Oscar Wilde

Salome

 


foto © Michele Monasta

Richard Strauss, Salome

Firenze, Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, 27 aprile 2025

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La Salome mediterranea di Emma Dante


Emma Dante firma una Salome visionaria al Maggio Musicale, ambientata in un Bosco di Bomarzo popolato da figure oniriche e simboliche. Regia intensa e coerente, dominata da un potente immaginario femminile. Lidia Fridman magnetica protagonista, diretta da Alexander Soddy in una lettura sontuosa e drammatica della partitura. Successo trionfale, con ovazioni per interpreti e direttore.

«Oh, no, ancora i pupi!» mi è scappato di dire a voce alta ad apertura di sipario prima ancora che attacchi la musica: in scena, infatti, sei mimi/ballerini in armature bianche e decori azzurri, come certe ceramiche del sud, hanno le movenze marionettistiche dei pupi siciliani.

Così inizia la Salome di Emma Dante in cui nessun particolare sfugge alla cifra stilistica della regista palermitana che imprime la sua personale e inconfondibile impronta a tutti gli spettacoli che mette in scena. Qui comunque riesce a confezionare uno spettacolo del tutto convincente e che conquista il foltissimo pubblico accorso, alcuni per la seconda o terza volta come mi è stato confessato, all’ultima replica del titolo inaugurale dell’87° Festival del Maggio Musicale.

Cinque anni dopo la Carmen alla Scala, a Strauss fu legato il suo Feuersnot a Palermo. Ora al debutto al festival fiorentino, il mondo visivo della Dante non ricrea la decadente e orientaleggiante opulenza dell’ambientazione di Wilde/Strauss: il suo è uno sguardo onirico su una vicenda inserita nel verde del Sacro Bosco di Bomarzo, col faccione di pietra dell’Orco la cui bocca spalancata funge da ingresso alla cisterna di Jochanaan ma anche alla prigione delle schiave di Herodes che vediamo affacciarsi dagli occhi del mascherone. Si tratta infatti dell’eterna vicenda della violenza degli uomini sulle donne oggetto delle brame del Tetrarca, le schiave appunto o la figliastra Salome, a sua volta vittima e carnefice. Gli uomini o sono gli indistinguibili soldati nelle loro armature o gli ebrei impegnati in futili beghe teologiche. Solo nel finale la scena ideata da Carmine Maringola vira verso un mondo più astratto: durante il monologo necrofilo di Salome dall’alto scendono dei teli macchiati di sangue e poi delle “liane” nere che richiamano i lunghissimi dreadlocks neri del profeta usati dai soldati come funi per trattenerlo.

In scena è presente solo il tavolo del banchetto di Herodes e della moglie, con una barocca esposizione di teste di animali (bue, maiale, pesce spada… quasi presagi della testa del profeta). La tovaglia è dello stesso tessuto dei sontuosi abiti della coppia (costumi firmati da Vanessa Sannino), un ricco broccato rosso, lo stesso colore dell’abito di Salome. Sono parte stessa del banchetto Herodes e Herodias e, con la loro immagine da Re e Regina delle carte da gioco, confermano la dimensione favolistica – il Basile de Lo cunto de li cunti è sempre dietro l’angolo… – della lettura della regista. La scena della danza dei sette veli è risolta in maniera efficace: Salome – che ha il fisico da modella di Lidia Fridman – è il pistillo di un fiore i cui petali sono i veli agitati da sei ballerine a cui si uniscono sei ballerini nella coreografia di Silvia Giuffré che alla sensualità unisce la violenza maschile sulle sei schiave. Sintomatica è la scelta di far portare la testa mozza a Herodias mentre la morte di Salome strangolata dalle trecce del profeta porta a un finale di grande impatto che conferma l’infallibile senso teatrale della Dante. Qui poi viene esaltata la straordinaria partitura che nelle mani di Alexander Soddy rivela tutta la sua straordinaria magnificenza.

Questo doveva essere il debutto italiano del direttore inglese se non ci fosse stata nel frattempo la sostituzione di Christian Thielemann per il Ring alla Scala, affidata all’ultimo momento a Soddy in alternanza con Simone Young. Soddy, che potrebbe essere il nuovo direttore principale dell’Orchestra del Maggio dopo Daniele Gatti, rivela anche qui la sua maestria nel gestire un’orchestra poderosa ma dal suono lucido, lussureggiante, ma implacabilmente aggressivo, quasi tellurico, nei momenti chiave. Grande è la tensione drammatica, precisi i cambi di atmosfera e grande attenzione è data alle peculiari sonorità timbriche di una musica che aveva sconvolto il pubblico del 16 maggio 1906 allo Stadt-Theater di Graz quando, cinque mesi dopo la prima di Dresda, a sentire Strauss dirigere il suo lavoro arrivarono, tra i tanti, Giacomo Puccini, Gustav Mahler, Arnold Schönberg, Alexander von Zemlinsky, Alban Berg e forse anche un giovane Adolf Hitler. Di certo Adrian Leverkühn, il personaggio del Doktor Faust di Thomas Mann… Tanta era l’attesa per quella degenerata opera bandita dai censori del Hofoperntheater di Vienna. Oggi neanche riusciamo a immaginare l’impatto scandaloso di questa “dissonante”, “cacofonica” creazione, ma Soddy riesce a sconvolgerci mettendo in luce le malsane e incandescenti pagine di questo capolavoro unico nel suo genere. Dimostrando in tal modo di essere tra i migliori interpreti del repertorio wagneriano e post-wagneriano.

Mirabile è anche l’equilibrio della buca orchestrale con le voci: nell’intervista pubblicata sul programma di sala, Soddy sottolinea la grande sfida della Salome agli interpreti, con un’orchestra che deve suonare sempre forte, per cui è importante cogliere le tante opportunità offerte dalla partitura per far emergere le voci. Voci che in questa produzione fiorentina si rivelano pienamente adatte al compito. Arrivata a sostituire un’interprete precedentemente prevista, dopo alcune prove belcantistiche, Lidia Fridman dimostra di saper tener testa alla impervia tessitura del ruolo titolare grazie a una notevole proiezione, al timbro tagliente e a un fraseggio espressivo. Il tutto abbinato alla sua magnetica presenza scenica. Il personaggio della nevrotica giovane perde gli elementi infantili per assumere quelli di una femmina predatrice in risposta alle malsane attenzioni del patrigno. Dopo alcune performance non del tutto convincenti della cantante russo-italiana, questa ha messo tutti d’accordo e le ovazioni finali nei suoi confronti lo stanno a dimostrare.

Era stato Jochanaan a Napoli il mese scorso e anche a Firenze Brian Mulligan conferma la buona impressione allora ricevuta. Qui poi la regia gli restituisce quell’autorevolezza scenica che al San Carlo era mancata. Molto ben definiti vocalmente e attorialmente sono lo Herodes di Nikolai Schukoff e la Herodias di Anna Maria Chiuri mentre un po’ deludente è risultato il Narraboth di Eric Fennell. Marvi Monreal come Paggio, Arnold Bezuyen, Mathias Frey, Patrick Vogel, Martin Piskorski e Karl Huml (i Cinque Ebrei), William Hernandez, Yaozhou Hou, Frederic Jost, Karl Huml e Davide Sodini completano il bel cast.

Esito felicissimo per tutti gli artefici dello spettacolo con ovazioni per la protagonista e il direttore.

