Andrea Leone Tottola

Mosè in Egitto

Gioachino Rossini, Mosè in Egitto

Modena, Teatro Comunale Pavarotti-Freni, 18 ottobre 2024

★★★★☆

(video streaming)

Tra tradizione e tecnologia: il Mosè di Modena

Mosè in Egitto (Napoli, 1818 e 1819) e Moïse et Pharaon (Parigi, 1827) sono due stesure così diverse che è lecito considerarle due opere distinte. D’accordo che hanno in comune un 60% di musica, ma la lingua, i nomi dei personaggi, la sequenza dei numeri musicali e la presenza di balletti in quella francese fanno della versione napoletana un “oratorio sacro” – questo per aggirare il divieto di mettere in scena opere nel periodo quaresimale – e di quella parigina un grand-opéra. Quest’ultima è la versione che ritradotta in italiano viene talora data in Italia col titolo abbreviato Mosè.

Ora a Modena, al Teatro Comunale Pavarotti-Freni e coprodotto con i teatri di Piacenza e Reggio Emilia, viene messa in scena la versione napoletana del 1819. Il regista Pier Francesco Maestrini costruisce uno spettacolo in linea con il suo stile, minimalista nei mezzi e con una sua grandiosità nei risultati, grazie a un doppio schermo, un velatino al proscenio e uno sul fondo, su cui vengono proiettate le immagini video di Nicolás Boni con effetto 3D. Ecco allora il cielo plumbeo solcato da fulmini, la pioggia di fuoco, il mare che si divide, ma anche gli interni della reggia del faraone o la grotta del secondo atto. Essenziali le scenografie realizzate dal Laboratorio di scenografia del Teatro Comunale di Modena che si adattano alla scelta iconografica del regista. I costumi di  Stefania Scaraggi rimandano all’epoca biblica e distinguono i due popoli antagonisti, con ampio uso dell’oro per gli egizi. Grazie alle luci di Bruno Ciulli i momenti clou della vicenda raggiungono la loro giusta dose di spettacolarità. Con la profondità affidata alla prospettiva delle immagini video, la scena si rivela appiattita e i movimenti delle masse corali piuttosto limitati, il che sottolinea la formula oratoriale che era nelle intenzioni dell’autore. Anche la gesticolazione è lasciata alla buona volontà degli interpreti, quasi esagitata quella di Osiride, totalmente statica quella di Amaltea.

Niente da dire invece sul fronte musicale, dove Giovanni Di Stefano alla direzione dell’Orchestra Filarmonica Italiana dà il giusto tono a questa opera seria di Rossini, con i suoi momenti di intimità alternati a quelli più grandiosi, qui ottenuti senza esagerare con la magniloquenza. Ottimo l’equilibrio sonoro con la scena calcata da sicuri professionisti. Primo fra tutti Michele Pertusi che del personaggio del titolo delinea con grande autorevolezza la figura solenne eppure umana. La voce è ancora gloriosamente ben proiettata, la parola magistralmente scolpita come sempre, magnifici i colori e le mezze voci esibiti nei due maggiori numeri musicali di Mosé: l’aria Tu di ceppi, composta da un collaboratore ignoto di Rossini e la meravigliosa preghiera Dal tuo stellato soglio, bissata a furor di popolo. Molto bene l’Elcìa di Aida Pascu (allieva di Rajna Kabaivanska) dal timbro affascinante e dal fraseggio elegante. Brillante e perfettamente a suo agio nella tessitura l’Osiride di Dave Monaco, il personaggio portato al successo nel Rossini Opera Festival del 1985 da Rockwell Blake. Statica scenicamente e abbastanza monotona vocalmente, Mariam Battistelli risolve invece efficacemente la sua aria con coro La pace mia smarrita, su musica del Ciro in Babilonia. Grande attenzione alla parola anche per il Faraone di Andrea Pellegrini. Particolarmente squillante l’Aronne di Matteo Mezzaro, mentre Angela Schisano e Andrea Galli si distinguono nelle parti secondarie di Amenofi e Mambre. Ottima prova quella fornita dal Coro Lirico di Modena istruito da Giovanni Farina.

Alfredo il Grande

foto © Gianfranco Rota

Gaetano Donizetti, Alfredo il Grande

Bergamo, Teatro Donizetti, 19 novembre 2023

★★★★★

bandiera francese.jpg  ici la version française sur premiereloge-opera.com

Grandissimo successo per una gemma ritrovata

Con il progetto #Donizetti200, che consiste nel rappresentare in ogni edizione un’opera composta dal grande bergamasco nello stesso anno di due secoli prima, il 2023 offriva la scelta tra due lavori: Il fortunato inganno e Alfredo il Grande. Il Festival Donizetti Opera quest’anno ha optato per il secondo titolo. Dopo Pietro il Grande Donizetti affrontava un altro personaggio storico passando dalla Livonia all’Inghilterra in un melodramma eroico che avrebbe segnato il suo debutto a Napoli, la più importante “piazza” operistica italiana del tempo. Quel 2 luglio 1823 l’opera non riscosse alcun successo e non ebbe repliche. Non piacque il verboso e improbabile libretto di Andrea Leone Tottola che ricalcava quello omonimo di Bartolomeo Merelli del 1819 per Simone Mayr, il maestro di Donizetti, a sua volta tratto dall’Eraldo ed Emma (1805) di Gaetano Rossi.

Atto I. Sull’isola di Athelney, nel Somerset, la regina Amalia, seguita dal generale Eduardo, sta cercando in gran segreto re Alfredo, in fuga dai danesi che Io cercano a loro volta dopo aver invaso l’Inghilterra. Pastori e contadini accolgono i due stranieri, di cui ignorano l’identità. In lontananza si ode una marcia militare e poco dopo si vedono sfilare sulle colline truppe danesi. Dopo aver ricordato la sventura dell’invasione, il pastore Guglielmo offre ospitalità ad Amalia ed Eduardo. Chiede soltanto di rispettare «il cupo dolor» di un altro sconosciuto, che da qualche tempo il pastore ha accolto nella sua casa. Nel frattempo, i danesi Atkins e Rivers hanno individuato i due inglesi in incognito. Seguono la regina Amalia e il suo accompagnatore fin da Londra, sperando che le loro ricerche possano condurli ad Alfredo. Lo sconosciuto e proprio lui, Alfredo. Ha visto anche lui le schiere danesi avvicinarsi ed è assalito nuovamente dal timore di essere catturato prima di poter organizzare una riscossa. Ma dopo aver scacciato quei sentimenti negativi si prepara a vendere cara la sua cattura. Senti avvicinarsi qualcuno, si dispone a celare la sua vera identità e a trattenere l’atroce sofferenza che gli è causata da questa forzata clandestinità. Amalia ed Eduardo vengono introdotti nella capanna di Guglielmo Da Enrichetta, una contadina inglese, e da altre sue compagne.Amalia è impaziente di incontrare l’altro ospite sconosciuto, perché spera di poter riconoscere in lui il re che sta cercando. Quando finalmente il suo sguardo si incrocia con quello del misterioso straniero, per entrambi la gioia di essersi ritrovati è immediata. Atkins, che li ha seguiti fino a lì, fingendosi un inglese si avvicina alla capanna di Guglielmo. Il piano suo e di Rivers ha funzionato: seguendo Amalia, hanno intercettato il re in fuga. Sempre sotto mentite spoglie rivela al re che i danesi lo hanno scoperto e lo invita a lasciare il villaggio e a rifugiarsi altrove. Guglielmo si offre allora di guidarli per un sentiero nascosto fra le montagne; ma Atkins, che ha potuto ascoltare tutto, li precede e tende loro un’imboscata con le sue truppe: attende il drappello composto da Alfredo, Amalia, le due contadine Enrichetta e Margherita, e lo sorprende con i soldati armi in pugno. Tutto sembra perduto, ma ecco comparire un piccolo esercito di soldati e contadini inglesi, guidati da Eduardo e Guglielmo. Sono determinati e agguerriti, e riescono a sventare l’assalto e la cattura del re. I danesi battono in ritirata.
Atto II. Rinvigorito dal soccorso e dal sostegno ricevuti, Alfredo decide che è giunto il momento di riprendersi il suo regno. E inizia da lì, dal Somerset. Chiede a Guglielmo di raccogliere tutti coloro che voglio combattere al suo fianco. Nel veder crescere il morale del marito, Amalia manifesta la sua contentezza. Entrambi fanno propositi di condividere la sorte che li attende e si dicono sicuri di una futura vittoria. Alcune contadine vengono a riferire che sono in arrivo truppe britanniche sull’isola. Alfredo saluta allora Amalia e va incontro ai suoi uomini, mentre le contadine circondano la regina cercando di placare la sua agitazione. Margherita raccoglie la preoccupazione di Enrichetta per lo stato di ansietà della sua regina e fuga l’ansia di lei, che alla fine prorompe in un canto rasserenato. Le truppe sono tutte schierate: da un lato i militari inglesi, dall’altro bande di pastori armati, tutti desiderosi di combattere per il loro re. Eduardo li scalda annunciando l’arrivo di Alfredo. Quando il re compare, le schiere lo salutano battendo con entusiasmo le spade sugli scudi, e cantano un coro di lode. Alfredo, da parte sua, motiva i suoi uomini alla battaglia con un’orazione carica di passione, dopodiché si mette alla testa dei soldati, con Eduardo al fianco, mentre Guglielmo conduce le schiere di pastori. E tutti marciano con passo accelerato. Atkins, con una sparuta pattuglia di soldati danesi, osserva dal folto di una selva i movimenti militari del nemico inglese e manifesta la sua disdetta per il mutamento di stato d’animo di Alfredo. Il destino sembra aver rapidamente rovesciato in perdite i trionfi, ha scaraventato i danesi dalle «stelle» agli «abissi», dove sembra caduta anche la temuta Reafan (la bandiera della vittoria danese). Poi, alzando lo sguardo, Atkins vede poco distante tra la vegetazione Amalia, sempre seguita dalla fida Enrichetta. E decide di catturarla e sfruttarla come ostaggio. Assalita, Amalia coraggiosamente resiste. Impugna uno stilo, e malgrado Enrichetta cerchi di farla desistere, affronta Atkins a viso aperto. In quell’istante Eduardo, che è stato incaricato da Alfredo di proteggere Amalia, nell’attraversare con un drappello di soldati la selva, scorge Atkins e i suoi danesi mentre circondano la regina. Si lancia con i suoi uomini all’attacco, mette in fuga i nemici e cattura Atkins. Rivers si trova a coprire un altro fronte. È smarrito. Non ha notizie di Atkins e vede le truppe danesi soccombere sotto l’irruenza di quelle inglesi. È preso dal panico e fugge. L’esercito inglese marcia e canta il suo trionfo, acclamando il re. Alfredo ha Amalia al suo fianco ed è circondato dalle altre persone fidate, Enrichetta, Eduardo, Guglielmo. La regina è sopraffatto dalla gioia, ma dopo un iniziale momento di smarrimento, si lancia in un inno alla pace e a un futuro di felicità.

