Mese: novembre 2015

TEATRO MARIO DEL MONACO

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Teatro Mario del Monaco

Treviso (1869)

650 posti

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Il primo teatro trevigiano fu aperto nel 1692 per iniziativa del conte Fiorino Onigo. Si trattava di un tipico teatro all’italiana, con più ordini di palchi, e sorgeva dove si trova l’edificio attuale. Propose per diversi anni un buon repertorio, apprezzato dai nobili veneziani che villeggiavano in città e nelle campagne circostanti. Tuttavia, a partire dal 1713, cominciò a decadere fino ad essere abbandonato del tutto. Qualche tempo più tardi, grazie all’interessamento del conte Guglielmo Onigo, l’edificio venne praticamente riedificato su disegno di Antonio Galli da Bibbiena, già progettista del Teatro comunale di Bologna; la facciata e l’atrio furono invece ideati da Giovanni Miazzi. Nel 1766 fu nuovamente inaugurato con la prima del Demoofonte di Pietro Guglielmi su libretto del Metastasio. L’edificio appartenne ancora agli Onigo sino al 1846, anno in cui fu ceduto alla Società dei Palchettisti (e fu per questo noto come Teatro Sociale).

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Dopo vicende alterne, il vecchio teatro Onigo venne distrutto da un incendio il 2 ottobre 1868. Pare che a causare l’incendio non furono le lumiere a petrolio, ma il custode del teatro, tale Triaca, che si serviva del palcoscenico per la sua attività di pirotecnico dilettante. La sala attuale fu progettata dall’architetto Andrea Scala, autore, tra gli altri, dei teatri di Udine, Trieste e Pisa. Le decorazioni pittoriche si devono al triestino Stella ed a Federico Andreotti, quelle in stucco allo scultore Fausto Asteo. Le balaustre dei palchi e il boccascena sono decorati con tessuti dal disegno rococò trapunto di perle dorate di Murano. La facciata è quella dell’edificio originale e reca ancora nella trabeazione la firma del Miazzi. L’inaugurazione della nuova sala del Teatro di Società ebbe luogo nell’ottobre 1869 con il Faust di Charles Gounod.

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Dal 1931 unico proprietario è il comune di Treviso. Nel 1945, pressato dalla disperata situazione post-bellica, l’amministrazione comunale decise di alienare il Teatro – ormai noto come Comunale – a privati. Dopo cinque anni il Tribunale di Treviso dichiarò inefficace la vendita e il Comune ritornò definitivamente proprietario dell’immobile. Al Comunale, riconosciuto per legge tra i ventiquattro teatri italiani “di tradizione”, fa capo, a partire dal 1969, il Concorso Internazionale “Toti Dal Monte”. Dal 2011 il teatro è intitolato al tenore Mario del Monaco.

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Idomeneo

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Wolfgang Amadeus Mozart, Idomeneo

★★★★★

Vienna, Theater an der Wien, 13 novembre 2013

(video streaming)

La terra devastata di Idomeneo

Sono sempre più convinto che Damiano Michieletto abbia bisogno di un testo ad alta drammaticità per esprimersi al meglio. Gli allestimenti più riusciti del regista veneziano sono quelli in cui il dramma è preponderante sulla commedia, il pathos sul logos, il tragico sul leggero: i suoi Sigismondo, Guillaume Tell e Un ballo in maschera mi sembrano più riusciti del suo ultimo Flauto magico, de La gazza ladra o dell’Elisir d’amore, in cui il magico, il lirico o l’umoristico prevalgono sull’idea drammatica. L’Idomeneo del Theater an der Wien, opera certo non rassicurante nella produzione mozartiana e sua prima grande “opera seria”, appartiene al primo caso ed è uno degli allestimenti di Michieletto più convincenti.

Come nel Guillaume Tell anche qui il rapporto padre-figlio ha una rilevanza totale, fin dal video che accompagna l’ouverture dell’opera. Lo sciagurato voto fatto da Idomeneo al dio del mare, di sacrificargli cioè la prima persona che incontrerà sulla spiaggia, è il movente della tragedia che coinvolge padre e figlio in questo desolato dopoguerra. E Idamante non solo sostituirà il padre sul trono, ma diventerà padre lui stesso del figlio che Ilia porta in grembo e di cui vedremo a un certo punto anche l’ecografia.

