Mese: aprile 2024

Orlando furioso

Antonio Vivaldi, Orlando furioso

Ferrara, Teatro Comunale, 5 aprile 2024

(diretta streaming)

Vivaldi a Ferrara col suo Orlando

Come se volesse farsi perdonare la faccenda del Farnace (1), Ferrara negli ultimi tempi ha cercato di recuperare con Vivaldi grazie alle cure di Federico Maria Sardelli. Sommo conoscitore dell’opera del veneziano, il musicologo e direttore negli ultimi tre anni ha eseguito qui al Teatro Comunale di Ferrara una trilogia vidaldiana composta da Farnace, appunto, Catone in Utica e ora Orlando Furioso, tutti e tre spettacoli con la messa in scena di Marco Bellussi. Per di più questa di Ferrara è una ghiotta occasione per vederlo prima di Bayreuth, essendo una coproduzione con Fondazione Teatro Comunale di Modena, Daegu Opera House e Bayreuth Baroque Opera Festival. Il lavoro di Vivaldi va in scena nella nuova edizione critica Ricordi a cura di Federico Maria Sardelli e Alessandro Borin. Che poi il librettista dell’Orlando furioso, Grazio Braccioli, sia ferrarese e che l’Ariosto abbia scritto il suo capolavoro e sia morto proprio qui, aggiunge quel di più alla vicenda che lega l’opera a questa città.

Diviso nei classici tre atti con due intervalli, e non due parti e un solo intervallo com’è in voga oggi, lo spettacolo comprende la quasi totalità dei numeri previsti a parte il terzo atto che viene molto sforbiciato e che qui dura solo 35 minuti – in confronto ai 65’ del I atto e ai 55’ del II. Questa edizione di Sardelli/Borin è diversa dalla precedente edizione eseguita da Fasolis che aveva modifiche nel terzo atto per ampliare la parte di Orlando. Sardelli invece rispetta il libretto originario e la successione degli eventi e delle arie e concerta con la solita vivacità alla testa dell’orchestra barocca Accademia dello Spirito Santo con il suo stile storicamente informato. «L’organico strumentale prevede due cembali, tipico della struttura teatrale barocca; evitiamo certi strumenti che oggi sono di moda nella pratica barocca contemporanea, come le chitarre e gli arciliuti, ma che al tempo di Vivaldi, intorno al 1727 non erano più in uso, tanto più in teatro. Questa operazione di recupero filologico sicuramente andrà a favore dell’ascolto e della piacevolezza», ha dichiarato Sardelli e in effetti il suono offerto dall’orchestra è pulito e preciso e i tempi adottati mai estremizzati. Interessante l’affidamento di certi ruoli: nell’originale il personaggio eponimo era un contralto en travesti e qui Sardelli utilizza un controtenore; Medoro e Ruggiero erano due castrati contraltisti mentre ora sono rispettivamente un contralto donna en travesti e un controtenore. Regolari invece le altre voci con Angelica soprano, Alcina e Bradamante contralti e Astolfo basso.

Yuriy Mynenko è un Orlando di solida presenza scenica, bel timbro e grande estensione sfoggiata con agio nella sua prima famosissima aria «Nel profondo cieco mondo». Tocca a lui terminare il secondo atto con un’acrobatica «Ho cento vanni a tergo» di grande intensità mentre nel terzo rende efficacissima la scena della pazzia del personaggio con ariosi e recitativi di alta drammaticità. Arianna Vendittelli, unico soprano dell’opera, è un’Angelica volitiva e dalla voce luminosa che incanta fin dall’aria «Un raggio di speme» con cui si apre l’opera. L’Alcina di Sonia Prina è personaggio a tutto tondo che il contralto magentino rende del tutto simpatico con la sua ironia e una vocalità calda anche se talora un po’ in affanno. La dolcezza di emissione in «Sol da te mio dolce amore» è la qualità massima del Ruggiero di Filippo Mineccia ma la scelta registica non gli rende il massimo dei favori. Si veda per contrasto lo stesso momento come la regia di Ceresa nell’Orlando veneziano del 2018 esalti l’intervento di Carlo Vistoli. Chiara Brunello (Medoro), Loriana Castellano (Bradamante) e Mauro Borgioni (Astolfo) concludono un cast di qualità.

