Giovanni Schmidt

Leonora

Ferdinando Paër, Leonora

Innsbruck, Landestheater, 7 agosto 2020

Continua la collaborazione con altri recensori. Anche questa volta la firma è di Orlando Perera, giornalista RAI ed esperto d’opera barocca.

La prima Leonora dell’Opera

Seguitando a esplorare teatri e festival nell’estate del contagio Covid-19, dopo Venezia, sono salito come tutti gli anni a Innsbruck. Gli organizzatori delle Festwochen der Alten Musik (Settimane della Musica Antica), il più prestigioso festival europeo del settore, non hanno rinunciato a quasi nulla del cartellone, programmato dal 31 luglio al 30 agosto. Anche qui, come a Venezia, o Salisburgo, non si è neppure pensato di ripiegare su produzioni all’aperto. Renderebbero più semplice applicare le norme di sicurezza, ma a un prezzo troppo alto per la qualità artistica.

Le tre opere in programma (ma ci sono anche numerosi concerti in varie sedi) – Leonora di Ferdinando Paër, L’Empio Punito di Alessandro Melani e La Pellegrina, sei intermezzi sul medesimo titolo di altrettanti autori barocchi – si rappresentano quindi al chiuso, nelle due sale canoniche, il vecchio Landestheater e la nuova Haus der Musik. Per mantenere i distanziamenti, inevitabili la rinuncia alla metà dei posti per il pubblico, e la sostituzione di regie e scenografie con più agili mise en espace. Senza ironia, questa seconda perdita non pare incolmabile. Chi mi segue nelle recensioni sa che non amo il cosiddetto teatro di regia, tipico dell’area austro-tedesca, troppo spesso attirato da soluzioni arbitrarie, ridondanti. Forse il Covid può aiutare a un recupero di umiltà. Less is more. Lo dimostra ampiamente la bella Leonora che ho visto.

Quando si alza il sipario, la scena è tanto spoglia, quanto impressionante. Sul palco è schierata l’intera orchestra in controluce, irta di microfoni, pare un esercito pronto alla battaglia. Sciogliamo quindi subito il primo nodo, dicendo che l’allestimento, firmato da Mariame Clément, nella sua povertà funziona benissimo. Orchestra sulla scena, invece che nel golfo mistico, ma lo spazio è vasto e i cantanti possono muoversi a loro agio. Infatti la Clément li muove tanto e bene, con un salutare ritorno al lavoro sui corpi, sui gesti e i movimenti degli interpreti. Quello che hanno sempre fatto i bravi registi d’un tempo, e che oggi è spesso trascurato. Vedi ad esempio l’asciutta scena dell’agnizione, quando a Fedele basta sciogliere i capelli per rivelarsi Leonora. Altro elemento cardine, i leggii continuamente spostati e ricollocati dai cantanti a suggerire, più che definire, spazi scenici, situazioni psicologiche sempre diverse. Roba da Peter Brook, si parva licet, con le sue teorie dello spazio vuoto.

Venendo all’opera, da segnalare, come già due anni fa per la Didone Abbandonata di Mercadante, la scelta di un titolo border line nell’accezione comune di “musica antica”. La Didone è datata 1823, questa Leonora ossia L’amor coniugale – fatto storico in due atti del parmigiano Ferdinando Paër, esordì con grande successo il 3 ottobre 1804 al Kleines Kurfürstliches Hoftheater, il piccolo teatro di corte del principe elettore di Dresda. Il ruolo-titolo era affidato alla moglie di Paër, il famoso soprano Francesca Riccardi. Doppiata la boa del 1800, formalmente non si dovrebbe più parlare di epoca antica, né barocca, bensì pienamente classica. Ma Alessandro De Marchi, festeggiato per il decimo anniversario di direzione artistica a Innsbruck, nel suo incessante lavoro di ricerca esce – giustamente – dagli schemi e scava nel repertorio, oltre che nei secoli, alla ricerca di sepolti tesori. Leonora propone più di un motivo d’interesse. Il primo è che racconta la stessa storia di Fidelio, unica opera scritta da Beethoven, un anno dopo, nel 1805. Partitura come sappiamo dalla nascita molto travagliata, nelle prime versioni anche Fidelio s’intitolava Leonore. Il titolo rimase poi a tre delle ben quattro ouverture partorite dal tormento beethoveniano, sfociate infine in una partitura autonoma, oggi sicuramente più eseguita dell’opera. Ma sono in totale quattro, a loro volta, le opere ispirate allo stesso libretto, Léonore ou L’Amour conjugal scritto in epoca rivoluzionaria da Jean-Nicolas Bouilly. Oltre a Paër e Beethoven, Pierre Gaveuax nel 1798, poi Giovanni Simone Mayr, nel 1805, lo stesso anno del Fidelio. Paër per il libretto adotta una versione italiana di Giuseppe Maria Foppa e Giacomo Finti, rivista poi per il San Carlo di Napoli da Giovanni Schmidt. A noi interessa naturalmente il raffronto con l’opera di Beethoven, dove troviamo non pochi, sorprendenti rimandi a Leonora, come la distribuzione vocale, la collocazione di alcuni brani, la tonalità del terzetto nel carcere fra Leonora, Florestano e il carceriere Rocco “Che l’eterna provvidenza”. Non a caso, forse, dopo la morte di Beethoven fra le sue carte venne rivenuta una copia della partitura di Paër. Detto questo, Beethoven resta un gigante e Paër un ottimo compositore, che tra Sette-Ottocento, in attesa che sorgesse l’astro rossiniano, era assai stimato in Europa. Direttore musicale al Kärntnertortheater di Vienna, quindi maestro di cappella a Dresda (dove appunto scrisse Leonora), infine direttore e compositore della musica privata per Napoleone, che lo nominerà, nel 1813, direttore musicale del Théâtre-Italien. Poi l’oblio, come tanti musicisti nella storia. Nel marzo 2019 è stata recuperata al Teatro Regio di Torino una sua opera successiva, l’Agnese (1809). A Leonora è d’obbligo riconoscere più spiccati meriti. Si tratta, come del resto l’Agnese, di un’opera semi-seria, tipico genere dell’età post-rivoluzionaria, che mette insieme l’eredità dell’opera buffa italiana con il mélodrame francese e la particolare forma della pièce à sauvetage, che prevede il salvataggio di uno dei protagonisti dalla sorte avversa, in genere da un’ingiusta carcerazione, come qui avviene.

La vicenda – storica – di estremo amore che induce la protagonista a travestirsi da uomo (sotto il nome assonante di “Fedele”), per liberare dal carcere l’amato sposo Florestano, è descritta da una «scrittura strumentale ricca ed efficace», secondo il giudizio di Massimo Mila. Una partitura senz’altro di notevole impianto, per la caratterizzazione dei personaggi, la fantasia nell’invenzione melodica, la riuscita calibratura dell’orchestra nelle varie situazioni drammaturgiche. Colpisce però la forma arcaica – e qui la differenza con Beethoven è abissale – nella successione di arie virtuosistiche, che pare riproporre gli stilemi barocchi della forma chiusa tra recitativi, duetti e arie, in contrasto con l’inventiva ritmica e melodica sfoderate da Paër nella scrittura. Rossini sarà decisamente più dirompente. Questo nulla toglie alla bellezza musicale, finemente intagliata, di alcuni di questi passi, che pongono le voci a duro cimento. Basti citare «Fiero aquilon furente» di Leonora, o «Corri da qualche astrologo» di Marcellina (la figlia del carceriere Rocco), entrambi nel primo atto, o ancora l’aria di Florestano che apre il secondo atto «Dolce oggetto del mio amore».