Salome

 

Richard Strauss, Salome

Napoli, Teatro di San Carlo, 20 marzo 2025

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Una Salome nuova nell’impatto ecologico ma vecchia nella concezione 

L’altro ieri a Roma Alcina, questa sera a Napoli Salome. Un’altra donna incantatrice e altrettanto pericolosa, un altro caso di seduzione mancata. 170 anni separano la maga di Händel dalla ragazzina necrofila di Strauss, Una respinta da Ruggiero che aveva ammaliato con i suoi incantesimi, l’altra respinta da Jochanaan, profeta illuminato dal divino.

Altri 120 anni e siamo all’oggi, con una produzione non nuova per il San Carlo: è la ripresa infatti della messa in scena di Manfred Schweigkofler del novembre 2014, uno spettacolo nato tre anni prima per i teatri di Bolzano, Modena e Piacenza. E ci sarebbe stata anche la ripresa del 2021 se non ci fosse stato di mezzo il Covid a cancellarla.

Non era uno spettacolo particolarmente nuovo neanche allora, però. Negli anni successivi Van Hove, Castellucci, Warlikowski, Michieletto, Loy, Černjakov e Kosky, quest’ultimo proprio un anno fa a Roma, avrebbero fornito la loro versione. Quella di Schweigkofler non risulta particolarmente originale e delle sue intenzioni espresse nell’intervista pubblicata sul programma di sala ben poco rimane in una lettura che non è neppure illuminante sulla psicologia dei personaggi e sulle morbose relazioni con la principessa di giudea dei tre uomini: Jochanaan, Erode e Narraboth. La vicenda è trattata in maniera didascalica in un’ambientazione senza tempo: il disegno scenico di Nicola Rubertelli, illuminato dalle fredde luci di Claudio Schmid, mostra una scalinata racchiusa tra due alte mura, mentre uno specchio a 45° riflette dall’alto il palcoscenico – rivelando un disegno che ricorda una tela di Chagall – così come l’interno della cisterna, una prosaica botola con scaletta che porta al sotto palco. Un elemento questo dello specchio del tutto inutile nell’economia dello spettacolo se non quello di mostrare anche al pubblico della platea il pavimento della scena.

Se i registi predetti hanno tutti evitato in un modo o nell’altro l’immagine grandguignolesca della testa mozza – nascosta in una scatola per Warlikowski, trasformata in testa di cavallo per Castellucci… – Schweigkofler non rinuncia invece a mostrare il capo sanguinante per il facile raccapriccio del pubblico. Anche la danza dei setti veli, che ha spinto la fantasia degli altri metteur en scêne a soluzioni inedite, qui è invece banalmente eseguita da sette fanciulle, una per ogni velo… La morbosa sensualità della danza rimane però tutta nella musica, certo non nella ingenua coreografia di Valentina Versino in cui si inseriscono anche i movimenti della cantante, con risultati non propriamente esaltanti.

Nuovi rispetto alla produzione del 2014 sono i costumi, qui disegnati con tocchi orientali da Daniela Ciancio e confezionati con un nuovo materiale, lo ScobySkin, un tesssuto bio-based che non utilizza né alberi, né animali, né sostanze chimiche artificiali, ma è realizzato a partire da fogli di nanocellulosa ottenuta con un processo di fermentazione batterica a partire da scarti di frutta a chilometro zero. Un esempio virtuoso di riduzione dell’impatto ambientale in tutto il ciclo, dalla produzione allo smaltimento, come riporta il programma di sala.

La concertazione dell’opera è affidata al direttore musicale Dan Ettinger che della lussureggiante partitura più che la sensualità accentua i toni barbarici, brutali, con livelli sonori tali da coprire le voci in scena, ma grazie all’orchestra del teatro in gran forma, si dimostra molto abile a districarsi nella fitta rete tematica e nei subitanei cambi di ritmo e rendendo appieno i colori ora rutilanti ora lividi di questa musica.

La parte del titolo è affidata alla voce di Ricarda Merbeth che non ricrea esattamente la figura di un’adolescente viziata e manipolatrice, ma di una donna ossessionata fino alla follia dalla figura del profeta, probabilmente il primo uomo che ha risvegliato le sue pulsioni sessuali che non più represse esplodono nel raccapricciante finale. Cantante che ha sviluppato nel tempo una carriera molto diversificata, da soprano coloratura a soprano wagneriano, Ricarda Merbeth ha uno strumento poderoso espresso in un’impegnativa estensione, ma non riesce a ricreare la complessa personalità della figliastra di Erode e la sua presenza scenica sembra volersi rifare a modelli del passato quale la Theda Bara del film di Edwards del 1918, con gran roteare di mantelli e sguardi intensi, piuttosto che a più moderne interpretazioni.

Il baritono americano Brian Mulligan sarà nuovamente Jochanaan tra un mese per l’inaugurazione del prossimo Festival del Maggio Musicale fiorentino. Voce dal timbro chiaro e dall’elegante canto declamato, forse a causa della regia non ha l’autorevolezza che ci si aspetta dal personaggio e anche scenicamente la sua figura non emerge con la dovuta evidenza. Sarà anche per il fatto che tutto vestito com’è non si capisce come Salome possa innamorarsi del suo corpo: «Ton corps est blanc comme les neiges qui couchent sur les montagnes, de Judée, et descendent dans les vallées. Les roses du jardin de la reine d’Arabie ne sont pas aussi blanches que ton corps. […] Il n’y a rien au monde d’aussi blanc que ton corps. — Laisse-moi toucher ton corps !» (Il tuo corpo è bianco come le nevi che si stendono sui monti della Giudea e scendono nelle valli. Le rose del giardino della regina d’Arabia non sono bianche come il tuo corpo. […] Non c’è nulla al mondo che sia bianco come il tuo corpo. – Fammi toccare il tuo corpo!), come dice il testo originale di Oscar Wilde.

Erode è spesso connotato in maniera caricaturale, non qui dove Charles Workman ridà al monarca la sua dignità regale anche se la voce è spesso coperta dall’orchestra e si perdono le sottigliezze della sua interpretazione. Lo stesso avviene per l’Erodiade di Lioba Braun, ma qui c’è da prendere in considerazione una certa usura dello strumento vocale. Buone si dimostrano le parti secondarie di Narraboth con un lirico John Findon e del Paggio di Štěpánka Pučálková. Nella complessità della trama teatrale sono efficaci i membri del quintetto di litigiosi ebrei: Gregory Bonfatti, Kristofer Lundin, Sun Tianxuefei, Dan Karlström e Stanislav Vorobyov. Apprezzabili anche gli altri cantanti, tra cui due artisti del coro del teatro.

Applausi non fragorosi hanno salutato dopo il cruento finale gli artefici dello spettacolo. Molti spettatori sembravano ansiosi di passare al guardaroba.

Salome


 
foto © Fabrizio Sansoni

Richard Strauss, Salome

Roma, Teatro dell’Opera, 7 marzo 2024

 ★ ★ ★ ★☆

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Salome, un incubo nero

Che cosa hanno in comune Sarah Bernhardt, Theda Bara, Patrick Dupond e Montserrat Caballé? Che hanno interpretato l’inquietante personaggio di Salome rispettivamente a teatro, al cinema, in un balletto, all’opera.

Soggetto ambito dal cinema muto, prima ancora che Strauss presentasse la sua Salome, la “danza dei veli” aveva avuto innumerevoli versioni coreografiche, da Loïe Fuller a Ida Rubinstein a Mata Hari, mentre del dramma di Oscar Wilde da cui deriva si ricordano le discusse interpretazioni di Carmelo Bene e di Lindsay Kemp.