Mandandolo in scena per la prima volta in epoca moderna, il Festival di Bergamo offre a questo lavoro una prova d’appello e diciamo subito che il pubblico ha apprezzato sia la parte musicale sia quella visiva dello spettacolo, affidato a un non conosciutissimo Stefano Simone Pintor che ha saputo dare una lettura convincente a un’opera che rivela non pochi buchi drammaturgici. Proprio partendo da questo evidente difetto, Pintor ha ideato una messa scena che parte inizialmente da una esecuzione da concerto con gli spartiti in mano ai cantanti e al coro, per inserire a mano a mano i costumi dell’epoca, disegnati da Giada Masi. E allora le copertine in mano ai coristi diventano degli scudi con la croce rossa su fondo bianco. Partendo dalla figura del sovrano che promosse l’alfabetizzazione dei suoi sudditi, ecco i libri che piovono dall’altro nel video o sono sparsi in scena: la cultura contro la barbara violenza, la lettura contro il rogo delle biblioteche. 

Nella regia di Pintor i personaggi/interpreti si muovono con efficacia all’interno di una semplice struttura scenografica. Anche qui sullo stesso led wall de Il diluvio universale appaiono immagini reali, quali incendi, distruzioni e l’assalto a Capitol Hill (con il copricapo cornuto dello shamano che troveremo sulle teste dei danesi!), alternate a una grafica ironica ed elegante che utilizza i codici e le miniature dell’epoca. Ma la presenza delle immagini qui è molto meno invasiva e non distrae dalla musica come era invece successo nel Diluvio. 

Musica che si rivela sorprendente per bellezza e originalità: a momenti viene il sospetto che il Maestro Corrado Rovaris, che dirige l’Orchestra Donizetti Opera, si sia divertito a inserire pagine estranee, ma il fatto è che alcuni momenti richiamano un Rossini a venire – c’è infatti l’inno che troveremo nel Viaggio a Reims! – tanto è felice l’invenzione tematica e strumentale della partitura messa sapientemente in risalto dalla sua concertazione. Gli scatti ritmici delle marcette (alcune suonate da una grande banda in scena), i solenni toni degli inni, lo slancio delle cavatine, i colori degli strumenti, le gemme melodiche, la raffinata armonizzazione, tutto è reso con mano felice e l’equilibrio tra buca e voci sul palco viene mirabilmente realizzato. (1)

Al debutto di Alfredo il Grande nel 1823 nella parte eponima ci fu il celebrato baritenore bergamasco Andrea Nozzari. Qui Antonino Siragusa, cantante rossiniano per eccellenza, ne rileva la sfida senza problemi e dipana con sicuro squillo e infallibile tecnica la sua impegnativa parte. Al suo fianco Gilda Fiume (Amalia) è un torrente in piena di agilità, acrobazie, acuti e sovracuti, passaggi legati, note proiettate con potenza ma anche sensibili mezze voci nei momenti dolenti, il tutto espresso con timbro morbido e omogeneo nei passaggi di registro. La sua performance accende l’entusiasmo del pubblico che dopo il pirotecnico rondò finale decreta convinte ovazioni, estese anche agli interpreti secondari: Lodovico Filippo Ravizza, eccellente Eduardo; Adolfo Corrado, il possente barbaro Atkins; Antonio Garés, Guglielmo; Andrés Agudelo, Rivers. Enrichetta ha a disposizione un’aria eseguita con bello stile da Valeria Girardello mentre Floriana Cicìo, allieva della Bottega Donizetti, è Margherita. Non ultimo il valente coro della Radio Ungherese diretto da Zoltán Pad.

Quello che sembrava lo spettacolo meno attraente della rassegna bergamasca, dopo un dramma biblico e la versione francese di uno dei maggiori capolavori di Donizetti, non è solo un ripescaggio fortunato ma si è rivelato quello di maggior successo e uno dei migliori degli ultimi anni, tanto da convincerci che Alfredo il Grande abbia tutte le carte in regola per diventare un titolo di repertorio.

(1) Struttura dell’opera
Sinfonia
Atto I
Sinfonia
1. Introduzione Vieni Eduardo; Sventurata Britannia (Amalia, Eduardo, Enrichetta, Margherita, Guglielmo, Coro)
2. Cavatina S’inoltra alcun (Alfredo)
3. Coro Il lasso fianco chi vuol posar
4. Terzetto Sposo! … e fia ver (Amalia, Alfredo, Eduardo)
5. Finale Solingo è il sito, amici (Atkins, Alfredo, Amalia, Enrichetta, Margherita, Alfredo, Guglielmo, Coro)
Atto II
[Prima del Duetto] Me avventurato! (Guglielmo, Enrichetta, Alfredo, Pastori)
6. Duetto Questa man che un dì sull’ara (Amalia, Alfredo, Coro di contadine)
[Dopo il Duetto] Dove, o compagna? (Enrichetta, Margherita)
7. Rondò Quando al pianto ed all’affanno?, Di pace in grembo (Enrichetta)
[Dopo l’Aria di Enrichetta] Anelaste, o Britanni (Eduardo)
8. Coro All’apparir dell’astro; Elettrica scintilla (Coro di truppe e pastori armati)
[Dopo il Coro] Si, vinceremo (Alfredo)
9. Aria Che più si tarda? All’armi!; Celeste voce ascolto; Al campo, alla vittoria!; Se questo, amico nume (Alfredo, Guglielmo, Eduardo, Coro)
[Dopo l’Aria] Ti basta, o fato iniquo? (Atkins, Amalia, Enrichetta)
10. Quintetto Traditor! Di un ferro ancora; Se al generoso Alfredo; Sommerso ne’ flutti di un mar tempestoso (Amalia, Enrichetta, Guglielmo, Eduardo, Atkins)
[Dopo il Quintetto] Ah, chi di Atkins mi reca qualche novella? (Rivers)
11. Coro Viva Alfredo! Il grande! Il prode! (Alfredo, Amalia, Enrichetta, Margherita, Eduardo, Guglielmo, Contadine, Esercito inglese)
[Dopo il Coro] Al vostro braccio, o cari! (Alfredo, Amalia, Eduardo, Guglielmo, Margherita, Enrichetta)
12. Rondò Che potrei dirti, o caro; Torna a gioir quest’alma (Amalia, Coro)

Eduardo e Cristina

Gioachino Rossini, Eduardo e Cristina

Pesaro, Arena Vitrifrigo, 11 agosto 2023

★★★☆☆

(diretta televisiva)

A Pesaro si completa l’opera di Rossini con l'”installazione” di Poda

Per inaugurare la 44esima edizione del Rossini Opera Festival viene scelto l’ultimo titolo, il 39°, non ancora eseguito a Pesaro,  Eduardo e Cristina, lavoro scritto assieme ad altri tre nel breve periodo di frenetica attività tra il dicembre 1818 e il marzo 1819: Ricciardo e Zoraide, Mosè in Egitto ed Ermione. Non stupisce quindi che per la nuova opera il compositore faccia largo uso dell’autoimprestito: il soggetto, una rielaborazione dell’Odoardo e Cristina di Giovanni Schmidt scritto nel 1810 per il Pavesi, viene rivestito di musiche in parte già composte per quelle opere e per l’Adelaide di Borgogna, titoli ancora non conosciuti al pubblico veneziano. Si tratta dunque di un centone, un collage di brani tratti da opere diverse, 19 sul totale di 26 numeri musicali. Ciononostante, la prima fu un grande successo, riportato da Lord Byron stesso durante il suo autoesilio veneziano. Il libretto di questo “dramma per musica in due atti”, riscritto da Andrea Leone Tottola e Gherardo Bevilacqua Aldobrandini, è siglato TSB, le iniziali di Tottola, Schmidt e Bevilacqua, ma anche quelle del Teatro San Benedetto dove Eduardo e Cristina debuttò il 24 aprile 1819.