E qui veniamo a parlare del cast, quasi tutto italiano, scelto con cura da De Marchi. In primo luogo la protagonista, affidata a Eleonora (nomen omen) Bellocci, autorevole soprano di coloratura, impeccabile Regina della Notte l’anno scorso a Catania, voce calda e imperiosa, cristallina anche nelle agilità più spinte. Ma anche la Marcellina di Marie Lys appare perfettamente a suo agio nelle nuances più delicate, che prevalgono nella finezza del personaggio sul canto spiegato. Debitamente in equilibrio tra passione e malinconia, tra coraggio e fragilità il Florestano del giovane tenore siciliano Paolo Fanale, voce morbida, luminosa, innervata da una solida tecnica, che emerge bene nelle numerose agilità, assegnate anche al suo personaggio. Altrettanto positivo il giudizio sugli altri quattro interpreti, i bassi Renato Girolami, il bonario carceriere Rocco, e Luigi De Donato, Giachino, amoroso di Marcellina, e i tenori Carlo Allemano, eporediese ospite fisso a Innsbruck, il crudele governatore di Siviglia Don Pizzarro, e Krešimir Spičer, già protagonista de Il ritorno di Ulisse in patria di Monteverdi dato a Innsbruck nel 2017, qui Don Fernando, Ministro e Grande di Spagna. Ancora due parole sul lavoro musicologico compiuto da De Marchi, che adotta l’edizione critica di Christian Seidenberg. Il rigore della ricerca ha indotto al ritorno al libretto originale di Dresda, firmato Foppa/Finti, tralasciando la successiva versione napoletana di Schmidt. Alla testa dell’Innsbrucker Festwochen Orchester, De Marchi conferma il suo talento non solo di musicista, ma anche di straordinario esploratore delle prassi esecutive, dei fraseggi antichi.

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Elisabetta regina d’Inghilterra

Gioachino Rossini, Elisabetta regina d’Inghilterra

★★★★☆

Pesaro, Vitrifrigo Arena, 8 agosto 2021

Elisabetta II, regina d’Inghilterra

Alle prime note della sinfonia si pensa di aver sbagliato serata: quelle impeccabilmente dipanate dall’Orchestra Sinfonica Nazionale RAI sono senza dubbio della sinfonia de Il barbiere di Siviglia, ma il Barbiere andò in scena a Roma nel febbraio 1816, mentre l’Elisabetta regina d’Inghilterra fu presentata al Teatro San Carlo il 4 ottobre 1815. Ma non sarà l’unica sorpresa: scopriremo altri “autoimprestiti” nel corso della serata, il più sorprendente di tutti quella che per noi è la cavatina di Rosina «Una voce poco fa» qui sulle labbra della regina d’Inghilterra, con altre parole ovviamente. Ma la situazione è ancora più intricata: la sinfonia era nata originariamente per L’Aureliano in Palmira del 1813 e nella stessa cavatina la cabaletta riprendeva il rondò di Arsace dal secondo atto sempre dell’Aureliano. Della trentina di temi musicali di cui è costituita l’opera nove provengono dall’Aureliano, altri nove dal Sigismondo, cinque dal Ciro in Babilonia e uno da Il turco in Italia, e questo per limitarsi ai soli autoimprestiti operistici. In totale, dei dodici numeri dell’Elisabetta uno solo è scritto ex novo da Rossini: il duetto Norfolc-Leicester che precede il finale dell’opera.

È vero che a Napoli non conoscevano neanche una nota del pesarese, ma quella dell’autoimprestito era una prassi del tutto usuale per i compositori dell’epoca e avallata dal sistema produttivo teatrale, che richiedeva una produzione continua di novità – esattamente l’opposto di quello che si fa oggi… Per Rossini era poi integrata nel suo sistema compositivo e nella sua estetica: il potere della musica è di dire cose diverse a seconda del contesto, essendo la musica un’arte ideale, non imitativa, che non descrive ma evoca una situazione emotiva. Una concezione neoclassica che non contemplava il realismo dalle possibilità del linguaggio musicale.

Su libretto di Giovanni Schmidt tratto dal dramma Il paggio di Leicester (1813) di Carlo Federici a sua volta basato su un romanzo gotico inglese, The Recess, di Sophia Lee del 1785 (1), dopo Venezia e Milano il dramma per musica Elisabetta regina d’Inghilterra doveva essere l’opera con cui il compositore intendeva avviare la sua carriera a Napoli, il più importante centro operistico italiano – e quindi mondiale. Un progetto a cui Rossini dedicò il massimo impegno, ottenendo un risultato tale da non richiedere particolari revisioni nelle successive riprese, un raro caso di relativa stabilità del testo musicale, come analizza Vincenzo Borghetti nel suo saggio sul programma di sala che accompagna la terza proposta del Rossini Opera Festival.

La produzione è affidata a un habitué del ROF, Davide Livermore, che con il suo favoloso Ciro in Babilonia nel 2012 aveva definito un nuovo modo di mettere un’opera in scena utilizzando la videografica quale elemento strutturale dello spettacolo. Anche qui fondamentale è l’apporto del videodesign della D-Wok, proiettato sull’enorme led wall utilizzato anche da Pier Luigi Pizzi per il Moïse et pharaon. Ma qui le ambizioni sono maggiori e i risultati più convincenti: proprio non si riesce a credere che si tratti di una superficie piatta quella su cui si disegnano interni dalle profonde prospettive, paesaggi nebbiosi in cui si aggira un maestoso cervo o le sbarre di una prigione.

Se il regno di Elisabetta II ha superato in longevità quello di Elisabetta I, perché non ambientare la vicenda ai tempi dell’attuale monarca, si deve essere chiesto il regista: il fascino della dinastia Tudor per gli spettatori dell’Ottocento è pari a quello esercitato dalla attuale casa reale sugli avidi fruitori di tabloid e fiction televisive. Ecco allora che l’azione è trasposta ai primi anni di regno dell’attuale monarca inglese,  il conflitto con la Scozia diventa la Seconda Guerra Mondiale, mentre per quando riguarda invidie e gelosie, quelle non hanno epoca. E quale miglior occasione poi per sfoggiare gli stupendi costumi di Gianluca Falaschi – tutta una palette di tinte pastello nelle sete delle dame di corte e della regina, gioielli scintillanti per quest’ultima, gonne in tessuto moiré per Matilde, uniformi elegantissime per gli uomini. Rimangono alcune perplessità sul trasferimento agli anni ’50 del secolo trascorso delle facili e frequenti esecuzioni capitali, ma tant’è.

Elisabetta regina d’Inghilterra è drammaturgicamente più povera delle opere che seguiranno e la regia di Livermore non risolve del tutto questo aspetto. Forse troppi sono i tocchi ironici che vivacizzano l’azione, ma smorzano il dramma. Resta ferma la eccezionale qualità tecnica dell’allestimento, ottenuta dal genio di Livermore grazie alla collaudata équipe che comprende, oltre ai già sopra citati, gli elegantissimi impianti scenografici di Giò Forma e il gioco luci di Nicolas Bovey.

