoli si alternano per fargli conquistare la principessa: lui non è ancora pronto per lei, esattamente come Turandot non è pronta per Calaf.

La regia di Kramer è molto complessa e attenta ai risvolti psicologici e ai rapporti interpersonali: molto tesi quelli tra Calaf e il padre Timur, il quale alla fine lo addita come colpevole della morte di Liù e si trafigge lui stesso, o tra Turandot e Calaf dopo la vittoria di quest’utimo, con lui che guarda con compassione lo smarrimento della donna. Con il finale di Berio diventa drammaturgicamente più accettabile la conversione della principessa di gelo e il loro vivere in pace dopo tanto spargimento di sangue.

La scenografia del Team Lab – un collettivo artistico internazionale, un gruppo interdisciplinare di vari specialisti (artisti, programmatori, ingegneri, animatori di computer grafica, matematici e architetti) la cui pratica collaborativa cerca di navigare alla confluenza di arte, scienza, tecnologia e mondo naturale – restituisce a Turandot quella spettacolarità spesso predominante nelle produzioni dell’ultima opera di Puccini. Qui è coniugata tecnologicamente con raggi laser, luci colorate e proiezioni psichideliche di onde, nuvole e fiori ipercolorati secondo il dominante gusto giapponese. Sulla solita piattaforma rotante una struttura triangolare divisa in scomparti serve vari ambienti mentre in alto un geode cavo dorato serve all’apparizione di Turandot: ad ogni risposta esatta si abbassa e alla fine la donna è costretta a scendere e spogliarsi del manto dorato, uno dei tanti fantasiosi costumi disegnati da Kimie Nakano – tra cui quello di giada di Calaf.

La magnificenza visuale ha un corrispettivi sonoro nella concertazione di Antonino Fogliani alla guida della Orchestre de la Suisse Romande, che esalta la magnificenza strumentale dell’opera con tempi sostenuti e gusto dei particolari. Fogliani riesce a rendere meno evidente la cesura stilistica fra la musica di Puccini e il completamento di Berio: qui le lunghe frasi liriche lasciano posto a un’orchestrazione più frammentata che lascia emergere citazioni tematiche da un pulviscolo sonoro di grande modernità mentre il pathos è ora affidato da Berio a lunghe pagine strumentali. Dopo un avvio un po’ incerto il coro, formato dall’unione di quello del teatro e della Maîtrise du Conservatoire populaire, raggiunge ottimi livelli, aiutato dal fatto di cantare compatto e praticamente fuori scena. Meno esaltante il cast dei solisti con Ingela Brimberg autorevole protagonista titolare ma con acuti talora sforzati e non a suo agio nei salti di registro dei suoi primi interventi, un po’ meglio nel finale. Il Calaf di Teodor Ilincăi è il ruolo meno convincente, nonostante la sicura presenza scenica del tenore rumeno che evidenzia un timbro un po’ ingolato, una certa mancanza di colori risolti tutti in forte e mezzo-forte e incertezze di intonazione. Anche la Liù di Francesca Dotto difetta nei piani, ma il temperamento del soprano compensa largamente nel definire il tono lirico del personaggio. I tre ministri hanno in Simone Del Savio (Ping), Sam Furness (Pang) e Julien Henric (Pong) tre interpreti efficaci, soprattutto vocalmente Del Savio, divertenti e divertiti visto quello che richiede loro il regista. A loro modo importanti anche le tre parti minori di Altoum, a cui dà personalità la figura di Chris Merritt, del Timur di Liang Li e del Mandarino a cui Michael Mofidian presta inusuale rilievo scenico e inusuale potenza vocale.

Turandot

 

Foto © Ennevi

Puccini, Turandot

Vérone, Arena, 7 août 2022

 Qui la versione italiana

À Vérone, la Turandot de notre imaginaire collectif

La première saison d’opéra aux arènes de Vérone eut lieu en 1856 – entre autres, deux œuvres de Gaetano Donizetti y ont été présentées : Le convenienze teatraliet I pazzi per progetto – mais l’amphithéâtre romain continua d’accueillir des spectacles de cirque, de pyrotechnie, des fêtes, des manèges militaires… Ce n’est qu’en 1913 que le monument véronais devint le plus grand opéra en plein air du monde, avec une mise en scène d’Aïda de Giuseppe Verdi, un événement qui marqua également la naissance d’un nouveau style scénographique dans lequel les toiles peintes typiques des théâtres traditionnels furent abandonnées au profit d’éléments tridimensionnels. Ce même type de mise en scène est toujours d’actualité…

la suite sur premiereloge-opera.com

Turandot

 