Atto primo. Stoccolma, atrio della reggia attiguo a una piazza. La corte e il popolo attendono festanti il ritorno del generale Eduardo che, a capo delle armate svedesi, ha sconfitto in battaglia l’esercito russo. Alla gioia comune si uniscono re Carlo e Giacomo, principe reale scozzese, che credono definitivamente vinto il nemico; solo Cristina, figlia del re, si mostra turbata. Ella teme che con il ritorno di Eduardo il padre possa scoprire il suo segreto matrimonio con l’eroe e il figlio da lui avuto, Gustavo; per sviare ogni sospetto, la principessa attribuisce la propria angoscia al dolore per la recente perdita della madre. Giunge Eduardo alla testa delle truppe; nel tripudio generale si accorge del turbamento di Cristina e le rivolge furtivamente parole d’incoraggiamento. Mentre Eduardo è combattuto sull’opportunità di chiedere al re la mano della figlia come ricompensa per la vittoria, Carlo annuncia pubblicamente di averla destinata a Giacomo. Cristina, sbigottita, chiede e ottiene dal padre un momentaneo rinvio del rito matrimoniale; Eduardo, disperato, si affida all’amico Atlei, capitano della guardia reale. Gabinetto di Cristina. In preda alla disperazione, la principessa è confortata delle sue damigelle. Partite queste, la donna riceve la visita di Eduardo, introdotto segretamente nella stanza dal fido Atlei. L’eroe chiede di poter rivedere il figlio Gustavo e, a un cenno di Cristina, il bambino è condotto in scena dalla sua governante attraverso una porta segreta: per pochi istanti Eduardo, Cristina e il figlio possono godere di un momento di serenità. Mentre la coppia si confronta sull’opportunità di fuggire, Carlo, Giacomo e un gruppo di cavalieri irrompono nelle stanze della principessa per convocarla all’altare. Gustavo e la governante riescono a nascondersi nelle stanze segrete, mentre Eduardo e Atlei escono furtivamente. Ancora una volta Cristina rifiuta di seguire Giacomo all’altare, scatenando così l’ira del padre. A un grido della principessa, Gustavo esce spaventato dal suo nascondiglio per correre tra le braccia della madre. Il re, stupito e oltremodo irritato, fa minacciare il bambino con una spada e chiede spiegazioni alla figlia. Cristina, proteggendo Gustavo con il proprio corpo, confessa di esserne la madre, ma rifiuta di palesare il nome del padre. Carlo al culmine della rabbia minaccia di morte la figlia e la fa arrestare dalle guardie. Ampia sala della reggia. Carlo riunisce la corte per giudicare la figlia e farle confessare il nome del padre di Gustavo. La costante reticenza di Cristina è interrotta dall’inatteso ingresso di Eduardo che rivela pubblicamente di essere il seduttore. Allo stupore generale l’eroe reagisce offrendo la propria vita in cambio di quella della principessa e del figlio, ma Carlo, sempre più adirato, ordina che l’intera famiglia sia giustiziata. Cristina, Eduardo e Gustavo sono dunque separati e condotti altrove dalle guardie.
Atto secondo. Sala della reggia. I cortigiani lamentano l’eccessiva rigidità della legge imposta da Carlo, mentre Atlei si dispera all’idea che l’eroe che ha salvato la patria e la principessa reale siano stati condannati a morte. Nel frattempo Giacomo comunica a Carlo di essere ancora disposto a unirsi in matrimonio con Cristina e a riconoscerne il figlio, ma a condizione che Eduardo sia giustiziato. Carlo, commosso dalle parole di Giacomo, convoca Cristina e le sottopone l’offerta di Giacomo, ma la principessa rifiuta inorridita, sorda alle preghiere del padre e dei cortigiani. Il re, furioso, ordina che la figlia torni in prigione, mentre Giacomo, pur se deluso, spera ancora di poter salvare Cristina. Inaspettata giunge però la notizia che alcuni prigionieri russi, che un atto di clemenza del re ha lasciati liberi in città, si sono impossessati delle mura in attesa che la flotta nemica, non del tutto sconfitta, attacchi nuovamente Stoccolma. Carlo affida dunque il comando delle schiere svedesi a Giacomo e tutti si preparano alla battaglia decisiva. Atrio attiguo al carcere. Mentre i suoi seguaci ne compiangono il destino, Eduardo si dichiara pronto ad affrontare la morte. Sopraggiungono Atlei e alcuni soldati che, informato Eduardo dell’imminente attacco russo, liberano l’eroe che subito si pone con rinnovato vigore alla testa delle truppe. Interno di una torre. Cristina sogna l’esecuzione di Eduardo; risvegliatasi di soprassalto, teme che la sua costanza possa essere di ostacolo alla sorte di marito e figlio. I suoi pensieri sono però interrotti da alcuni colpi di cannone che abbattono parte del muro della torre. Contemporaneamente Eduardo, Atlei e alcuni soldati irrompono nella prigione della donna per liberarla, non prima però di averle comunicato che anche il piccolo Gustavo è stato posto in salvo. Piazza. È notte e in città imperversa la battaglia. Da parti opposte sopraggiungono Carlo e Giacomo; quest’ultimo informa il re che Eduardo, liberato dai suoi fidi, ha ancora una volta sconfitto il nemico. Giunge allora Eduardo che si inginocchia davanti a Carlo offrendo la propria vita in cambio di quella di Cristina e del figlio. Sopraffatto dalla virtù dell’eroe e dall’affetto paterno, Carlo perdona Eduardo benedicendo la sua unione con Cristina, giunta nel frattempo con Gustavo. Le sofferenze hanno dunque fine e la felicità pervade gli animi di tutti.

Eduardo e Cristina fu ripreso nel 1820 alla Fenice, l’anno successivo fu al Regio di Torino con Giuditta Pasta e Nicola Tacchinardi, nel 1822 è al São Carlos di Lisbona, nel ’24 alla Canobbina di Milano e nel ’31 al Comunale di Bologna. Poi l’opera scomparve dalle scene per essere riproposta solo nel 1997 al Festival Rossini di Willibad. Ora il ROF presenta la prima ripresa italiana in tempi moderni e la prima esecuzione assoluta nella nuova edizione critica della Fondazione Rossini curata da Alice Tavilla e Andrea Malnati. Sul podio, alla guida dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI, è Jader Bignamini che affronta con impegno una partitura in cui l’assoluta asemanticità e funzionalità del suono nulla toglie all’efficacia del prodotto finito che regge perfettamente la prova del palcoscenico. Rossini non fa un’operazione di copia e incolla, in suo non è un pigro riciclo: i temi vengono riscritti a memoria, ne riecheggiano l’andamento, ma la situazione è diversa. Ciò è stato pienamente compreso da Bignamini e sotto le sue mani il risultato si rivela del tutto godibile, anche grazie al pregevole cast. Enea Scala affronta uno dei ruoli più impervi come Re Carlo, l’inflessibile monarca. La sua parte musicale, ampia e articolata, deriva ampiamente da Ermione e il tenore ragusano la realizza con squillo spavaldo, tecnica perfetta e grande temperamento. Daniela Barcellona ritorna al ROF con il ruolo en travesti di Eduardo e vi porta la sensibilità e l’eroicità del suo Tancredi. Debuttante a Pesaro è invece Anastasia Bartoli che conquista subito il pubblico con la sua presenza scenica e la passione che mette nella parte di Cristina. Bello il timbro, meno l’espressività del Giacomo di Grigory Shkarupa mentre Matteo Roma non sfigura nella non facile parte di  Atlei. Per quanto riguarda il coro del Teatro Ventidio Basso ci si aspetterebbe almeno un livello di qualità pari quello dell’orchestra, e invece…

La regia è affidata a un indaffaratissimo Poda, onnipresente in questi mesi tra Buenos Aires e Mosca, tra arene all’aperto e teatri bulgari, tedeschi e svizzeri. Le sue messe in scena sono le uniche riconoscibili anche da una sola fotografia e sono anche le uniche che dopo tre minuti ti fanno capire che cosa succederà nelle seguenti tre ore. Non fa eccezione questa sua lettura rossiniana che più che una regia è un’installazione artistica che prescinde dalla drammaturgia dell’opera e ripete le immagini della sua Thaïs o della Turandot o dell’Aida:   total white nella scenografia – qui gabbie contenenti copie di statue di varie epoche – o nei corpi nudi dei ballerini e nella maggior parte dei costumi. Bravissimo coreografo, Poda muove con efficacia i suoi danzatori, ma si preoccupa meno della vicenda e della psicologia dei personaggi che agiscono in un’astrazione buona per qualunque vicenda.

Moïse et Pharaon

 

© Monika Rittershaus

Gioachino Rossini, Moïse et Pharaon

★★★★☆

Aix-en-Provence, Théâtre de l’Archevêché, 12 luglio 2022

(video streaming)

Stavolta nel mar Rosso affoghiamo noi

Sono tali i cambiamenti della versione parigina che Moïse et Pharaon (1827) è considerato un’opera del tutto diversa dal Mosè in Egitto (1818) napoletano da cui deriva. (Qui si può analizzare la diversa struttura dei due lavori.) E non solo per il diverso libretto, la ripartizione in quattro atti invece che tre, il numero e l’ordine dei pezzi musicali, la presenza dei ballabili, ma perché lo spirito dell’opera è cambiato: da «oratorio, azione tragico-sacra» è diventato «melodramma sacro», non troppo distante dal modello del grand opéra, il genere che l’anno dopo avrebbe visto la nascita del primo esemplare con La muette de Portici di Daniel Auber e l’anno dopo ancora il Guillaume Tell dello stesso Rossini, genere che avrebbe dominato la scena lirica francese nei successivi cinquant’anni.

Terzo spettacolo lirico del Festival di Aix-en-Provence, il lavoro di Rossini viene messo in scena con grandi mezzi nel cortile dell’Archevêché. La regia di Tobias Kratzer ambienta la storia ai nostri giorni – ce ne rendiamo conto dopo un attimo di smarrimento all’apparizione di un Mosè tale e quale quello del film di DeMille The Ten Commandments (1956) – con il vasto palcoscenico diviso in due: a sinistra (côté jardin, come dicono i francesi) un campo profughi con la tenda dell’infermeria, a destra (côté cour) gli ambienti lussuosi e asettici dei potenti. Sul fondo è ricostruita la Fontana d’Espéluque, quella nella antica Place de l’Archevêché (ora Place des Martyrs de la Résistance), per rammentarci l’hic et nunc della vicenda. La scenografia di Rainer Sellmaier (suoi anche i costumi) è sapientemente illuminata dalle luci di Bernd Purkrabek.

I personaggi passano da un ambiente all’altro, da quello dei capitalisti occidentali (l’Egitto di Faraone del libretto) a quello dei rifugiati (gli ebrei nell’attesa sempre delusa di partire per la Terra Promessa) nei primi due atti. Poi nel terzo la scena viene unificata e la parte sinistra diventa il palcoscenico per il balletto, un’efficace coreografia di Jeroen Verbruggen, con il pubblico degli invitati destra. Su uno schermo vengono proiettate immagini di catastrofi naturali per illustrare le piaghe mandate dal dio di Mosè agli egiziani. Nel finale, su una grande tela vediamo il Mar Rosso dividersi con gli egiziani (ossia noi occidentali con i completi scuri, le scarpe a spillo, i tailleurs…) sommersi da quelle acque vendicatrici – il rimando alle immagini dei migranti che fanno la stessa fine nel mar Mediterraneo non è certo casuale. Poi la tela si alza un’ultima volta per rivelare una spiaggia con bagnanti pigramente allungati sulle sedie a sdraio, occhiali da sole, un cocktail in mano o il telefonino. Gli ebrei sono nel frattempo scesi con i loro gilet arancioni tra gli spettatori della platea, ma sulla scena una delle bagnanti scopre sulla sabbia il bastone di Mosè che prima guarda con curiosità, poi getta con orrore, come se avesse percepito qualcosa di strano. Non c’è traccia di soprannaturale nella lettura di Kratzer: gli interventi divini sono le calamità che ci stiamo costruendo noi stessi: siccità, incendi, alluvioni, carestie, guerre sono il frutto della nostra incosciente azione sul pianeta che ci ospita. Così, anche le tenebre (prima piaga del libretto, quinta della narrazione biblica) sono causate da un black out dell’energia elettrica.