Come s’è detto anche questo terzo Vivaldi ferrarese è affidato a Marco Bellussi che con lo scenografo Matteo Paoletti Franzato e il gioco luci di Marco Cazzola ricrea un palazzo di Alcina astratto e minimalista: «Lo spettacolo – spiega il regista – asseconda le dinamiche distorsive del dramma e per questo ho deciso di puntare su un solo potente elemento, lo specchio. Le pareti del palazzo sono dunque specchio e specchio è anche il soffitto della reggia. Ne deriva che tutto ciò che in essa avviene può essere realtà o riflesso distorto della stessa. Accade quindi che la piccola società dei nostri personaggi reagisca di riflesso ai condizionamenti di una molteplicità destabilizzante di prospettive, dando vita ad una commedia in cui tutti, più o meno consapevolmente, sono mossi dalle loro passioni in una condizione di insicurezza e provvisorietà». Il risultato è però l’effetto di un acquario, effetto esaltato dalla presenza di un velario che separa dal pubblico quel che avviene sul palcoscenico e serve da schermo a proiezioni liberamente interpretabili. I costumi di Elisa Cobello mescolano le epoche storiche col presente: Angelica è vestita in un bianco abito da sposa fin dalla prima scena; Alcina sfoggia outfit in lamé e una parrucca argento; Medoro un completo rosso che funziona sia da maschio che da femmina; Ruggiero e Orlando costumi d’epoca. Con pochi mezzi il regista Bellussi ha ottenuto un allestimento sì efficace ma totalmente privo degli elementi fiabeschi della vicenda.

(1) Quando Vivaldi concluse il Farnace nel 1727 era un compositore all’apice della sua notorietà, il che non impedì però che nel 1739 gli fosse impedito dal Cardinale Tommaso Ruffo di recarsi a Ferrara per la ripresa dell’opera, adducendo motivi di morale per la condotta considerata un po’ troppo spregiudicata, anche per quei tempi, di un religioso che non celebrava la messa, bazzicava i teatri e aveva una relazione forse non platonica con una sua pupilla, «la sig. Anna Girò», la sua prima Tamiri. Per la produzione del Farnace Vivaldi aveva dato fondo a tutte le sue risorse in quanto anche impresario e allestitore. Il divieto ebbe effetti drammatici sulla vita del compositore che per rientrare nei debiti partì per Vienna per cercare fortuna con gli esiti che sappiamo: la morte dell’imperatore Carlo VI aveva portato alla chiusura per lutto di tutti i teatri e lasciato Vivaldi senza protezione imperiale e senza fonti di reddito, tanto che vi morì di miseria dopo nemmeno un anno dal suo arrivo.

Bérénice

Romeo Castellucci, Bérénice da Jean Racine

regia di Romeo Castellucci

Milano, Teatro del Palazzo della Triennale, 7 aprile 2024

Il teatro delle contraddizioni di Romeo Castellucci

Officier de l’Ordre des Arts et des Lettres de la République Française, Romeo Castellucci è certamente più apprezzato in Francia che in Italia, però alla Triennale di Milano è “grand invité” e continua la sua collaborazione che tocca vari ambiti di azione: dalla regia alla scrittura, dalle arti visive alla scenografia al pensiero critico. Dopo Nascondere (2021), La quinta parete (2022) e Il passo (2023), nell’autunno di quest’anno curerà la quarta edizione di un progetto formativo dedicato alle arti della scena per un selezionato gruppo di professionisti e studenti.