L’opera è stata spesso presente nei cartelloni del Costanzi – l’ultima volta fu nel 2007 – il teatro che ora ospita in coproduzione con l’Opera di Francoforte lo spettacolo in cui il regista Barrie Koski fornisce una prospettiva diversa dal solito: gli spettatori assistono allo svolgimento della nota vicenda come in un incubo notturno, dal fondo buio della cisterna di Jochanaan. «Wie schwarz es da drunten ist! Es muss schrecklich sein, in so einer schwarzen Höhle zu leben! Es ist wie eine Gruft…» (Come è scuro là in fondo! Deve essere orribile vivere in una grotta così nera… È come una tomba…), dice Salome nella seconda scena e infatti il palcoscenico è rigorosamente vuoto e buio. La scenografia di Katrin Lea Tag, che firma anche i costumi, è praticamente assente, le immagini sono bandite, solo Salome e quelli che interagiscono con lei sono illuminati da uno spot luminoso, un raggio di quella Luna onnipresente nel testo. Tutti gli altri personaggi sono solo voci. L’unico oggetto in scena è un gancio da macellaio che nel finale scende dall’alto nel buco del pavimento e risale con la testa del profeta. Un momento di tensione tremenda, quasi insopportabile con quel rullo dei timpani in fortissimo nell’orchestra.

Salome è frequentemente rappresentata ed è un lavoro su cui si è posata la polvere della tradizione. Il regista australiano-tedesco si impegna a eliminare anche il minimo granello di quella polvere sbarazzandosi primo di tutto del kitsch biblico nelle architetture scenografiche e nei costumi: le prime semplicemente non esistono, Kosky rinuncia a ogni forma di visualizzazione; i secondi sono contemporanei, doppio petto grigio su camicia nera per Erode, tailleur Chanel per la moglie, divisa militare per Narraboth e completo nero per il paggio.

Salome è in scena prima ancora che inizi la musica, quando nel buio si sentono rumori inquietanti provenire da ogni punto della sala del teatro. La donna appare con un enorme copricapo piumato che la trasforma in un’attinia/uccello del paradiso, fasciata in un abito lungo in luccicante lamé, abito che cambierà in continuazione rimanendo però nell’ambito dei tre colori simbolici, bianco (verginità), rosso (desiderio) e nero (morte), che sono anche i colori delle caratteristiche del profeta ammirate dalla donna: il bianco della pelle, il rosso delle labbra, il nero dei capelli. Nella sua messa in scena «testo e musica parlano da soli, sono così potenti da non poter essere illustrati», dice il regista. Qui non si viene distratti da seduzioni visive, tutto si concentra sui pochi personaggi illuminati dalla luce fredda ed essenziale di Joachim Klein. Vista e udito giocano con ambiguità in questo lavoro di Strauss in cui l’ingresso in scena dei due personaggi principali è teatralmente differito: di Salome sentiamo parlare dalle guardie che la descrivono e del profeta sentiamo la voce prima di vedere la sua figura. Ma Kosky sceglie invece di mostrarci subito la principessa che è quasi sempre in scena e ne fa il perno su cui ruota la vicenda, il motore attivo. Salome qui non è una figura passiva, vittima delle attenzioni del patrigno, come si è visto in altre produzioni. Per Kosky non si tratta di un dramma borghese, di una storia padre/patrigno-figlia. Il regista restituisce alla vicenda la sua carica intensa e scandalosa di storia d’amore, perverso sì, ma sempre amore. I duetti sono ad alta tensione erotica quando ai sempre più violenti insulti del profeta la principessa di Giudea risponde con crescente eccitazione. Anche Jochanaan viene in parte sedotto dalla ragazza che si avvinghia al suo corpo, ma è solo un momento e la repulsione per la «figlia di Babilonia» prevale nell’integerrimo profeta. 

La tensione culmina nella scena della “danza dei sette veli”, qui del tutto simbolica: la donna estrae dal suo sesso con crescente eccitazione una interminabile treccia di capelli, cresciuti dentro di lei da quella ciocca che lei aveva poco prima strappato al profeta. E mai come qui la sensualità quasi lasciva della musica è messa in evidenza, con quel crescendo nel ritmo e nel volume sonoro che allude a un orgasmo – trent’anni prima della Lady di Šostakovič! Molto efficace è anche la coppia Erode/Erodiade, una coppia quasi buffa in cui l’arroganza e la debolezza del primo si intrecciano con la cinica sicurezza della seconda che sa esattamente quello che vuole: la distruzione del profeta.

Le prime interpreti di Salome furono cantanti wagneriane – «Salome era vista come una continuazione del Tristan e la principessa giudaica la sorella isterica di Isolde», scrive sul programma di sala Antonio Rostagno – ma per la prima italiana al Regio di Torino il 22 dicembre 1906, il direttore, lo stesso Strauss, volle la bellissima Gemma Bellincioni, la Santuzza di Cavalleria Rusticana, che danzò di persona senza servirsi della controfigura, quella «pantomima dell’eros femminile, opposto alla moderazione della donna […] proposta nell’Italia giolittiana» (ancora Restagno). Vocalmente si passava così ad un’interprete del repertorio verista, dalla tecnica vocale imperfetta ma piena di temperamento. Curiosamente, il giorno prima, alla Scala di Milano, Toscanini dirigeva la stessa opera in una prova aperta a un ristretto pubblico. Come sarebbe interessante poter confrontare i due stili interpretativi, quello misurato e distaccato del tedesco e quello vigoroso e quasi aggressivo dell’italiano! 

Marc Albrecht, indiscussa autorità nel repertorio tardo-romantico, sceglie una terza via. Salome è un’opera che spalanca una finestra su un paesaggio musicale completamente nuovo e la sua lettura mette in luce, oltre un secolo dopo, la grande modernità della scrittura straussiana e approfitta dell’occasione offerta dall’Opera di Roma per ridare nuova vita a questa «musica da camera scritta per cento musicisti», tanti sono i particolari strumentali presenti nella partitura. Il suo è un approccio analitico che però tiene sempre conto delle esigenze espressive del testo e nella sua direzione si alternano con sapienza sia il dramma sia la sensualità, senza che una prevalga sull’altra. Molta attenzione è riservata all’equilibrio tra le voci in scena e l’orchestra, soprattutto nel caso della Salome di Lise Lindstrom, che sostituisce l’originalmente prevista Sara Jakubiak, che ha voce sicura negli acuti ma non nel registro medio-basso. Il suo particolare timbro un po’ acerbo esalta il carattere previsto dal regista: una bambina più che una donna, capricciosa ma che sa quel che vuole e lo ottiene, quasi una femminista in anticipo sui tempi. Con la duttilità della voce e una forte presenza scenica il soprano americano delinea alla perfezione la complessità del personaggio.

