abbé Prévost

Manon Lescaut

Dolores Costello in un fotogramma del film When A Man Loves (1927) di Alan Crosland

Daniel Auber, Manon Lescaut

Torino, Teatro Regio, 27 ottobre 2024

(cast alternativo)

E quando ci sarà la possibilità di vedere un’altra Manon Lescaut firmata da Auber? La presenza di un cast alternativo è quindi un ottimo pretesto per sentire una seconda volta questa musica di così grande forza comunicativa.

Anche se conosciuto per La muette de Portici – il primo grand-opéra, ma lavoro poco frequente nei cartelloni, anche in quelli dei teatri francesi – Auber ottenne i suoi maggiori successi con le opéra-comique dove canto e recitazione si alternano per vicende raramente con finale tragico, e questa Manon Lescaut è un’eccezione. Si tratta di un genere che mescola spesso il sublime con il popolare come avviene in questo lavoro che inizia con un primo atto frizzante su ritmi talmente orecchiabili che ti rimangono appiccicati per giorni, come l’allegro coro da chez Bancelin «C’est à la guinguette | que l’amour nous guette!», continua con un secondo atto da commedia brillante e termina inopinatamente con un finale oratoriale di solenne spiritualità.

La parte di Manon fu costruita per il soprano belga Marie Cabel, cantante descritta da Fétis come «fresca, seducente, allegra, con il diavolo in corpo», caratteristiche che ritroviamo nella protagonista, che deve avere stile e timbro argentino, qualità della performance di Marie-Eve Munger, soprano coloratura canadese apprezzato nel repertorio ottocentesco (Fantasio) come in quello contemporaneo (Pinocchio). La Munger non è una macchinetta di agilità e anche se risolve con grande brillantezza la “Bourbonnaise” del primo atto con i suoi éclat de rire nei frivoli versi pieni di maliziose reticenze sulla storia di un «galant fier à bras» («Son nom! Vous allez rire. | Je m’en vais vous le dire, | bien bas… tout bas… tout bas… | Non, non, je ne le dirai pas!»), convince altrettanto nelle pagine più patetiche del secondo atto quando intercede presso il Marchese d’Hérigny per il suo Des Grieux («Mais il m’attend») o quando è combattuta tra la malinconia («Plus de rêve qui m’enivre, plus d’espoir») e la tentazione del lusso («Et cet écrin, comme il scintille!”). E infine nelle pagine tragiche dell’atto finale in cui si vede lo spessore dell’interprete che esibisce per di più una dizione perfetta e un fraseggio ricercato.

Come s’è già scritto il Marchese d’Hérigny qui ha una parte molto più importante di quella di Des Grieux: il giovane Gurgen Baveyan affronta con eleganza e un timbro chiaro di bari-tenore a cui manca solo un po’ più di proiezione per essere perfetto. Marco Ciaponi è un Des Grieux appassionato e dai generosi mezzi vocali qui accortamente impiegati e da un timbro luminoso già apprezzato nel suo Elvino romano. Qui invece la dizione è perfettibile.

Si conclude quindi così questo progetto del Teatro Regio di Torino che ha voluto approfondire un personaggio declinato in tre opere diverse nel tempo, nello stile e nelle intenzioni. Un programma intrigante che intende rinnovare la fruizione dell’opera, un’esigenza espressa anche da altri teatri, come La Monnaie di Bruxelles con le sue doppie serate che hanno fuso i quattro titoli donizettiani sui Tudor (Bastarda) e più recentemente i punti più salienti di sedici opere verdiane messe insieme per raccontare una nuova storia (Rivoluzione e Nostalgia). Di notevole sforzo produttivo, il bel progetto torinese sembra sia stato apprezzato soprattutto dai non-torinesi: gli storici abbonati hanno disertato per pigrizia l’offerta limitandosi alla proposta sicura della Manon pucciniana, l’unica che ha sempre riempito la sala questo mese. Peggio per loro, hanno perso una bella occasione.

Manon Lescaut

 

foto © Simone Borrasi

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Daniel Auber, Manon Lescaut

Torino, Teatro Regio, 17 ottobre 2024

★★★

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Auber conclude il progetto delle tre Manon al Regio di Torino

Un secolo dopo la pubblicazione del settimo e ultimo volume delle Mémoirs et aventures d’un homme de qualité dell’abbé Prévost, “L’Histoire du Chevalier des Grieux et de Manon Lescaut” fu messa in musica per un balletto-pantomima su testo di Eugène Scribe con musiche di Halévy. Quando, ancora su libretto dello stesso Scribe, Manon Lescaut divenne un’opéra-comique, il suo autore Daniel François Esprit Auber aveva 74 anni. Il lavoro debuttava infatti il 23 febbraio 1856 alla Salle Favart ed era il quint’ultimo di una lunga e feconda carriera (47 titoli di cui ben 38 su libretto di Scribe) iniziata nel 1805 e che si sarebbe conclusa solo nel 1869, due anni prima della morte del compositore.

Allievo di Cherubini, Auber gli successe come direttore al conservatorio parigino grazie a Luigi Filippo, mentre Napoleone III lo nominò Maître de Chapelle Impériale. Il suo stile spiccatamente individuale e caratterizzato da leggerezza, vivacità ed eleganza tipicamente francesi si ritrova in questa sua Manon Lescaut, ma si capisce anche come sia Massenet sia Puccini non temessero il confronto con il lavoro: la Manon di Auber è una macchinetta per agilità canore senza grande spessore psicologico e nei primi due atti la musica è una serie di motivi da operetta sui versi ironici di un libretto frivolo – «Me voler ma maîtresse | et son amour… d’accord! | Mais, mon souper, Monsieur, | ah! c’est vraiment trop fort!» (Rubarmi l’amante e il suo amore, va bene, ma la mia cena, signore, è davvero troppo!), come esclama il marchese d’Hérigny, uno dei due personaggi inseriti da Scribe e assenti negli altri libretti: il marchese d’Hérigny appunto, uno Scarpia che si redime in punto di morte, e Marguerite, l’alter-ego saggio e piuttosto borghese di Manon. Scribe e Auber, condizionati dalla destinazione del lavoro, ossia i palcoscenici in cui veniva rappresentato il genere opéra-comique, privilegiano gli aspetti brillanti della vicenda e la scrittura virtuosistica della protagonista, così che la loro Manon Lescaut diventa un affare di “guinguette, goguette et grisette” (1), come canta il coro del primo atto.

