Mese: settembre 2022

RhineGold

Richard Wagner

RhineGold (L’oro del Reno)

★★★★★

Birmingham, Symphony Hall, 2 agosto 2021

(live streaming)

Tributo a Graham Vick

Non, non è un refuso: è RhineGold, non Rheingold, perché il primo dei quattro drammi musicali della saga wagneriana dei Nibelunghi qui a Birmingham è cantato in inglese. Siamo infatti negli spazi insoliti, per uno spettacolo lirico, della Symphony Hall e a due settimane dalla scomparsa di Graham Vick, il direttore e fondatore della compagnia quando trent’anni fa fu messo in scena il suo Ring. Lo spettacolo è diventato quindi un tributo al grande regista che aveva portato l’opera in una fabbrica in disuso, in magazzini abbandonati, in un aeroporto, in palazzetti dello sport o sotto una tenda da circo. La destinazione qui è un ripiego dovuto alle incertezze dovute al Covid-19, la scelta originale essendo stata una location nella zona di Port Loop in Ladywood, un quartiere di Birmingham delimitato da due canali che una volta era il cuore industriale della città  e ora è stato convertito in centro residenziale.

La City of Birmingham Symphony Orchestra è al suo posto, ossia sul palcoscenico della bellissima sala da concerto e l’azione avviene su uno spazio circolare, una specie di helipad, ossia la piattaforma ad uso degli elicotteri, quasi in mezzo alla sala occupata solo da parte del pubblico potenziale, qui contingentato a causa della pandemia. Fedele allo spirito di Vick, che ha potuto partecipare solo all’inizio delle prove, il suo collaboratore di lunga data Richard Willacy propone un Oro del Reno urbano e nella nuova traduzione inglese di Jeremy Sams. Lo spettacolo può essere visto come un passo avanti verso la visione di Wagner dell’opera d’arte totale come leva di cambiamento nella società, un lavoro di satira politica di grande attualità: «Dalle torbide profondità dell’inconscio alle promesse autocelebrative di castelli in aria e alla voce di un pianeta che affronta la propria distruzione. Avrebbe potuto essere scritto oggi», dice il regista.

Le fanciulle del Reno sono ragazze festaiole che si scattano selfie, Alberich è un corriere in bicicletta, Wotan parla alla FNN (Fake News Network) e gli “dèi” per rimanere sempre giovani più che ai pomi di Freia fanno ricorso a iniezioni di botox. Il martello di Donner è una mazza da baseball e l’elmo magico di Alberich un elmetto da ciclista, quello portato dai rider, i nuovi schiavi che sputano sangue per far arricchire smisuratamente pochi ricchi che si arroccano nella loro dimora difesa da un muro, simile a quello di Trump, il cui modellino è orgogliosamente mostrato da Wotan. Stuart Nunn si occupa del semplice impianto scenografico arricchito dalle efficaci luci di Matthew Richardson.

Perfettamente in linea con questa lettura è la recitazione degli interpreti, maturati all’esperienza della Birmingham Company o ospiti internazionali come Brenden Gunnell, che delinea un sapido Loge di sicura vocalità. Ottima presenza scenica anche quella di Ross Ramgobin, un convincente Alberich. Eric Greene e Chrystal E. Williams formano la coppia non ancora in crisi di Wotan e Fricka; Keel Watson e Andrew Slater danno consistenza ai due giganti Fasolt e Fafner e di ottimo livello si dimostrano i restanti interpreti. Alla guida dell’orchestra si fa ammirare la lettura drammatica e trascinante del direttore musicale della compagnia Alpesh Chauhan, vincitore del Premio Internazionale dell’Opera 2021 come esordiente dell’anno.

Questo allestimento meriterebbe essere portato in giro, fosse anche solo per la semplicità dell’impianto scenografico richiesto.