Non ha problemi di proiezione vocale invece lo Jochanaan di Nicholas Brownlee, basso-baritono che accentua il tono umano del profeta con un fraseggio espressivo e una grande attenzione alla parola. Il sempre peculiare tenore John Daszak mette in scena un Erode non grottesco, come spesso viene raffigurato, ma tormentato non solo dalla paura ma anche dalla temibile moglie, una efficace Katarina Dalayman. Un magnifico Joel Prieto dà voce all’unico personaggio umano della vicenda, quel Narraboth giovane e appassionato che presto si suicida ed esce così di scena. Eccellente anche il Paggio di Karina Kherunts mentre nella folta schiera degli altri personaggi, in ombra visivamente ma ben presenti vocalmente, si distinguono Michael J. Scott, Christopher Lemmings, Marcello Nardis, Eduardo Niave, Edwin Kaye (i cinque litigiosi ebrei), Zachary Altman e Nicola Straniero (Soldato e Nazareno), Alessandro Guerzoni (Un uomo di Cappadocia) e Giuseppe Ruggiero (Uno schiavo). Ottima prova quella fornita dall’Orchestra del Teatro per bellezza di timbro strumentale, duttilità e precisione nei momenti più complessi.

Il pubblico ha salutato con molta soddisfazione la parte musicale e i suoi interpreti ma ha espresso qualche sparuto dissenso per la parte visiva. Togliere la polvere va bene, ma lasciateci i sette veli, sembrava voler intendere qualcuno senza rendersi conto di aver invece assistito a uno spettacolo quasi memorabile per forza teatrale e carico di una tensione che non ha un momento di stanchezza.

Salome

Richard Strauss, Salome

Amburgo, Staatsoper, 29 ottobre 2023

★★★

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Secondo capitolo della disfunzione famigliare

Fin dove si può spingere un regista nella sua lettura di un’opera lirica? Fin dove può trascurare particolari non trascurabili della vicenda, dell’ambientazione? La domanda è stata posta innumerevoli volte, ma diventa ancora più attuale dopo la Salome di Amburgo che Dmitrij Černjakov ambienta nel tempo presente durante la festa per il compleanno di Erode, dove uno degli invitati è Jochanaan il quale non lascia mai la sala se non alla fine e con la testa ben salda sul collo. E anche il giovane Narraboth se ne va con le sue gambe. Non ci sono morti, non c’è sangue, non ci sono spade nel ricco salone dove Erode tiene esposta la sua colleziona di teste di tutti i materiali. Černjakov utilizza il testo come punto di partenza per un’esplorazione del lato oscuro della vita borghese, dove orribili segreti sono sotto gli occhi di tutti, ma tutti sono complici nel perpetuare l’oscurità.

In questa famiglia non c’è più nulla di giusto, la comunicazione non avviene più da tempo, il vuoto è riempito da feste come questa cena di vanità di una società decadente di nouveaux riches. Dopo l’Elektra di due anno fa sempre qui ad Amburgo, Černjakov sviluppa ulteriormente la sua lettura dei drammi di Strauss creando così una dilogia della disfunzione famigliare e delle tendenze autodistruttive di personalità morbose, squarciando il velo su veri e propri abissi umani in questa rappresentazione della ricca borghesesia. Invece di tracciare confini gerarchici, il regista fa sedere tutti alla stessa tavola: Erodiade tra Narraboth e gli Ebrei, accanto a lei un soldato, gli Ebrei, i Nazareni. Anche Jochanaan prende posto a capo tavola come l’ospite di riguardo ma anche corpo estraneo a quel mondo volgare e glitterato. Con le spalle al pubblico il regista ottiene l’effetto della voce proveniente dai lontani sotterranei senza però perdere neanche una parola.

Salome arriva tardi alla festa, come se avesse deciso solo all’ultimo momento. Ha messo una gonna di seta sotto una t-shirt punk, scarpe da ginnastica e un piumino. Erodiade va per abbracciarla, ma la figlia la respinge bruscamente. L’esuberante abbraccio con il patrigno Erode è per Salomè una pura presa in giro: è abituata da tempo alla sua lussuria e con la danza ciò diventa abbondantemente chiaro per tutti coloro che non l’hanno ancora capito. Naturalmente, non c’è la “danza dei sette veli”, Salome se ne sta lì in piedi completamente estranea lasciando che il patrigno guardi: per Erode il massimo del piacere non è la lenta rimozione dei veli, ma il vestire la figliastra a proprio piacimento, come una bambola. I costumi di Elena Zaytseva vestono Salomè come un clown triste dal viso bianco, Erode in un completo di seta rosa a fiori, gli altri invitati in modo estremamente appariscente o assurdo.

In un ambiente del genere, l’unico modo per Salome di fuggire è quello di fantasticare su uno degli ospiti – l’intellettuale solitario e occhialuto con la giacca di velluto a coste – per il quale prova un’attrazione tanto maggiore quanto più lui la respinge. Non è attrazione sessuale, l’uomo rappresenta l’unica via di fuga da quel mondo che lei tanto odia. Quando canta «I tuoi capelli sono come uva, come grappoli d’uva nera» si rivolge a un vecchio col riportino, proiettando su di lui un’immagine che si trova solo nel profondo delle sue fantasie di evasione. Man mano che la serata procede, Salome perde ulteriormente il senso della realtà, fantasticando di qualità che non esistono (il bianco della pelle, il nero dei capelli, il rosso delle labbra) e di baciare una testa che non è presente.

Questo approccio di Černjakov potrebbe sembrare forzatamente voyeuristico, ma è il punto di forza di una messa in scena perturbante e che si avvale della straordinaria performance attoriale di Asmik Grigorian che era sembrata insuperabile cinque anni fa a Salisburgo con Castellucci, e invece la sua potenza espressiva qui è ancora maggiore e lo scavo nel personaggio più profondo, il dramma di una solitudine incommensurabile che esplode in momenti di furia distruttrice. Enorme è il contrasto tra la figura fragile sul palco e la voce che emana dal corpo di questa giovane donna che si impadronisce voracemente del registro grave e cerca nel profondo di sé le risorse per fortissimi all’apice della scala sonora. Non solo esegue ogni nota senza errori, ma non c’è nemmeno un briciolo di trepidazione e l’energia che emana è sbalorditiva. Ma Černjakov l’ha voluta anche per le sue qualità di attrice che si sarebbe agevolmente piegata all’originalità della sua proposta. E così è stato. Se con Maria Callas il mondo della vocalità nell’opera è irreversibilmente cambiato settant’anni fa, ora con Asmik Grigorian stiamo assistendo a una rivoluzione altrettanto significativa e il pubblico l’ha perfettamente capito: calato il sipario, dopo una lunga pausa il sipario si è finalmente alzato e con esso il pubblico di fronte alla cantante, sola e ancora stordita, tributandole lunghe ovazioni. E il pubblico raramente sbaglia.

Ritornano Violeta Urmana e John Daszak, la Clitennestra e l’Egisto dell’Elettra, qui Erodiade ed Erode di grande presenza scenica e con i particolari strumenti vocali che li contraddistinguono: il mezzosoprano (dalla Lituania anche lei come la Grigorian) con la sua forza espressiva e il suo temperamento; il tenore inglese con il suo idiomatico timbro e gli sbandamenti di intonazione che se non altro caratterizzano maggiormente il personaggio. Kyle Ketelsen, un Jochanaan autorevole e convincente, si conferma l’artista elegante e raffinato che sappiamo. Oleksiy Palchykov un Narraboth lirico e giustamente disperato, mentre Jana Kurucová offre la sua bella voce al paggio di Erodiade. Oltre che ottimi cantanti si dimostrano anche preziose presenza in scena i cinque Ebrei, i due Nazareni e i due soldati.