La guerra è finita, ma a caro prezzo: «una terra devastata dagli elementi, acqua e vento, cataste di detriti, un popolo atterrito e lacero. […] Creta è un rettangolo di terra martoriato, cosparso di scarponi e via via bruttato di detriti e oggetti, costantemente senza pace, via via che l’uragano infuria sull’isola a causa dell’atroce giuramento del re. […] Con sortilegi da ipnotizzatore Michieletto piega tutti alle esigenze della sua lettura drammatica, ottenendo un risultato di forte impatto emozionale, ma mai sganciato dalla musica e dalla lettera del libretto. Formidabile sotto questo aspetto la collaborazione creata con René Jacobs, che ha fatto ormai della Freiburger Barockorchester uno strumento raffinato e mobilissimo, grazie al quale concerta e dirige con una ricchezza di colori e dettagli di stupefacente ricchezza, senza però perdere di vista la percepibile unità drammatica che concatena ogni scena, atto per atto». (Andrea Penna)

René Jacobs adotta la versione di Monaco del 1786, ma elimina l’aria di Arbace del secondo atto e la marcia del terzo. Il taglio poi di alcuni recitativi sembra dettato dalle scelte drammaturgiche di questa scura e opprimente messa in scena. Sarebbero stati piuttosto incongrui i versi in cui Ilia canta di «aure amorose, piante fiorite e fiori vaghi» in quella specie di discarica in cui la distesa di sabbia del fidato scenografo Paolo Fantin anticipa il futuro fango di Divine parole. Tutte le sfumature del grigio sono presenti in scena, ma contrappuntate dal rosso del sangue e dagli abiti di Elettra. Alti tendaggi si gonfiano con i venti delle tempeste di cui è costellato questo lavoro della prima maturità mozartiana. La musica del balletto finale accompagna la sepoltura di Idomeneo e le doglie di Ilia mentre il suo parto tra gli stracci e le macerie risveglia gli echi tragici degli eventi della nostra sventurata contemporaneità, ma anche riafferma il ciclo della vita.

L’accuratissima regia attoriale di Michieletto trova efficaci soggetti nei magnifici interpreti, tutti, nessuno escluso. Richard Croft, che ha già cantato nel ruolo sotto le bacchette di Marc Minkowski e di Jérémie Rhorer, porta in Idomeneo tutta la sensibilità e la vulnerabilità del personaggio con la sua voce non potente ma piena di musicalità e precisa nelle agilità. Gaëlle Arquez è del tutto credibile nelle fattezze adolescenziali di Idamante e vocalmente stupisce per la tenerezza e intensità dell’espressione. Sophie Karthäuser è perfettamente a suo agio sia nelle agilità che nei passaggi più drammatici della parte di Ilia. Elettra, fashion victim che arranca nella sabbia con le scarpe a stiletto, mean girl di Creta e personaggio “esagerato”, trova in Marlis Petersen l’interprete ideale per doti attoriali e vocali. Julien Behr dà piena efficacia al personaggio di Arbace mentre Mirko Guadagnini è un autorevole ed elegante gran sacerdote.

Per questo suo spettacolo al Theater an der Wien Damiano Michieletto è stato premiato a Vienna quale “Miglior Regista” della stagione.

VOLKSOPER

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Volksoper

Vienna (1898)

1575 posti

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La Volksoper è uno dei maggiori teatri d’opera di Vienna. Venne costruito nel 1898 come Kaiser-Jubiläums-Stadttheater, che all’inizio rappresentava soltanto opere di prosa. Nel 1904 dopo l’inaugurazione con Der Freischütz diretta da Alexander von Zemlinsky, la programmazione venne arricchita anche con rappresentazioni di opere ed operette. Le prime rappresentazioni viennesi di Tosca e di Salome avvennero alla Volksoper nel 1907 e nel 1910 rispettivamente. Cantanti famosi come Maria Jeritza e Richard Tauber calcarono il suo palcoscenico; il direttore Zemlinsky fu il primo direttore stabile nel 1906.

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Negli anni della prima guerra mondiale la Volksoper mantenne una posizione di prestigio come secondo teatro d’opera di Vienna, ma dopo il 1929 focalizzò il suo repertorio quasi esclusivamente sull’operetta. Dopo la seconda guerra mondiale divenne una sala alternativa alla devastata Wiener Staatsoper riaprendo il 1º maggio 1945 con Le nozze di Figaro diretta da Josef Krips. Nel 1955, dopo la ricostruzione della Staatsoper, tornò al suo antico ruolo di rappresentazione di opere, operette e musical.

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Die Zauberflöte

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Wolfgang Amadeus Mozart, Die Zauberflöte (Il flauto magico)

★★★☆☆

Venezia, Teatro La Fenice, 30 ottobre 2015

(live streaming)

Il Flauto poco magico di Michieletto

Come nel Rinaldo messo in scena da Carsen (1) anche qui siamo in un’aula scolastica, questa però è di una scuola pubblica italiana: lo si capisce dai muri scrostati, dal bidello pieno di acciacchi, dalle suore (le tre dame). E dal soffitto sono probabilmente caduti dei calcinacci… Medesima è l’idea della grande lavagna nera, schermo per la riproduzione dell’ingenua videografica di Carmen Zimmermann e Roland Horvath, ma anche un “sipario” che scorre di lato per svelare nuovi ambienti.