Neanche la direzione di Evelino Pidò – sembra strano ma debutta solo oggi al ROF il direttore che si è fatto un nome proprio in questo repertorio – cerca di esaltare il dramma della vicenda e la sua è una lettura olimpicamente serena e povera di slanci. La cura del fraseggio e il colore strumentale sono impeccabili, ma su tutto c’è la minaccia di un leggero velo di noia. Elisabetta è anche la prima opera a fare un uso sistematico dei recitativi accompagnati, che qui collegano numeri musicali affidati a interpreti di grande livello, ma nessuno spicca per eccezionalità. Karine Deshayes ha il portamento regale e trattenuto che associamo alla Elisabetta di oggi, ma se pensiamo all’Elisabetta del libretto tendiamo a prendere in considerazione un carattere più nevrotico e passioni più evidenti, cosa che non troviamo nel canto raffinato del mezzosoprano francese che riprende il ruolo originariamente creato per la Colbran. Salome Jicia,  a cui non manca certo il temperamento, è una trepidante Matilde,  la sventurata donna che ha avuto il torto di essere figlia della nemica della regina e sposa del suo favorito. Leicester trova nel baritenore Sergey Romanowsky – apprezzato Agorante nel Ricciardo e Zoraide di tre anni fa – un interprete solido che si cimenta e risolve con agio le agilità e gli acuti di una parte ideata per il mitico Andrea Nozzari. Stupisce invece la scelta di Barry Banks come Norfolc: a parte la sicurezza scenica, il timbro stridulo rende il personaggio isterico più che temibile e il suo passato di belcantista non sempre rifulge nelle agilità. Sbiadito l’Enrico di Marta Pluda mentre Valentino Buzza (Guglielmo, che non ha numeri musicali da solista) evidenzia anche questa volta il tono fastidiosamente manierato con cui porge le frasi nei recitativi. Meno impegnato che nel Moïse, il coro del Teatro Ventidio Basso, diretto da Giovanni Farina, ha dato buona prova di sé anche qui.

Non uno spettacolo memorabile, dunque, ma da vedere – una vera festa per gli occhi  – ed ascoltare con diletto. È un Rossini che comunque lo merita. Bene ha fatto il “suo” festival a riproporlo.

La presenza in sala di telecamere fa supporre che la registrazione video potrà essere in qualche modo disponibile in futuro.

(1) Ecco la trama dell’opera la cui azione si svolge ai tempi del regno di Elisabetta I d’Inghilterra.
Atto I. I nobili inglesi attendono trepidanti il ritorno trionfale del generale Leicester, favorito della Regina Elisabetta, vincitore sul nemico scozzese: il solo che non gode del suo ritorno è il nobile Norfolc, invidioso del successo del rivale. Il generale, reduce del successo, dopo aver ricevuto gli onori da Elisabetta introduce i prigionieri scozzesi tra cui scorge con orrore Matilde ed Enrico, i figli di Maria Stuarda, nemica acerrima di Elisabetta, infiltrati tra i nobili scozzesi per poter seguire Leicester, sposo segreto di Matilde. Una volta rimasti soli, Leicester li rimprovera per aver commesso una tale follia; la moglie afferma di averlo fatto solo per amore suo, ma la posta in gioco è alta: Elisabetta è una donna terribilmente gelosa e capace di una vendetta atroce qualora venisse a scoprire la loro identità e la loro relazione. Leicester, credendo di confidarsi con un amico, rivela tutta la verità a Norfolc, il quale, felice di aver trovato un pretesto per far cadere in disgrazia il rivale, alla prima occasione racconta tutto ad Elisabetta. La Regina, sconvolta, per avere conferma di ciò decide di tentare la fedeltà di Leicester: di fronte alla corte e ai prigionieri scozzesi, Elisabetta, come premio del suo valore militare, offre la corona e la sua mano al vincitore. La titubanza di Leicester e i fremiti di gelosi di Matilde confermano i sospetti della regina, che smaschera i due fratelli, accusa di tradimento Leicester e ordina l’arresto dei tre.
Atto II. Elisabetta, tradita e ferita nei sentimenti, decide di mostrarsi magnanima: risparmierà la vita ai prigionieri qualora Matilde accettasse di divorziare da Leicester. La donna, dapprima dubbiosa, rifiuta di firmare il documento di comune accordo col marito, facendo infuriare di più la tradita regina. Norfolc, frattanto, si rode ancora di più nella rabbia: la delazione non gli ha fatto riacquistare l’onore presso Elisabetta, al contrario, la Regina l’ha bandito dalla sua presenza. Il nobile, approfittando del malumore popolare causato dall’ingiusta condanna a morte inflitta a Leicester, decide di guidare una rivolta popolare per liberare Leicester e i prigionieri scozzesi: il suo piano è quello in realtà di vendicarsi del rivale, causa della sua rovina, e poi di Elisabetta. Nelle prigioni, Leicester viene quindi raggiunto da Norfolc, che pregusta già il momento in cui lo ucciderà appena uscito dal carcere: ma, con grande stupore di tutti, appare Elisabetta. La Regina, come atto di estremo amore per Leicester, decide di far fuggire l’amato, perché non ha cuore di vederlo condannato a morte. Per Norfolc è la goccia che fa traboccare il vaso: il nobile fa per uccidere Elisabetta, ma viene fermato in tempo da Matilde ed Enrico. La Regina allora condanna a morte il traditore e riabilita il suo favorito.

Ecuba

Nicola Antonio Manfroce, Ecuba

Martina Franca, Palazzo Ducale, 30 luglio 2019

★★★★☆

(video streaming)

Un capolavoro acerbo

Il compianto Paolo Terni si lamentava, giustamente, che i teatri italiani si accanissero a programmare sempre gli stessi titoli senza tentare di scoprire le gemme nascoste del nostro tesoro musicale, come ad esempio l’Ecuba di Manfroce. Quattro anni dopo la sua scomparsa, la proposta è stata accolta dal Festival della Valle d’Itria e si è potuto constatare come quell’opera fosse proprio un capolavoro, seppure acerbo. Non poteva d’altronde essere altrimenti data la giovane età del suo autore.

Nella mesta gara ad abbandonare presto questa valle di lacrime, Nicola Antonio Manfroce la vince su tutti, altro che Mozart (35 anni), Bellini (34), Schubert (31), Pergolesi (26): il compositore di Palmi nasce nel 1791 e muore nel 1813, a 22 anni! Nel frattempo riesce a scrivere, tra l’altro, La nascita di Alcide (Napoli 1809), cantata in onore di Napoleone, e un’opera, Alzira (Roma 1810). Il buon esito di questi lavori gli apre le porte dei teatri di Napoli dove l’impresario Barbaja gli commissiona una tragedia in tre atti, l’Ecuba appunto, che viene composta con grande rapidità e il suo debutto il 13 dicembre 1812 al teatro San Carlo con un cast di eccezione (Marietta Marchesini, Marianna Borroni, Manuel García e Andrea Nozzari) riporta un successo strepitoso. L’opera colpisce infatti il pubblico per le novità e il musicista viene salutato come uno dei maggiori talenti dell’epoca. Seguono tredici repliche. Poi più nulla.

Sono gli anni dell’indiscusso predominio rossiniano: nel 1812 oltre a tre farse in un atto il pesarese aveva presentato Demetrio e Polibio, Ciro in Babilonia e La pietra del paragone. Tancredi verrà subito dopo. Di Paër era stata data l’opera buffa Un pazzo ne fa cento, Cherubini era nella sua piena maturità espressiva, Spontini preparava la seconda versione del suo Fernand Cortez e alla Scala davano il Tamerlano di Mayr. Erano ancora viventi Gazzaniga e Salieri, in Francia erano apparse le prime opere di Auber e Beethoven approntava la terza versione di Leonora/Fidelio. Verdi e Wagner sarebbero nati l’anno dopo.

Il libretto di Giovanni Schmidt è basato sulla traduzione di quello dell’Hécube di Jean-Baptiste-Gabriel-Marie de Milcent, musicato da Georges Granges (Parigi 1800). L’epica guerra tra popoli è appena disegnata sullo sfondo: il testo dà risalto alla passione e ai sentimenti individuali con un’Ecuba smaniosa di vendetta a tutti i costi e la figlia Polissena innamorata di un Achille anch’egli desideroso di pace, come il re Priamo.