Si diceva del rapporto privilegiato del regista di Cesena con la Francia, e francese è il classico su cui ha basato il suo ultimo spettacolo, Bérénice di Jean Racine. Dalla verbosa tragedia in cinque atti del massimo esponente, assieme a Pierre Corneille, del teatro tragico francese del Grand Siècle, Castellucci trae un monologo per l’attrice Isabelle Huppert, sola in scena con i versi della sua sofferta vicenda: amata da Tito, viene però lasciata per ragioni di stato – dal “Senatus populusque romanus” non è ben vista una straniera sul trono di Roma, essendo lei principessa di Giudea – e se ne torna mesta in patria promettendo di non uccidersi. Si è minacciato di suicidarsi invece Antioco, anche lui innamorato della bella Berenice.

Castellucci ha sempre rifuggito il teatro di parola, ma questa volta, e qui sta la prima contraddizione, affida quasi soltanto alla parola la drammaturgia del suo spettacolo, sottolineando e distorcendo la voce dell’attrice con i suoni elettronici di Scott Gibbons, lo stesso de Il Terzo Reich. Affascinato dalla tragedia greca, Castellucci si dichiara intrigato dai tentativi dei grandi autori di far rivivere la tragedia antica – Hölderlin, Alfieri, ma soprattutto Racine, che ha mescolato cultura greca e cultura cristiana. È l’anacronismo della sua lingua a rendere contemporaneo il testo di Racine: «Tutto è detto per essere in realtà nascosto», afferma il regista, «tutto è controllato o trattenuto. Appena riusciamo a sentire l’abisso nascosto». Castellucci si concentra sulle contraddizioni dell’opera per evidenziarne l’attualità: la violenza interiore che si esprime nella paralisi, la bellezza dei versi che ruotano intorno alle parole non dette, il caos di un triangolo amoroso che risplende con chiarezza attraverso la brutalità delle emozioni umane.

E la «nebbia di parole», l’ombra racchiusa in questi versi sono la cifra visiva dello spettacolo: entrando nel teatro del palazzo della Triennale una foschia invade la sala, per di più un velino separa il palcoscenico dal pubblico e la scarsa illuminazione aumenta l’ambiguità di quello che vediamo, la rappresentazione di confusi ricordi. Berenice è l’unico personaggio presente in una scena vuota, se non in compagnia di una lavatrice o un termosifone. Gli altri, soprattutto Tito e Antioco, sono presenze evanescenti, fantasmi che si esprimono non a parole ma con i gesti della pantomima dell’incoronazione di Tito. Ci sono poi altre dodici persone «reclutate in loco» come in Bros, il cui ruolo non è dei più evidenti.

Tutto ruota attorno alla performance dell’attrice e qui la Huppert, in questo vuoto, esplora ampi estremi emotivi: ora è una regina maestosa, con una mano alzata sulla fronte in segno di esaltata disperazione, mentre si aggira sul palcoscenico con i costumi sontuosi disegnati da Iris van Herpen. Un attimo dopo, invece, scatena un’energia fuori controllo, con battute amplificate e distorte al punto da diventare incomprensibili. Solo una scena, alla fine, la porta improvvisamente fuori dalla sua comfort zone: mentre recita il monologo finale, inizia a balbettare, inciampa sulle parole, lotta per fare uscire inarticolati fonemi, poi si ferma e rimane in silenzio, guardando a destra e a sinistra come se stesse aspettando un segnale, e ci si chiede se qualcosa sia andato storto. Invece si alza, va verso il fondo della scena e si volta indietro per rivolgersi al pubblico: «Ne me regardez pas!» urla più volte, sempre più disperatamente, prima di nascondersi dietro la manica dell’abito. E così si chiude lo spettacolo con quest’ultima contraddizione di Castellucci e del suo teatro di immagini.