Nei primi tre anni l’opera fu rappresentata 63 volte per poi essere dimenticata e rivivere centoventi anni dopo in un’incisione discografica del 1975 con Mady Mesplé e nel 1984 in un’edizione al Filarmonico di Verona con Mariella Devia. La produzione ora sul palcoscenico del Regio, affidata alla direzione di Guillaume Tourniaire e alla messa in scena di Arnaud Bernard, conclude il progetto “Manon Manon Manon” del teatro torinese. La volontà del regista di abbinare a ciascun titolo operistico un prodotto del cinema francese qui si scontra col fatto che, stranamente, oltre a quella di Clouzot, non ci sia un’altra Manon, neanche nel cinema muto: la Manon Lescaut del 1926 (con Marlene Dietrich tra i personaggi secondari) è una produzione tedesca, mentre ricca è la filmografia italiana che nel 1911 ha un muto con Francesca Bertini, il 1940 vede la Manon Lescaut di Carmine Gallone con Alida Valli e Vittorio De Sica e il 1954 Gli amori di Manon Lescaut di Mario Costa con Myriam Bru e Franco Interlenghi. Bernard si rivolge quindi oltre oceano con il film di Alan Crosland del 1927, che originariamente doveva intitolarsi Manon Lescaut ma che fu poi distribuito come When a Man Loves. Gli attori che vediamo sono il fascinoso John Barrymore e la dolcissima Dolores Costello.

Come per le altre due puntate in bianco e nero, anche questa utilizza il cinema come chiave di lettura, con gli spezzoni del film che diventano entr’acte mentre la vicenda rappresentata sul palcoscenico è un film muto girato in un set cinematografico che richiama il padiglione a vetrate di Georges Méliès a Montreuil, compresi il regista in bombetta e baffi, solerti assistenti di studio e operatori alle macchine da presa a manovella. Poi nel terzo atto tutto l’apparato sparisce ed entriamo direttamente nella pellicola con la morte di Manon – un finale tragico generalmente bandito all’Opéra-Comique – che avviene davanti a una rigogliosa foresta, rigorosamente in bianco e nero, nello stile del Douanier Rousseau. Il finale incongruamente oratoriale di Auber, con la redenzione della frivola fanciulla che «s’élève vers l’Éternel», dà lo spunto al regista di chiudere ciclicamente questo terzo episodio portando in scena i personaggi delle due opere precedenti – prima si era intravisto sul balcone della casa in Louisiana il Pierrot Jean-Louis Barrault di Les Enfants du Paradis – a intonare il coro finale, mentre su tre schermi appaiono i visi dei tre personaggi cinematografici femminili con cui Bernard ha voluto illustrare le tre Manon dell’opera lirica.

Qui, funzionano molto meglio che nella Manon di Puccini gli inserti cinematografici, con le loro ingenue didascalie e l’enfatica recitazione, che spiegano quello che manca nel libretto, anticipano o commentano quello che si vedrà, dimostrandosi molto meno invasivi, anzi perfettamente efficaci nello sviluppo drammaturgico della vicenda. Come negli altri casi, anche questa volta è degno di ammirazione il bellissimo lavoro dello scenografo Alessandro Camera, della costumista Carla Ricotti e il disegno luci di Fiammetta Baldiserri.

Alla testa dell’orchestra del teatro, non abituata a questo repertorio ma che si è dimostrata all’altezza della situazione, Guillaume Tourniaire dirige con slancio e vivacità, restituendo la brillantezza della partitura e la trasparenza dell’orchestrazione. Qualche scollamento tra buca e voci in scena, specialmente nei complessi concertati, si risolverà sicuramente nelle repliche. Bravo come sempre il coro istruito da Ulisse Trabacchin che ha risolto con cronometrica precisione lo stralunato sopracitato coro del primo atto. E comunque bravi, assieme all’orchestra, ad adattarsi agevolmente in poco tempo alle tre opere diverse per stile, tono e mano direttoriale.

La parte creata originariamente per Marie Cabel è qui affidata all’agile voce di Rocío Pérez, soprano spagnolo di cui si è ammirata recentemente la sua Olympia ne Les contes d’Hoffmann veneziani. La voce non è enorme, ma la tecnica le permette di affrontare con agio le agilità richieste dai couplet della famosa “Bourbonnaise”, cavallo di battaglia dei soprani coloratura, nella scena chèz Bancelin, o nell’aria con stretta del secondo atto, in cui però fanno difetto una dizione perfettibile e quello spumeggiante esprit de vie che il personaggio deve esprimere per destare la meraviglia e accendere l’entusiasmo del pubblico, cosa che qui in effetti non avviene. Accettabili sono i suoi recitativi parlati, ma questo è uno scoglio su cui tutti i cantanti, chi più chi meno, vanno a cozzare in questo genere a noi così distante dell’opéra-comique con i suoi numeri musicali che si succedono ai passi recitati.

In questa versione il personaggio di Des Grieux è vocalmente meno importante: due soli duetti e nessuna aria solistica. Non esaltante è la performance del tenore Sébastien Guèze, elegante ma dall’emissione un po’ ingolata e senza grande personalità. La parte del leone nell’opera di Auber la fa il Marquis d’Hérigny con tre interventi solistici importanti. Personalità e carisma abbondano nel baritono argentino Armando Noguera che però trova qualche difficoltà nel registro basso che gli scrive Auber. Efficace il Lescaut del basso Francesco Salvadori. Dei molti personaggi secondari di cui pullula l’opera meritano menzione la sapida Mme Bancelin di Manuela Custer, il Renaud di Guillaume Andrieux, la Marguerite di Lamia Beuque, il vivace Gervais di Anicio Zorzi Giustiniani e il Monsieur Durozeau di Paolo Battaglia. Anche in questa produzione si esibiscono alcuni artisti del Regio Ensemble: Tyler Zimmermann (Un sergente), Mark Kim (Un borghese) e Albina Tonkikh (Zaby).

Calorosissimo il pubblico della prima, finalmente numeroso dopo le tristi defezioni di alcune repliche, ma c’è ancora molto lavoro da fare per riaffezionare il vecchio pubblico e conquistare quello nuovo. La qualità e novità delle proposte, come si dimostra, è condizione necessaria ma purtroppo non sufficiente per riempire il teatro di una città che non può contare, come Milano e Venezia, sulla massa dei turisti stranieri.

(1) «Qu’Horace en goguette, | Courant la guinguette, | Verse à sa grisette | Le falerne si doux» (Che Orazio brillo, all’osteria, versi alla sua donnina il Falerno più dolce) sono i versi di una vecchia chanson di Marc-Antoine Désaugiers di inizio ‘800 ben nota ai parigini dell’epoca di Auber.

