
foto © Simone Borrasi
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Daniel Auber, Manon Lescaut
Torino, Teatro Regio, 17 ottobre 2024
★★★★☆
ici la version française sur premiereloge-opera.com
Auber conclude il progetto delle tre Manon al Regio di Torino
Un secolo dopo la pubblicazione del settimo e ultimo volume delle Mémoirs et aventures d’un homme de qualité dell’abbé Prévost, “L’Histoire du Chevalier des Grieux et de Manon Lescaut” fu messa in musica per un balletto-pantomima su testo di Eugène Scribe con musiche di Halévy. Quando, ancora su libretto dello stesso Scribe, Manon Lescaut divenne un’opéra-comique, il suo autore Daniel François Esprit Auber aveva 74 anni. Il lavoro debuttava infatti il 23 febbraio 1856 alla Salle Favart ed era il quint’ultimo di una lunga e feconda carriera (47 titoli di cui ben 38 su libretto di Scribe) iniziata nel 1805 e che si sarebbe conclusa solo nel 1869, due anni prima della morte del compositore.
Allievo di Cherubini, Auber gli successe come direttore al conservatorio parigino grazie a Luigi Filippo, mentre Napoleone III lo nominò Maître de Chapelle Impériale. Il suo stile spiccatamente individuale e caratterizzato da leggerezza, vivacità ed eleganza tipicamente francesi si ritrova in questa sua Manon Lescaut, ma si capisce anche come sia Massenet sia Puccini non temessero il confronto con il lavoro: la Manon di Auber è una macchinetta per agilità canore senza grande spessore psicologico e nei primi due atti la musica è una serie di motivi da operetta sui versi ironici di un libretto frivolo – «Me voler ma maîtresse | et son amour… d’accord! | Mais, mon souper, Monsieur, | ah! c’est vraiment trop fort!» (Rubarmi l’amante e il suo amore, va bene, ma la mia cena, signore, è davvero troppo!), come esclama il marchese d’Hérigny, uno dei due personaggi inseriti da Scribe e assenti negli altri libretti: il marchese d’Hérigny appunto, uno Scarpia che si redime in punto di morte, e Marguerite, l’alter-ego saggio e piuttosto borghese di Manon. Scribe e Auber, condizionati dalla destinazione del lavoro, ossia i palcoscenici in cui veniva rappresentato il genere opéra-comique, privilegiano gli aspetti brillanti della vicenda e la scrittura virtuosistica della protagonista, così che la loro Manon Lescaut diventa un affare di “guinguette, goguette et grisette” (1), come canta il coro del primo atto.

Nei primi tre anni l’opera fu rappresentata 63 volte per poi essere dimenticata e rivivere centoventi anni dopo in un’incisione discografica del 1975 con Mady Mesplé e nel 1984 in un’edizione al Filarmonico di Verona con Mariella Devia. La produzione ora sul palcoscenico del Regio, affidata alla direzione di Guillaume Tourniaire e alla messa in scena di Arnaud Bernard, conclude il progetto “Manon Manon Manon” del teatro torinese. La volontà del regista di abbinare a ciascun titolo operistico un prodotto del cinema francese qui si scontra col fatto che, stranamente, oltre a quella di Clouzot, non ci sia un’altra Manon, neanche nel cinema muto: la Manon Lescaut del 1926 (con Marlene Dietrich tra i personaggi secondari) è una produzione tedesca, mentre ricca è la filmografia italiana che nel 1911 ha un muto con Francesca Bertini, il 1940 vede la Manon Lescaut di Carmine Gallone con Alida Valli e Vittorio De Sica e il 1954 Gli amori di Manon Lescaut di Mario Costa con Myriam Bru e Franco Interlenghi. Bernard si rivolge quindi oltre oceano con il film di Alan Crosland del 1927, che originariamente doveva intitolarsi Manon Lescaut ma che fu poi distribuito come When a Man Loves. Gli attori che vediamo sono il fascinoso John Barrymore e la dolcissima Dolores Costello.
Come per le altre due puntate in bianco e nero, anche questa utilizza il cinema come chiave di lettura, con gli spezzoni del film che diventano entr’acte mentre la vicenda rappresentata sul palcoscenico è un film muto girato in un set cinematografico che richiama il padiglione a vetrate di Georges Méliès a Montreuil, compresi il regista in bombetta e baffi, solerti assistenti di studio e operatori alle macchine da presa a manovella. Poi nel terzo atto tutto l’apparato sparisce ed entriamo direttamente nella pellicola con la morte di Manon – un finale tragico generalmente bandito all’Opéra-Comique – che avviene davanti a una rigogliosa foresta, rigorosamente in bianco e nero, nello stile del Douanier Rousseau. Il finale incongruamente oratoriale di Auber, con la redenzione della frivola fanciulla che «s’élève vers l’Éternel», dà lo spunto al regista di chiudere ciclicamente questo terzo episodio portando in scena i personaggi delle due opere precedenti – prima si era intravisto sul balcone della casa in Louisiana il Pierrot Jean-Louis Barrault di Les Enfants du Paradis – a intonare il coro finale, mentre su tre schermi appaiono i visi dei tre personaggi cinematografici femminili con cui Bernard ha voluto illustrare le tre Manon dell’opera lirica.