Guillaume Tell

   

Gioachino Rossini, Guillaume Tell

Milano, Teatro alla Scala, 6 aprile 2024

(diretta streaming LaScalaTv)

Per la prima volta in francese e completo il Guillaume Tell alla Scala

Già solo l’esecuzione della sinfonia varrebbe il prezzo del biglietto: dalle prime note del violoncello, al crescendo della tempesta che ti fa sobbalzare sulla poltrona al trascinante galoppo finale, tutto nella direzione di Michele Mariotti è di una qualità talmente elevata da togliere il fiato. Il pubblico risponde con un’ovazione tale che Mariotti riprende visibilmente commosso l’inizio di questo meraviglioso, grandioso ultimo capolavoro con cui Rossini abbraccia in pieno il romanticismo.

Sembra incredibile, ma questo è il primo Guillaume Tell presentato alla Scala nella versione originale francese e pressoché integralmente. Questa volta si è ascoltato probabilmente per la prima volta il terzetto del quarto atto tra Mathilde, Hedwige e Jemmy, «Je rends à votre amour un fils digne de vous», un terzetto strategicamente essenziale nella vicenda praticamente sempre tagliato. Se non fosse per la messa in scena, questo spettacolo sarebbe da cinque meritatissime stelle: dell’esecuzione musicale di Mariotti non si sa se lodare maggiormente la tensione narrativa che fa passare in un amen le quattro ore di musica, la solennità dell’andamento musicale, la teatralità del fraseggio e i colori di una natura sempre evocata ma totalmente assente dalla messa in scena. E che meraviglia i cori dei pastori! Un’esecuzione non adatta ai deboli di cuore per l’intensità drammatica dei momenti chiave ottenuta senza eccedere nel volume sonoro o nella velocità, ma con la pienezza del suono strumentale a contrasto con gli ineffabili momenti lirici. Gloriosi sono i momenti solistici in cui gli strumenti dell’orchestra hanno modo di far rifulgere la loro arte, primo fra tutti il violoncello di Massimo Polidori. La concertazione delle voci è come sempre mirabile e con la bacchetta di Mariotti il finale del Tell si conferma come il più bel finale d’opera di tutti i tempi.

Se Michele Mariotti aveva diretto il Guillaume Tell a Pesaro undici anni fa – allora con esiti eccellenti, ma qui ha superato abbondantemente sé stesso grazie anche a un’orchestra di livello più elevato – un altro Michele, Pertusi, aveva debuttato nella parte del titolo ben ventinove anni fa, ma ora continua a cantare con la stessa facilità, esibendo proiezione e espressività come allora. La figura carismatica del capopolo è delineata con accenti appassionati e una resa vocale miracolosa. 

Nella temibile parte di Arnold con i suoi impervi sopracuti ha stupito per la baldanza Dmitrij Korčak, timbro luminoso e ampia emissione ma anche ripiegamento in mezze voci malinconiche e bei legati in «Asile héréditaire». Ben connotata è la psicologia del personaggio combattuto fra amor di patria e la passione per la “nemica” Mathilde, una sensibile Salome Jicia dall’emissione non sempre omogenea che dopo la bella prova di «Sombre forêt» nel prosieguo denuncia qualche stanchezza e le agilità in «Pour notre amour plus d’espérance» non risultano sempre efficacemente realizzate, ma il temperamento e la presenza scenica rendono comunque convincente il personaggio aristocratico ma attento alle sofferenze di un popolo oppresso. Catherine Trottmann e Géraldine Chauvet prestano la loro voce per Jemmy e Hedwige con buoni risultati, soprattuto la seconda. Luca Tittoto è un vocalmente valido Gesler, parte da lui frequentata spesso, così come lo è il solenne Melchtal di Evgenij Stavinskij. Dave Monaco rende in maniera accettabile la sua impegnativa aria del pescatore mentre Nahuel di Pierro e Paul Grant completano il cast con i personaggi Fürst e Leuthold. Sugli scudi la performance del coro egregiamente istruito da Alberto Malazzi.