La scelta di presentare Mosè come il Charlton Heston del film, con barba bianca, tunica rossa e bastone dei prodigi in mano, viene spiegata dal regista col fatto che non sappiamo mai se Mosè sia una sorta di messia che ha un filo diretto con Dio o se sia solamente qualcosa che gli uomini proiettano su di lui perché ogni società ha bisogno dei suoi modelli. Convincente o meno, la regia di Kratzer è a questo proposito molto precisa e la sua drammaturgia indubbiamente coerente.

Com’era da aspettarsi è la direzione di Michele Mariotti il punto forte dello spettacolo. La cura per ogni dettaglio della partitura non inficia la visione d’insieme di un’opera che di per sé ha una certa frammentarietà. L’orchestra dell’opera di Lione risponde con precisione e gusto del colore alla bacchetta di Mariotti che concerta da par suo le voci nei tanti ensemble di un’opera povera di arie solistiche. Nel reparto femminile Jeanine de Bique è una sensibile Anaï mentre Vasilisa Beržanskaia nella parte di Sinaïde conferma le eccezionali doti rivelate un anno fa a Pesaro e Géraldine Chauvet è una empatica Marie. L’inossidabile Michele Pertusi fa del suo Moïse una figura memorabile utilizzando gli inevitabili segni dell’età del suo mezzo vocale per delineare con espressività il personaggio e Mert Süngü si cala con agio nella parte di Eliézer. Adrian Sâmpetrean è un autorevole ma tormentato Pharaon mentre in Aménophis, alla prima di Parigi Adolphe Nourrit, Pene Pati mostra qualche diffcicoltà in un ruolo di grande impegno vocale. La voce misteriosa e quella di Osiride appartengono al bel timbro di Edwin Crossley-Mercer. Alessandro Luciano è il truce Aufide. È anche dell’opera di Lione il coro efficacemente impegnato in pagine che prefigurano il Nabucco verdiano.

 

Moïse et Pharaon

foto © Studio Amati Bacciardi

Gioachino Rossini, Moïse et Pharaon ou Le passage de la Mer Rouge

★★★★☆

Pesaro, Vitrifrigo Arena, 6 agosto 2021

Il colossal biblico di Rossini al ROF nella ripresa post-lockdown

Portato in scena nel 1997 da Graham Vick, recentemente scomparso, inaugurerà ufficialmente il 9 agosto la XLII edizione del Rossini Opera Festival Moïse et Pharaon, il rifacimento francese del Mosè in Egitto che ancora Vick aveva prodotto qui esattamente dieci anni fa, una produzione che allora aveva fatto scalpore e scandalizzato. Nessuno scandalo invece per questo spettacolo presentato ora in anteprima per la stampa in cui nei panni di regista, scenografo e costumista è quello stesso Pier Luigi Pizzi che aveva prodotto la versione originale napoletana nel lontano 1985, sempre qui a Pesaro.

Ed è un salto nel tempo quello che ci fa fare il decano del teatro italiano: quello che vediamo in scena, pur con tutta la sua eleganza e perfezione formale, è uno spettacolo che avremmo potuto vedere cinquant’anni fa. Non che la cosa dispiaccia, ma di certo non è una lettura contemporanea: le problematiche suggerite dal libretto non sono prese in considerazione, la direzione dei cantanti/attori è quanto mai tradizionale, le stilizzate scenografie sono disposte in maniera rigorosamente simmetrica, così come le masse corali e i solisti nei concertati e anche il balletto, inevitabile in una versione per Parigi, rimane il solito momento avulso dalla vicenda. Vero è che ben pochi hanno cercato di inserire l’intervento coreografico nella drammaturgia dell’opera: vengono in mente i nomi di Graham Vick e Damiano Michieletto nei loro Guillaume Tell, rispettivamente nel 2013 a Pesaro e nel 2015 a Londra, o di Valentina Carrasco in Les vêpres siciliennes (Roma, 2019). Per non parlare dell’approccio al problema risolto da Bob Wilson in maniera del tutto radicale e spiazzante nel suo Le trouvère (Parma, 2018).

Qui abbiamo una coppia di splendidi ballerini – i nomi non compaiono sulla locandina – che con i loro corpi statuari eseguono in maniera impeccabile quanto ideato da Gheorghe Iancu, una coreografia che impegna altri otto danzatori maschi. L’eleganza dei movimenti e la possibilità di ascoltare una musica raramente proposta non sono messi in discussione, ma si può discutere sull’opportunità di preservare in questo modo quanto voluto dalle abitudini dei frequentatori dei teatri parigini dell’epoca.

Dove Pizzi si adegua invece alla modernità è negli effetti teatrali e scenografici previsti dal Moïse et pharaon. Sul programma di sala M. Elizabeth C. Bartlet ci informa con grande dettaglio sulle circostanze della prima parigina del 26 marzo 1827, una produzione che allora fu definita «epocale, rivoluzionaria», come scrissero enfaticamente le cronache del tempo, una sfida alla credibilità dell’opera del vecchio regime e alle limitazioni del mezzo teatrale. Uno spettacolo, insomma, che preludeva al genere grand opéra degli anni 1830-50. Alle opulenti scenografie e ai diorami dipinti di Pierre-Luc-Charles Cicéri si aggiungevano grandiosi effetti speciali e un’innovativa luministica per rappresentare l’arbusto che prende fuoco, l’arcobaleno, l’oscurità e il ritorno della luce, la pioggia di fuoco, le acque del mare che si aprono e si richiudono… Oggi Pizzi ha a disposizione la video grafica, che risolve facilmente i problemi posti allora dalle macchine, dalle funi, dalle candele e dai dipinti trompe-l’œil. Ecco quindi sul fondo un gigantesco schermo su cui vengono proiettate immagini in movimento – anche qui la locandina non cita gli autori – efficaci, ma niente più. Sia che si tratti dell’arcobaleno (qui un arco tridimensionale), di bolidi infuocati che cadono sulla terra, dell’eclisse solare e della conseguente oscurità, di una piramide volteggiante nell’aria che poi si disgrega, delle acque prima calme che si ritirano al passaggio degli ebrei e poi si richiudono tempestose sugli egizi.

I sontuosi costumi di Hippolyte Lecomte della prima parigina furono modellati sui ritrovamenti studiati da Champollion, curatore dell’ala egizia del Museo del Louvre che sarebbe stata aperta proprio quell’anno. Qui Pizzi disegna modelli più semplici ma ricchi nei dettagli dorati, nelle stoffe e nelle tinte per gli egizi – blu, viola, fuschsia – mentre per gli ebrei la tavolozza, oltre al bianco e al nero, si limita ai colori della terra.

Nella estetizzante sequenza di tableaux vivants offerti alla vista manca però il dramma: i personaggi, così come sono rappresentati, rimangono esangui e bidimensionali, le ambiguità dei rapporti sono neglette, le tensioni tra le etnie latitanti. Dei finali solo l’ultimo smuove un po’ l’emozione del pubblico con quelle silhouettes nere sul fondo bianco di un nulla inquietante. Ma fa pensare il silenzio glaciale che aveva accolto la preghiera di poco prima, «Des cieux où tu résides», versione in francese di «Dal tuo stellato soglio»: pubblico soggiogato dall’emozione o non toccato dal pathos del momento. Vorrei pensare alla prima ipotesi.

Momento di gloria per la magnifica orchestra della RAI: suono pieno ma pulito, interventi solistici impeccabili messi in evidenza dal direttore Giacomo Sagripanti che privilegia una lettura analitica della partitura, forse tralasciando la visione d’insieme di un’opera che è poi la terz’ultima del catalogo rossiniano e che del Guillaume Tell che seguirà due anni dopo ha la profondità d’intenti e la tensione drammatica, qui non sempre espressa. La forza del teatro di Rossini non è del tutto evidente, è più oratorio sacro – com’era in origine il Mosé in Egitto – che grand opéra. Rimane comunque la bellezza dei numeri musicali in cui si cimenta un cast valido seppur non omogeneo. A dispetto dei nomi nel titolo, la gloria della serata va alle voci femminili, prima fra tutte alla Sinaïde di Vasilisa Beržanskaia, che nell’unico suo vero momento solistico, l’aria «Ah, d’une tendre mère» introdotta dal flauto e con pertichini del coro e del figlio Aménophis, incanta il pubblico presente con un dispiegamento di tecnica e potenza vocale sorprendente. Lo stesso pubblico poco prima era stato abbagliato più che dalla luce che irrompe in scena dopo l’oscurità (e qui è d’obbligo il riferimento all’analogo effetto nella Creazione di Haydn), dal suo folgorante acuto. Anche Eleonora Buratto, eccellente interprete mozartiana, sfodera una voce di grande proiezione e un’ampia dinamica con cui delineare la sofferta Anaï, un’altra donna divisa tra l’amore profano e quello divino. Il Moïse di Roberto Tagliavini è autorevole e convincente quanto può essere la parte scolpita nella pietra dell’interlocutore con la divinità – una divinità la quale obbedisce prontamente alle sue preghiere inviando calamità naturali variamente assortite. Erwin Schrott ancora una volta è… Erwin Schrott: dove tutti utilizzano movimenti stilizzati, come Pharaon gesticola e fa smorfie adatte a un film muto. Intatta rimane la potenza sonora e la magnificenza del timbro, ma la definizione del personaggio, che fu creato per il grande Nicola Levasseur, si perde nel grottesco. Non pienamente realizzato Aménophis, Adolphe Nourrit alla prima parigina, quindi ruolo vocalmente impegnativo che Andrew Owens risolve con qualche difficoltà e una dizione non del tutto ineccepibile. Particolarmente apprezzabile l’Éliézer di Aleksej Tatarincev e intensa la Marie di Monica Bacelli. Nicolò Donini (Osiride e Voix mystérieuse) e Matteo Roma (Aufide) completano degnamente il cast. Molto bene il coro del Teatro Ventidio Basso diretto dal maestro Giovanni Farina.

Grandi applausi per tutti da un pubblico forse un po’ indulgente, ma è tanta la voglia di ritornare alla normalità e sedersi in una sala, pur distanziati e con le mascherine e il controllo del green pass all’ingresso. Una cosa che desideravamo da molto tempo.