Foto © Ennevi

Puccini, Turandot

Verona, Arena, 7 agosto 2022

★★★★☆

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In scena all’Arena di Verona la Turandot del nostro immaginario collettivo

La prima stagione lirica all’Arena di Verona ebbe luogo nel 1856 – vi furono eseguiti tra gli altri due lavori di Gaetano Donizetti: Le convenienze teatrali I pazzi per progetto – ma nell’anfiteatro romano si continuarono a tenere spettacoli circensi, pirotecnici, feste, caroselli militari… Solo nel 1913 il monumento veronese divenne in esclusiva il più grande teatro lirico all’aperto del mondo con l’allestimento dell’Aida di Giuseppe Verdi, avvenimento che segnò anche la nascita di un nuovo stile scenografico in cui si abbandonarono le scene dipinte tipiche dei teatri tradizionali per adottare invece elementi tridimensionali. Quello stesso allestimento è ancora messo in scena oggi.

Nel 1928 nell’anfiteatro risuonarono per la prima volta le note di Turandot, l’opera che Giacomo Puccini aveva lasciato incompiuta alla sua morte quattro anni prima. Da allora è il quarto titolo più rappresentato all’Arena, con 150 repliche. Dopo aver messo in scena Turandot alla Scala e al MET, nel 2010 Franco Zeffirelli allestiva qui una nuova produzione creata per l’unicità del palcoscenico veronese. Ripresa varie volte, è la stessa in scena ancora oggi. Dire che il regista sia di casa qui è un’ovvietà se si pensa che quest’anno sono quattro su cinque le sue produzioni: un festival zeffirelliano all’interno del Festival.

«Allestimento fiabesco, Turandot da favola, storica scenografia», così viene presentata la sua messa in scena, che utilizza ogni centimetro dell’amplissimo palcoscenico riempiendolo secondo un ossessivo horror vacui con un pullulare di figure: il «popolo di Pekino» fustigato dalle guardie, i venditori ambulanti, i mendicanti, i risciò, i draghi, i portatori di lanterne, i portatori di alabarde, quelli di stendardi, gli acrobati, le fanciulle con le maniche svolazzanti… L’indubbia abilità del regista a muovere queste immani folle rimane evidente anche in questa ennesima ripresa a distanza di tre anni dalla sua scomparsa. Della sua lettura kitsch e ipertrofica c’è poco da dire: denuncia tutti gli anni che ha, ma piace ai tedeschi stanchi del loro Regietheater, piace agli americani che ritrovano qui Las Vegas e Disneyland, piace a quelli che vengono per la prima volta e non si vogliono perdere l’effetto delle candeline accese sulle immense gradinate. Piace insomma a chi paga il biglietto (e sono quasi trecento euro i posti migliori) e non riesce a trattenere l’applauso quando Calaf bacia la principessa di ghiaccio o quando i trenta e più metri di schermo con su dipinta una folla di draghi cinesi si aprono per mostrare la città proibita con le sue pagode e gli interni dorati. I costumi di Emi Wada e le luci di Paolo Mazzon danno il loro contributo alla magia visiva dello spettacolo, mentre nel solco della consolante prevedibilità sono i movimenti coreografici di Maria Grazia Garofoli.

Ma all’Arena si viene anche per le grandi voci, che qui non mancano mai di fare una comparsa. Dopo le polemiche per la mancata denuncia dell’aggressione all’Ucraina prima e per la questione del black face dopo, Anna Netrebko si pulisce il volto con cui aveva interpretato Aida a luglio e indossa i panni della figlia dell’imperatore cinese replicando il suo trionfo personale. Ci sono poche altre interpreti oggi che possano stare al suo livello in questo ruolo in cui il soprano russo dispiega non solo una proiezione vocale tale da permetterle di riempire l’anfiteatro con i suoi pianissimi, ma soprattutto di interpretare un personaggio che non è soltanto una sanguinaria e gelida vendicatrice di fatti accaduti millenni primi, ma una figura molto umana che porta su di sé l’offesa fatta a una donna come lei. E nel suo caso diventa un po’ più accettabile la resa al principe straniero e il subitaneo cambiamento richiesto dal controverso finale musicato da Franco Alfano, qui drammaturgicamente meno incongruo del solito anche se musicalmente sempre brutto nonostante la bella direzione di Marco Armiliato. L’acustica del teatro non permette certo di apprezzare le eventuali raffinatezze strumentali, ma il direttore musicale del Festival non rinuncia a evidenziare le preziosità di una partitura che guarda al suo tempo – sono gli anni di Stravinskij, Berg, Strauss, Janáček, Ravel… – e al futuro. Giusti sono i tempi scelti e l’equilibrio sonoro con le voci in scena.