L’idea di fondo della lettura registica di Chiara Muti è certamente condivisibile: il Guillaume Tell è lo scontro fra il bene e il male, tra la luce e le tenebre, concetti che qui però vengono realizzati in modo molto semplicistico e manicheo, dove gli oppressori sono figure talmente maligne da sfiorare e spesso superare il grottesco se non il kitsch. Gesner è metà Belfagor e metà Mago Otelma in mantello rosso e accompagnato da sette fanciulle crudeli e lascive uscite da un film fantasy di serie B, ammesso che ne esistano di serie A, che nelle intenzioni della regista rappresenterebbero i sette peccati capitali. E tutti lì a cercare di capire chi è l’ira e chi l’avarizia, chi l’invidia e chi la gola, chi l’accidia e la lussuria e la superbia. Chiara Muti dichiara di essersi ispirata al film Metropolis per la sua umanità schiavizzata e abbrutita con un tablet luminoso sempre acceso la collo. Un simbolismo e una cupezza di visione difficili da sopportare per tutti i quattro atti.

Sempre presenti sono gli sgherri di Gesner con stampato in volto per tutte e cinque le ore un ghigno satanico mentre violentano, torturano e uccidono senza pietà – e senza senso del ridicolo. Nei costumi di Ursula Patzak medioevo, Ottocento e contemporaneità si mescolano allegramente – armature e mitragliatrici, cappottoni e balestre – mentre le scene di Alessandro Camera definiscono un mondo carcerario e oppresso immerso nel buio che potrebbe andare bene per il Fidelio o il Wozzeck: tutto è nero e grigio, la natura, tanto evocata nel libretto e nella musica, è del tutto assente e appare solo nel finale in forma di brutte cascate dipinte. Unico momento di apertura, ma ahimè un filino patetico, il cielo stellato durante l’aria di Mathilde. I ballabili sono resi coerentemente con le apprezzabili coreografie di Silvia Giordano che ricordano quelle della produzione di Vick del 2013 e poi di Michieletto nel 2015, quindi niente abiti tirolesi piroettanti o, peggio, pas de deux sulle punte, ma movimenti convulsi e violenti. 

Se non fosse stato alla Scala e se non fosse stata la figlia di tanto padre ma un qualche regista tedesco a mettere su questo spettacolo, ci sarebbe stata un’interrogazione parlamentare e la convocazione dell’ambasciatore di Germania. Sarebbero poi partiti dissensi ben maggiori di quelli che alla prima, dopo le ovazioni verso i cantanti ma soprattutto Mariotti, hanno accolto la regista e gli altri responsabili della parte visiva. Qualcuno dal loggione ha gridato che sarebbe stato meglio fare un’esecuzione in forma di concerto. Come dargli torto.

I viaggi del signor Brouček

 

Leoš Janáček, The Excursions of Mr. Brouček

West Horsley, Grange Park Opera, 7 luglio 2022

★★★★☆

(video streaming)

Dall’Inghilterra arriva lo Janáček meno conosciuto

Výlety páně Broučkovy (I viaggi del signor Brouček) è il titolo del dittico di Leoš Janáček basato su due romanzi satirici di Svatopluk Čech: Pravý výlet pana Broučka do Měsíce (Il vero viaggio del signor Brouček sulla Luna, 1888) e Nový epochální výlet pana Broučka, tentokráte do XV. století (Il nuovo epocale viaggio del signor Brouček questa volta nel XV secolo, 1889). 

Nei primi anni del secolo, Janáček aveva cercato di scrivere un lavoro basato sui romanzi di Čech, ma questi gli aveva negato i diritti sulle sue storie e il compositore aveva accantonato il progetto fino alla morte dello scrittore nel 1908. La famiglia di Čech esitava a rilasciare i diritti, ma dopo aver sentito lo stesso Janáček, acconsentì a concedergli l’uso esclusivo dei romanzi. Poco dopo aver ottenuto il permesso di iniziare la composizione, anche un altro musicista, Karel Moor, sosteneva di aver ricevuto l’autorizzazione esclusiva dal fratello minore di Čech, Vladimír. La questione fu rapidamente presa in esame e si scoprì che Moor non aveva ricevuto un’autorizzazione valida. Ciò non gli impedì di comporre un’opera che andò in scena nel 1910, circa dieci anni prima di quella di Janáček, ma senza il successo e la longevità di quest’ultima. La composizione dell’opera fu un processo complesso e lungo su un periodo di quasi dieci anni: il viaggio sulla Luna è del biennio 1907/8, quello nel XV secolo è del 1917 ma il lavoro ebbe la prima rappresentazione solo nel 1920 e non a Brno come avveniva di solito per le opere di Janáček, bensì a Praga. Ma il 23 aprile al Teatro Nazionale I viaggi del signor Brouček ebbero solo apprezzamenti di stima. 