Atto I. Polissena rivela alla propria ancella, Teona, di essersi innamorata di Achille, nonostante questi le abbia appena ucciso in battaglia il fratello Ettore. Il padre Priamo suggerisce al popolo di Troia di accettare il matrimonio tra Achille e Polissena per mettere fine alla guerra di Troia, scontrandosi però con il volere della regina Ecuba. Achille, sopraggiunto, rivela i suoi sentimenti per Polissena e riceve la benedizione di Priamo. Vengono celebrati i giochi in onore di Ettore.
Atto II. Achille e Polissena scambiano propositi d’amore in vista delle nozze. Giunge quindi Ecuba che, dopo aver fatto allontanare Achille, convince la figlia a colpire a tradimento il promesso sposo durante la cerimonia nuziale, per vendicare la morte di Ettore. Polissena, immersa in tristi pensieri, viene ornata dalle ancelle e rimasta sola, riflette sul suo amaro destino. Polissena tenta di salvare Achille, comunicandogli di rinunciare alle nozze e questi si rivolge allora ai sovrani i quali, per opposti motivi, cercano di far mantenere alla figlia la promessa fatta per il bene della patria.
Atto III. Cerimonia nuziale nel Tempio di Apollo. Ma mentre Polissena compie un estremo tentativo di interrompere la cerimonia stessa, giunge la notizia che i greci, violando la tregua, si sono introdotti armati nella città. A nulla valgono i tentativi di Achille di professare la propria estraneità ai fatti: Ecuba ordina alle guardie di ucciderlo. Disperata, Polissena lancia un accorato appello di dolore agli dèi. Priamo rimprovera aspramente la moglie per la decisione affrettata che ha compromesso definitivamente ogni tentativo di cercare un accordo con i nemici. I soldati greci irrompono nel tempio, uccidono Priamo e rapiscono Polissena. Mentre i greci mettono a ferro e fuoco la città, Ecuba li maledice, predicendo le sventure che li attendono sulla via del ritorno in patria.

Più che a Rossini l’autore di Ecuba guarda al modello dell’opera francese, alla tragédie lyrique mediata dagli italiani, Cherubini e Spontini in prima linea. Dalla complessa sinfonia, in cui archi e legni delineano i diversi stati d’animo delle due donne, al declamato che sostituisce i recitativi, alle brevi ma intense arie, alla interazione del coro con i solisti, a quel finale dove alla stretta finale segue un brano sinfonico – soluzione di cui si ricorderà Rossini nel suo Mosè in Egitto – ci sono tutti gli elementi per rendere questo lavoro un unicum di altissimo livello che fa rimpiangere ancora più la precoce scomparsa del suo autore. Chissà quale sarebbe stato altrimenti il corso dell’opera italiana!

La brevità dell’opera – c’è chi dice dettata dall’incombere della malattia – raggiunge una sintesi di drammaticità difficile da riscontrare in altre opere coeve e qui a Martina Franca è esaltata dall’idea di eseguire i tre atti (ognuno di poco superiore alla mezz’ora) con continuità, scelta condivisa sia dal regista sia dal maestro concertatore, Sesto Quatrini, che ha sostituito all’ultimo momento il previsto Fabio Luisi a capo dell’orchestra del Teatro Petruzzelli di Bari. Da quello che si può intendere all’ascolto della registrazione televisiva non sembra neanche che il direttore abbia avuto pochi giorni per studiare la partitura, tanta è la sicurezza con cui i cantanti vengono concertati e l’orchestra condotta con un ritmo trascinante ma che non trascura le finezze strumentali.

Lo stesso discorso si può fare per l’altra sostituzione, ammalatasi Carmela Remigio a pochi giorni dalla prima. Lidia Fridman è un’Ecuba di forte personalità, un fisico e un portamento da ballerina classica che sublimano ed esaltano le pulsioni vendicative che accecano la donna fino a causare la rovina finale della sua famiglia e della sua città. Il giovane soprano, di origini russe ma perfezionatosi in Italia, dimostra una maturità interpretativa sorprendente esibendo una linea di canto precisa e sicura. Il suo timbro tagliente ben contrasta con la morbidezza di quello della figlia Polissena, qui una superlativa Roberta Mantegna, trepida fanciulla innamorata che deve sostenere i contrasti di passioni opposte. Gloriosamente maschile l’Achille di Norman Reinhardt, un eroe stanco delle «orribili pugne» e del «bollor dell’armi», che qui si dimostra tenero innamorato. A suo agio in un ruolo dominato da salti di registro e agilità impervie sfodera un timbro bronzeo e una personalità notevoli. Il tenore americano debutta nel nostro paese, ma all’estero è un cantante affermato in ruoli quali Pollione (Norma), Lurcanio (Ariodante), Roberto (Maria Stuarda). Priamo è Mert Süngü che inizia non molto bene ma poi si riprende e riesce a conferire spessore umano al suo personaggio con mezze voci e apprezzabili espressività. Efficace il coro del Teatro Municipale di Piacenza qui preparato da Corrado Casati.

Autore della messa in scena è Pier Luigi Pizzi, cui si devono le scenografie (tre spazi simmetrici con scalinate ai lati per i troiani a sinistra e le troiane a destra e un’ara al centro) e i costumi, tutti in viola e nero per gli assediati. La regia prometteva bene inizialmente con il cadavere di Ettore portato a spalla e poi cullato da Ecuba come in una Pietà prima di essere esposto sull’altare, ma poi non succede nient’altro e gli interpreti sono lasciati a loro stessi. Solo nel finale si ritrova il genio visivo Pizzi: in perfetta simmetria con l’inizio Ecuba è rimasta sola assieme al cadavere di Achille che viene portato via da quattro soldati greci la cui silhouette nera si staglia sullo sfondo come in una pittura vascolare. Nuovamente sola Ecuba si lascia andare a una risata isterica sulle note che concludono l’opera.

Questa gemma del nostro patrimonio musicale ci lascia col desiderio di riascoltarla e di volerla ritrovare per arricchire la spesso trita programmazione dei nostri teatri lirici.

Sì, aveva ragione Paolo Terni.

La Vestale

Gaspare Spontini, La Vestale

★★☆☆☆

Parigi, Théâtre des Champs-Élysées, 23 ottobre 2013

(video streaming)

No, non c’è la Callas

Opera appartenente al periodo francese del compositore marchigiano, la tragédie-lyrique fu presentata il 15 dicembre 1807 al Théâtre de l’Académie Impériale de Musique di Parigi su testo in francese di Victor-Joseph-Étienne de Jouy.

Lo stesso librettista così introduce la vicenda: «Il fatto storico su cui è fondato questo dramma risale all’anno di Roma 269, e si trova registrato nell’opera di Winckelmann intitolata Monumenti veteri inediti. Sotto il consolato di Quinto Fabio e di Servilio Cornelio, la Vestale Gorgia, travolta da violentissima passione amorosa per Licinio, d’origine sabina, l’introdusse nel tempio di Vesta, una notte in cui ella vegliava a custodire il fuoco sacro. I due amanti furono scoperti; Gorgia fu sepolta viva, e Licinio si uccise per sottrarsi al supplizio con cui la legge puniva il suo crimine. Proponendomi di trasportare sulla scena lirica un fatto di cui l’intreccio, l’interesse e i particolari mi parevano singolarmente adatti a questo genere di spettacolo, non mi nascosi le difficoltà che lo scioglimento presentava. La verità storica esigeva che la Vestale colpevole subisse la morte a cui la sua colpa l’aveva esposta; ma questa spaventevole catastrofe, che potrebbe, introdotta da un racconto, trovar posto in una tragedia regolare, era tale da potersi svolgere in scena, sotto gli occhi degli spettatori? Penso di no. La soluzione che ho scelto di salvare la vittima attraverso un miracolo, e di congiungerla a colui che ella amava, potrebbe suscitare un’altra critica. Mi si obietterà che tale scioglimento contrasta con le nozioni più diffuse, e con le inflessibili leggi a cui le Vestali erano soggette. Non crederei di avere sufficientemente giustificato la libertà che mi son presa, chiamando in causa tutte le libertà del genere stesso a cui questo lavoro appartiene, e tutte le licenze che gli sono state accordate; cercherò di dimostrare in poche parole che ammettendo, in favore della Vestale che rappresento in scena, un’eccezione alla legge terribile di cui aveva provocato il rigore, mi sono almeno richiamato a pretesti storici». E qui Jouy richiama le varie fonti storiche a sua giustificazione, non ultimo il mito del fondatore di Roma, Romolo, figlio egli stesso di Marte e di una Vestale, Ilia.

