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Giacomo Puccini, Turandot
★★★★☆
Milano, Teatro alla Scala, 1 maggio 2015
(diretta TV)
Turandò, opera moderna
L’hanno chiamata “Turandò” fin dal primo momento e nonostante qualcuno ne correggesse la pronuncia, non c’è stato verso: su RAI5 si è continuato a chiamare così l’opera andata in scena con il consenso a denti stretti dei sindacati nel giorno della festa del lavoro per solennizzare la concomitante apertura dell’EXPO milanese.
Direttore e regista ci hanno ricordato che l’ultima opera di Puccini è del 1924 ed è di sconvolgente modernità. Due anni prima aveva debuttato il Wozzeck di Berg. Janáček, Ravel, Busoni, Hindemith, Stravinskij e Szymanowski avrebbero presentato i loro capolavori per il teatro proprio in quegli anni.
Riccardo Chailly non solo dà una lettura emblematicamente moderna della partitura, tutta irta di dissonanze e colori lividi, ma dimostra che la scelta del finale scritto da Luciano Berio nel 2002, il quale si adatta perfettamente alle tinte orchestrali e alle armonie messe in luce dal direttore milanese, è l’unica possibile. La proposta di Berio è a tutt’oggi la sola alternativa valida al magniloquente finale di Alfano, ma meglio ancora sarebbe far terminare l’opera lì dove Puccini si è fermato. In quell’accordo di mi♭si conclude infatti la grande stagione dell’opera italiana dell’Ottocento.
Perfettamente in linea con la lettura del maestro è l’allestimento del regista Nikolaus Lehnhoff, dello scenografo Raimund Bauer e della costumista Andrea Schmidt-Futterer. La scena è un opprimente ambiente chiuso (che solo alla fine si aprirà alla luce dell’esterno) con incombenti mura rosso lacca ricoperte di grossi chiodi/pioli che danno un effetto minaccioso alla città proibita dell’imperatore Altoum, ma dipingono anche un incubo dai colori primari, rosso e blu, scelti per dare un tocco antinaturalistico alla fiaba senza tempo del Gozzi. Le allusioni cinesi sono lasciate solo alla musica: gli spettacolari costumi in bianco e nero dei personaggi principali si ispirano ai manichini di Oskar Schlemmer e la prima apparizione di Turandot avviene in uno sfavillante abito disegnato da un Erté visionario. L’onnipresente e ondivago coro del «popolo di Pekino» è un’inquietante massa di elementi tutti uguali con una maschera bianca che annulla le individualità e in testa una bombetta più Arancia meccanica che Magritte con quei coltelli luccicanti sfoderati alla fine del primo atto.
Superlativo il cast femminile: Nina Stemme e Maria Agresta sono perfette nei ruoli che danno della donna due immagini del tutto contrapposte. Gelida potenza che diventa sgomento («Che nessun mi veda… | La mia gloria è finita»), smarrimento («tormentata e divisa | fra due terrori uguali: | vincerti o esser vinta…») e infine passione, per la principessa cinese sono fasi incarnate in maniera esemplare dalla interpretazione del soprano svedese. I filati e le note tenute della Agresta hanno invece dipinto una Liù memorabile, mai stucchevole e giustamente osannata dal pubblico. Timur di gran lusso quello del bravissimo Alexander Tsymbalyuk, bravi anche gli interpreti dei tre ministri, Angelo Veccia, Blagoj Nacoski e Roberto Covatta, perfettamente inseriti da Lehnhoff in questa sua pantomima espressionista.
Lasciamo per ultimo il Calaf di Alexandrs Antonenko, unico punto debole dello spettacolo: voce grande ma traballante nelle note tenute, acuti sfocati, intonazione e dizione imperfetti, ma soprattutto personaggio senza fascino dalla vocalità uniformemente stentorea.
Lo spettacolo proviene ovviamente da Amsterdam, uno dei teatri lirici più stimolanti oggi in Europa.
La ripresa televisiva è stata affidata alla solita Patrizia Carmine, che questa volta non ha fatto lo scempio del Tristano di Chéreau, ma nemmeno ha reso al meglio lo spettacolo, anzi.
P.S. Questa è stata l’ultima produzione di Nikolaus Lehnhoff: il regista tedesco sarebbe mancato meno di quattro mesi dopo.
⸪