Non pare sia piaciuto a tutti Kent Nagano, artista che è stato spesso definito un direttore freddo, analitico, ma che qui sembra un’altra persona, è come se avesse sempre represso una viscerale potenza che è esplosa tutta insieme ora in un direzione che si è dimostrata lontana dai cascami decadentistici, pervasa invece da bagliori accecanti pur senza mai essere troppo frenetica.

La domanda che ci si poneva all’inizio trova la sua risposta nella forte impressione che rimane dopo un simile spettacolo, che rimarrà nella memoria per molto tempo. Sì, ne vale la pena.

Anche l’anno prossimo è previsto un titolo straussiano con la regia di Černjakov. Ancora non si sa quale. Io ci sarò comunque. Attualmente Salome è disponibile gratuitamente su Arte.

Salome

Richard Strauss, Salome

★★★★☆

Helsinki, Suomen Kansallisooppera, 7 aprile 2022

(video streaming)

La nudità del profeta

Conosciamo lo stile con cui Christof Loy affronta il melodramma mettendo in scena soprattutto i rapporti psicologici tra i personaggi. Se poi c’è una famiglia disfunzionale, come quella di Erode Antipa, un soggetto del genere il regista tedesco non poteva certo farselo scappare.

La sua Salome è ambientata ai nostri giorni, in un ambiente tutto bianco: un grande salone dalle pareti curve, con due porte ai lati. Nella scenografia di Johannes Leiacker gli unici elementi sono una poltrona di pelle e un masso grigio in mezzo alla stanza. Semplice il compito per il costumista Robby Duiveman: in questo mondo maschile tutti portano un completo nero, anche Salome, che all’inizio vuole conformarsi al modello maschile poi se ne emancipa e nel finale veste un abito da sera e gioielli. Trasformazione al contrario per Jochanaan, da profeta nudo (letteralmente) a borghese in completo nero. L’unica che veste sempre da donna è Erodiade.

Messi a nudo i rapporti interpersonali, Loy esalta la recitazione in un magistrale gioco di sguardi e gesti, un gioco attoriale superbo. Impagabili sono le reazioni dei cortigiani alla follia di Salome e alle sue provocazioni che sfociano in tentativi di violenza di gruppo in una frenesia di movimenti in perfetta sintonia con la musica, e non è l’unico momento in cui in scena vediamo azioni in totale adesione con la partitura di Strauss. La danza dei sette veli qui è una messa in scena dei tesi rapporti tra i tre personaggi, con Salome che ancora una volta provoca i due uomini, Erode e Jochanaan, per poi concedersi alla fine al tetrarca. Il lungo monologo necrofilo sulla testa mozza di Jochanaan qui è una scena di seduzione nei confronti del profeta, vivo e tirato a lucido, con il quale alla fine scappa: gli ordini di Erode, quello di decapitare l’uomo e di uccidere la donna, restano dunque ineseguiti, espressione della totale impotenza di un personaggio che ha perso i tratti caricaturali con cui viene abitualmente presentato: Erode qui è un giovane con i baffetti e i capelli impomatati alla Clark Gable, affetto da precoce morbo di Alzheimer e apertamente attratto sessualmente dalla figliastra. La parte, che sovente è assegnata a cantanti in fin di carriera, qui è affidata a Nikolai Schukoff, voce potente e presenza perfettamente coerente con le intenzioni registiche. Scenicamente efficace, ma non vocalmente invece, l’Erodiade di Karin Lovelius.

Vida Miknevičiūtė (Salome) è un altro di quei soprani lituani che si aggiunge alla folta schiera di grandi cantanti forniti dal paese baltico. Una non grande varietà di fraseggio è compensata dalla grande proiezione vocale e dalla sicurezza negli acuti. Eccellente la presenza scenica della biondissima interprete, ma è la catterizzazione dei personaggi a essere portata a un livello altissimo in questa produzione. Dopo l’Euryanthe dello stesso Loy c’è un’altra prova adamitica per Andrew Foster-Williams. Il basso-baritono inglese non ha la statura vocale per il personaggio di Jochanaan, i suoni sono fissi o all’opposto traballanti e l’intonazione non sempre perfetta e manca dell’autorità che ci si aspetta dalla figura del profeta, ma è perfettamente aderente alla lettura borghese del personaggio voluta dal regista. Narraboth è un ottimo Mihails Čuļpajevs e globalmente positiva è la prova dei tanti altri interpreti secondari, quasi tutti finlandesi. Hannu Lintu alla guida dell’orchestra del teatro si fa notare per la nitidezza sonora che non copre mai i cantanti, ma i momenti di tensione, quasi da thriller, dell’opera sono sempre ben resi.

Il video dello spettacolo può essere visto qui.

Eine florentinische Tragödie / Gianni Schicchi

Alexander Zemlinsky, Eine florentinische Tragödie (Una tragedia fiorentina)

Giacomo Puccini, Gianni Schicchi

★★☆☆☆

Torino, Teatro Regio, 23 marzo 2014

Morte a Firenze

Non è solo l’Italia umbertina a scoprire e infatuarsi per il Rinascimento fiorentino – quanti mobili finto Quattrocento nei salotti borghesi e negli studi notarili dell’epoca! Anche oltralpe si guarda alle torbide vicende di quel periodo come occasione per drammi a tinte fosche e passioni violente. Erano nate così: la Francesca da Rimini (1914) di Zandonai, la Mona Lisa (1915) di Max von Schillings, la Violanta (1916) di Korngold, il Palestrina (1917) di Pfitzner, Die Gezeichneten (1918) di Schreker.

Non è da meno Alexander Zemlinsky che in quegli stessi anni mette in musica A Florentine Tragedy di Oscar Wilde, la pièce lasciata incompiuta a causa del processo intentato al suo autore.

Simone, ricco mercante fiorentino, ritorna a casa e trova la moglie Bianca sola con un giovane nobile, Guido Bardi, rampollo unigenito del principe di Firenze. Simone tenta di eludere la scabrosità della situazione sciorinando la logorrea tipica degli affaristi e, facendo mostra di credere che Guido si trovi in casa sua per motivi di affari, gli propone l’acquisto di alcune merci particolarmente preziose. Di fronte alla spavalda insolenza con cui il rivale gli replica, Simone, pur conservando un contegno impenetrabile, sente ribollire il sangue e incomincia a lasciar cadere una serie di allusioni sinistre. Quando Guido, dopo aver baciato Bianca, manifesta l’intenzione di congedarsi, Simone lo costringe a duellare con lui e, avuta la meglio, lo strangola; ma quando si volta verso la moglie infedele, deciso a uccidere anche lei, avviene un inaspettato rovesciamento di sentimenti: fissandosi negli occhi i due cadono l’una nelle braccia dell’altro, chiedendosi in eco: «Perché non mi hai mai detto che eri così forte?» – «Perché non mi hai mai detto che eri così bella?».

La vicenda aveva già tentato il torinese Carlo Ravasegna che aveva composto Una tragedia fiorentina su un libretto in italiano di Ettore Moschino pubblicato nel 1914. Con il libretto in tedesco di Max Meyerfeld, Eine florentinische Tragödie di Zemlinsky era andata in scena a Stoccarda il 30 gennaio 1917 diretta da Max von Schillings. La brevità e incompletezza del lavoro non avevano frenato l’interesse del compositore, allora direttore del Deutsches Landestheater di Praga. Le lacune del testo erano state abilmente risolte e la musica aveva fatto il resto.