Atto I. Nella penombra dell’alba sul foro romano, Licinius, un giovane generale appena tornato vittorioso da una campagna contro i Galli, lamenta il suo destino davanti al tempio della dea Vesta. Cinna, suo amico e compagno di battaglia, riesce finalmente a scoprire la ragione del suo dolore: Licinius è tormentato dall’amore per Julia, la cui mano gli era stata promessa cinque anni prima dalla madre di lei. Timoroso che il padre di Julia rifiutasse il suo consenso al matrimonio a causa delle nobili origini della giovane, Licinius era partito per la guerra deciso a ritornare coperto di gloria e quindi dimostrarsi degno di lei. Ma al suo ritorno apprende che sul letto di morte, il padre ha stabilito che Julia diventasse vestale. Qual vergine al servizio della dea Vesta, Licinius l’ha persa. Cinna, inorridito e allo stesso tempo mosso a compassione, cerca di dissuadere Licinius a persistere su un amore proibito e pericoloso, ma deve riconoscere che i sentimenti dell’amico sono troppo forti da permetterglielo. Promette quindi a Licinius la sua fedeltà e il suo aiuto in qualunque circostanza e i due amici partono. Le sacerdotesse si riuniscono nel bosco sacro davanti al tempio della dea Vesta per l’inno del mattino. Il loro canto racconta tra l’altro delle punizioni che minacciano una vestale che vien meno al voto di castità. Julia, la quale rimpiange ancora il suo amore per Licinius, è sempre più terrorizzata. Mentre le altre vestali rientrano al tempio a preparare le festività in onore del conquistatore Licinius, Julia rimane sola con la Gran Vestale, la quale, conscia del conflitto interiore della giovane, non solo non accoglie la preghiera di Julia di non partecipare al corteo trionfale, ma le ordina di coronare lei stessa Licinius e di sorvegliare la notte seguente la fiamma sacra nel tempio. Julia è disperata e tormentata dalla prospettiva di poter vedere Licinius ancora una volta e dalla paura della vendetta della dea. Viene annunciato il corteo trionfale e Julia si affretta verso il tempio a presenziare alla cerimonia. L’arrivo del corteo trionfale attira tutta Roma. Appaiono le vestali e si avviano ai loro posti d’onore. Julia consacra la corona d’alloro sulla fiamma sacra e la presenta quindi a Licinius il quale riesce a sussurrarle che le farà visita la notte al tempio. Le festività proseguono con giochi, danze e combattimenti di gladiatori fino a quando il Pontefice Massimo ordina a tutti i presenti di recarsi al Campidoglio, dove Licinius offrirà un sacrificio di ringraziamento a Giove.
Atto II. Alla presenza delle sacerdotesse, la Gran Vestale consegna a Julia la verga d’oro con cui dovrà mantenere vivo il fuoco sacro e le ricorda ancora una volta i suoi doveri. Rimasta sola, Julia implora gli dèi di avere pietà di lei e del suo infelice amore. Nonostante i sensi di colpa, ascolta alfine la voce del suo amore e apre la porta del tempio. Appare Licinius e i due amanti si giurano eterna fedeltà; egli la scongiura di fuggire con lui. Ma Julia non è pronta a commettere questo sacrilegio nonostante Licinius cerchi di assicurarla che il loro amore non può essere empietà contro gli dèi. Nel frattempo la fiamma sacra si affievolisce sempre più fino ad estinguersi. Il destino di Julia sembra così segnato e il suo unico desiderio è quello di non coinvolgere il suo amato e di saperlo in salvo. Cinna arriva precipitosamente e assieme riescono a convincere Licinius a fuggire. Da lontano si odono già le grida minacciose della folla che esige la punizione per il danno recato al tempio. Licinius e Cinna riescono a fuggire, ma giurano di liberare Julia o di morire con lei. Davanti a tutti i sacerdoti riunitisi al tempio, Julia assume tutta la colpa su di sé, rifiuta categoricamente di svelare il nome del suo amato e si dichiara pronta invece a morire per il suo sacrilego atto. Giulia viene condannata al supplizio di essere murata viva.
Atto III. ll giorno dopo, Licinio è sconvolto per la condanna di Giulia e decide con l’amico Cinna e altri suoi fedeli di far cessare il supplizio e di salvare Giulia. Intanto, la ragazza viene condotta nella tomba. Lei mestamente saluta le sorelle, e ricorda il suo triste amore con Licinio, che vorrebbe ancora rivedere. Mentre Giulia si appresta al supplizio, entrano Licinio, Cinna e gli armati per porre fine al rito macabro, quando improvvisamente un fulmine cade dal cielo, squarcia il velo da vestale di Giulia, e riaccende il fuoco sacro. Il gran sacerdote interpreta l’avvenimento come uno scioglimento dai voti profferiti dalla giovane e come rappacificamento con la divinità e tutto culmina nel tripudio generale. Giulia e Licinio sono ora liberi di amarsi.

Il successo nella capitale francese si estese all’Italia dove La Vestale fu tradotta da Giovanni Schmidt per una produzione con Isabella Colbran al San Carlo di Napoli nel 1811 che ebbe non poco influenza sull’opera seria di Rossini. Nel Novecento è rimasta memorabile la ripresa alla Scala del 1954 con la prima regia lirica di Luchino Visconti, la direzione di Antonino Votto e la Callas come protagonista.

«Con La Vestale Spontini riuscì nell’intento di inventare una grandiosità drammatica in sintonia con il clima spirituale e le esigenze dell’epoca napoleonico-imperiale. Non a caso venne scelto un soggetto di aulica e sacrale nobiltà, risalente alla religio dell’antica Roma e collegato da Jouy, nell’introduzione e nella dedica del libretto, a tutta la tradizione della tragédie lyrique da Lully a Sacchini, nonché al neoclassicismo di Winckelmann. Occorreva un’opera che fornisse il corrispondente musicale di quel neoclassicismo così fulgidamente rappresentato nelle arti figurative dai Canova e dagli Ingres. Al contempo doveva trattarsi di un dramma dal forte impatto emotivo, costruito su affetti riconducibili a situazioni sentimentali di tipo borghese (un divieto infranto per amore), del tutto spendibili e verosimili nella società del primo Ottocento. Nuovamente si spiega allora la scelta del soggetto, in cui la colpa di Julia (l’estinzione del fuoco sacro) comporta la massima pena, diversamente da quanto avveniva nella realtà storica, testimoniata ad esempio da Livio (Ab urbe condita, XXVIII, 11, 6-7), ben meno feroce della fantasia scenica. Quindi un genere di spettacolo capace di instaurare una comunicazione vitale ed efficace con il pubblico attraverso lo spiegamento di emozioni violente, espresse con una semplicità tanto immediata nell’effetto, quanto ricercata nell’elaborazione. Si trattava inoltre di inventare una nuova, moderna formulazione della secolare grandeur cerimoniale francese, una monumentalità non vacua, ma sostenuta da un progetto estetico dai valori musicali inconfutabili (quello che Berlioz chiamerà lo “stile grande”), veicolo plausibile di affetti intensi sino allo sgomento. Un modello drammaturgico e musicale che influenzerà l’opera romantica tedesca e, soprattutto, il grand-opéra francese. A tale fine il compositore, ormai residente a Parigi da alcuni anni, deviò senza esitazioni sia dalla tradizione operistica italiana, sia dal modello classico viennese, inaugurando un “sinfonismo melodrammatico” (Carli Ballola) capace di grandi accensioni tragiche, nutrito della familiarità con la musica strumentale francese, ma di ideazione personale, basato sulla pervasiva elaborazione di minuscole cellule tematiche, quasi ossessive nel loro ostinato riproporsi all’ascolto. Complice anche l’esperienza di Médée di Cherubini (1797), che aveva scardinato l’involucro efficace ma fragile dell’opéra-comique, travolgendolo con un’ondata di alta tragedia, nella Vestale l’equilibrio classico vacilla di fronte agli abissi delle passioni che si agitano nei cuori dei personaggi. All’interno di un incandescente flusso sonoro, l’orchestra guadagna un peso straordinario, conquistato sul campo nella strenua, continua ‘lotta’ con le voci, suscitando l’ammirazione di Berlioz nel suo Traité d’instrumentation (autore il cui teatro musicale non poco deve all’aulica drammaturgia di Spontini: spesso menzionò il collega nelle Memorie e, per citare un solo esempio, nel 1844 collocò l’inquietante ouverture della Vestale in testa a un programma di concerto contenente solo “pezzi di stile grande”». (Raffaele Mellace)