Mosè in Egitto

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Gioachino Rossini, Mosè in Egitto

Pesaro, Adriatic Arena, 9 agosto 2011

★★★★☆

(registrazione video)

Il kalashnikov di Mosè

Da sempre quello quaresimale è stato un periodo off-limits per i teatri d’opera della penisola nell’Ottocento, a meno che il soggetto della rappresentazione non fosse acconcio al clima, ossia una vicenda sacra o tratta da una fonte ritenuta tale. A volte bastava cambiare, di poco, storia e personaggi ed ecco che, ipocritamente salva la forma, si poteva soddisfare anche in questa stagione la voglia d’opera dei devoti consumatori di arie e concertati.

Musicalmente poi bastava mascherare le consuete forme del melodramma sotto qualche struttura oratoriale o polifonica ed ecco che il gioco era fatto. Ed è quello che fa Rossini nel 1818 a Napoli quando il suo nuovo lavoro viene definito “azione tragico-sacra”, di un genere «elevatissimo, e non so se questi mangia Macheroni lo capiranno. Io però scrivo per la mia Gloria e non curo il resto. […] l’Oratorio mi costa assai fatica perche di un Genere non di molto Popolare ma sublime e fatto per acrescere La mia Radicale Riputazione», scrive il compositore nella sua disinvolta ortografia.

Il teatro San Carlo, nella persona del Barbaja, indica al musicista il librettista, quell’Andrea Leone Tottola, anche monaco per buona misura, «uno fra i più fecondi quanto meno dotati poeti teatrali attivi a Napoli» (William Ashbrook), che fornirà poi a Rossini i testi di Ermione, La donna del lago e Zelmira. Le vicende del popolo di Israele narrate nell’Esodo sono filtrate attraverso L’Osiride (1780), tragedia di un altro monaco, Francesco Ringhieri, e l’epos del dramma dei popoli viene a fare da sfondo, come spesso avviene nelle trame operistiche, alle vicende private del figlio del faraone, Osiride appunto, amante contrastato dell’ebrea Elcìa. A questi si aggiungano le figure della regina Amaltea, amica di Israele e segretamente convertita alla sua religione, e del gran sacerdote Mambre. (1)

La prima del 5 marzo 1818 fu funestata da problemi tecnici e quella sera il Mar Rosso si rifiutò di chiudersi sugli empi egizi, tra i fischi e i boati del pubblico. Questo non fu l’unico spunto per una revisione del lavoro quando venne ripresentato l’anno successivo. L’elemento più significativo di questa riedizione era il nuovo canto finale «Dal tuo stellato soglio» che da allora identifica indissolubilmente quest’opera di Rossini. Sfortunatamente non si hanno tracce del finale del 1818.

A Stendhal il Mosè in Egitto di Rossini non era piaciuto. Vero è che lo scrittore francese si era recato al teatro maldisposto: «confesso che m’incamminai verso il San Carlo con molti pregiudizi sulle piaghe d’Egitto. […] Considero le Sacre Scritture come una specie di curiose Mille e una notte per la loro antichità, l’ingenuità dei costumi e soprattutto per lo stile grandioso» (Vie de Rossini, 1823). Solo l’introduzione gli era sembrata degna del genio del pesarese e a livello di Haydn quando Mosè scaccia le tenebre e irrompe la luce come nella Creazione. (2)

Il giovane Ferdinand Hérold, invece, aveva molto apprezzato l’opera: «L’oratorio rossiniano […] è certamente una delle sue migliori opere […] e la sola appropriata per il gusto francese». Detto fatto, il testo è tradotto in quella lingua da Castil-Blaze e l’opera debutta al Théâtre Italien nel 1822, senza grande fortuna però. (3)

Atto I. L’Egitto è avvolto nella sua penultima piaga: le tenebre. Il Faraone decide di chiamare Mosè per far cessare il flagello. Dio rende di nuovo la luce all’Egitto tramite la verga di Mosè. Intanto Osiride esprime il suo dolore per la partenza degli ebrei: tra essi c’è la sua amata Elcia. Perciò ordina al fido Mambre di far ribellare il popolo egizio all’editto di Faraone. Infatti il popolo si raduna sotto il palazzo, a chiedere che venga revocato il congedo agli Ebrei, che all’oscuro di tutto stanno festeggiando. Osiride dichiara loro che la partenza è annullata ed ogni tentativo di fuga sarà soffocato nel sangue. Mosè, allora, irato fa piovere la grandine e i fulmini (la settima piaga fu messa qui solo per dare un effetto teatrale alla fine dell’atto).
Atto II. Faraone annuncia la sua decisione di lasciare liberi gli ebrei, e comunica al figlio che la principessa d’Armenia è pronto a sposarlo. Osiride preferisce fuggire con Elcia. Aronne però li scorge e avverte subito Mosè e la madre di Osiride, Amaltea, a cui stanno a cuore gli ebrei. I due giovani esitano, ma affermano convinti la loro decisione. In quel momento giunge Faraone, che comunica che, a causa dell’attacco di Madianiti e Filistei, la partenza è rimandata. Mosè, irato, minaccia la morte di tutti i primogeniti egiziani, e viene fatto arrestare. Elcia, allora svela il suo amore per Osiride, e prega il principe di lasciare libero il suo popolo e di diventare Re. Osiride rifiuta e fa per uccidere Mosè, ma viene colpito da un fulmine e muore.
Atto III. Gli ebrei stanno pregando sulle rive del mar Rosso. Giunge la notizia che l’esercito di Faraone si sta avvicinando. Mosè calma tutti, e apre un varco tra le acque. Faraone sopraggiunge, e scaglia l’esercito nel varco tra le onde, ma subito queste si richiudono di colpo, sterminando l’esercito.

Dieci anni dopo a Parigi Rossini ne prepara una versione grand-opéra,  Moïse et Pharaon. Praticamente un’opera nuova, quella che nel 1997, nel vecchio teatro Rossini di Pesaro, Graham Vick aveva messo in scena ambientando la vicenda in una biblioteca ebraica. Per il suo ritorno all’Adriatic Arena nel 2011 con la versione napoletana, il regista inglese riprende lo spirito di quanto aveva fatto alla Birmingham Opera Company quando aveva allestito le opere in fabbriche, banche e spazi pubblici normalmente non associati a rappresentazioni liriche. Qui a Pesaro Vick utilizza il primitivo palazzetto dello sport nella sua totalità: coro e cantanti sono spesso in platea, l’orchestra fa parte della scena, gli orchestrali vestono in maniera casual (non il direttore, in impeccabile frac), non c’è sipario e lo sguardo continua dietro la scena (divisa in tre livelli) sulle gradinate dove dei profughi stanno accampati. (Era allora vivo il ricordo dell’uragano Katrina a New Orleans e degli sfollati costretti a vivere ancora per lungo tempo nei palazzetti dello sport.)

Con il previsto scandalo da parte del «pubblico elegante e sofisticato della prima» e di certa critica miope e prevenuta, dell’intervento della polizia a sedare i tafferugli causati dal pubblico elegante e sofisticato e dell’interrogazione parlamentare di un senatore del PdL (che ovviamente neanche ha visto lo spettacolo), Graham Vick e lo scenografo Stuart Nunn ambientano la vicenda mediorientale ai giorni nostri. La scena è devastata dalla guerra e piena di detriti, nel bel mezzo un palazzo reale dalla sontuosità kitsch sembra aver subito un bombardamento e sul fondo un muro (in cui si aprirà una breccia per far fuggire gli ebrei) simile alla “barriera di separazione” eretta dagli israeliani lungo la West Bank.

Senza travisare di una virgola il libretto, la lettura di Vick sa coniugare un fortissimo impatto emotivo a un profondo stimolo di riflessione politica. È il soggetto in sé che è molto più complesso di quel che siamo abituati a considerare normalmente in un’opera ed è dovere dell’artista svelare, a modo suo, l’anima di un testo ridando all’Opera la dignità di veicolo culturale e sociale che le compete e che ha sempre avuto. Con buona pace di chi cerca in una serata a teatro un digestivo e consolatorio passatempo.

Pur non prendendo le parti di nessuno (gli ebrei e gli egiziani sono contemporaneamente vittime e terroristi, oppressi e oppressori), Vick afferma la sua personale visione contro il fondamentalismo e le fedi monoteiste del Vecchio Testamento quali semi di fanatismo e violenza religiosa. Potrà non piacere la tesi, ma se ne può discutere?

Lo spettacolo termina con una tensione drammatica che dà il senso dell’interminabile ciclo di violenza trasmessa da generazione a generazione: un carro armato appare attraverso la barriera di separazione, un giovane soldato israeliano ne scende, va verso un ragazzino egiziano e come segno di pace gli porge una barretta di cioccolato, ignaro del fatto che, come noi invece abbiamo visto, sotto il giubbotto questi abbia una cintura di cariche esplosive. Immagine di disturbante attualità oggi.

Per quanto compete alla parte musicale, la direzione di Roberto Abbado rispetta fedelmente le indicazioni dell’autore e nei finali raggiunge un buon equilibrio tra intensità drammatica e giustezza di suono.

I diversi timbri dei due personaggi principali aiutano a caratterizzare il Mosè di Riccardo Zanellato, dall’emissione scura e trattenuta, e il Faraone di Alex Esposito, dalla vocalità più chiara ma più sostenuta con cui anche questa volta il baritono bergamasco si è meritato giustamente gli applausi più convinti. Su un piano inferiore sono Dmitrij Korčak, Osiride contraltino, e Sonia Ganassi, Elcìa dagli evidenti problemi vocali, e gli altri interpreti. Ottimo il coro cui è richiesta una prestazione anche fisicamente impegnativa.