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Turandot

 

Giacomo Puccini, Turandot

★★★☆☆

Salzburg, Großes Festspielhaus, agosto 2002

(registrazione video)

Gli spettatori del Festival di Salisburgo incontrano per la prima volta Turandot

Puccini non è proprio tra i compositori più frequentati dal più blasonato festival del mondo di musica classica e lirica: rinato alla fine della Prima Guerra Mondiale, solo nel 1989 Karajan porterà a Salisburgo la sua Tosca, e ci vorranno altri tredici anni per questa Turandot. Il punto di forza dello spettacolo sta nella messa in scena di David Pountney poiché né la concertazione di Valerij Gergiev né gli interpreti sono all’altezza del loro compito.

Alla testa dei Wiener Philharmoniker Gergiev non sembra voglia dare il meglio di sé: la sua direzione è dura e impostata solo su fortissimi e pianissimi e con agogiche estreme. Uno dei pochi meriti di Gergiev – se è davvero suo e non del regista – è l’aver scelto il finale di Berio, rappresentato pochi mesi prima ad Amsterdam da Chailly e da Lehnhoff, che riproporranno lo spettacolo, con una diversa messa in scena, alla Scala. Dall’ascolto però non sembra che poi sia tanto convinto della scelta.

Turandot è Gabriele Schnaut dai suoni duri, frasi slegate, acuti stremati e una “recitazione” da cinema muto. Di recitazione non si parla certo per Johan Botha, che si sposta da una sedia all’altra ed esibisce una voce sforzata nel registro alto e fioca in quello centrale. Christian Gallardo-Domâs sarebbe una convincente Liù se non fosse per il tono un po’ lamentoso e il vibrato eccessivo. Sul Timur di Paata Burchuladze meglio sorvolare mentre neanche i tre ministri si salvano dal punto di vista vocale. Come Altoum si ascolta un glorioso Robert Tear, per niente efficace il Mandarino di Robert Bork. Per di più la dizione è al limite dell’accettabile e non conta che siano tutti stranieri: ci sono dei cantanti non italiani che possono darci lezione di pronuncia della nostra lingua.

Peccato perché lo spettacolo offerto visivamente da David Pountney è notevole: senza ricorrere a una Cina di maniera, il regista inglese si ispira al film Metropolis di Fritz Lang per elaborare il timore che negli anni ’20 i progressi tecnici sarebbero sfuggiti dal controllo e avrebbero portato all’inghiottimento e sfruttamento dell’individuo in un’enorme massa grigia. Le spettacolari scenografie di Johan Engels trasformano gradualmente uno «stato disumano capace solo di uccidere» in uno stato di umanità. Meccanismi in movimento e ruote dentato coprono l’intera enorme larghezza del palcoscenico del Großes Festspielhaus qui popolato da umani robotizzati, chi con un braccio chi con una gamba trasformata in arto meccanico – sega, o chiave inglese, forbici… In proscenio due grandi robot col viso di maschera cinese, e le cui gambe e braccia sono mosse con pertiche, rappresentano il Mandarino e l’Imperatore. Spettacolare il secondo atto: una moltitudine di statue rosse – il riferimento all’esercito di terracotta di Xian è evidente – con dietro ognuna un corista assiste alla scena degli enigmi con Turandot celata con un velo di nove metri all’interno di una gigantesca testa dorata. Quando Calaf risolve il terzo indovinello, la testa si schianta e la irraggiungibile principessa scende a livello del palcoscenico assumendo un aspetto fragile. Alla morte di Liù si spoglierà della sua veste e resterà con una veste bianca uguale a quella della schiava che si è uccisa mettendo il pugnale nelle mani di Turandot.

Con la morte di Liù cambia tutto: la musica, innanzitutto, con le note di Berio, ma anche perché tutti perdono gli arti meccanici assumendo un aspetto più umano e si abbracciano. La regia di Pountney è piena di momenti felici, come quando Turandot e Calaf lavano il cadavere di Liù, riempiendo così quei lunghi minuti dell’interludio strumentale di Berio. Forse sarebbe uno spettacolo da riproporre, non sembra per niente invecchiato nel tempo.

Gianni Schicchi


Giacomo Puccini, Gianni Schicchi

★★★☆☆

Salisburgo, Großes Festspielhaus, 5 agosto 2022

(registrazione video)

Scomposto e centellinato il Trittico di Salisburgo. Parte prima: Gianni Schicchi.