Brouček (in ceco insetto) è un proprietario di casa di Praga che vive una serie di eventi fantastici mentre viene trasportato, grazie agli effetti inebrianti di un cospicuo consumo di birra, prima sulla Luna e poi nella Praga del XV secolo, durante la rivolta hussita contro l’occupazione tedesca. In entrambe le escursioni, Brouček incontra personaggi che sono versioni trasformate dei suoi conoscenti abituali.

Parte I: Il viaggio del signor Brouček sulla Luna. Scena 1. Il signor Matěj Brouček è un padrone di casa spesso ubriaco e piuttosto trasandato nella Praga di fine Ottocento. In una notte di luna inciampa in via Vikárka dopo una sbronza alla taverna. Nel suo stato di alterazione, incontra Málinka. La donna è sconvolta e drammaticamente suicida dopo aver scoperto che il suo amante, Mazal (che si dà il caso sia uno degli inquilini di Brouček), la tradisce. Nel tentativo sconsiderato di calmare Málinka, Brouček accetta di sposarla. Ben presto si rende conto dell’errore e ritira l’offerta, lasciando che Málinka torni dal suo amante bohémien. Brouček decide di averne abbastanza di questo stress e sogna una vita più rilassata sulla Luna. Scena 2. Brouček è presto deluso da ciò che trova nel suo paradiso lunare. Atterra nel mezzo di una colonia di artisti e intellettuali d’avanguardia che l’incolto Brouček chiaramente disprezza. Si ritrova nella casa di un artista, Blankytny (un personaggio parallelo a Mazal). Blankytny canta un’accorata ode d’amore platonico alla fanciulla lunare, Etherea. Questo segna l’arrivo di Etherea e delle sue “sorelle”, che iniziano con una canzone che predica i benefici di uno stile di vita sano. Ironia della sorte, Brouček cattura l’attenzione della fanciulla, che si infatua immediatamente dell’esotico straniero. Lo porta via a bordo del mitico Pegaso, lasciando Blankytny nell’incredulità e nella disperazione. Scena 3. Eterea e Brouček atterrano nel Tempio Lunare delle Arti, dove si è riunito un gruppo di abitanti. Alla vista di Brouček sono subito sorpresi e spaventati, ma presto lo considerano l’ultima moda. Gli abitanti del luogo presentano a Brouček le ultime novità dell’arte lunare e gli offrono un pasto a base di fiori da annusare. Brouček non è affatto soddisfatto di questo sfoggio d’arte, né si nutre dei profumi. Viene presto sorpreso a mangiare di nascosto un boccone di salsiccia di maiale; la folla gli si rivolta contro ed egli è costretto a una fuga a bordo di Pegasus. Mentre fugge, gli artisti lunari inneggiano all’arte. Scena 4. Mentre la scena della luna si trasforma di nuovo nel cortile della taverna di Praga, Mazal e Málinka stanno tornando a casa e gli artisti si godono un ultimo drink. Un giovane cameriere ride dell’ubriaco Brouček che viene portato via in una botte. Málinka si è apparentemente ripresa dal suo turbamento, mentre lei e Mazal cantano in duetto il loro amore.
Parte II: Il viaggio del signor Brouček nel XV secolo. Scena 1. Nel Castello di Venceslao IV, il signor Brouček e i suoi compagni di bevute discutono sui particolari dei tunnel medievali che si credeva esistessero sotto la città di Praga. Ancora una volta, un Brouček inebetito barcolla verso casa sua e si ritrova in qualche modo in uno di questi tunnel bui, dove incontra apparizioni del passato. Una di queste figure spettrali è Svatopluk Čech, l’autore dei racconti di Brouček. Čech esprime il suo rammarico per il declino dei valori morali nella nazione ceca. Canta la perdita dei veri eroi e desidera la rinascita della sua nazione. Ironicamente, il lamento di Čech è rivolto allo stesso Brouček e alla natura satirica di quest’opera. Scena 2. Il signor Brouček viene trasportato indietro nel tempo e si ritrova nella Piazza della Città Vecchia nel 1420. È un periodo tumultuoso nella Praga del XV secolo, quando il popolo ceco, guidato da Jan Žižka, è assediato dalle armate tedesche del Sacro Romano Impero. Brouček viene subito affrontato dai ribelli hussiti, che lo accusano di essere una spia tedesca a causa della sua scarsa grammatica ceca carica di espressioni tedesche. Brouček convince in qualche modo i ribelli di essere dalla loro parte e gli viene permesso di unirsi a loro. Scena 3. Brouček viene portato a casa di Domšik, un sacrestano, e di sua figlia Kunka. Brouček si trova ora nel mezzo di un’imminente battaglia decisiva per il futuro della nazione ceca, segnalata dal potente canto di inni di battaglia da parte delle masse riunite. I ribelli chiedono a Brouček di esporsi nella difesa di Praga, cosa a cui è tipicamente contrario. Quando inizia la battaglia, il nostro eroe fugge dalla scena. Scena 4. Nella piazza della Città Vecchia, i praghesi festeggiano la loro sofferta vittoria ma lamentano la morte di Domšik. Brouček viene trovato nascosto e accusato di tradimento. Viene opportunamente condannato alla morte per rogo… in un barile di birra. Scena 5. Ancora nella Praga del 1888, appena fuori dalla locanda Vikárka, il signor Würfl, proprietario della locanda e produttore della famigerata salsiccia di maiale della Luna, sente dei gemiti provenire dalla cantina. Scopre il signor Brouček in una botte di birra, visibilmente sollevato di essere vivo e di essere tornato a casa. Il nostro spudorato eroe si vanta con Würfl di aver liberato da solo la città di Praga.