Manon

foto © Daniele Ratti

Jules Massenet, Manon

Torino, Teatro Regio, 16 ottobre 2024

(cast alternativo)

La presenza di quattro nuovi cantanti è il pretesto per ritornare al bellissimo spettacolo della Manon del Regio per qualche osservazione in più sulla messa in scena, ma anche sui personaggi e sulla musica stessa di Massenet che si conferma di strepitosa sapienza orchestrale. Si pensi anche soltanto al ritmo incalzante che prelude alla scena del gioco nell’Hôtel de Transilvanie, nel quarto atto, su quelle figure pulsanti di clarinetto e fagotto sul pizzicato degli archi di cui forse si ricorderà Prokof’ev nel suo Giocatore tanti anni dopo.

La regia di Arnaud Bernard anche alla seconda visione si conferma riuscitissima, con alcune finezze che erano sfuggite la prima volta, come le immagini che accompagnano il preludio all’atto primo, dove l’Allegro moderato iniziale di tutta l’orchestra ricrea la folla che entra nell’aula del tribunale col suo brusio per poi passare all’Andante moderato quando, dopo un rallentando, entra il clarinetto in si♭solo con un tema lamentoso, che ritornerà come Leitmotiv nell’opera, prescritto in partitura «bien chanté et soutenu». E vediamo allora apparire la figura un po’ spaventata di Dominique, la ragazza accusata di omicidio, qui un’indimenticabile Brigitte Bardot ventiseienne in uno dei film più importanti della sua carriera.

Dei vari piani su cui si sviluppa la messa in scena di Bernard si apprezza la coerenza drammaturgica tra il film, che vediamo in ampi spezzoni, e quanto viene agito dal vivo nella scena divisa in due, con le sapide ma non distraenti controscene, come le reazioni dei magistrati in alto nei loro scranni a quanto viene “rivissuto”, come flashback della protagonista, nella parte bassa. Rispetto all’analoga opera di Puccini, qui il Settecento è meno ingombrante e infatti al regista riesce molto meglio la trasposizione in tempi moderni, come se Massenet ne rendesse più facile l’attualizzazione. Merito è certamente dei librettisti francesi che hanno lavorato con più serenità al testo ricavato da Prévost di quanto sia successo invece per l’affannato iter di quello italiano affidato a un numero inverosimile di mani.

La recita del 16 ottobre è l’unica in cui sono presenti quattro nuovi interpreti nelle parti principali. Avevamo già ammirato Martina Russomanno come principessa Eudoxie ne La Juive su questo stesso palcoscenico e ora ne ritroviamo la brillantezza del registro e le fluide agilità piegate a un ruolo più complesso, che Massenet e i suoi librettisti Meilhac e Gille trasformano in personaggio eterno. Alla sua prima esperienza in un ruolo eponimo, Russomanno dimostra la pienezza di un’interpretazione dalle mille sfaccettature, fin dalla sua prima apparizione in cui la giovane quindicenne che vede il mondo per la prima volta (« Je suis à mon premier voyage!») ne è stordita («Je suis… encor… tout étourdie…» ma anche affascinata («j’admirais, de tous mes yeux […] Les voyageurs… jeunes et vieux…»). La stessa ammirazione che avrà per le sue simili che non devono rinchiudersi in un convento («Combien ces femmes sont jolies!…») e soprattutto per le loro «riches toilettes»: la fascinazione per i gioielli è un carattere dominante nella personalità di Manon («ces parures si coquettes les rendaient plus belles encor!…») fino alla fine, quando anche in punta di morte rivela innocentemente la sua civetteria guardando una stella che si è accese nella sera: «Ah! le beau diamant!… Tu vois… je suis encore coquette!». Con grande sensibilità il soprano delinea il momento di riflessione della ragazza quando si piega alla triste realtà, «Voyons, Manon!… plus de chimères […] Laisse ces désirs éphémères à la porte de ton couvent!», pur tuttavia «combien ce doit être amusant… de s’amuser… toute une vie!…». Manon nel secondo atto intona uno struggente canto alle semplice gioie della vita, «Adieu, notre petite table», per poi nel terzo lanciarsi in un irrefrenabile inno alla gioia: «Profitons bien de la jeunesse, | Des jours qu’amène le printemps; | Aimons, rions, chantons sans cesse, | Nous n’avons encor que vingt ans!». Ed è ancora di Manon uno dei momenti più trascinanti dell’opera di Massenet, quel «N’est-ce plus ma main que cette main presse?» che sarà ripreso nel finale da Des Grieux.

In Armand Des Grieux si ascolta questa sera il tenore Andrei Danilov, artista che dopo il debutto al Teatro di Irkutsk (Russia siberiana) è diventato membro dell’ensemble della Deutsche Oper specializzandosi in ruoli brillanti quali il Duca del Rigoletto, Rinuccio nel Gianni Schicchi, Tamino nel Flauto magico ma anche più drammatici quali Edgardo in Lucia di Lammermoor o Paolo nella Francesca da Rimini. Dotato di squillo e grande proiezione, il suo timbro non è molto ricco di armonici e pur dotato di belle mezze voci tende a risolvere con interventi vocali dove domina la forza momenti in cui si preferirebbe una maggiore intimità. Riesce comunque a instaurare un bel rapporto con il soprano italiano e a rendere appassionati i duetti d’amore tra i due personaggi.

Il Lescaut blouson noir di Bernard trova in Maxim Lisiin una efficace caratterizzazione anche se sul piano vocale al giovane baritono gioverebbe un maggior controllo dei fiati e una sonorità più adatta a forare l’orchestra. Il Des Grieux padre di Massenet ha molte somiglianze col Germont padre di Verdi: stessa apparizione nella sala da gioco e prima, nel parlatorio di Saint-Sulpice, il suo «Épouse quelque brave fille» richiama infallibilmente «Di Provenza il mar, il suol», non nella musica ma nelle intenzioni. Il basso franco-italiano Ugo Rabec, già membro dell’Atelier Lyrique dell’Opera di Parigi, delinea con efficace autorevolezza il personaggio.

Davanti a una platea che numericamente equivaleva a quanti agivano in scena, i cantanti hanno dato il meglio e sono stati premiati dai convinti applausi dei pochi presenti. Ora si spera che questo bello spettacolo possa avere nuova vita in qualche altro teatro o possa essere ripreso in una futura stagione, magari proprio con gli interpreti che hanno avuto questa sola magra occasione.

Manon

 

foto © Daniele Ratti

Jules Massenet, Manon

Torino, Teatro Regio, 5 ottobre 2024

★★★★☆

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Manon in mille sfumature di grigio

Dopo un interessantissimo convegno al Teatro dal Verme a Milano su “Puccini in scena, oggi” organizzato dall’Associazione Nazionale Critici Musicali, seconda giornata dopo quella di Lucca, in cui l’argomento è stato discusso da tre compositori (tra cui Francesco Filidei che debutterà alla Scala con la sua nuova opera Il nome della rosa con la regia di Michieletto), tre sovrintendenti (compreso il nostro Mathieu Jouvin) e tre registi (tra cui Valentina Carrasco che qui al Regio sei mesi fa aveva messo in scena La fanciulla del West), si torna a Torino per la seconda puntata di “Manon Manon Manon”. 