«Contrazione della vicenda a un atto unico e riduzione dei personaggi a una rosa ristrettissima erano elementi peculiari del dramma espressionistico: eppure Eine florentinische Tragödie non può essere definita solo come lavoro espressionistico. La poetica estetizzante del beau geste riconduce infatti anche a un clima decadente, intriso di raffinatezza Jugendstil: la sconfitta del dandy da parte del mercante testimonia il prevalere della forza sulla bellezza, ma suggella anche la crisi definitiva dei Des Esseintes e degli Sperelli. Il sapore liberty che pervade l’opera è confermato dall’assenza di ferinità nella lotta silenziosa che i due avversari conducono per la stessa donna: Simone parla di tessuti e di pietre preziose e l’orchestra attutisce l’agitazione del suo battito cardiaco sotto il delicato orpello di arpe, xilofoni, glockenspiel, mandolino, triangolo. La pièce di Wilde si configurava come tragedia della procrastinatio, tutta intessuta cioè sul continuo differimento del climax conclusivo: Zemlinsky ottiene musicalmente un effetto analogo imbrigliando l’orchestra e lasciandola sfogare in un crescendo risolutivo solo negli ultimi minuti dell’azione. Le sonorità di Zemlinsky sono un continuo ricamo che sottilmente si insinua nel testo: questa partitura calibrata sui particolari, su cellule seminascoste come perle nell’ostrica non risalta forse pienamente in una rappresentazione teatrale, ma nasce dalla precisa volontà di tradurre in forma artistica adeguata l’eleganza minuta del verso di Wilde, già necessariamente illanguidito dalla traduzione tedesca in prosa. Il preludio iniziale non assolve solo una funzione introduttiva, ma sostituisce la scena d’amore fra Guido e Bianca, ovviando in parte all’incompiutezza del lavoro wildiano; un precedente analogo si riscontra nel Rosenkavalier e a questo proposito va notato come l’empito cavalleresco che accompagna le sortite del nobile Bardi non sia troppo lontano dai profili straussiani di Oktavian e Don Juan. La vocalità trascorre dal declamato fluente della loquela di Simone al parlato roco su cui si consuma il duello, per riemergere alla melodia spiegata con lo splendido coup de foudre finale, in cui l’amore nasce dalla morte e ogni potenziale trionfalismo viene annullato nella piega dolorosa degli ultimi sussulti cromatici. Il cromatismo pervade l’intera opera senza mai sconfinare in forzature artificiose, perché si sovrappone con grazia perfetta agli addentellati del testo; gli stessi temi, che nel preludio risuonano gonfi di passione, ritornano trasfigurati nel corso della vicenda e le loro metamorfosi sembrano essere il termometro interiore del dramma dei protagonisti. In questo modo si salvaguarda l’unità e insieme la varietà della forma; anche i particolari più espressionistici del testo (ad esempio il presagio del vino versato, come macchia di sangue pronta a dilagare) vengono raccolti in questa rete analitica e addensati in ombre sempre più gravide di minaccia. La leggerezza di certi pizzicati, l’inopinata soavità delle numerose emersioni solistiche delle prime parti orchestrali, gli arabeschi intessuti dall’arpa testimoniano l’originalità della strumentazione di Zemlinsky e si attagliano molto bene all’atmosfera di gioco pericoloso che domina questa insolita conversazione a tre; il preziosismo delle sonorità individua anche con notevole intuito il clima claustrofobico della vicenda, svolta interamente fra quattro mura, in un hortus conclusus che non sa aprirsi verso il mondo (Simone stesso commenta fra sé: “Il mondo intero si è dunque ristretto a questa stanza e ha solo tre anime come abitanti?”). Il respiro melodico, sempre latente eppure sempre trattenuto (come la notte fiorentina, che occhieggia dalla vetrata senza poter spezzare l’incubo della clausura che grava sui tre) si sfoga finalmente nello squarcio lirico del duetto di Bianca e Guido: musica appassionata e febbrile come quella di certe pagine di Berg, che infatti amava molto l’anima espressiva di Zemlinsky. Se il tema sottinteso al dramma di Wilde era quello della bellezza sopraffatta e illanguidita dalla mediocrità quotidiana, la riscrittura operistica di Zemlinsky si svolge come un ininterrotto peana alla bellezza; la scrittura strumentale, precisa e nitida come un fregio di Klimt, e la forma, serrata ed elegante, diventano pendant di un estetismo ormai sconfitto e pronto a mutare la sua tragedia nelle allucinazioni espressionistiche. Proprio il carattere ambiguo dell’abbozzo di Wilde si prestava al trapasso fra questi due mondi spirituali, di cui la Florentinische Tragödie offre una sintesi personalissima». (Elisabetta Fava)

L’atto unico di Zemlinsky è spesso abbinato a un altro breve lavoro ambientato nella Firenze dell’epoca, di tono totalmente diverso e per questo complementare: il Gianni Schicchi di Puccini. Così era successo alla Scala nel 2004, così avviene ora al Regio di Torino che affida a Stefan Anton Reck la direzione del dittico. Sotto la sua bacchetta l’orchestra del teatro riproduce il lirismo sinfonico di Zemlinsky, che dallo stile straussiano vira all’espressionismo della Seconda Scuola di Vienna, con piglio energico ed esuberante. I due interpreti maschili in scena sono Mark S. Doss, autorevole bass-baritono che dà voce a Simone, e Zoran Todorovich, Guido. Insinuante ma mancante di proiezione la Bianca di Ángeles Blancas Gulín.

Del tutto discutibile la realizzazione visiva di Vittorio Borrelli sia nell’ambientazione novecentesca e nella scenografia (di Saverio Santoliquido), che non ha alcuna attinenza con l’attività del personaggio Simone, sia nel finale in cui il regista stravolge completamente l’ironia beffarda del libretto facendo ammazzare la donna dal marito!

Le cose non migliorano con il Gianni Schicchi, non tanto per l’ambientazione novecentesca con lo stesso letto al proscenio, qui non particolarmente incongrua, quanto per il tono dato dal regista, che scambia il grottesco con la farsa, infarcendo di gag una vicenda che vuol mettere in evidenza l’ipocrisia dei parenti, qui trasformati in macchiette scatenate. Va contro corrente Alessandro Corbelli, attore di grande intelligenza, che di Gianni Schicchi dà una raffigurazione sobria molto più in linea con le intenzioni dell’autore. Nella folta schiera di cantanti in scena si stacca la coppia dei giovani Rinuccio e Lauretta, Francesco Meli e Serena Gamberoni, compagni anche nella vita. Qui in Puccini si sente maggiormente la mano pesante del direttore, disattento ai dettagli e con sonorità soverchianti le voci.

Salome

Richard Strauss, Salome

★★★★☆

Milan, Teatro alla Scala, 19 février 2021

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Salomé comme Hamlet selon Michieletto à la Scala

La Salome de Richard Strauss est un opéra on ne peut plus  nécrophile : le nom Tod (mort) et l’adjectif tot (mort) reviennent pas moins de vingt fois dans le court livret qui suit fidèlement le texte d’Oscar Wilde. Avant même que Salomé n’embrasse la bouche du cadavre du Baptiste, on entend parler d’une lune qui « ressemble à une morte », de quelqu’un qui glisse sur le sang d’un cadavre, de morts ressuscités… et la dernière ligne du livret n’est autre que « Man töte dieses Weib ! » (« Tuez cette femme ! »). Sans oublier la référence aux anges de la mort, ponctuellement rendus visibles avec leurs ailes noires par Damiano Michieletto, sur la scène du Teatro alla Scala où l’on peut enfin voir ce spectacle, annulé il y a un an en raison de la pandémie (du moins en streaming puisque le théâtre est toujours fermé au public)…

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Salome

Richard Strauss, Salome

★★★★☆

Milano, Teatro alla Scala, 19 febbraio 2021

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Salome come Amleto: c’è del marcio in Galilea

Opera quanto mai necrofila la Salome di Richard Strauss: il sostantivo Tod (morte) e l’aggettivo tot (morto) ricorrono ben venti volte nel breve libretto che ricalca fedelmente il testo di Oscar Wilde.