«Anche se le relative riduzioni librettistiche sono indicate sullo spartito come opera di Viktor Dyk, la prima, e di František Serafinský Procházka, la seconda, sappiamo che al testo del Viaggio sulla luna pose mano un numero di librettisti tale da superare il primato della Manon Lescaut di Puccíni. Oltre ai sette dichiarati — V. Dyk, Fr. Mašek, Z. Janke, Fr. Gellner, Jiři Mahen, Jos. Holý e F.S. Procházka — si possono ancora aggiungere Fedora Bartošová e Artuš Rektoris, che con Janáček stesso scrissero un primo abbozzo, e altri ancora, per arrivare forse a quindici in tutto, tra cui persino Max Brod. I litigi, le bizze artistiche, le incomprensioni, i risentimenti e le avventure che s’incrociano nella stesura di questo libretto potrebbero costituire la materia di un romanzo comico» scrive Franco Pulcini nella sua biografia del compositore moravo.

L’obiettivo del compositore era molto chiaro, ossia mettere alla berlina la meschinità della borghesia del suo paese. «Il mancato successo di quest’opera, rappresentata non di frequente e persino in Cecoslovacchia, potrebbe anche essere collegato al rigore morale del suo assunto drammatico, nel quale gli spettatori – esterofili del gusto artistico, cattivi patrioti o rozzi bevitori di birra – si possono riconoscere con fastidio», scrive ancora Pulcini, «la sua rinuncia alla piacevolezza melodica è talmente radicale, come lo è l’assunto drammatico, da suscitare un’immediata indisponibilità del pubblico. È un’opera per esperti molto affascinati dalla storia cèca. Dubitiamo che venga un giorno il suo tempo tra una fetta considerevole del pubblico, come invece accaduto a molte delle opere scritte da Janáček negli ultimi 10 anni della sua vita». Parte di ciò che rende I viaggi del signor Brouček incomprensibili al pubblico moderno non è solo la sua forma specificamente mitteleuropea di opera-vaudeville, ma anche le allusioni storiche agli hussiti mescolate a buffonerie degne del coevo Buon soldato Švejk di Jaroslav Hašek.