È la volta del «coeur trois fois féminin» della Manon di Massenet, la “meno infedele” all’originale di Prevost, quella con cui si confronterà direttamente, nove anni dopo il debutto nel 1884, Puccini con la sua Manon Lescaut. L’ascolto ravvicinato delle due versioni permette di comprendere il diverso approccio dei due musicisti, accomunati da una felice vena melodica e proprio per questo fino a non molto tempo fa considerati, assieme a Čajkovskij, con mal celato sussiego da certa critica.

La Manon Lescaut di Puccini è il frutto di un compositore 35enne che dopo due tentativi non entusiasmanti trovava la sua strada. La Manon di Massenet era la 14esima opera in una carriera già affermata di un musicista insignito della onorificenza della Légion d’Honneur e rispettato professore di contrappunto che aveva superato il più anziano Saint-Saëns nell’elezione all’Institut de France. Invidie e incomprensioni non gli permisero di far mettere in scena a Parigi la sua Hérodiade, che prese la strada di Bruxelles e che debutterà nella capitale francese solo nel 1884, un mese dopo la prima di Manon la quale si risolse in un successo prodigioso. In questo i due lavori “gemelli” di Puccini e Massenet hanno qualcosa in comune: entrambi aprono definitivamente le porte al successo ai rispettivi autori. Il francese consoliderà la sua fama con Le Cid, Werther, Thaïs, Chérubin, Don Quichotte e nella sua prolifica carriera coprirà la maggior parte dei generi e sottogeneri dell’opera: il grand opéra, l’opéra comique, l’opéra romanesque, la comédie-lyrique, il conte de fées, la farce musicale, la comédie chantée, l’operetta.

Diversi sono i caratteri dell’eroina di Prévost messi in luce dai due compositori. In Puccini Manon è una ragazza ribelle, psicologicamente immatura e incapace di rinunciare, di affrontare il dolore di una perdita, ma nello stesso tempo la sua è la passione disperata di chi si sente irrimediabilmente solo. Probabilmente la Manon di Puccini è quella che più riflette i tormenti del suo autore. La Manon di Massenet incarna invece l’archetipo della femme fatale, volubile e priva di senso morale, continuamente oscillante tra frivolezza e nostalgia.

Su questi tratti si basa la scelta cinematografica di Arnaud Bernard nel secondo pannello del trittico che precede la stagione del Teatro Regio torinese. È infatti la figura iconica di Brigitte Bardot nel film La vérité (1960), anche questo di Henri Georges Clouzot, a fare da filo conduttore alla sua lettura registica. Vediamo infatti le prime immagini della pellicola in bianco e nero mostrarci il tribunale in cui la bella Dominique Marceau è accusata dell’omicidio di Gilbert Tellier, il suo ex fidanzato. Sotto gli sguardi ostili dei giurati e del pubblico, ha inizio il racconto della vita della giovane in numerosi flashback che vediamo rappresentati sul palcoscenico del teatro. Il triplice sipario nero scopre la scena che Alessandro Camera suddivide in due parti: in basso i vari ambienti della vicenda, in alto, sempre presenti, giudici e avvocati magistrati nella loro tribuna. 

Diciamo subito che questa volta l’interazione con il mezzo filmico è riuscita molto meglio, non solo non distrae dalla musica, infatti la precede, ma la completa in maniera molto efficace. L’immedesimazione della protagonista cantante con la figura dell’attrice francese è sorprendente e anche le scelte scenografiche sono azzeccate. Il cortile della locanda di Amiens del primo atto non è molto diverso da quello visto nell’analogo primo atto di Puccini, ma qui la molteplicità di personaggi e di scene non nuoce perché il regista prende a prestito dalla tecnica cinematografica il ralenti e il fermo immagine per isolare le azioni dei singoli personaggi mentre il resto rimane sospeso nel tempo. La scena che manca nella Lescaut italiana, ossia quella dell’intimità domestica dei due giovani, qui costituisce il secondo atto mentre il primo quadro del terzo atto, la passeggiata del Cours-la-Reine è genialmente reso dal regista ambientandolo in un atelier di moda con vetrine di abiti e accessori e una passerella per la sfilata dei modelli, uno dei quali indossato proprio da Manon. Gli eleganti costumi sono disegnati da Carla Ricotti utilizzando le infinite sfumature del grigio.

Molto riuscito è anche il quadro del parlatorio di Saint-Sulpice, dove le severe boiserie del tribunale qui rappresentano la sacrestia in cui Manon va e riprendersi il suo uomo, nel frattempo diventato abate. Nuovamente affollato e movimentato l’atto quarto che si apre sulla sala da gioco dell’Hotel de Transilvanie. Qui Guillot de Morfontaine, scaricato dalle tre ragazze Poussette, Javotte e Rosette si sfoga con Manon fino ad abusarne sessualmente e sarà questo il motivo, assieme all’accusa di barare al gioco, che spinge Manon a ucciderlo con una rivoltella – così come aveva fatto la Manon pucciniana con Geronte di Ravoir – copiando fedelmente quello che avviene nel film di Clouzot, dove vediamo BB in prigione in attesa di giudizio tagliarsi le vene del polso con un pezzo di specchio. L’ultima scena in teatro vede un lettino di ospedale con Manon in procinto di esalare l’ultimo respiro. Stavolta non ci sono più i giudici nella parte superiore, la scena è tutta per Manon e Des Grieux, il quale inutilmente cerca di rianimare la ragazza: «N’est-ce plus ma main que cette main presse?», la stessa frase che Manon aveva usato per strappare il giovane all’abito talare. E con questa frase struggente termina «l’histoire… De Manon… Lescaut!…». 