(1) Questa la struttura dell’opera:
Atto I
1 Introduzione Ah, chi ne aita?
2 Scena e quintetto Eterno! Immenso! Incomprensibil Dio!
3 Duetto Osiride-Elcìa Ah, se puoi così lasciarmi
4 Aria Faraone A rispettarmi apprenda (composta da Michele Carafa)
5 Inno con cori All’etra, al ciel
6 Duetto Elcìa-Amenofi Tutto mi ride intorno!
7 Finale Che narri?
Atto II
8 Duetto Osiride-Faraone Parlar, spiegar non posso
9 Aria Amaltea con coro La pace mia smarrita (dal Ciro in Babilonia)
10 Duetto Elcìa-Osiride Dove mi guidi?
10a Quartetto Mi manca la voce
11 Aria Mosè Tu di ceppi (composta da un collaboratore ignoto di Rossini)
12 Coro Se a mitigar tue cure (dall’Adelaide di Borgogna)
13 Finale Porgi la destra amata (dall’Aureliano in Palmira)
Atto III
14 Preghiera Dal tuo stellato soglio
15 Coro finale

(2) Rossini aveva raccontato a Wagner che a quindici anni «in difetto di un’istruzione musicale approfondita – d’altronde, dove acquistarla ai miei tempi in Italia? – il poco che sapevo, lo avevo scoperto nelle partiture tedesche. Un amatore di musica bolognese ne possedeva alcune: La Creazione, Le nozze di Figaro, Il flauto magico… Egli me le dava in prestito, e poiché io non avevo i mezzi per farmele venire dalla Germania, le copiavo con accanimento»

(3) Ecco tutte le stesure:
Mosè in Egitto, azione tragico-sacra in tre atti su libretto di Andrea Leone Tottola, andata in scena al Real Teatro San Carlo di Napoli il 5 marzo 1818;
Mosè in Egitto, azione tragico-sacra in tre atti su libretto di Andrea Leone Tottola, andata in scena al Real Teatro San Carlo di Napoli il 7 marzo 1819;
Mosè in Egitto, azione tragico-sacra in tre atti su libretto di Andrea Leone Tottola tradotto in francese da Castil-Blaze, andata in scena al Théâtre Italien di Parigi il 20 ottobre 1822;
Moïse et Pharaon, opéra en quatre actes su libretto di Luigi Balocchi e Etienne de Jouy, andata in scena a Parigi al Théâtre de l’Académie Royale de Musique il 26 marzo 1827;
Mosè, melodramma sacro in quattro atti su libretto di Luigi Balocchi e Etienne de Jouy tradotto in italiano da Calisto Bassi, andato in scena al Teatro San Carlo di Napoli il 23 marzo 1829.

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Adelson e Salvini

Vincenzo Bellini, Adelson e Salvini

★★★★☆

Jesi, Teatro Pergolesi, 13 novembre 2016

(registrazione video)

Un esordiente Bellini che già mostra una grande personalità 

Prima opera di Vincenzo Bellini a coronamento dei suoi studi, Adelson e Salvini vide la luce nel 1825, presumibilmente il 12 febbraio, al teatrino del Collegio Musicale S. Sebastiano di Napoli. Il saggio ebbe un grande successo, tanto che fu replicato ogni domenica per tutto il resto dell’anno. Si tratta di un’opera semiseria in tre atti con dialoghi parlati su un libretto di Andrea Leone Tottola che era già stato messo in musica senza successo da Vincenzo Fioravanti nel 1816. Il testo è basato sul racconto omonimo di François-Thomas-Marie De Baculard D’Arnaud tratto dalla raccolta delle sue Épreuves du sentiment (pubblicate nel 1775-1778).

Atto I. Irlanda, XVII secolo. Lord Adelson, momentaneamente in viaggio, ospita nel suo castello la fidanzata Nelly, una giovane orfana, e l’amico Salvini, un pittore italiano segretamente innamorato di Nelly e a sua volta amato in segreto da Fanny, una giovane irlandese cui dà lezioni di pittura. Nel castello si è infiltrato Geronio, spia del colonnello Struley, proscritto tempo addietro dal padre di Adelson. Struley è per giunta lo zio di Nelly, che intende far rapire dal castello per vendicarsi della famiglia Adelson. Salvini, combattuto tra l’amore per Nelly e l’amicizia verso Adelson, medita il suicidio, mentre il servo napoletano Bonifacio Beccheria tenta di confortarlo con bizzarri ragionamenti. Salvini è tra l’altro angustiato da un problema di coscienza: ha intercettato una lettera di Adelson alla fidanzata e ora non sa se consegnarla. Finalmente si decide, ma quando Nelly gli chiede di leggerle la lettera a voce alta, Salvini si inventa una notizia fatale: per volontà di uno zio, Adelson è costretto a sposare la figlia di un duca, rompendo il fidanzamento. Adelson fa ritorno al castello, accolto da grandi festeggiamenti, ma si sorprende nel non vedere tra i suoi ospiti l’amico pittore. Atto II. Tutto è pronto per le nozze tra Adelson e Nelly ma l’assenza dell’amico preoccupa il castellano. Quando finalmente lo trova, Salvini sta per spararsi un colpo di pistola. Adelson lo ferma, intuisce che il gesto è dettato da un’infelice passione amorosa e, credendo di identificare in Fanny l’oggetto di tanto amore, gli concede la mano dell’allieva pittrice. Nessuno dei due fa tuttavia il nome della ragazza e, in un gioco di equivoci, Salvini ringrazia con slancio l’amico, credendo che gli abbia concesso la mano di Nelly. Rimasto solo, Salvini è avvicinato da Struley, che intende approfittare della sua passione per Nelly per portare a compimento i suoi piani criminali. Mentendo, il proscritto confida a Salvini che Adelson è in realtà già segretamente sposato a Milady Artur e che la promessa e il matrimonio con Nelly non sono che l’inganno di un abile seduttore. Struley fa incendiare un casino in fondo al parco del castello affinché, alla vista delle fiamme, tutti accorrano sul luogo del disastro e i suoi uomini possano rapire Nelly. Salvini, dopo aver riferito alla fanciulla del presunto inganno di Adelson, diviene inizialmente complice del colonnello e di Geronio. Atto III. L’incendio è domato, ma s’ode di lontano un colpo di rivoltella. Bonifacio si precipita in scena raccontando che Salvini, resosi conto dell’inganno, ha pugnalato Geronio ed è rimasto leggermente ferito da una pallottola di Struley, riuscendo però a liberare Nelly. Nelly è sfuggita all’agguato di Struley ma è priva di sensi. Adelson, che ha capito finalmente chi era il vero oggetto dell’amore di Salvini, gli mostra l’orfana facendogli credere che sia morta. Salvini vorrebbe uccidersi, ma quando vede Nelly rialzarsi la sua gioia è tanto grande che la sua passione si sublima e, rinunciando definitivamente alla fidanzata dell’amico, egli si dichiara pronto a sposare la piccola Fanny.

Bellini utilizzò alcune musiche dell’Adelson e Salvini in altre opere: parte della sinfonia finirà in quella del Pirata e la romanza di Nelly, «Dopo l’oscuro nembo», diverrà la cavatina di Giulietta nei Capuleti e Montecchi. Per non dire di certi momenti che sembrano preannunciare La sonnambula.

Il 1825 è anche l’anno del Viaggio a Reims e di Rossini c’è molto nel personaggio buffo di Bonifacio, più “belliniano” è invece quello di Nelly. Il taglio delle scene e l’alternanza di numeri solistici e ensemble dimostra già l’istinto teatrale del compositore catanese. Allora l’esecuzione avvenne con un’orchestra da camera e soli cantanti maschi, gli allievi della classe di canto, con il buffo Bonifacio che si esprimeva in dialetto. Nella seconda versione di tre anni dopo la sua parte fu trasposta in italiano, i dialoghi parlati trasformati in recitativi secchi, i tre atti ridotti a due e modificato il finale (1). In questa versione è stato portato in scena poche volte in epoca moderna (1985 al Metropolitan di Catania diretta da Andrea Licata e l’edizione discografica del 1992 diretta da Daniele Rustioni). Nel 2016 a Jesi Adelson e Salvini è eseguito tale e quale quello di 190 anni fa, ossia nella prima versione grazie alla scoperta nel 2001 nella biblioteca del Conservatorio di Milano di pagine che hanno permesso di integrare lacune di manoscritti già noti. Ancora diverso però qui il finale: Salvini crede di aver ucciso Nelly e si consegna ad Adelson per essere punito. Il lord allora svela la ragazza sana e salva e nel giubilo generale la sposa. Chissà cosa succederà di Salvini e Fancy.

 

Nelle parole del regista Roberto Recchia le intenzioni della sua lettura: «Più che la specificità irlandese è rilevante che il protagonista, l’italiano Salvini, si trovi su un’isola, che circonda con il suo mare la prigione senza sbarre in cui si trova rinchiuso (volontariamente), ospite dell’amico Adelson. Molto forte nella partitura la presenza dell’Italia, grazie soprattutto al peso rilevante di Bonifacio Voccafrolla, che supera i limiti normalmente concessi al versante buffo nel genere semiserio. E così in Adelson e Salvini finisce per esserci molta più Italia che Irlanda, come se il pittore e il suo amico napoletano, nella trasferta sull’isola, in valigia si fossero portato pasta, pommarola e cuccuma. Abbiamo quindi deciso di sfruttare questa contraddizione tra la connotazione forte dell’ambientazione e la contemporanea “genericità” di linguaggio drammaturgico e musicale per sottolineare gli altri due aspetti che emergono chiari dal libretto: la follia di Salvini e la sua professione di pittore. Follia tutta romantica e non certamente patologica in senso moderno: Salvini è discendente diretto di Werther, vittima di un’irrequietezza romanticamente giovanile e di un amore impossibile e convenzionale, e tenterà più volte il suicidio per sfuggire al suo demone. Questa “follia” si traduce, sulle tele di Salvini, in ritratti mai terminati, dove a mancare è sempre il volto dell’amata, al punto che l’insipida Fanny si sente autorizzata a credersi lei l’oggetto del desiderio dell’attraente italiano. L’Irlanda che vedremo in scena, a questo punto, è il frutto della fantasia del pittore: le grandi tele dipinte diventano fondali e quinte teatrali di una rappresentazione che probabilmente avviene nella fantasia del protagonista […]. Con Benito Leonori e Catherine Buyse Dian abbiamo cercato di portare questi due aspetti – pittura e follia – all’estremo: come modello pittorico abbiamo scelto quello di William Etty, pittore inglese attivo negli anni belliniani, che con la sua ossessione per il nudo e con le sue tele sovente non terminate ci sembrava ben tradurre il tormento folle di Salvini. E anche nello stile dei costumi, l’intento è quello di restituire tutti gli altri personaggi come emanazioni del pennello del pittore: di foggia ottocentesca ma realizzati con tela grezza, sui quali la pittura interviene a definire le forme e i dettagli, anche questi non terminati, in un work in progress che vuole definire l’incubo irrazionale in cui si è rinchiuso il protagonista». Infatti la scenografia è formata da dipinti che a mo’ di quinte e fondali delimitano i vari ambienti che risultano quindi non ricostruiti realisticamente illuminati dalle luci antinaturalistiche di Alessandro Carletti. La recitazione dei cantanti viene messa a prova dai dialoghi parlati con risultati complessivamente accettabili, ma il più convincente sembra Clemente Antonio Daliotti, gustoso Bonifacio a suo agio nell’arguto vernacolo napoletano. Il resto del cast non è molto omogeneo, ma fortunatamente gli interpreti più convincenti sono quelli delle parti principali: Mertu Sungu, vocalmente generoso nell’impegnativa parte di Salvini; Rodion Pogossov un autorevole Adelson; Cecilia Molinari, esperta rossiniana, trepida Nelly.