Leoš Janáček è riconosciuto grande compositore al di fuori della sua terra d’origine grazie a due protagonisti del mondo dell’opera di lingua inglese: Charles Mackerras e David Pountney. Il primo, settant’anni fa tornava a Londra dopo aver studiato Janáček e altri compositori cechi proprio mentre il nascente regime comunista abbatteva i contatti culturali con l’Occidente. Mackerras è stato il direttore d’orchestra che, alla fine degli anni Cinquanta, ha registrato la Sinfonietta e i preludi d’opera di Janacek, facendo conoscere la musica soprattutto agli ascoltatori britannici. In seguito ne ha registrato quasi tutta la produzione operistica con la Filarmonica di Vienna, ma non questa, che è la quinta opera di Leoš Janáček. Il secondo è il regista che ha portato il compositore moravo sul palcoscenico in Gran Bretagna, debuttando a Wexford cinquant’anni fa con la Kat’a Kabanová per poi costruire un repertorio di produzioni che riflette una profonda simpatia per ciò che Janáček cercava di fare con le parole e con la musica. Pountney condivide con Janáček la convinzione che l’opera debba essere comprensibile: sostenitore dell’opera in inglese, con una presunta avversione per i sopratitoli che distraggono dall’azione sul palcoscenico, in questa produzione fornisce la sua versione del testo e aggiorna le battute ai nostri tempi realizzando un libretto di grande godibilità dove i lunatici sono vegani e non mancano quindi riferimenti al lockdown pandemico o a Boris Johnson in versi adattati ai modelli ritmici della musica di Janáček. 

Questa è la seconda volta che Pountney mette in scena I viaggi di Janáček, la prima fu nel 1992 all’English National Opera e vi si alludeva alla Rivoluzione di velluto che tre anni prima condusse alla dissoluzione dello Stato comunista cecoslovacco. Questa è una produzione totalmente differente con un tocco di Monty Python: la scenografia di Leslie Travers ambienta la vicenda tra un bric-à-brac di souvenir della città d’oro in formato gigante sotto un piatto spezzato decorato con la vista di Hradčany, l’antico palazzo reale alto sulla collina. La birra è una presenza costante, Pegaso è una lattina di Pilsner e i pezzi grossi della Praga del XV secolo vengono portati in giro come statue del Ponte Carlo su carrelli costruiti con casse di birra. I lunatici sono artisti fatui e travestiti dai nomi di Postdatedček o Spotček e negli irriverenti costumi in lattice scintillante di Marie-Jean Lecca. La vicenda del 1420 è preceduta da una scena opportunamente contrassegnata “1989”, in cui l’Autore diventa un imprigionato Vaclav Havel – il poeta dissidente e perseguitato politico sotto il regime comunista dell’allora Cecoslovacchia – alla ricerca di parole «ferventi e liriche, non solo satiriche, come tutto questo».

Eccellente il cast, con un Peter Hoare che sembra divertirsi un mondo nel ruolo del titolo mentre i suoi colleghi Mark Le Brocq, Andrew Shore, Adrian Thompson e Clive Bayley si destreggiano alla grande in ruoli multipli. Il soprano Fflur Wyn brilla nei panni di Málinka, della femminista affamata di uomini Etherea e di Kunka nel XV secolo e Anne-Marie Owens sfrutta al meglio il suo ruolo di Kedruta. Alla testa della BBC Concert Orchestra il direttore George Jackson mette in luce le invenzioni musicali di due opere differenti unite in questo singolare lavoro.