Questo non è il solo tema ricorrente nella partitura che Evelino Pidò rende con attenzione ai colori strumentali ma senza eccedere in esasperati languori, rispettandone comunque gli slanci passionali. I momenti lirici e quelli brillanti sono realizzati con grande equilibrio e senso del teatro e molto curata è l’attenzione alle voci, qui appartenenti a buoni cantanti che si impegnano con convinzione e coerentemente alle scelte drammaturgiche del regista con la figura della Manon di Ekaterina Bakanova fedelmente ricalcata su quella della Bardot. Vocalmente esordisce con una fresca «Je suis encore toute étourdie» con cui delinea felicemente la freschezza e ingenuità del personaggio unitamente alla sua iniziale rassegnazione a essere rinchiusa in un convento. Il canto si fa più sentimentalmente intenso nell’addio alla «petite table» del secondo atto, poi un po’ di fatica si insinua nei suoi interventi successivi quando la voce deve raggiungere le vette acute di un canto in bilico tra tono brillante e appassionato. Il tenore brasiliano Atalia Ayan parte con qualche lieve difficoltà, poi prende quota e riesce a gestire belle mezze voci espressive nei duetti con Manon, arrivando a delineare con autorevolezza il personaggio di Des Grieux grazie al bel timbro e alla proiezione della voce. Björn Bürger è un vivace Lescaut, così come Thomas Morris si dimostra efficace attore nella parte dell’odioso Guillot de Morfontaine, mentre Roberto Scandiuzzi è un Conte Des Grieux talmente nobile ed elegante da rasentare l’astrazione. Nelle altre parti minori sono impiegati proficuamente membri del coro del teatro che dimostra di aver fatto tesoro del coach fornito: la dizione del francese è incommensurabilmente migliorata negli ultimi tempi. Anche di questo dobbiamo rendere grazie al sovrintendente.

Pubblico non numerosissimo, ma estremamente prodigo di applausi e unanimi i giudizi raccolti tra gli spettatori: «Questa Manon è molto meglio dell’altra»…

Manon Lescaut


 

foto © Simone Borrasi

Giacomo Puccini, Manon Lescaut

Torino, Teatro Regio, 1 ottobre 2024

★★★☆☆

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Cinéma Lescaut

L’omaggio del Teatro Regio di Torino a Puccini nel centenario della sua morte continua con Manon Lescaut, la sua terza opera dopo Le Villi e l’Edgar e la sua prima grande affermazione. Il lavoro debuttava con un clamoroso successo proprio in questo teatro il 1° febbraio 1893 e da allora è spesso presente nei suoi cartelloni. L’ultima volta fu nella stagione 2016-2017 diretta da Gianandrea Noseda con la regia di Borrelli che riutilizzò le scenografie di Thierry Flamand dello spettacolo del 2006 affidato al regista cinematografico Jean Reno. Alla Scala invece l’ultima fu la produzione di David Pountney (quella dei treni…) con la direzione di Riccardo Chailly nel 2019.

L’Histoire du chevalier des Grieux e de Manon Lescaut dell’abate Prevost (1731) aveva già ispirato la Manon Lescaut di Daniel Auber nel 1856 e la Manon di Jules Massenet nel 1884, per non parlare di un meno conosciuto lavoro del compositore irlandese Michael William Balfe (l’autore di The Bohemian Girl) dal titolo The Maid of Artois del 1836, che ebbe come protagonista Maria Malibran. Una curiosità del lavoro di Balfe è che lì c’è un lieto fine: la coppia nel deserto viene salvata. Nel Novecento c’è invece la riscrittura moderna di Hans Werner Henze, Boulevard Solitude (1952), la sua prima opera, in cui il fulcro della vicenda è però Armand des Grieux.

Note sono anche le vicissitudini del libretto, che alla fine è risultato avere ben sette padri, oltre ai citati Illica, Oliva e Praga ci misero mano anche Leoncavallo, Adami, Ricordi e lo stesso Puccini, tanto che nell’edizione a stampa è riportato «testi di autori vari», ma talora è indicato invece «di anonimo». Quello che ne è uscito fuori è piuttosto raffazzonato e con stucchevolezze settecentesche (il «senso dell’antico» sono state bonariamente definite) che i registi di oggi evitano come la peste. Vedi ad esempio la produzione di Jonathan Kent a Londra o di Hans Neuenfels a Monaco e prima ancora quella di Graham Vick a Venezia, anche allora diretta da Renato Palumbo. Così però l’ambientazione moderna fa a pugni con i cocchi, gli ostieri, i tricorni, i calamistri, la cerussa, il minio, la giunchiglia ecc. citati nel libretto…

E infatti è anche quello che fa Arnaud Bernard in questo particolare progetto “Manon Manon Manon” voluto dal sovrintendente del Regio Mathieu Jouvin di presentare in immediata successione le tre più note opere tratte dal testo di Prévost. 

Si parte dunque da quella di Puccini per risalire a quella di Massenet e infine a quella di Auber, allestite in una mini stagione che precede quella ufficiale che partirà il 23 novembre. Le tre opere hanno interpreti e direttori differenti, ma sono tutte affidate per la messa in scena allo stesso Bernard, che ha scelto come chiave di lettura il cinema, in particolare il cinema francese, in tre epoche diverse. Per la Manon Lescaut di Puccini sono i film degli anni ’30-’40, quelli del “realismo poetico” come Quai des brumes (Il porto delle nebbie, 1938) di Marcel Carné; Les enfants du paradis (Amanti perduti, 1945) ancora di Carné; La bête humaine (L’angelo del male, 1938) di Jean Renoir e ovviamente Manon (1949) di Henri-Georges Clouzot.

I riferimenti cinematografici nella messa scena di un’opera oggi non sono certo una novità: ricordiamo fra le tante le regie di Alessandro Talevi per La Cenerentola, di David Livermore per il geniale Ciro in Babilonia e il felliniano Il turco in Italia, La fanciulla del West di Robert Carsen o di Valentina Carrasco.  Ma lì era ricostruito il mondo della celluloide, lo spirito, più che la mera citazione di immagini cinematografiche – che occorre dosare giudiziosamente perché nella percezione la visione è preponderante sull’udito, ha una maggiore immediatezza e cattura prima l’attenzione dello spettatore.

Nella messa in scena di Bernard dominano, ovviamente, i bianchi e neri nei costumi di Carla Ricotti e nella scenografia di Alessandro Camera illuminata dalle luci di Fiammetta Baldiserri. Nel primo atto il piazzale di Amiens è l’interno di una movimentata stazione di autolinee con il confuso via vai dei tanti viaggiatori e qui l’incontro dei due giovani si perde nella molteplicità di scene e controscene sull’affollatissimo palcoscenico. Il secondo è l’elegante salone della casa di Geronte dove non c’è il letto con le “trine morbide”, ma uno schermo cinematografico per la proiezione di spezzoni di Les enfants du paradis e l’arrivo addirittura di Jean-Louis Barrault “Pierrot”per intrattenere la giovane annoiata.