José Miguel Perez-Sierra a capo della Orchestra Sinfonica Rossini dipana saldamente una partitura senza grandi varietà dinamiche. Soddisfacente il coro istruito da Carlo Morganti.

(1) Molto più sbrigativo quello della seconda versione: Salvini, resosi conto dell’inganno, ha pugnalato Geronio ed è rimasto leggermente ferito da una pallottola di Struley, riuscendo però a liberare Nelly. Salvini entra in scena e riconsegna la fidanzata all’amico. Ha deciso che partirà per Roma, per trattenervisi un anno prima di tornare al castello e sposare Fanny.

Didone abbandonata

Saverio Mercadante, Didone abbandonata

Innsbruck, Tiroler Landestheater, 10 agosto 2018

★★★☆☆

(registrazione video)

L’ultima Didone

Ci si chiede quando finisca il barocco in musica se un festival che fa di quel repertorio la sua ragion d’essere mette in scena un’opera del 1823?

Il fatto è che in quello stesso anno in cui al Teatro Regio di Torino il 18 gennaio veniva presentata la Didone abbandonata di Saverio Mercadante, due settimane dopo alla Fenice di Venezia con la sua Semiramide Rossini metteva il sigillo alla gloriosa stagione dell’opera seria settecentesca.

Ecco allora la motivazione per cui alle Innsbrucker Festwochen der Alten Musik c’è posto anche per quel compositore che si colloca all’interno di un’estetica neoclassica, propiziata dalla restaurazione (borbonica nel caso della sua città, Napoli), cui in parte si può collegare anche la Didone abbandonata, il cui libretto è la revisione di Andrea Leone Tottola del testo del poeta cesareo per eccellenza, quel Pietro Metastasio a cui sono ricorsi massicciamente tutti i compositori del XVIII secolo. E non sarà l’ultima volta: Mercadante intonerà anche il suo Ezio (Torino, 1827) e l’Adriano in Siria (Lisbona, 1828), mentre per Ipermestra userà l’adattamento del Ricciuti (Napoli, 1825).

«Non era questa una stravaganza, nel primo Ottocento: i testi metastasiani non hanno mai cessato di ispirare i musicisti, e in particolare nel decennio 1820-30 assistiamo a un rifiorire di Semiramidi, Didoni, Ruggieri, specialmente nei teatri controllati da regnanti attenti a una politica culturale reazionaria (Torino, Modena, Napoli). Metastasio scrisse Didone un secolo prima che Mercadante accettasse di intonarne nuovamente i versi, sulle orme di decine di musicisti (gli ultimi, già all’alba dell’Ottocento, erano stati Fioravanti e Paër): un po’ come se oggi Luciano Berio componesse una Fedora o un’Adriana Lecouvreur cercando di rispettare il più possibile il libretto originale. Infatti i libretti metastasiani musicati nell’Ottocento sono sì rielaborati, nel senso che presentano duetti, concertati, arie pluripartite, ma i versi di Metastasio sono sempre mantenuti, laddove è possibile. La Didone musicata da Mercadante ha quindi la forma di un’opera rossiniana, con l’introduzione (solisti e coro), le cavatine e cabalette di sortita per ognuno dei tre personaggi principali (Didone, Enea, Iarba), i duetti, un concertato interno (il terzetto dell’atto terzo), il finale primo come momento culminante della tensione drammatica, la quale poi si stempera nei tre ‘rondò di bravura’ assegnati ai protagonisti nel secondo atto. Però l’intreccio originale è conservato (gli atti da tre divengono due), i recitativi (quasi sempre semplici) anche, sebbene siano un po’ tagliati. Il testo del finale primo cerca di inanellare il massimo possibile di citazioni testuali metastasiane e i personaggi declamano, un po’ alla rinfusa, i versi più celebri dell’originale. […] Insomma, un Metastasio letto al ritmo indiavolato del finale primo dell’Italiana in Algeri .[…] La sua Didone assomiglia a un’opera non napoletana di Rossini; lo stile è quello belcantistico di Semiramide, la parte di Enea è scritta per un contralto en travesti, quasi tutti i pezzi sono in tre o quattro sezioni. Nella lunga scena finale della primadonna, un vero tour de force, le colorature vertiginose dipingono la disperazione della regina come in una scena di pazzia. È una scelta musicale e drammaturgica diversa dallo scabro finale metastasiano (che prevedeva un semplice recitativo), ma non meno coerente. Il coro che segue riprende implacabile la melodia che aveva aperto l’opera, segno del compiersi di una tragedia annunciata». (Marco Emanuele)

Ecco nelle parole del librettista il noto argomento. Didone, vedova di Sicheo, dopo esserle stato ucciso il marito da Pigmalione suo fratello, Re di Tiro, fuggì con immense ricchezze in Africa, dove, comperato sufficiente terreno, edificò Cartagine. Fu ivi richiesta in moglie da molti, e particolarmente da Jarba, Re de’ Mori, e sempre ricusò, dicendo, voler serbar fede alle ceneri dell’estinto consorte. Intanto Enea, trojano, essendo distrutta la sua patria dai Greci, mentre andava in Italia, fu portato da una tempesta sulle sponde dell’Africa, e ricevuto da Didone, la quale ardentemente se ne invaghì. Ma mentre egli, compiacendosi dell’affetto della medesima, si tratteneva in Cartagine, gli fu dagli Dei comandato, che abbandonasse quel cielo, e che proseguisse il suo cammino verso l’Italia, dove gli promettevano, che doveva risorgere una nuova Troja. Egli partì, e Didone disperatamente, dopo avere invano tentato di trattenerlo, si uccise. Tutto ciò si ha da Virgilio, il quale, con un felice anacronismo, unisce il tempo della fondazione di Cartagine agli errori di Enea. Da Ovidio, nel terzo Libro de’ Fasti, si raccoglie che Jarba s’impadronì di Cartagine dopo la morte di Didone, e che Anna , sorella della medesima (la quale sarà nel Dramma chiamata Selene) fosse occultamente anch’essa invaghita di Enea: per comodità della rappresentazione si finge che Jarba, curioso di vedere Didone, s’introduca in Cartagine, come ambasciatore di sé stesso, sotto nome d’Arbace.

Fin dalla sinfonia si sente l’influsso innegabile di Rossini, compreso il tipico crescendo con le note saltellanti dei legni, che qui sono veramente di legno nell’orchestra storicamente informata dell’Academia Montis Regalis. Il suo direttore Alessandro De Marchi adotta un diapason a 430 Hz per concertare come sempre con felice stile e verve questo dimenticato lavoro nella revisione critica di Paolo Cascio. A parte qualche imperfezione degli ottoni, il colore e la trasparenza dello strumentale sono l’ideale per accompagnare le voci dei cantanti, se non che qui abbiamo un cast non sempre adeguato, a partire da Viktorija Miškūnaité, una Didone dalla voce estremamente leggera e sottile e dall’incerta intonazione soprattutto negli acuti. Katrin Wundsam è Enea, timbro non gradevole che non sprizza molta empatia. Carlo Vincenzo Allemano è uno Jarba grossolano e omette le note acute: non è una parte per lui. Pietro Di Bianco è un Osmida dal particolare timbro scuro e dalle agilità un po’ difficoltose. Parte superiore alle sue forze anche quella di Araspe per Diego Godoy. Meglio Emilie Renard, una Selene espressiva e precisa. Coro tutto al maschile il Maghini istruito da Claudio Chiavazza.

Messa in scena sgangherata quella di Jürgen Flimm, che sembra voglia trattare con ironia la vicenda, ma le sue intenzioni non sono chiare e ogni interprete si costruisce un modo recitativo tutto suo senza pensare all’insieme. La scenografia di Magdalena Gut consiste della solita piattaforma rotante, qui sollevata, con sopra una quantità eterogenea di oggetti: un frigorifero, una scrivania impero, un ventilatore, un salotto in cuoio, valigie, delle barche, una betoniera rossa, mattoni di plastica trasparente, strutture di ferro tubolare per piloni di calcestruzzo (Cartagine in costruzione?), una specie di torre. I costumi, raffazzonati anch’essi, di Kristina Bell suggeriscono un passato coloniale tra le due guerre.

Nel finale Jarba stupra Selene e compie varie altre nefandezze che terminano in un massacro di tutti i presenti, nessuno escluso, tra i fumi della città in rovina: «Si distrugga Cartago, e non vi resti | orma d’abitator che la calpesti […] e ignota al passaggiero | Cartagine sarà». L’aveva cantato poco prima, d’altronde.

Ermione

Gioachino Rossini, Ermione

Napoli, Teatro di San Carlo, 7 novembre 2019

★★☆☆☆

(video streaming)

«Un’opera per la posterità»

Nel suo Rossini Giovanni Carlo Ballola intitola “La course à l’abîme” il capitolo dedicato ad Ermione: «tutto in questa “azione tragica” suona unico, cominciando dallo scandalo della sua apparizione e scomparsa dalle scene – fatto eccezionale non solo per un compositore di cartello come Rossini, ma per il coevo sistema produttivo dell’opera, improntato a un intenso dinamismo. Più che un fallimento, una morte apparente fu quella che segnò il destino storico e ricettivo di questo spartito apparso il 27 marzo 1819 al San Carlo col supporto di un cast ormai famoso (la Colbran protagonista, la Pisaroni come Andromaca, Nozzari, David e Ciccimarra rispettivamente Pirro, Oreste e Pilade, Benedetti come Fenicio) ma che questa volta non fu garante non che del buon esito della serata, della stessa fortuna dell’opera. Alla quale non valse la fama dell’autore, tale ormai da assicurare quanto meno una diffusione mediocre al più modesto dei suoi spartiti». Che fosse un’opera dall’accidentato destino e anticipatrice dei tempi lo ammise il suo stesso autore, che sapeva di averla scritto per i posteri, «ma il suo tempo sembra non arrivare mai» afferma Alberto Mattioli in occasione di questa discussa ripresa.

