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Wolfgang Amadeus Mozart, La finta giardiniera
★★★★☆
Milano, Teatro alla Scala, 11 ottobre 2018
(diretta-differita televisiva)
Amore come pazzia nel giovanile capolavoro mozartiano
RAI Cultura inaugura con questa ripresa la tecnologia 8K che offre una definizione di immagine molto maggiore della comune HD. L’occasione è la messa in scena al Teatro alla Scala de La finta giardiniera, spettacolo di Glyndebourne del 2014 che aveva rivelato il giovane Frederic Wake-Walker. Sulla scia di quel successo il regista era stato poi invitato ad allestire nel teatro milanese una produzione de Le nozze di Figaro che si era rivelata però piuttosto discutibile. Ancora alla Scala presenterà Ariadne auf Naxos il prossimo aprile: sarà l’occasione per capire finalmente se ha le qualità dimostrate in questa produzione.
Con numero d’opus K 196, l’opera era stata presentata a Monaco da un compositore diciannovenne che aveva già scritto sette lavori per le scene, di cui tre per il Teatro Ducale di Milano. Una Finta giardiniera sullo stesso testo, forse del Petrosellini, era stata messa in musica da Pasquale Anfossi e presentata a Roma l’anno prima.
Sotto la guida esperta di Diego Fasolis, la compagine barocca nata in seno all’orchestra del teatro affronta per la prima volta un titolo mozartiano dopo due Händel. Gli strumenti originali danno un colore particolare alla partitura e il direttore luganese imprime alla musica un passo vivace ma allo stesso tempo galante con cui sottolinea la malinconia di cui è diffuso il lavoro, con quella marchesa Violante sfuggita a un tentativo di omicidio del marito geloso, ora finta giardiniera col nome Sandrina, che poco per volta ricomincia ad amare e a essere riamata e se le arie buffe hanno la preminenza quantitativa su quelle malinconiche, sono queste ultime quelle che si imprimono nella memoria. La finta giardiniera è ancora un’opera a numeri chiusi, soprattutto arie solistiche e concertati e c’è un solo duetto che però è strepitoso. Delle 23 arie che compongono l’opera, in questa edizione ne vengono espunte quattro e sono tagliati alcuni recitativi. Con tutto ciò la durata dello spettacolo arriva alle tre ore e mezza comprensive di un intervallo.
Come era successo al Salvatortheater di Monaco di Baviera il 13 gennaio 1775, anche qui la primadonna ha perso la voce, ma mentre là furono annullate le repliche successive alla terza e venne così compromessa la diffusione del lavoro, qui un altro soprano ha prontamente sostituito quello titolare. Nella rappresentazione odierna è dunque Julie Martin du Theil che canta la parte di Sandrina/Violante al posto dell’indisposta Hanna-Elisabeth Müller. La giovane cantante svizzera parte con qualche incertezza di intonazione e rigidità espressiva, poi nel corso della serata acquista sicurezza. Il timbro rimane esile e se non nelle arie è nei recitativi che esprime al meglio la sua sensibilità. Il momento migliore è il duetto con il marito Belfiore, qui un validissimo Bernard Richter, bella voce, a suo agio nelle agilità e scenicamente spigliato.
Il personaggio caricaturale di “Don Anchise podestà di Lagonero” trova in Krešimir Špicer la figura adatta per ironia e presenza, ma anche una vocalità potente che sa però piegare in pianissimi e frasi suadenti. Anett Frisch è la possessiva e manesca Arminda, sicura negli acuti e nelle agilità. In «Vorrei punirti indegno» prefigura l’Elettra dell’Idomeneo per la veemenza dell’espressione. Lucia Cirillo, mezzosoprano en travesti per la parte del Cavalier Ramiro, si conferma stilisticamente inappuntabile, così come Giulia Semenzato, vispa Serpetta maliziosa in «Appena mi vedon chi cade, chi sviene». Energico Nardo è quello di Mattia Olivieri che costruisce una scena caldamente applaudita con l’aria «A forza di martelli» cantata con foga ma precisione. Qui, come nel «Dentro il mio petto sento» con cui il Podestà dialoga con gli strumenti dell’orchestra, Diego Fasolis si è divertito a tener testa alle intemperanze vocali in scena.
La chiave di lettura del bello spettacolo messo in scena da Frederic Wake-Walker è l’amore inteso come follia: all’inizio i personaggi si presentano come figure di un carillon nel rotante quintetto iniziale, con i gesti affettati e caricaturali delle maschere della Commedia dell’Arte, per poi acquisire sempre maggior “umanità” col tempo quando prendono atto della follia rappresentata dalle loro passioni. La «pazza gelosia» del contino Belfiore è il motore di tutta la vicenda, ma non sono da meno neanche gli altri personaggi: «Siam pazzi tutti quanti | che andiamo appresso a femmine» canta Nardo e dopo «Qui con costoro divengo pazzo anch’io». Gli fa eco il Podestà «Ma se perder dovrò Sandrina mia, | ah ch’io certo farò qualche pazzia», ma è tutto il quintetto a ribadire «Che caso funesto che gran frenesia; | più strana pazzia chi mai può trovar». In totale nel libretto si ripetono dodici volte i termini pazzo/a/i, impazzire, pazzia.
I sontuosi costumi di Antony McDonald si rifanno a un Settecento riletto da John Galliano per cedere il posto nel finale a semplici indumenti moderni per la coppia Sandrina-Belfiore.
Non c’è alcun giardino nella scenografia, dello stesso McDonald: una sala rococo nello stile del castello bavarese di Nymphenburg dal cui soffitto però cadono i calcinacci – ecco spiegata la fretta di Don Anchise a impalmare la nipote al nobile Belfiore per risollevare le sorti economiche della casa. A mano a mano la scenografia diviene più effimera, fino a diventare di carta e infine è distrutta per lasciar spazio a un fondale dipinto a bosco con viale, che poi si abbassa pure lui lasciando il teatro nudo. Un sipario di velluto verde viene allora calato a mano dal finto boccascena ricostruito sul palcoscenico del teatro.
La finzione ha così termine. Ora tocca a noi vivere nella nostra realtà.
⸪