La registrazione al Théâtre des Champs-Élysées non è certo da ricordare per la messa in scena a tratti insulsa di Éric Lacascade (anche lui alla sua prima regia lirica, ma ahimè non è Visconti…), né per l’eccellenza degli interpreti – Ermonela Jaho (Giulia) manca di un’autentica statura tragica; Andrew Richards è un Licinius di bella presenza ma scarsa musicalità, Béatrice Uria-Monzon (Grande Vestale) e Konstantin Gorny (Souverain Pontife) evidenziano limiti vocali e non sono a loro agio nella lingua francese, mentre Jean-François Borras (Cinna) è l’unico a superare la prova della dizione con un timbro di una bellezza che mette in ombra la prestazione dell’altro tenore –, ma nemmeno per la direzione, sempre troppo spedita, senza solennità e pathos, di Jérémie Rhorer. Che poi si tratti di un’orchestra, Le Cercle de l’Harmonie, su strumenti originali nulla aggiunge al modesto risultato raggiunto.

Adelaide di Borgogna

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★★★☆☆

Rossini proto-risorgimentale

«Adelaide di Borgogna, poesia di Schmidt, si vide vivere e morire nella stessa sera nel Teatro Argentina. Questo spartito originale di Rossini fece naufragio ad onta dei tamburi, delle grancasse e di varie marce. Gli attori cantanti […] non valsero con tutta la loro premura e nota abilità a sostenere la reputazione del celebre maestro, il cui genio in quest’opera sembra addormentato». Piuttosto critica la recensione del Nuovo Osservatore Veneto il 31 dicembre 1817 a quattro giorni dalla prima. In verità la compagnia di canto era modesta, ma fu il libretto la causa prima dell’insuccesso, un testo che, a parte le licenze cronologiche e geografiche (la vicenda si svolse tre anni prima del 950 indicato nel libretto e Canossa non è propriamente vicino al lago di Garda…), è preso dall’ossessione della brevità e conduce a sbrigative inverosimiglianze che hanno quasi del comico.

Antefatto. Nel 950 Lotario, re d’Italia, muore in giovane età, lasciando vedova Adelaide, figlia di Rodolfo di Borgogna. Berengario, nelle cui mani già da tempo era di fatto il governo del regno, riesce a farsi eleggere quale successore. Su di lui, però, grava il sospetto d’aver provocato quella morte improvvisa; cerca perciò di neutralizzare le rivendicazioni di Adelaide e dei suoi sostenitori, imponendole d’unirsi in matrimonio col proprio figlio Adelberto, associato al trono. Adelaide rifiuta e, perseguitata, è costretta a fuggire raminga e a nascondersi in luoghi inospitali. Trova infine asilo presso Iroldo nella fortezza di Canossa e, quando questa viene assediata da Berengario, chiama in soccorso l’imperatore Ottone, promettendogli la propria mano ed i diritti da lei acquisiti sulla corona del regno italico.
Atto primo. Nel primo quadro l’azione si svolge all’interno della fortezza di Canossa, espugnata da Berengario. Mentre i vincitori esultano ed il popolo piange le sorti della patria e della principessa Adelaide, Adelberto, con l’appoggio del padre, cerca di convincere quest’ultima, ancora vestita a lutto, a divenire sua sposa. Alla notizia che Ottone è giunto nelle vicinanze, Berengario, consapevole di non aver forze sufficienti per affrontarlo in combattimento, decide di ingannarlo con false proposte di pace. Nel secondo quadro l’azione si sposta nell’accampamento dell’imperatore. I soldati, intenti a piantare le tende, intonano un inno all’Italia, mentre Ottone giura solennemente che la vedova di Lotario sarà tratta in salvo. Adelberto, inviato da Berengario, offre ad Ottone pace ed ospitalità, invitandolo a non fidarsi di Adelaide, che descrive come persona ambiziosa e fomentatrice di discordia. Il terzo quadro mostra il salone della fortezza, dove Berengario, fingendosi cordiale, accoglie Ottone che subito chiede di incontrare Adelaide. Questa si presenta all’imperatore e ne implora pietà e giustizia per i torti subiti. Ottone promette il suo aiuto ed invaghito della principessa dichiara che intende farla sua sposa. I due si allontanano lasciando Adelberto che, sinceramente innamorato di Adelaide, vorrebbe eliminare subito Ottone, e Berengario che lo trattiene, esortandolo ad attendere l’arrivo delle proprie truppe prima di colpire. Nel quarto quadro Adelaide, non più in lutto, sta nelle sue stanze, attorniata dalle dame: ella non vuol essere più triste e si rallegra pensando alle prossime nozze. Entra Ottone per sincerarsi d’essere accettato come sposo per amore e non per mera gratitudine; Adelaide manifesta l’autenticità del proprio sentimento e i due si promettono eterna fedeltà. L’ultimo quadro rappresenta la piazza di Canossa con intorno maestosi edifici. Ottone e Adelaide si avviano al tempio per la cerimonia nuziale in mezzo ai canti festosi della folla. Berengario ed Adelberto fremono d’impazienza, finché, con l’arrivo dei loro seguaci, manifestano le loro reali intenzioni ed aggrediscono Ottone e i suoi soldati. Si passa repentinamente dalla festa al tumulto e alla lotta. Adelaide viene condotta via dai guerrieri di Berengario, mentre Ottone e i suoi, combattendo strenuamente, riescono a non essere sopraffatti dai nemici.
Atto secondo. Il primo quadro ripropone l’interno della fortezza con i guerrieri di Berengario che esultano per aver costretto Ottone alla fuga. Adelberto torna ad offrire ad Adelaide l’opportunità di dividere il trono con lui, ma le sue parole provocano nella giovane rinnovato sdegno. Il colloquio è interrotto dalla notizia che le sorti del combattimento si sono rovesciate: Ottone ha vinto Berengario e lo ha fatto prigioniero. Nel secondo quadro Eurice prega il figlio Adelberto di restituire Adelaide in cambio di Berengario, accettando così la proposta recata da un messaggero dell’imperatore. Adelberto, combattuto fra l’amore per la principessa e la pietà filiale, non riesce a decidersi; perciò Eurice, al fine di scongiurare la condanna a morte di Berengario, escogita di liberare nascostamente Adelaide con l’aiuto di Iroldo. Il terzo quadro è ambientato nell’accampamento imperiale, dove Ernesto, ufficiale di Ottone, annuncia l’arrivo di Adelberto. Questi è disposto a cedere Adelaide, ma Berengario si oppone fieramente: solo a patto che gli sia garantito il trono, restituirà la principessa. Ottone acconsente; tuttavia l’inatteso arrivo di Adelaide, liberata da Eurice, rende vano l’accordo e induce l’imperatore a trattenere Berengario per vendicarsi di lui. Adelaide, allora, che in cambio della libertà aveva garantito ad Eurice il rilascio del consorte, esige da Ottone il rispetto della promessa fatta. Berengario ed Adelberto possono così lasciare l’accampamento, ma allontanandosi giurano che torneranno armati per conseguire la vittoria definitiva. Nel quadro successivo, all’interno di una magnifica tenda, Adelaide si separa a malincuore da Ottone, che si accinge allo scontro decisivo, consegnandogli un velo quale pegno del suo amore; implora quindi l’aiuto del cielo e, mentre è assorta nella preghiera, giunge la notizia che il nemico è stato sconfitto. L’ultimo quadro rappresenta il ritorno di Ottone e del suo esercito presso la fortezza di Canossa: l’imperatore avanza sopra un carro trionfale seguito da Adelberto e Berengario in catene, mentre il popolo esultante offre corone di fiori e di alloro.