Poi però le cose cambiano con l’intermezzo orchestrale del terzo atto, durante il quale le immagini di Jean Gabin, che bacia appassionatamente le sue innumerevoli partner cinematografiche, riempiono lo schermo mentre l’orchestra dipana le struggenti note. Tra il terzo e il quarto atto navi in balia delle onde rappresentano il viaggio verso l’America dei due sfortunati giovani, un intermezzo muto per lo meno pleonastico. Che poi la visione del mare in tempesta possa indurre un po’ di nausea nel pubblico non è da sottovalutare, ma di certo sembra avere avuto un effetto devastante su Manon, la quale lascia la piattaforma che rappresenta il deserto col video sul fondo di dune sabbiose a perdita d’occhio, avanza sola verso il proscenio ma appena intona una delle arie più strazianti del mondo dell’opera, riappare lo schermo su cui viene proiettato il film di Clouzot e la musica di Puccini si declassa a colonna sonora delle vicende interpretate dal giovane Des Grieux di Michel Auclair e dalla Manon bionda di Cécile Aubry. Una visione che è dir poco definire distraente: con la loro forza visiva l’attenzione dello spettatore è calamitata a scapito della prestazione del povero soprano al buio e schiacciato dalle immagini. Di certo non il miglior tributo alla musica di Puccini. 

Musica che viene eseguita da Renato Palumbo con tono trascinante, una concertazione precisa nelle animate scene di insieme e intensa negli ampi squarci sinfonici così come nei momenti più drammatici. La non felice acustica del teatro esalta il suono dell’orchestra a scapito delle voci e fa sembrare più sonoramente presente di quanto sia effettivamente la sua lettura, con i cantanti che talora faticano a farsi sentire. Non il Geronte di Carlo Lepore, che ha frequentato spesso la parte che risolve con eleganza, sottile ironia e mezzi vocali di prim’ordine. Il Des Grieux di Roberto Aronica non aveva convinto del tutto cinque anni fa alla Scala e ora il suo timbro non è migliorato e maggiori sono gli sforzi a raggiungere le note acute. Intatto invece è il generoso slancio con cui affronta il personaggio. Erika Grimaldi è una seria professionista con eccellenti doti vocali e intelligenza interpretativa con cui supera senza intoppi una parte altamente impegnativa, ma l’interpretazione manca di sensualità e passione e il suo «Sola… perduta… abbandonata!» non commuove. Sarà magari stata colpa del film che viene proiettato in contemporanea. 

Nel resto del cast si distinguono positivamente il sanguigno Lescaut di Alessandro Luongo, Giuseppe Infantino (Edmondo), Didier Pieri (lampionaio e maestro di ballo), l’Artista del Regio Ensemble Janusz Nosek (Oste e Sergente), Lorenzo Battagion (Comandante di marina), i madrigalisti e il coro istruito da Ulisse Trabacchin.

Pubblico caloroso con tutti gli artefici dello spettacolo e in special modo con la protagonista. Sabato sarà la volta della Manon #2, quella francesissima di Massenet. Riferimento cinematografico: Brigitte Bardot! 

Manon

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Jules Massenet, Manon

★★★★☆

New York, Metropolitan Opera House, 26 ottobre 2019

(diretta streaming)

Al MET il felice ritorno di Manon

La produzione di Manon di Laurent Pelly del 2012 (quella con Anna Netrebko) è ripresa al MET con uno dei soprani più acclamati dal suo pubblico, Lisette Oropesa. La affianca come Des Grieux un altro loro beniamino Michael Fabiano. Entrambi sono accolti in scena dagli applausi dei 4000 spettatori e la serata si conclude tra le acclamazioni.

Lo spettacolo li merita comunque, a iniziare dalla messa in scena di Laurent Pelly che ambienta la vicenda ai tempi della composizione (1882), una Parigi Belle Époque da pittura impressionista – soprattutto quella nitida di Gustave Caillebotte, la più influenzata dalla fotografia, e di Edgar Degas, con una ballerina in tutù che attraversa il Cours la Reine – ma guarda già a certo cubismo, con i piani in sbieco dell’Hôtel de Transilvanie o della cappella di Saint-Sulpice. Il disegno scenografico di Chantal Thomas è tutt’altro che cartolinesco e non tende ad addolcire la cruda vicenda, anzi, le colonne pendenti della chiesa e la tetra illuminazione del quinto atto della strada di Le Havre gettano una luce sinistra sul tratto discendente della parabola di Manon Lescaut.

Nella lettura di Pelly è ben sottolineato il ruolo degli uomini nella rovina della donna: questi si muovono in branchi come animali predatori e il loro costume formale – vestono rigorosamente in redingote e frac e hanno il cappello a cilindro – non ne nasconde la libidine, sia quella sfrontata di Guillot de Morfontaine, sia quella più ipocrita di Monsieur de Brétigny o quella travolgente del Chevalier Des Grieux.

La freschezza e l’eleganza del soprano cubano-americano sono i punti di forza di un’interpretazione che ben delinea il personaggio: la giovanile ingenuità e innocenza che diventano seducente civetteria e il tono tragico del finale sono ottenuti con sottigliezza, per sottrazione e più che «sphinx étonnant» è la «charmante personne» che viene in mente nel suo caso. Vocalmente si ammirano il timbro luminoso, la impeccabile dizione e l’agilità. Solo a tratti c’è un quasi impercettibile sbandamento nell’intonazione degli acuti. Non delicato, ma energico e testosteronico il Des Grieux di Michael Fabiano. Mezze voci e ricerca di colori si affiancano a un’intensità espressiva che non si riscontra spesso in questo personaggio. Dei due è lui quello più emotivamente compromesso e in fin dei conti teatralmente più efficace. Apparentemente affabile ma crudelmente calcolatore e spietato il fratello Lescaut trova in Artur Ruciński un interprete efficace ma a scapito di una pessima dizione. Carlo Bosi come Guillot de Morfontaine dimostra la sua proverbiale presenza scenica, Brett Polegato e Kwanchul Youn, rispettivamente Brétigny e Comte Des Grieux, completano un cast di grande livello. La concertazione di Maurizio Benini pone in primo piano la bellezza delle melodie e la preziosità della strumentazione. Coro come sempre inappuntabile quello del Metropolitan.

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Manon

Jules Massenet, Manon

★★★☆☆

Vienna, Staatsoper, 6 giugno 2019

(live streaming)

Un debutto che segna una svolta nella carriera di Flórez

Ambientato nella Parigi tra le due guerre, il “film noir” di Andrei Șerban è un classico dell’Opera di Stato viennese che viene ancora riproposto dopo dodici anni. L’idea che sta dietro a questa ambientazione continua a essere non del tutto convincente però: la Manon di Massenet è più settecentesca nello spirito di quella pucciniana e il ritiro in convento e la partenza per le lande sperdute del Nuovo Mondo faticano a trovare collocazione al Moulin Rouge o tra le «comédiennes» del Cours-la-Reine con le banconote nella giarrettiera.