Duecento anni dopo e nello stesso teatro napoletano, ritorna dunque questo tormentato lavoro, ma la sfortuna non sembra volerlo abbandonare: per la parte di Pirro si è succeduta una serie di forfait da capogiro (Enea Scala, John Osborn, Vladimir Dmitriuk…) e infine è andato in scena l’interprete previsto per Pilade, John Irvin,  unanimemente definito il più debole del cast per l’esilità della voce e la mancanza di proiezione del suono, oltre che per la scialba presenza scenica. Ma qui il difetto sta in buona parte nella regia di Jacopo Spirei che questa volta non si dimostra convincente, anzi sembra rinunciatario, senza un’idea più o meno forte che dia un significato alla produzione. L’ambientazione moderna, con le scene di Nikolaus Webern e gli incongrui costumi di tutte le epoche possibili di Giusi Giustino, rimane fredda e la direzione attoriale assente. Che i duetti più drammatici avvengano mentre si prepara la tavola del banchetto il regista ce lo poteva risparmiare, così come il coltello da caccia, l’«acciaro». Per non dire della carneficina finale. Suo solo merito è di aver lasciato chiuso il sipario durante la sinfonia con il coro dietro che preannuncia quello che si vedrà, una trovata del genio rossiniano che ai suoi tempi sconcertò il pubblico. Deludente è anche la direzione di Alessandro de Marchi da cui ci si poteva aspettare qualcosa di meglio della lettura incolore fornita, anche a causa di un’orchestra imprecisa e sotto tono sia negli archi che nei fiati.

Per fortuna in scena ci sono due donne di temperamento nelle parti di Ermione e Andromaca. Angela Meade, che aveva già interpretato Ermione con Alberto Zedda a La Coruña, esibisce la sua imponenza vocale, e fisica, con autorevolezza e ha toni trascinanti nei momenti più drammatici. La dizione non è sempre perfetta (doppie latitanti e vocali larghe), ma le agilità sono ben realizzate e il timbro luminoso. Più caldo e sensuale quello di Teresa Iervolino con forse qualche cautela in più negli acuti. Antonino Siragusa (Oreste) come sempre canta tutte le note, con predilezione per le più acute, come sa fare lui, ossia gridate. Filippo Adami (Pilade), Guido Loconsolo (Fenicio) e Gaia Petrone (Cleone) completano un cast un po’ allo sbaraglio, come il coro tappezzeria.

Come altre volte, purtroppo, la ripresa video dal San Carlo è dilettantistica, di pessima qualità le immagini e l’audio, con le voci del tutto sbilanciate rispetto all’orchestra. Come se non bastasse, la trasmissione di Operavision avviene con un volume di suono appena udibile e con fastidiosi problemi di sincronizzazione.

Il castello di Kenilworth

fotografie © Gianfranco Rota

Gaetano Donizetti, Il castello di Kenilworth

★★★★☆

Bergamo, Teatro Sociale, 24 novembre 2018

Donizetti & Liz. Part I.

Donizetti affronta per la prima volta il personaggio di Elisabetta I nel 1829Al San Carlo di Napoli va infatti in scena il 6 luglio Elisabetta al castello di Kenilworth, così recita il titolo originale, melodramma «composto dal Sig. Andrea Leone Tottola, poeta drammatico de’ Reali Teatri di Napoli». Un altro castello, quello di Windsor, sarà teatro delle vicende di Enrico VIII e Anna Bolena; quello di Fotheringhay vedrà la regina d’Inghilterra confrontarsi con la rivale Maria Stuarda; quello di Westminster il suo ultimo amore per un altro conte, Roberto Devereux.

La storia, tratta dal Kenilworth di Walter Scott, era già stata oggetto di una commedia di Gaetano Barbieri rappresentata nel 1823, anno in cui a Parigi aveva debuttato invece l’opéra-comique di Auber Leicester ou Le château de Kenilworth su libretto di Scribe e Mélesville. A Napoli la vicenda si dimostrava adeguata all’occasione celebrativa del genetliaco di Maria-Isabella di Borbone, aggiustata com’era con quel lieto fine in cui la regina Elisabetta magnanimamente perdona il tradimento del conte di Leicester e il suo gesto di clemenza ne sottolinea la grandezza di sovrana: «Brittannia avventurata, | se il cielo a te destina | il don di una eroina, | che ogni alma sa bear!» canta il coro a chiusura dell’opera.

Atto I. Elisabetta I è in visita al Castello di Kenilworth, dimora del conte di Leicester, segretamente sposato con Amelia, diviso tra l’amore per la moglie e le attenzioni che la regina gli riserva. Essere il favorito della regina gli aprirebbe la via per salire al trono, idea che stimola in lui una grande ambizione. Amelia deve quindi essere nascosta alla vista di Elisabetta, compito di cui si dovrebbe occupare Lambourne, servitore dello scudiero Warney, che in segreto la desidera e cerca di conquistarla con l’inganno. Giunta la regina, Leicester chiede a Warney se ha portato a termine il suo compito, quindi accompagna la regina e tutta la corte all’interno del castello.
Atto II. Leicester non tarda a provare rimorsi né Amelia a provare gelosia per Elisabetta, e le rassicurazioni e le dichiarazioni d’amore di lui non placano l’agitazione di lei. Warney, rifiutato dalla donna, congiura per ucciderla e consegna a Lambourne un pugnale per compiere il delitto. Amelia intanto, fuggita dalla prigione e finita nei giardini del castello, incontra la regina, le palesa il suo matrimonio con Leicester e la manda su tutte le furie. Leicester e Warney rientrano da una battuta di caccia, ma a quel punto l’unica preda è Amelia, catturata dalle guardie della regina.
Atto III. Warney avanza nuovamente pretese sulla donna, mentre la regina finge di credere che Amelia sia moglie di Warney e che la fedeltà di Leicester sia intatta, spiando le reazioni del conte. Leicester ribadisce di non voler rinunciare ad Amelia, per la quale sarebbe disposto ad accettare anche la morte pur di non abbandonarla. Elisabetta sfoga nel furore la sua sete di vendetta. Visto il suo stato di depressione, Warney e Lambourne giungono con una coppa in mano. È veleno, e Fanny grida ad Amelia di non bere. Sopraggiungono Leicester ed Elisabetta, che ha riacquisito il controllo che si conviene alla sua dignità reale. Amelia viene liberata dalla prigione, Leicester viene perdonato, Warney viene allontanato ed Elisabetta viene acclamata per la sua clemenza..

Il giovane Donizetti si muove nell’ambito del modello allora in voga, quello rossiniano. Il castello di Kenilworth è un susseguirsi esaltante di cabalette trascinanti sulle note puntate degli archi e dei legni, ma ancora più evidente il marchio del pesarese è nei concertati, come quello che conclude il secondo atto con ognuno dei quattro personaggi principali che reagisce a suo modo con largo uso di punti esclamativi: Leicester, che vede  fallire il piano di nascondere la moglie alla vista della regina («Dessa! Amelia! E alla regina | chi l’addusse? Oimè ! Qual gelo»); Elisabetta, che ha scoperto una rivale nella moglie del suo amante («Freme! Ondeggia irresoluto! | La sua fronte è sbalordita!»); Amelia, che scopre invece il tradimento del marito («Ah! Che seppi! Qual cimento! | Mi tradì quel cor crudele»); Warney, agitato tra l’amore per Amelia e la voglia di vendetta («Come! Amelia a me rapita! | Oh funesto avvenimento!»). È la miglior pagina della partitura secondo l’Ashbrook, che definisce l’opera «lavoro tutt’altro che trascurabile […] benché si debba ammettere che è svantaggiato da un intreccio melodrammatico senza chiare motivazioni e che gli abbellimenti vocali delle melodie di Elisabetta […] sono, specialmente nell’aria finale, più estroversi e formali che pervasi di reale emozione».

Nel Kenilworth Donizetti utilizza, sei anni prima della Lucia di Lammermoor (un’altra vicenda ambientata in castelli immersi nelle brume dell’Inghilterra), la glasharmonika: Amelia desolata pensa al passato («Par, che mi dica ancora… | “Io ti amerò costante!” | quanto quest’alma amante | era felice allor!») nella grande scena e aria che precede il finale terzo, e i suoni sognanti dell’arpa e dei bicchieri di cristallo (sfiorati dalle dita di Sascha Reckert) accompagnano il dolente monologo della sventurata donna. La partitura offre molti altri momenti felici esaltati dalla bacchetta di Riccardo Frizza che restituisce magistralmente i colori e gli accenti di questo Donizetti ormai maturo.

Elisabetta è una regale Jessica Pratt, perfettamente a suo agio nel ruolo, con un registro centrale ricco e sonoro e acuti abbaglianti. Sulla vocalità dell’immancabile Carmela Remiglio, intensa Amelia, continuo ad avere le mie riserve e non ne ripeto qui le ragioni. Xabier Anduaga affronta la parte di Leicester con piglio sostenuto, il timbro è luminosissimo, gli acuti precisi e la dizione esemplare. Parimenti eccellente Stefan Pop, il cattivo, suo malgrado, della situazione. Qui Warney è ancora un tenore: nella revisione del 1836 diventerà un baritono. Efficaci si sono dimostrati gli interpreti secondari e il coro.

L’allestimento scenico è stato affidato a María Pilar Pérez Aspa, attrice spagnola alla sua prima esperienza di regia lirica, senza particolari intendimenti e con qualche ingenuità, soprattutto per il personaggio di Elisabetta di cui viene sottolineata l’innocenza giovanile (all’inizio viene presentata bendata ed eccitata come una ragazzina per gli abiti nuovi che scendono dall’alto), la regista si riscatta però con un efficace coup de théâtre nel finale: il reticolo della pedana inclinata, unico elemento previsto nell’impianto scenografico di Angelo Sala oltre alla gabbia semovente in cui viene rinchiusa Amelia, si solleva e diventa una grata che separa Elisabetta dagli altri. La regina abdica agli affetti e si rinchiude in una prigione dorata cui è destinata dal suo ruolo di sovrana. Disegnati con eleganza i costumi d’epoca di Ursula Patzak, soprattutto quello di Warney, un nero abito vescovile con croce dorata appesa al collo che cela un pugnale.

Entusiasmo alle stelle del pubblico del Sociale nei confronti del maestro Frizza, degli interpreti e dei creatori della messa in scena.


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