Se c’è Netrebko c’è anche Yusif Eyvazov, un Calaf che non potendo ammaliare con il suo timbro di voce fa ricorso a una eccellente tecnica vocale, una perfetta intonazione, a uno squillo poderoso e soprattutto a una convincente interpretazione: non sono solo acuti sparati i suoi, c’è una linea di canto variata e intenzioni che gli valgono, un po’ generosamente da parte del pubblico, il prevedibile bis del «Nessun dorma». Lirica al massimo la Liù di Maria Teresa Leva mentre quasi caricaturale è il Timur di Ferruccio Furlanetto. Efficace come sempre l’Altoum di Carlo Bosi e squillante il Mandarino di Yongjun Park. Di lusso il terzetto dei ministri formato da Gëzim Myshketa (Ping), Matteo Mezzaro (Pong) e Riccardo Rados (Pang).

Quest’anno si è arrivati alla 99esima stagione. L’anno prossimo si celebreranno i cent’anni dell’Arena di Verona Opera Festival ma il pubblico non vedrà deluse le sue aspettative: in cartellone ci saranno le opere di sempre – Aida, Carmen, Barbiere, Rigoletto, Nabucco, Traviata, Butterfly –, i balletti e i recital dei cantanti più amati.

Turandot

Giacomo PucciniTurandot

Berlin, Staatsoper Unter den Linden, 8 juillet 2022

★★★☆☆

 Qui la versione italiana

À Berlin une Turandot-marionette

En 1972, Zubin Mehta a fait entrer un enregistrement historique de Turandot dans l’histoire de l’interprétation musicale. Le directeur indien est revenu plusieurs fois sur le dernier opéra de Puccini, comme dans l’édition située dans la Cité interdite mise en scène par Zhang Ymou (1998), puis en 2007 avec un autre metteur en scène chinois, Chen Kaige. À 86 ans, au Staatsoper de Berlin, il descend une fois de plus dans la fosse d’orchestre pour sa lecture du chef-d’œuvre inachevé et fait comprendre à quel point Turandot est une somme de la musique de son époque – Strauss, Stravinsky, Prokof’ev, Ravel… – mais avec le temps l’impact sonore, déjà remarquable à l’époque, dans sa direction a pris une opulence hollywoodienne…

la suite sur premiereloge-opera.com

Turandot

Giacomo PucciniTurandot

Berlino, Staatsoper Unter den Linden, 8 luglio 2022

★★★☆☆

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Turandot marionetta

Zubin Mehta nel 1972 consegnava alla storia dell’interpretazione musicale un’incisione di Turandot che sarebbe stata di riferimento. Il direttore indiano è ritornato poi più volte all’ultima opera di Puccini, come nell’edizione ambientata nella Città Proibita con la regia di Zhang Ymou (1998) e ancora nel 2007 con un altro regista cinese, Chen Kaige. A 86 anni alla Staatsoper di Berlino scende ancora una volta nella buca d’orchestra per la sua lettura del capolavoro incompiuto e fa capire come Turandot sia una summa della musica del suo tempo – Strauss, Stravinskij, Prokof’ev, Ravel… – ma col tempo l’impatto sonoro, già notevole allora, nella sua concertazione ha assunto una hollywoodiana opulenza, la ricerca di effetti coloristici è portata allo spasimo, lo smalto sonoro è abbagliante, ma manca la trasparenza di certe pagine lunari e rarefatte. Turandot è l’unica opera ad avere ben quattro finali musicalmente diversi: interrompere l’esecuzione dopo l’ultima nota scritta da Puccini, utilizzare il moderno finale di Berio, o i due di Alfano, di cui uno particolarmente magniloquente. Mehta sceglie proprio questo.