È raro trovare Puccini al Festival di Salisburgo, rinato alla fama internazionale nel 1920: occorre arrivare al 1989 per la prima di Tosca, quella di Karajan. Seguiranno poi Turandot (Gergiev/Pountney, 2002), La bohème (Gatti/Michieletto, 2012) e Manon Lescaut (2016), quest’ultima in forma di concerto. Il Trittico, che non era mai stato messo in cartellone, ora viene finalmente presentato, ma “scomposto”, cambiando l’ordine dei tre titoli: prima l’“inferno” di Gianni Schicchi, poi il “purgatorio” de Il tabarro e infine il “paradiso” di Suor Angelica secondo il criterio scelto dal regista, scelta che però va contro le intenzioni dell’autore che vedeva invece nel Tabarro l’inferno, in Suor Angelica il purgatorio e nello Schicchi, ironicamente, il paradiso. L’unica che rimane valida è l’idea dell’evoluzione dell’amore, da quello giovanile e sincero di Lauretta e Rinuccio, a quello maturo e deluso di Michele e Giorgetta, passando per quello materno di Angelica.

In realtà, la scelta è dettata soprattutto dall’intento di esaltare la presenza della star della serata in tre atti di impegno crescente. Chissà poi se per lo stesso motivo, di far meglio brillare la stella cioè, è stata la scelta di un cast piuttosto mediocre. Diciamo subito che così non si è ottenuto il risultato sperato. Ma limitiamoci al primo titolo, poiché lo spettacolo viene ora trasmesso da Arte “centellinato”, iniziando appunto dal Gianni Schicchi.

La messa in scena si deve a Christof Loy, che con le scenografie di Etienne Pluss e i costumi moderni di Barbara Drosihn crea un grande spazio vuoto che nel Gianni Schicchi ha al centro troneggiante il letto di Buoso Donati innalzato su gradini. Pochi altri elementi d’arredo denotano l’ambiente che ha a sinistra una porta e una vetrata, tanto che alla fine ai parenti non rimane quasi nulla da portar via. Loy deve aver scambiato Firenze con Napoli, poiché all’inizio vediamo i parenti consolarsi della perdita del vecchio abbuffandosi di spaghetti. Poi fortunatamente il tono è un po’ meno marcato ed è il gioco attoriale quello che si ammira di più nella sua regia, che ha tocchi arguti e ironici, ma non si discosta molto dalla solita tradizione con l’Italia caricaturale vista da uno straniero.

E straniera è la maggior parte degli interpreti, con conseguenti problemi di dizione che inficiano la fluidità dello stile di conversazione di questo lavoro. Molti quelli dell’est, a iniziare dal simpatico Gianni Schicchi del georgiano Misha Kiria, vocalmente autorevole e scenicamente spigliato ma un po’ grezzo, per passare alla Zita dell’albanese Enkelejda Shkosa, in condizioni vocali problematiche quanto quelle del Simone di Scott Wilde. Gridato e dagli acuti strozzati il Rinuccio del russo Aleksej Nekliudov, meglio l’aitante Marco dell’ucraino Jurii Samoilov o il giovane (fin troppo) Ser Amantio del polacco Mikołaj Trąbka. Dean Power e Manel Esteve Madrid delineano con efficacia i personaggi di Gherardo e Betto. Bene gli italiani: Lavinia Bini (vivace Nella), Caterina Piva (la Ciesca), Matteo Peirone (un istrionico Maestro Spinelloccio).

E poi c’è lei, Asmik Grigorian (Lauretta), donna più che bambina, vocalmente eccellente come sempre, ma un po’ spaesata stilisticamente. Sul podio, alla guida dei Wiener Phlharmoniker, non molto avvezzi a questo repertorio, Franz Welser-Möst non si dimostra un interprete pucciniano, gli manca l’eleganza e la voglia di mettere in risalto le voci, che talora vengono coperte dall’orchestra. Bello il suono, ci mancherebbe con quell’orchestra…, ma sembra mancare il gusto per questa musica.