Prima ancora che Salome baci la bocca del cadavere del Battista, sentiamo di una Luna che «sembra una donna morta», c’è chi scivola sul sangue di un cadavere, di morti risuscitati… e l’ultima battuta è nientemeno che «Man töte dieses Weib!» (ammazzate ‘sta donna!). E non dimentichiamo il richiamo agli angeli della morte, puntualmente portati in scena con le loro ali nere da Damiano Michieletto sul palcoscenico del Teatro alla Scala dove finalmente si può vedere lo spettacolo annullato un anno fa per le note vicende pandemiche, anche se solo in streaming e a teatro chiuso al pubblico.

La lettura del regista veneziano è quanto mai fedele al testo, che rilegge in chiave simbolica e psicanalitica (sono gli anni di Sigmund Freud quelli in cui Strauss compone l’opera) la vicenda biblica dei figli di Erode il Grande, ossia Erode Antipa (tetrarca della Galilea tra il 4 a.C. e il 39 d.C.) ed Erode Filippo (tetrarca di Iturea, Traconite e Golan tra il 4 a.C. e il 34 d.C.). Alla morte di quest’ultimo – la storia si situa dunque tra il 34 e il 39 d.C. – Erode Antipa ne aveva sposato la moglie che aveva dato precedentemente alla luce una figlia, Salome, la quale è quindi figliastra dello zio. Esattamente come Amleto. E anche qui ci sono sospetti che il primo marito sia stato fatto fuori dal secondo, sembra suggerire Michieletto, che per prima cosa ci mostra l’albero genealogico della famiglia affinché sia chiaro che è sui rapporti famigliari che si basa la sua lettura: Salome rivede sé stessa bambina con il padre che le regala una bambola prima di metterla a letto, e la figura della bambina ritornerà a più riprese nel corso dello spettacolo. Questa è una chiave di lettura certo non inedita, ma cara al regista che l’ha applicata ad altri suoi spettacoli quali Guillaume Tell e Macbeth.

L’allestimento si basa sui colori menzionati nel testo: il bianco, il nero e il rosso. Il primo è il colore della reggia di Erode, un ambiente di un candore abbagliante nella tersa scenografia di Paolo Fantin, incorniciato da fredde luci al neon; il nero è quello della terra della prigione di Jochanaan e della Luna che scende dall’alto; il rosso ovviamente è quello del sangue di Narraboth e della testa del Battista che cola nel bacile d’argento. Il fondo della scena si apre per i ricordi d’infanzia ridestati dalla voce del Profeta o per il banchetto di Erode e non manca la cisterna circolare tagliata nel pavimento da cui emerge Jochanaan. Durante la “danza dei sette veli” la protagonista rivive il suo rapporto col padre e contemporaneamente quello probabilmente incestuoso col patrigno, impersonato da figure maschili con maschera che alla fine la vestono con un abito bianco da cui pendono lunghi fili rossi, abito che ascende al cielo. Con la morte di Jochanaan il sacrificio sarà compiuto. L’agnello sgozzato, il sangue versato dal calice, tutto rimanda alla figura del Battista. Un altro forte rimando figurativo è quello della sua testa aureolata e raggiata come nel quadro di Gustave Moreau L’apparition (1877). Ancora una volta la magia del collaudato team di Michieletto – Paolo Fantin scenografo, Alessandro Carletti luci, Carla Teti costumi – rende questo uno spettacolo visivamente coerente e intrigante.

Sul piano musicale c’è da segnalare la grande prova di Riccardo Chailly che arrivato a sostituire Zubin Mehta aggiunge Strauss alla sua lettura delle opere di fine ‘800 e inizio ‘900 (Verdi, Puccini, Giordano) con questo lavoro che ha già in sé tutta la modernità a venire, dal taglio della vicenda, alla strumentazione, alla densità sonora che passa da momenti di magniloquente turgidità ad altri di estrema rarefazione, da quelli di una morbosa sensualità ad altri secchi e quasi rumoristici. Il tutto è magnificamente realizzato grazie a un’orchestra in grande spolvero che occupa la platea in tutta la sua estensione con prevedibili problemi di distanza che qui però sono magistralmente risolti.

Degli interpreti previsti l’anno scorso non c’è ovviamente traccia: debutta alla Scala il soprano russo Elena Stikhina, voce non enorme ma più che sufficiente ad affrontare la temibile tessitura della protagonista che delinea con espressività e felice presenza scenica, ma la sua performance non riesce a far dimenticare quella a Salisburgo di Asmik Grigorian. Nello Jochanaan di Wolfgang Koch è difficile trovare la diafana magrezza – «Com’è consunto! È come una statua d’avorio» – che fa innamorare la fanciulla, ma sembra non sia un requisito facile da reperire in un cantante che deve avere un volume sonoro consistente per la parte, come è il caso del basso-baritono tedesco che ritorna nel ruolo dopo Monaco. Meno petulante di come viene spesso presentato è l’Herodes di Gerhard Siegel ascoltato a Torino due anni fa e meno megera e sfiatata del solito la Herodias di Linda Watson, entrambi perfetti scenicamente. La parte lirica dello sventurato Narraboth è efficacemente interpretata da Attilio Glaser mentre Lioba Braun presta il suo caldo timbro mezzosopranile al Paggio, qui la governante di Salome, inerme testimone delle nefandezze di questa famiglia quanto mai disfunzionale.

Der Zwerg

Alexander von Zemlinsky, Der Zwerg (Le nain)

Berlin, Deutsche Oper, 24 mars 2019

★★★★★

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La tragédie d’un amour impossible

Le 11 février 1900, Alma Schindler, âgée d’à peine vingt ans, écrit dans son journal qu’elle a rencontré Alexander von Zemlinsky lors d’un concert : « Cet homme est absolument grotesque. Une caricature : sans menton, petit, avec des yeux globuleux et une façon folle de diriger. » Le 26 du même mois, elle confirme sa première impression, mais il se passe quelque chose de plus : « Il est terriblement laid, il n’a presque pas de menton, et pourtant je l’aime extraordinairement. À table, il m’a demandé calmement quelle était mon opinion sur Wagner, et je lui ai répondu que Wagner était le plus grand génie de tous les temps. – Et quel est votre Wagner préféré ? J’ai répondu Tristan. À ce moment-là, il était si heureux qu’il est devenu méconnaissable. À proprement parler, Il est devenu beau. Maintenant, nous nous sommes trouvés. Je l’aime beaucoup. Beaucoup. Je vais l’emmener chez nous. »…

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Der Zwerg

Alexander von Zemlinsky, Der Zwerg (Il nano)

Berlino, Deutsche Oper, 24 marzo 2019

★★★★★

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La tragedia di un amore impossibile

L’11 febbraio del 1900 Alma Schindler, poco più che ventenne, scrive sul suo diario di aver conosciuto Alexander von Zemlinsky ad un concerto: «L’uomo è la cosa più grottesca che ci sia. Una caricatura: senza mento, piccolo, con gli occhi che sporgono e un modo di dirigere folle». Il 26 dello stesso mese conferma la sua prima impressione, ma qualcosa è successo: «È terribilmente brutto, non ha quasi mento, eppure mi piace straordinariamente. A tavola mi chiese con calma quale fosse la mia opinione su Wagner e io gli ho detto che era il più grande genio di tutti i tempi. E qual è il suo Wagner preferito? Tristan la mia risposta. A quel punto fu così contento da diventare irriconoscibile. È diventato propriamente bello. Ora ci siamo finalmente intesi. Mi piace molto. Molto. Lo porterò a casa nostra».