L’orchestra splende ma copre le voci e costringe il coro a livelli barbarici, una gara di decibel che però il pubblico berlinese dimostra di apprezzare assieme a quelli profusamente elargiti dai due protagonisti principali. Elena Pankratova, che sostituisce l’inizialmente prevista Anna Netrebko non più invitata dal teatro per le note ragioni – sarebbe stato curioso però avere la cantante russa in un’opera in cui uno stato autoritario opprime il suo popolo con la violenza e l’arbitrio e il boia si chiama Putin-Pao… – è una macchina per acuti taglienti come lame e dall’espressione gelida. Il tenore turco Murat Karahan (che si alterna nelle recite con Yusif Eyvazov) si inceppa con una dizione quasi incomprensibile fatta solo di consonanti e un suono offuscato nel registro medio. Il suo, come spesso succede, è un “Calaf degli acuti”, decisi e sicuri, ma in mezzo non c’è molto. Come da programma però il suo «Nessun dorma» riceve applausi a scena aperta. Non succede invece per Liù, non il ruolo più adatto alla voce di Ol’ga Peretjat’ko poiché non basta avere la linea di canto e le note giuste, Liù deve anche saper emozionare e il timbro metallico e la fredda espressione del soprano russo non lo fanno. Il vecchio Timur trova in René Pape un interprete efficace e vocalmente ancora autorevole, quello che non si può dire invece per l’Altoum di Siegfried Jerusalem, la cui età si avvicina a quella dell’imperatore cinese, ma è sembrato inopportuno marcare la insufficiente prestazione con segni di disapprovazione come ha fatto qualcuno. Dal gruppo dei tre ministri emerge con nettezza il baritono Gyula Orendt, Ping di lusso per il bel timbro e la vivacità espressiva.

Come lo Hoffmann dei Contes di Offenbach, anche Calaf qui si innamora di una bambola, o meglio di una marionetta che ha le fattezze della principessa Turandot. Non molto diversamente da quanto aveva fatto sul palcoscenico sull’acqua di Bregenz col Rigoletto, Philipp Stölz e la scenografa Franziska Harm costruiscono una enorme figura, manovrata con fili, che ingombra quasi tutta la scena, una figura che viene fatta segno di temuta venerazione da parte del popolo: non siamo nella Cina millenaria della favola di Gozzi, ma in una dittatura orientale dove tutti portano un’uniforme grigia.

Nell’opera Turandot canta solo a metà del secondo atto, fino a quel momento in scena c’è solo la gigantessa sotto la cui gonna si apre la camera delle torture. La mega marionetta ad ogni risposta esatta incomincia a decomporsi: prima perde la parrucca e poi si scopre chè è una maschera quella che copre il teschio ghignante di questa specie di Moloch, un feticcio religioso, una divinità a cui si fanno sacrifici umani. In realtà uno strumento di dominio e di oppressione del popolo. La marionetta/Turandot si trasforma poi in una terrificante aracnide a guardia di una montagna di teschi mentre la vera Turandot è prigioniera dentro le sbarre della crinolina della gonna e anche lei perde la parrucca presentando delle fattezze di cui è difficile pensare di innamorarsi – infatti Calaf continua a essere perdutamente infatuato dal viso imbiancato e dalla bocca a cuore della maschera, tanto che la principessa, non si sa se per la perdita dell’onore o per la ferita all’orgoglio di essere preferita a una pupazza, si avvelena e muore, questa volta tra le braccia del principe ignoto mosso infine a pietà.

L’aspetto surreale e simbolistico della storia è scelto da Stölzl come chiave di lettura di questa particolare opera pucciniana. Regista principalmente cinematografico, è alla dimensione dell’immagine che consegna questa storia e lo spettacolo infatti funziona molto bene dal punto di visto visivo, ma neanche lui riesce a dare un significato convincente e credibile alle figure in scena: «Calaf cade in una sorta di ossessione per lei, da lontano, come uno stalker che segue una star. Perché? Non lo sappiamo. È come un’ipnosi o una maledizione. Si potrebbe arrivare a dire che egli proietta nell’immagine della principessa una sorta di desiderio di morte. Non c’è altro modo per spiegare il fatto che stia affrontando questa prova, alla quale nessuno prima di lui è mai sopravvissuto» scrive il regista nell’intervista pubblicata sul programma di sala.

Anche noi pubblico restiamo senza una risposta.