Nella lettura di Michieletto Il flauto magico diventa la storia iniziatica di due giovani, scolari in pantaloncini corti, che non vogliono diventare adulti: Sarastro a un certo punto vuole strappare a Pamina l’orsacchiotto di peluche, mentre è la madre quella che la vuole mantenere in una condizione infantile. Nelle parole del regista: «L’idea è quella di una grande allegoria delle forze che si contendono la formazione dell’individuo, senza per questo appiattire gli elementi giocosi e fantastici pur presenti nella vicenda. Con la Rivoluzione Francese, scoppiata due anni prima che Mozart componesse l’opera, si afferma una concezione laica della scuola, e così ho pensato di ambientare Il flauto magico all’interno di una scuola» in cui Tamino/scolaro inizialmente rifiuta il sapere e cerca di cancellare le formule che riempiono la lavagna, le quali diventano il serpente che lo minaccia. Pamina è una bambina ancora succuba della madre possessiva, Papageno è l’istinto, l’homo naturalis che comprende il linguaggio degli uccelli. L’educazione religiosa è quella della madre (ecco spiegata la presenza delle tre dame/suore), quella laica invece di Sarastro, «un vecchio saggio laico che comunica la sua conoscenza senza imposizioni o dogmi»  e che alla fine salva i libri dal rogo cui erano stati destinati dalla Regina e dalle tre dame – sicuramente contenevano testi “gender”…

Apprezzati gli intenti del regista, qualche perplessità la suscita l’allestimento. Alla fine della scena ottava Tamino e Papageno escono dall’aula passando per l’armadio, ma non entrano… nel regno di Narnia, ritornano ancora nella stessa aula! Ecco, forse questo è il punto debole dello spettacolo: la claustrofobia e monotonia della scena unica appena ravvivata dalla videografica sulla lavagna e dall’apertura su un bosco. Viene così a mancare la dimensione magica enunciata dal titolo a favore di una dimensione realisticamente umana. Il fatto è che la dimensione magica non è cosa da poco in questa Zauberoper, l’ultimo elemento rimasto dopo aver privato il lavoro di Mozart degli orpelli massonici e di quelli egizi, messi generalmente in discussione nei moderni allestimenti. Ma qui gli appelli a «Isis und Osiris» suonano particolarmente incongrui.

Certo, l’allestimento di Damiano Michieletto e Paolo Fantin ha ovviamente una sua coerenza drammaturgica: le pirotecniche agilità della Regina della Notte sono gli strilli di una madre sull’orlo di una crisi di nervi che non trova la medicina per attenuare il dolore della perdita della figlia; Sarastro è il preside severo ma buono della scuola; Pamina è vittima del bullismo di Monostatos, il quale sarà a sua volta vittima dei suoi compagni ammaliati dal carillon di Papageno; Papagena è un’anziana bidella (qui non c’è il solito mascheramento: Papagena giovane è un’altra persona); Papageno prima di impiccarsi suona uno di quei terribili flauti di plastica su cui nella maggior parte dei casi si realizza l’ora di educazione musicale nella nostra scuola; i tre genietti son piccoli minatori un po’ dispettosi con la pila sul casco per illuminare la via nelle tenebre ai giovani. E teatralmente lo spettacolo tiene bene.

Antonello Manacorda dirige con tempi stringati, ma senza affanno, dando una lettura brillante e leggera della partitura, senza sopraffare sui cantanti. I recitativi sono praticamente decimati, decisione quasi ineluttabile quando si utilizza la lingua originale in un paese non tedesco. Il che diminuisce proficuamente la durata della rappresentazione, 2h 20′ invece delle 2h 50′ di Riccardo Muti o 2h 40′ di Colin Davis e Roland Böer.

Compagnia di canto non eccelsa, con l’eccezione del Papageno di Alex Esposito, come sempre vocalmente superbo, eccellente fraseggiatore e attore di somma intelligenza interpretativa. Tamino dalla voce bella ma dagli acuti strozzati è quello di Antonio Poli. Meglio Ekaterina Sadovnikova, convincente Pamina dal giusto accento. Olga Pudova ha fatto della Regina della Notte uno dei suoi ruoli preferiti, ma qui i vocalizzi sono un po’ sporchi soprattutto nella seconda aria. Sarastro dalla voce traballante è quello di Goran Jurić, al limite dell’accettabile il Monostatos di Marcello Nardis. Bene le tre dame mentre i tre genietti provengono ovviamente da un’istituzione straniera – qui sono i solisti del coro giovanile di Monaco di Baviera – mancando in Italia l’educazione musicale necessaria a fornirli nonostante il flauto di plastica…

 (1) Il Rinaldo di Händel nella produzione di Glyndebourne del 2011:

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