Alma si fa dare lezioni di musica e presto il loro diventa un flirt in cui la ragazza è soggiogata dalla personalità del compositore: «Non penso che [Alexander] sia ridicolo. E non è brutto, perché l’intelligenza brilla dai suoi occhi e una persona così non è mai brutta». Ma la loro relazione finisce e la fine ha una data precisa: il 16 dicembre 1901 Alma sul diario annota per l’ultima volta «Oggi è stato sepolto un bellissimo, bellissimo amore. Gustav, dovrai fare molto per sostituirlo». Alma sposerà Gustav Mahler tre mesi dopo e Alexander ne sarà devastato. Il compositore scriverà Der Zwerg pensando a quella sua lontana esperienza, identificandosi nella deformità del protagonista. Saranno passati quasi vent’anni, ma il ricordo è ancora doloroso.

Der Zwerg, su libretto di Georg C. Klaren basato sul racconto del 1891 di Oscar Wilde The Birthday of the Infanta, debutta il 22 maggio 1922 e rimane il più eseguito degli otto lavori per il teatro del compositore ebreo che con l’assunzione al potere di Hitler dovette fuggire prima da Berlino, poi da Vienna in seguito all’Anschluss e rifugiarsi negli Stati Uniti dove morirà nel ’42.

L’atto unico è messo in scena alla Deutsche Oper di Berlino da Tobias Kratzer. Donald Runnicles dirige l’orchestra del teatro e l’opera è preceduta dall’esecuzione del pezzo per orchestra Begleitungsmusik zu einer Lichtspielscene (Musica di accompagnamento a una scena cinematografica) che Arnold Schönberg aveva completato nel 1930, breve pagina che non era nata con la concreta destinazione suggerita dal titolo, ma come ”ipotesi” commissionata, a lui e ad altri compositori, dall’editore tedesco Heinrichshofen. Nessun regista ebbe in seguito l’idea di utilizzare questa pagina per un film, ma nel 1955 Georges Balanchine ne aveva fatto una coreografia. Pensando al cinema espressionista di quell’epoca, utilizzando un linguaggio rigorosamente dodecafonico e un organico quasi cameristico, Schönberg scrive tre episodi, legati in un unico brano, che intitola “Drohende Gefahr” (Pericolo incombente), “Angst” (Angoscia) e “Katastrophe” (Catastrofe). I dieci minuti di musica formano un prologo-pantomima in cui vediamo Alma e Zemlinsky (interpretati da due pianisti: Adelle Eslinger-Runnicles e Evgenij Nikiforov) in un ambiente fine secolo suonare la parte per pianoforte prevista dalla partitura e recitare una lezione di musica in un film in bianco nero in cui si stacca soltanto il colore rosa del vestito della donna. Lui è sempre più nervoso, lei sempre più scostante fino a respingerlo e a lasciarlo.

Senza soluzione di continuità attacca la musica di Der Zwerg. La scena rappresenta il palco di un auditorium con i gradini per l’orchestra, i busti dei musicisti sulla parete, l’organo troneggiante in fondo. La musica deve allietare l’Infanta Donna Clara nel giorno del suo diciottesimo compleanno. Le cameriere commentano i preziosi regali ricevuti – una croce di avorio e topazi, una corona d’oro incastonata di rubini, una rosa d’oro con spine di pietre preziose dono del Papa, due superbi cavalli dall’Imperatore. Ma il più bello, e più orrendo, è quello inviato dal Sultano: un nano, un capriccio della crudele natura: «zoppica, i suoi capelli sono una zazzera di fuoco, la sua testa è infagottata in spalle troppo alte, si piega sotto il peso di una gobba, il suo corpo è piccolo e deforme. Chissà, forse non ha più di vent’anni, forse è vecchio come il Sole. Viene da un paese lontano e lo precede la sua fama di cantore. […] Egli ignora del tutto la sua bruttezza ripugnante, crede di essere nobile e ha i modi di un cavaliere. Non si è mai visto in uno specchio».

E sul palcoscenico della Deutsche Oper entra veramente un nano, l’attore Mick Morris Mehnert la cui voce è prestata dal tenore David Butt Philip che, inizialmente al leggio, in seguito viene coinvolto come partecipante al dramma. Lo scisma tra la parte spirituale e quella fisica del personaggio eponimo qui è resa dal regista con la contemporanea presenza delle due figure e alla conseguente crisi di identità che porta la prima a uccidere la seconda. L’azione si sviluppa sul palco dell’auditorium invaso allegramente dalle compagne di gioco dell’Infanta, sfrenate festaiole in abiti color pastello e telefonino in mano. Il Nano è un direttore d’orchestra con tanto di bacchetta che dirige le note della struggente canzone dell’arancia sanguigna, simbolo del suo cuore ferito dall’amore.

Nella scenografia di Rainer Sellmaier, che firma anche i costumi, su un telo semiriflettente che cala dall’alto si specchia il Nano che vede per la prima volta la sua deformità. L’Infanta ritorna ancora una volta in scena per giocare col suo regalo, ma il cuore del Nano non ha resistito alla rivelazione. «Peccato, già rotto il mio regalo di compleanno» commenta la capricciosa ragazza. Il ciambellano entra in scena con il busto di un nuovo compositore da aggiungere alla collezione: ha gli occhiali e il naso prominente di Alexander von Zemlinsky.

La ricca partitura è resa da Sir Donald Runnicles con sapienza e sensibilità: come il personaggio in scena anche la musica è scissa in due personalità, tra eccessi romantici e sofferta introversione e ricorda quella di Mahler, per come è messa in luce dal direttore inglese. Eccellenti gli interpreti in scena. Come voce del protagonista David Butt Philip inizia con un estatico lirismo dove il glorioso timbro del tenore inglese si spiega in tutta la sua luminosità nell’impegnativo registro previsto dalla parte, ma presto il suo coinvolgimento nell’azione lo porta a sfoderare un’intensità di espressione che ha il culmine nel momento in cui si vede riflesso e scopre la triste realtà. La svagata crudeltà dell’Infanta è resa mirabilmente da Elena Tsallagova con voce sicura ma dizione tendente al russo. Nel Ciambellano Don Estoban si fa notare la efficace presenza scenica e vocale di Philipp Jekal. L’unico personaggio che dimostri un minimo di pietà in questa vicenda è la Ghita, interpretata da una sensibile Emily Magee.

L’intrigante messa in scena, la splendida concertazione e l’eccellente cast realizzano uno spettacolo di grande impatto che conferma il ruolo di un compositore che, come molti altri, accusato di scrivere entartete Musik (musica degenerata) fu perseguitato dai Nazisti e che sempre più si rivela come uno dei più importanti del secolo scorso.