Il tutto avviene in due atti in cui anche i numeri musicali soffrono di questa smania di semplificazione e sembrano un passo indietro rispetto a quella strutturazione articolata che dal Tancredi in poi era stata la straordinaria novità del teatro rossiniano. «Musique anodine» la definisce il Carli Ballola, che continua così: «musica che gira a vuoto, di un Rossini che imita egregiamente il sé stesso di un ordinario automanierismo. Musica in cui le “belle novità” che di “tratto in tratto” vi affiorano […] presto sfioriscono inaridite dall’automatismo delle coniugazioni fraseologiche che vi vengono dietro; i cui numeri musicali, a cominciare dalla sinfonia, ripresa e adattata da La cambiale di matrimonio, scivolano via  senza quasi lasciare traccia tangibile di necessità drammatica, nel segno di una brevità di pregi che li fa galleggiare sulle acque morte dei recitativi secchi, limitandosi quelli accompagnati a rare e brevi sortite, convenzionali trampolini di lancio alle arie dei protagonisti».

Nel 2011 il Rossini Opera Festival contribuisce alle celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia con la messa in scena di questo che è tra primi esempi di letteratura pre-risorgimentale o proto-risorgimentale del periodo. L’edizione critica curata da Alberto Zedda e Gabriele Gravagna è frutto dello studio del materiale compositivo sparso per il mondo (Roma, Firenze, Lucca, Parigi, Venezia, Washington, Bologna, Copenhagen…), documenti spesso differenti o in contrasto tra di loro e contenenti talora arie non attribuibili al maestro pesarese.

La regia di Pier’Alli, che disegna anche le scene, i costumi ottocenteschi, le luci e le proiezioni video (realizzate dalla Unità C1) con cui risolve i repentini cambi di scena (soldati in marcia, soldati all’accampamento, una superficie d’acqua con cerchi concentrici, rovine di fortezze ecc.) sono banali e stucchevoli dopo appena cinque minuti. Il coro si muove come un esercito di soldatini di piombo in reparti rigorosamente simmetrici e quella della simmetria è un’ossessione del regista: se da sinistra qualcuno entra a portare uno sgabello non manca specularmente quello che arriva da destra e così via. D’accordo che la psicologia dei personaggi nel libretto è latitante, ma in scena ci sono dei pupazzi senza vita. D’altronde, nelle note il regista aveva affermato che Adelaide di Borgogna è una “ballata popolare”, non un’opera seria. Una fiaba si direbbe, visto che appare, in video, anche la carrozza di Cenerentola. E invece l’Adelaide è l’unica incursione seria del settennio napoletano. Un vezzo poco comprensibile è quello degli ombrelli, usati a un certo punto anche come armi in battaglia.

Buono il ritmo tenuto da Dmitri Jurovski a guida della trasparente orchestra del Comunale bolognese. Nella parte titolare, e al suo debutto a Pesaro, Jessica Pratt risulta semplicemente strepitosa, con un registro acuto sicuro, filati incantevoli, ottima musicalità e intonazione perfetta. Daniela Barcellona nella parte di Ottone qui è più misurata del solito, ma sempre autorevole. Assieme le due donne hanno offerto nei duetti i momenti migliori della serata. Nicola Ulivieri timbra con la solita sapienza la sua possente voce nel bieco personaggio di Berengario, mentre il tenore rumeno Bogdan Mihai sfoggia in Adelberto una vocalità personale e piacevole e un agile virtuosismo.

Il disco contiene un documentario di un quarto d’ora con il making-of dello spettacolo. Sottotitoli in sei lingue, italiano compreso.

Armida

MUSICA: ROF AL VIA CON L'ARMIDA DI RONCONI

Gioachino Rossini, Armida

★☆☆☆☆

Pesaro, Adriatic Arena, 10 agosto 2014

Il flop della maga

Per l’inaugurazione del XXXV Festival Rossiniano, all’Adriatic Arena di Pesaro viene messa in scena un’opera che mai come le altre ha bisogno di una protagonista assoluta in scena. Il fatto che in tre epoche diverse oltre alla Coltran, alla Callas e alla Fleming poche altre abbiano avuto il coraggio di affrontare questo personaggio la dice lunga. E così la serata del 10 agosto è finita tra pochi applausi e qualche rumoroso dissenso.

I motivi dell’insuccesso dello spettacolo sono numerosi.

Cominciamo dalla messa in scena. Luca Ronconi si ripresenta esattamente a trent’anni dal suo mitico Viaggio a Reims del 1984 che proprio la sera prima è stato proiettato in Piazza del Popolo nella registrazione televisiva mai uscita in DVD. Nell’Armida la stanchezza dell’ottantaduenne glorioso regista si è manifestata in tutta la sua evidenza. L’idea dei pupi siciliani non regge più di qualche minuto e la staticità e l’omogeneità dei loro costumi sembrano contagiare anche gli interpreti, lasciati a cincischiarsi con le loro armature di latta e spadine di legno.

La scena della Palli con pannelli semoventi non migliora la situazione, così come la farraginosa coreografia che sembra aver riunito tutti gli stili della danza, routine ginniche e acrobazie in un unico lunghissimo pastrocchio che non si capisce se vuole rinarrarci episodi de La Gerusalemme liberata o semplicemente dare sfogo ai pur bravi ballerini.

Il progetto luci di A.J.Weissbard non solo non ha aiutato lo spettacolo, ma ha contraddetto in più punti quello che diceva il libretto e ha fatto mancare del tutto la magia che ci si doveva giustamente aspettare. Dei costumi di Giovanna Buzzi qualcosa si poteva già paventare dalla qualità degli schizzi pubblicati sul programma di sala.

Se la parte visiva si è dimostrata manchevole, come si è detto, è la parte musicale quella che più ha indisposto il pubblico.

La direzione di Carlo Rizzi si è distinta per pesantezza, grigiore di colori e piattezza. Non è stata aiutata, bisogna dire, da un’orchestra non proprio in stato di grazia, con alcune parti solistiche che, perlomeno alla prima, hanno lasciato a desiderare. Anche la prestazione del coro del Comunale di Bologna ha mostrato opacità che generalmente non ha.