Nella scenografia di Peter Pabst, dopo la stazione del primo atto ci spostiamo nella stanzetta con vista sulla Tour Eiffel, un manifesto de La comtesse aux pied nus (il film con Ava Gardner e Humphrey Bogart è però del 1954!) identifica il quadro del Cours-la-Reine, un rosone e una vetrata gotica per il quadro in chiesa, un bancone da bar per il quadro del gioco. Curiosa l’idea di utilizzare sagome di legno per alcuni personaggi e relegare il coro in buca.

Dopo aver debuttato nella parte in forma di concerto a Parigi al Théâtre des Champs Élysées, Juan Diego Flórez porta Des Grieux in scena a Vienna. Sappiamo quanto il tenore peruviano prepari i suoi ruoli e anche questa volta non fa eccezione: la voce ora è più scura e l’intensità drammatica se ne avvantaggia, ma manca lo spirito da opéra-comique con il suo particolare codice idiomatico, che invece si ritrova nel Lescaut di Adrian Eröd e nei comprimari Michael Laurenz e Clemens Unterreiner, rispettivamente Morfontaine e Brétigny, la cui presenza attoriale è una sfida non del tutto vinta per Flórez. Ma questo non significa nulla per il pubblico viennese che non la smette di acclamarlo confortandolo sulla sua scelta di muovere a un repertorio meno belcantistico. Felice serata anche per Nino Machaidze, Manon sensuale e avvenente, dal timbro chiaro ma non troppo leggero. La dizione è piuttosto approssimativa, soprattutto nei recitativi, ma glielo si perdona. Direzione brillante quella di Frédéric Chaslin con tempi talora sorprendenti.

Manon Lescaut

Giacomo Puccini, Manon Lescaut

★★★★☆

Monaco, Nationaltheater, 31 luglio 2015

(video streaming)

 Manon in bianco e nero

Questa produzione di Monaco doveva avere come elementi di richiamo il ritorno di Jonas Kaufmann nel ruolo di Des Grieux e il debutto di Anna Netrebko come Manon Lescaut. Il forfait del soprano russo, causato da “divergenze artistiche” col regista, aveva alimentato ancor più la curiosità sulla messa in scena. Dopo i ratti nel Lohengrin di Bayreuth, chissà cosa si sarà inventato Hans Neuenfels, uno dei maggiori rappresentanti del Regietheater?

E invece, certo non è una produzione accademica, ma anche con tutte le concessioni ai vezzi del teatro di regia contemporaneo, la sua lettura è molto coerente col libretto e l’allestimento ha un’essenzialità tale da mettere in luce il dramma di Puccini secondo la visione filosofica dell’autore, l’abbé Prevost, che nel suo romanzo “morale” voleva mostrare «un esempio terribile della forza delle passioni».

Se a tutto questo aggiungiamo il fatto che a rimpiazzare la diva schizzinosa è stata chiamata Kristine Opolais, la stessa partner di Kaufmann nell‘edizione londinese dell’anno prima che tanto scalpore aveva fatto per la sensualità d’intesa fra i due artisti, si spiega il grande successo di questa produzione.

Spoglia di qualunque orpello settecentesco, la scenografia di Stefan Mayer consiste in linee di neon che disegnano un parallelepipedo nel vuoto, una scatola nera, una gabbia senza pareti in cui agiscono dei personaggi spinti dalle passioni e osservati da una folla senza sentimenti. I costumi di Andrea Schmidt-Futterer connotano in questo senso gli attori in scena: nero per i due protagonisti principali, grigio in tutte le sfumature per gli altri. Un certo richiamo al mondo del circo è evidente nel costume da domatore di Edmondo, nei tristi clown grigi con parrucca rossa degli abitanti di Amiens, nella diligenza trainata da boys con le piume di struzzo nere in testa, nel maestro di musica scimmiesco. La complessa pantomima del secondo atto è messa a nudo da Neuenfels nella crudezza di quello che veramente è, ossia una scena di lenocinio e voyerismo: un pubblico in rossi abiti vescovili (gli «abati» del libretto) osserva la giornata della giovane mantenuta come se fosse uno spettacolo –  lo schiavo gigolo che agisce per conto del vecchio impotente, la lezione di ballo, il madrigale. Invece degli arredamenti rococo, le poche suppellettili in acciaio cromato e l’étagère piena di scintillanti oggetti di cristallo suggeriscono la freddezza glaciale dell’ambiente e la fragilità delle passioni, uno specchio sempre presente la fatuità e la civetteria di Manon, ma serve anche a riflettere l’immagine del vecchio nel confronto impietoso: «Amore? Amore!… | Mio buon signore, | ecco!… Guardatevi! | Se errai, leale | ditelo!… E poi | guardate noi!». Al terzo atto non manca la passerella che conduce alla nave, qui un buco nella parete di fondo dagli orli bruciati, un’entrata all’inferno. Le donne, nominate una a una, qui sono rese anonime da una calza sul viso così come nel primo atto le fanciulle («Tra voi, belle, brune e bionde») erano  rese indistinguibili da una felpa con cappuccio che ne nascondeva il volto. Del tutto spoglio il quarto atto: la luce dei neon è la luce accecante del sole del «deserto della Louisiana» e i due protagonisti in nero e a piedi nudi hanno soltanto la voce e il corpo per esprimere l’angoscia quasi sadica di questo finale pucciniano.

Il libretto di Manon Lescaut s’è sempre detto essere quanto mai episodico, dovendo trattare un esteso romanzo in soli quattro quadri, lasciando quindi allo spettatore il compito di riempire i gap narrativi tra il primo e il secondo atto (dopo essere fuggiti a Parigi i due giovani hanno vissuto assieme, ma Manon si è stancata della povertà e ha seguito il consiglio del fratello di ritornare tra le «trine morbide» offertele del vecchio Geronte), tra il secondo e il terzo (l’arresto e la condanna di Manon per furto) e tra il terzo e il quarto (in America il figlio del governatore si è innamorato della ragazza e Des Grieux l’ha ucciso a duello: per questo i due sono fuggiti nel deserto). Neuenfels opta per dei testi esplicativi, alcuni tratti dal romanzo di Prevost,  tra una scena e l’altra. Un espediente forse pleonastico per informare il pubblico.

In questo allestimento minimalista tutto è puntato sull’abilità attoriale degli interpreti, qui eccezionali. Sulla vocalità c’è poco da aggiungere: la gloriosa prestazione di Kaufmann qui è ancora più intensa e della Opolais si confermano la sensibilità e il timbro. Ottimi sono il Lescaut di Markus Eiche e il Geronte di Roland Bracht, quest’ultimo supplisce alla stanchezza della voce con un’efficace prestazione scenica. Nel breve intervento madrigalistico si fa notare Okka von der Damerau mentre Edmondo trova in Dean Power la giusta vivacità.