Qui, funzionano molto meglio che nella Manon di Puccini gli inserti cinematografici, con le loro ingenue didascalie e l’enfatica recitazione, che spiegano quello che manca nel libretto, anticipano o commentano quello che si vedrà, dimostrandosi molto meno invasivi, anzi perfettamente efficaci nello sviluppo drammaturgico della vicenda. Come negli altri casi, anche questa volta è degno di ammirazione il bellissimo lavoro dello scenografo Alessandro Camera, della costumista Carla Ricotti e il disegno luci di Fiammetta Baldiserri.

Alla testa dell’orchestra del teatro, non abituata a questo repertorio ma che si è dimostrata all’altezza della situazione, Guillaume Tourniaire dirige con slancio e vivacità, restituendo la brillantezza della partitura e la trasparenza dell’orchestrazione. Qualche scollamento tra buca e voci in scena, specialmente nei complessi concertati, si risolverà sicuramente nelle repliche. Bravo come sempre il coro istruito da Ulisse Trabacchin che ha risolto con cronometrica precisione lo stralunato sopracitato coro del primo atto. E comunque bravi, assieme all’orchestra, ad adattarsi agevolmente in poco tempo alle tre opere diverse per stile, tono e mano direttoriale.
La parte creata originariamente per Marie Cabel è qui affidata all’agile voce di Rocío Pérez, soprano spagnolo di cui si è ammirata recentemente la sua Olympia ne Les contes d’Hoffmann veneziani. La voce non è enorme, ma la tecnica le permette di affrontare con agio le agilità richieste dai couplet della famosa “Bourbonnaise”, cavallo di battaglia dei soprani coloratura, nella scena chèz Bancelin, o nell’aria con stretta del secondo atto, in cui però fanno difetto una dizione perfettibile e quello spumeggiante esprit de vie che il personaggio deve esprimere per destare la meraviglia e accendere l’entusiasmo del pubblico, cosa che qui in effetti non avviene. Accettabili sono i suoi recitativi parlati, ma questo è uno scoglio su cui tutti i cantanti, chi più chi meno, vanno a cozzare in questo genere a noi così distante dell’opéra-comique con i suoi numeri musicali che si succedono ai passi recitati.
In questa versione il personaggio di Des Grieux è vocalmente meno importante: due soli duetti e nessuna aria solistica. Non esaltante è la performance del tenore Sébastien Guèze, elegante ma dall’emissione un po’ ingolata e senza grande personalità. La parte del leone nell’opera di Auber la fa il Marquis d’Hérigny con tre interventi solistici importanti. Personalità e carisma abbondano nel baritono argentino Armando Noguera che però trova qualche difficoltà nel registro basso che gli scrive Auber. Efficace il Lescaut del basso Francesco Salvadori. Dei molti personaggi secondari di cui pullula l’opera meritano menzione la sapida Mme Bancelin di Manuela Custer, il Renaud di Guillaume Andrieux, la Marguerite di Lamia Beuque, il vivace Gervais di Anicio Zorzi Giustiniani e il Monsieur Durozeau di Paolo Battaglia. Anche in questa produzione si esibiscono alcuni artisti del Regio Ensemble: Tyler Zimmermann (Un sergente), Mark Kim (Un borghese) e Albina Tonkikh (Zaby).
Calorosissimo il pubblico della prima, finalmente numeroso dopo le tristi defezioni di alcune repliche, ma c’è ancora molto lavoro da fare per riaffezionare il vecchio pubblico e conquistare quello nuovo. La qualità e novità delle proposte, come si dimostra, è condizione necessaria ma purtroppo non sufficiente per riempire il teatro di una città che non può contare, come Milano e Venezia, sulla massa dei turisti stranieri.
(1) «Qu’Horace en goguette, | Courant la guinguette, | Verse à sa grisette | Le falerne si doux» (Che Orazio brillo, all’osteria, versi alla sua donnina il Falerno più dolce) sono i versi di una vecchia chanson di Marc-Antoine Désaugiers di inizio ‘800 ben nota ai parigini dell’epoca di Auber.
⸪