E veniamo alla protagonista, Carmen Romeu, che da ruoli di brava comprimaria ha fatto (o meglio, le hanno fatto fare) il salto più lungo della gamba: nonostante qualche tentativo andato a segno, la sua performance in generale ha fortemente deluso e scatenato l’insofferenza di parte del pubblico. Il personaggio non è mai uscito fuori in maniera convincente né vocalmente né scenicamente, nonostante l’avvenenza del giovane soprano spagnolo.

Non migliori note si hanno dal reparto maschile. Armida è un’opera che ha bisogno di ben sei tenori. Non è che ne manchino oggi e risparmiare su numero e qualità non ha certo giovato allo spettacolo.

Randall Bills non ha i mezzi per affrontare un ruolo rossiniano e fargli fare addirittura due personaggi è stata una vera cattiveria. Anche Dmitrij Korčak ha dovuto coprire due ruoli diversi e seppure superiore nello stile e nei mezzi vocali, il tenore russo li ha cantati come fossero lo stesso personaggio.

Tralasciando il tenore n° 5, arriviamo al Rinaldo di Antonino Siragusa, fisicamente distante da quello che ci aspettiamo da un paladino, ma vocalmente generoso, anche troppo talora, soprattutto negli acuti che, anche se non sono da “cappone sgozzato” come li ha perfidamente definiti qualcuno, sono comunque troppo gridati. Questo però non è il suo ruolo essendo lui maggiormente a suo agio in una tessitura più acuta.

Due ruoli anche per Carlo Lepore, che non è che non abbia i mezzi per affrontare sia Idraote sia Astarotte, ma conciarlo in quel modo con piume di gallo cedrone in testa e lasciarlo lì a sbatacchiare le ali di pipistrello issato in una teca semovente è stata un’azione di incomprensibile crudeltà – verso il cantante e verso il pubblico.

In conclusione una serata da dimenticare, ma se ne dovrebbero invece ricordare in futuro gli organizzatori di uno dei più prestigiosi festival del mondo.

Armida

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★★★☆☆

Armida made in USA

Nel 1817 Rossini ha 25 anni. Ha già scritto una ventina di opere liriche tra cui Tancredi, L’italiana in Algeri e Il barbiere di Siviglia. In quello stesso anno debuttano La Cenerentola, La gazza ladra, Adelai­de di Borgogna e Armida, appunto. Rossini vivrà ancora cinquant’an­ni prima di spegnersi a Parigi.

Come l’Alcina ariostesca, l’Armida del Tasso usa le sue arti magiche per gettare scompiglio tra le file dei crociati, ma qui le cose si mettono male per la maga che si innamora di uno di essi, Rinaldo. La sua vicenda è stata oggetto di diverse opere: ricordiamo le Armide di Lully, Jommelli, Salieri, Gluck, Cherubini, Haydn e Dvořák tra i tanti.

Atto I. All’accampamento dei crociati presso Gerusalemme, Goffredo di Buglione annuncia un giorno di tregua, per celebrare il funerale del cavaliere Dudone. Prima che cominci il rito, Eustazio, fratello di Goffredo, annuncia l’arrivo di una nobildonna, in cerca d’aiuto. Accompagnata dal suo corteo, entra in scena la maga Armida, giunta per portare scompiglio nel campo cristiano e ritardare la conquista cristiana di Gerusalemme. La maga, fingendosi una principessa esiliata dal suo regno da un usurpatore, chiede a Goffredo un drappello di uomini per poter tornare a Damasco e, con l’aiuto dei Crociati, ritornare sul trono. Nonostante l’iniziale ritrosia, Goffredo, su esortazione del fratello e dei guerrieri (già ammaliati dal fascino della maga), cede alla richieste di Armida.  Nel frattempo, Eustazio e i Crociati scelgono il guerriero Rinaldo come successore di Dudone, quale accompagnatore della principessa: la scelta fa infuriare il nobile Gernando, che medita vendetta. Nel frattempo, Idraote, zio di Armida celato nel suo corteo, esorta la nipote a perseguire il loro scopo, seminando zizzania nel campo crociato: la maga, però, è rimasta turbata alla notizia che il prode Rinaldo l’avrebbe accompagnata. I due infatti si conoscono già: con le sue arti, Armida aveva sottratto Rinaldo a un agguato nemico; dopo l’immediato colpo di fulmine, Rinaldo era subito partito per la Crociata, lasciando la maga sola ma ancora innamorata. I due si incontrano nuovamente, e la passione si riaccende. I due amanti vengono interrotti e disturbati da Gernando, che schernisce e provoca Rinaldo di fronte ad alcuni Crociati: il paladino, offeso, sfida a duello l’insultatore, e lo uccide. I Crociati convocano Goffredo, affinché punisca Rinaldo: Armida, dal canto suo, promette a Rinaldo di difenderlo da qualsiasi minaccia.
Atto II. Nel regno d’Armida, un coro di diavoli annuncia il ritorno della loro padrona che porta con sé Rinaldo, sottratto in tempo alla giustizia. La maga, con le sue magie, fa apparire un magnifico palazzo, e fa deporre a Rinaldo le armi e i vestiti crociati, consacrandolo all’amore.
Atto III. Sull’isola di Armida arrivano Carlo ed Ubaldo, guidati dal Mago d’Ascalona, saggio e amico dei cristiani, ai quali è necessaria la presenza di Rinaldo per conquistare Gerusalemme. I due, superate e sconfitte le insidie del giardino incantato, ritrovano Rinaldo, lasciato solo dalla maga, e, per farlo guarire dalle malie di Armida, lo fanno riflettere in un magico scudo di diamante. Rinaldo sente il valore guerriero riaccendersi in lui  e decide di seguire i due commilitoni. Armida, scoperta la fuga dell’amato, dapprima cerca di commuoverlo, ma Carlo e Ubaldo separano Rinaldo a forza dall’amata, che sviene. Una volta rinvenuta, Armida giura vendetta, e, convocati i diavoli, ordina di distruggere il palazzo incantato, e di prepararsi all’inseguimento dell’infedele.

Questa di Rossini, su libretto di Giovanni Schmidt, «non è tra le sue opere più significative» secondo il Duffloq, ma questo giudizio è di quarant’anni fa e da allora, dopo la storica interpretazione della Callas (ancora lei!) del 1952 al Maggio Fiorentino con la regia di Alberto Savinio, l’opera ha recuperato il suo valore, seppure non entrando stabilmente in reperto­rio. Al MET infatti non era mai stata prodotta e ci voleva la primadonna Renée Fleming per imporre lì questo titolo. Oltre al tour de force del so­prano, unico personaggio femminile, l’opera richiede infatti ben sei teno­ri!

Renée Fleming aveva gia cantato il ruolo al Rossini Festival di Pesaro nel 1993, ma voleva riproporlo nel suo teatro. L’interprete di Rusalka, Thaïs, Arabella, Marschallin non è propriamente il soprano coloratura ri­chiesto dalla partitura (il ruolo era stato scritto da Rossini per la Colbran) e qui la Fleming affronta l’impervia tessitura con correttezza ma anche cautela e i fuochi d’artificio che ci si aspetta risultano un po’ mosci.

Molto meglio il Rinaldo di Lawrence Brownlee dalla bella voce, maschia e calda e dallo squillo sicuro. Degli altri cinque tenori che dire? Oggi è difficile trovare cinque tenori rossiniani. Sì, è difficile.

Sul podio Riccardo Frizza non si fa notare per particolari raffinatez­ze e la regia di Mary Zimmerman è indecisa tra la favola (cui sembrano affidarsi le scenografie e i costumi) e l’ironia (cui si affida invece la coreogra­fia).

Negli extra le interviste di Deborah Voigt agli interpreti (è la registra­zione della trasmissione live dello spettacolo). Mancano i sottotitoli in italiano, ma in compenso ci sono in cinese…

  • Armida, Rizzi/Ronconi, Pesaro, 10 agosto 2014