Improntata a grande drammaticità e teatralità la direzione di Alain Antinoglu anche se l’orchestra talora copre i cantanti, o per lo meno così sembra nella registrazione il cui audio non è ottimale.

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Manon Lescaut

Giacomo Puccini, Manon Lescaut

★★★★☆

Londra, Royal Opera House, 24 giugno 2014

(video streaming)

Una Manon Lescaut a luci rosse

Il problema della Manon Lescaut è sempre lo stesso: il libretto. Da tempo però i registi che la devono mettere in scena non si lasciano più condizionare da quell’indigeribile “setteciuento” con cui è narrata la vicenda e la propongono in costumi contemporanei, come Jonathan Kent al Covent Garden. L’osteria di Amiens qui diventa un motel squalliduccio, il “palazzo aurato” di Geronte un boudoir/teatrino pesantemente decorato, il piazzale presso il porto di Le Havre un deposito di masserizie con sullo sfondo il retro del motel aperto sulle camere delle prostitute, la landa sterminata della Louisiana un viadotto semicrollato con un poster della Monument Valley.

Nel primo atto Manon arriva su un’auto dell’est e non c’è dubbio che – altro che convento! – le idee del fratello siano fin da subito chiare nello sfruttare la ragazza proponendola al vecchio Geronte, il quale da par sua nel secondo atto la utilizza per far girare dei video per adulti. Il maestro di danza è qui infatti un regista di porno e il minuetto uno spettacolino per un pubblico di vecchi libidinosi. Uno di questi è lo stesso Des Grieux travestito che è venuto a riprendersi la ragazza. Segue il duetto ardente dei due giovani: Manon in parrucca biondo platino, guépière rosa e calze bianche accoglie sul suo letto il giovane appassionato per un fuggevole incontro prima dell’arrivo di Geronte. Anche la deportazione avviene sotto l’occhio delle telecamere, come in un reality show e l’appello delle donne è una squallida e impietosa sfilata di esemplari femminili degradati. La regia video rende molto cinematografica la resa visiva dello spettacolo.

Pappano solleva ondate di musica dall’orchestra, ma fa anche assaporare le finezze e audacie strumentali di una partitura che appartiene sì al Verismo, ma risente della temperie culturale dell’epoca ancora impregnata di wagnerismo e allo stesso tempo alla ricerca di nuovi linguaggi.

In scena due cantanti di eccezione che debuttano nei ruoli: Kristīne Opolais è una seducente Manon che passa dalla gonna a fiori e dal giubbino di jeans all’outfit sexy all’agonia finale in maniera convincente e con una vocalità sontuosa. La voce scura e lo squillo potente di Jonas Kaufmann aiutano a delineare un Des Grieux appassionato e scenicamente fulgido. Christopher Maltman si conferma grande attore e ottimo cantante nel proporre un fratello Lescaut meschino e corrotto mentre Maurizio Muraro, unico italiano del cast ma la dizione è eccellente in tutti gli altri interpreti, è un autorevole Geronte.

Manon Lescaut

Giacomo Puccini, Manon Lescaut

Milano, Teatro alla Scala, 3 aprile 2019

★★☆☆☆

(video streaming)

Manon à la gare

Da tempo i registi che mettono in scena Manon Lescaut si sbarazzano tranquillamente del suo “setteciuento”, aspetto consustanziale al testo che gli innumerevoli librettisti avevano ricavato dall’opera di Prévost.

Ultimo arrivato, David Pountney per la sua produzione scaligera ambienta la vicenda al tempo della Belle Époque, l’epoca che ha scoperto i mezzi della modernità: le stazioni, i treni, i transatlantici, le macchine fotografiche – come in un romanzo di Jules Verne. E tra le invenzioni che rendono la vita più facile ed eccitante, in uno dei vagoni del treno di lusso di proprietà di Geronte fa bella mostra di sé la chaise de volupté che il futuro re d’Inghilterra Edoardo VII si era fatto costruire a Parigi e che utilizzava nella camera a lui riservata allo Chabanais, il postribolo più lussuoso della capitale. Questa è una delle trovate più piccanti della scenografia di Leslie Travers, l’aspetto migliore di uno spettacolo che ha nella regia la componente più contestata dal pubblico e dalla critica.

Il regista inglese, ora cittadino polacco, popola la scena di tante Manon Lescaut nelle varie fasi d’età per evidenziare la sottomissione della protagonista all’uomo da cui accetta fin da bambina le “caramelle”. La vicenda è poi rivissuta dalla donna come il solito flashback: fin dall’inizio la vediamo sdraiata sul carrello ferroviario su cui spirerà all’ultimo atto. Il suo ingresso nell’azione avviene tramite una controfigura cui presta la voce (!) e a cui si sostituisce a un certo momento – e qui la regista televisiva Patrizia Carmine non perde l’occasione per la solita dissolvenza in stile cinematografico…

Pountney rinuncia a un qualunque lavoro attoriale sugli interpreti: qui abbiamo un soprano e un tenore che arrivano in scena e cantano la loro parte, occhi fissi al direttore d’orchestra, e che nei duetti stanno alla maggior distanza possibile l’uno dall’altra senza il minimo coinvolgimento tra loro né col pubblico. Non commuoversi alla Manon di Puccini è quasi impossibile, eppure. O forse il regista non riesce ad ottenerlo, questo lavoro attoriale: Roberto Aronica sostituisce all’ultimo momento in Des Grieux Marcelo Álvarez la cui gola è vittima, a suo dire, dello smog milanese mentre da Maria José Siri l’ultima cosa che ci si aspetta è una spigliata e convincente presenza scenica. Vocalmente il soprano uruguaiano si conferma all’altezza, ma di sensualità e malizia non c’è traccia nel suo personaggio. Meno convincente vocalmente è Aronica. Massimo Cavalletti e Carlo Lepore delineano i due personaggi di Lescaut e Geronte, fin troppo simpatico il secondo, ma vocalmente più interessante.

Riccardo Chailly continua la sua proposizione di originali pucciniani: quella che concerta ora è l’edizione che videro i torinesi al teatro Regio il primo febbraio 1893, non una delle altre sette revisioni. Le maggiori differenze si trovano nel finale del primo atto e nel postludio all’aria di Manon nel quarto. Difficile giudicarne la resa dalla registrazione televisiva e dall’uso dei microfoni: il suono dell’orchestra e quello delle voci rimangono come separati nella ripresa. È comunque evidente la lettura analitico-filologica di Chailly che esalta i momenti “sinfonici” della partitura che viene suonata senza interruzione e spazi per gli applausi – se mai ce ne fossero stati.