Mese: ottobre 2018

TEATRO ALFIERI

Teatro Alfieri

Torino 1855 (1949)

1500 posti

Costruito su progetto degli architetti Lorenzo e Barnaba Panizza fu inaugurato nel 1855, ma rimase distrutto da un incendio tre anni dopo. Re-ianugurato nel 1860 subì altri incendi nel 1863, 1868 e 1927, ma fu sempre ricostruito secondo i disegni originari. Colpito dalle bombe nel 1942 fu ricostruito dagli ing. Panizza e Lorenzelli nel 1949 ampliando la platea e unendo le due gallerie. L’ultima ristrutturazione risale al 2002.

Inizialmente fu adibito a rappresentazioni liriche data la grande capienza, 2000 spettatori prima dell’ultimo restauro. Poi divenne la destinazione preferita di rappresentazioni di prosa curati da Giuseppe Erba negli anni ’50 mentre oggi fa parte del circuito Torino Spettacoli del Teatro Nuovo.

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TEATRO DI VILLA TORLONIA

Teatro di Villa Torlonia

Roma (1871)

135 posti

Una prima idea per la costruzione di un teatro nel parco della villa è collocabile nel 1839 quando nel progetto appare la denominazione “teatro ed aranciera”.  La costruzione del teatro sembra essere collegata al matrimonio di Alessandro Torlonia con Teresa Colonna avvenuto nel 1840, come attestano gli stemmi di entrambi i casati nella decorazione. Tuttavia il teatro fu iniziato nel 1841 da Raimondi e terminato solamente nel 1871. Il progetto originario prevedeva una gradinata lungo il lato del semicerchio esterno da utilizzare come teatro all’aperto, invece furono costruite due serre per piante esotiche con stufe poste nel piano interrato. L’architetto Raimondi sfruttò la pendenza del terreno per la costruzione dell’edificio facendo in modo che le due facciate dessero su due livelli differenti, in basso la facciata meridionale e nella parte più alta quella settentrionale.

Il teatro di Villa Torlonia è una celebrazione del “teatro di corte” degli inizi del XVII secolo, ove all’impianto generale del teatro all’italiana viene aggiunto lo schema elaborato in Francia nel XIX secolo. Difatti, oltre alla grande sala teatrale vi erano due grandi sale laterali che, grazie ad un sofisticato marchingegno, potevano diventare un unico ambiente col palcoscenico. Sono molto scarse le notizie sugli utilizzi del teatro, ma dopo che il principe si ritirò alla Casina delle Civette e cedette l’uso della villa a Benito Mussolini, il teatro versava già in uno stato di abbandono. In seguito vi furono arrecati altri danni dall’occupazione degli alleati. Il teatro è stato recentemente restaurato per via di un accordo tra il comune di Roma e Pirelli Cultura: dopo essere stati ripristinati tutti gli spazi interni e le numerose decorazioni lo spazio è stato inaugurato e riaperto al pubblico il 7 dicembre 2013.

La sala è a forma di ferro di cavallo con due ordine di gallerie. La platea è unita al boccascena dato che manca la buca per l’orchestra. Nel sottopalco vi sono macchine di scena, ma dell’apparato decorativo del palcoscenico e delle gallerie non è giunta traccia fino a noi. Il palcoscenico è decorato nella volta con dei riquadri dipinti raffiguranti Apollo e le Dodici Ore. Ai lati del palcoscenico sono dipinte architetture che imitano palchi ornati. La zona di fondo è apribile verso il parco della villa ed è dipinta ad imitazione di architetture, tendaggi e nicchie con statue. Il soffitto è decorato con figure danzanti e maschere teatrali entro scomparti in stucco bianco e dorato.

La facciata nord è rigorosamente accademica, mentre il prospetto sud è più innovativo, ove le serre sono ispirate ai nuovi edifici del Nord Europa. Gli ingressi per il pubblico erano posti sul lato settentrionale, formato da un portico di forma semicircolare, cadenzato da cinque nicchie con altrettante porte che immettono nella prima galleria. Il lato meridionale è percorso da serre mentre i lati constano di archi con finestre in vetro, ferro e colonne in ordine tuscanico.

Di notevole interesso gli ambienti interni. Dopo un primo vestibolo dipinto a grottesco e provvisto di lucernario, una sala gotica con scene cavalleresche e al pavimento un mosaico policromo si arriva a una prima saletta di passaggio dipinta in modo da sembrare una terrazza che poggia su colonne in stile corinzio. Una prima grande galleria è aperta verso l’esterno tramite una vetrata centinata e anticamente usata come serra. Le nicchie sulle pareti conservano copie di statue in gesso raffiguranti personaggi mitologici.

Il pavimento del foyer è una copia ottocentesca ridotta del mosaico di Otricoli dei Musei Vaticani. Spicca nella stanza un grande camino in marmo bianco con gli stemmi dei Torlonia e dei Colonna. La zona alta della volta è decorata a tempera con motivi allegorici e grotteschi. In alcune lunette poste entro complessi motivi architettonici sono raffigurate scene della guerra di Troia tratte dall’Iliade.

Ci sono poi un salottino ottagonale, una galleria piccola, un secondo vestibolo, una sala moresca, una seconda saletta di passaggio, una seconda grande galleria, un secondo salone foyer con al centro del pavimento un grande mosaico con il Rapimento di Europa, un secondo salottino ottagonale e una seconda galleria piccola.

Scale molto elaborate con i gradini in marmo e le ringhiere in bronzo dorato, simili a quelle di Filippo Ghirlanda site nel Casino Nobile, collegano i vari piani. Nei pianerottoli sono posti gli stemmi dei due coniugi Torlonia.

Il parco di Villa Torlonia

Meyerbeer

Jean-Philippe Thiellay, Meyerbeer

2018 Actes Sud, 185 pagine

Nato tre mesi prima della morte di Mozart, scomparso qualche giorno prima della nascita di Richard Strauss. Ecco l’arco temporale della vita di Meyerbeer, nato ebreo tedesco come Jakob Liebmann Meyer Beer, diventato poi italiano, morto francese. Jakob, Giacomo, Jacques: tre nomi, tre chiavi di lettura della vita e della carriera di un compositore che ha dominato le scene liriche internazionali per parecchi decenni.

Le sue opere sono state rappresentate dappertutto, in Francia anche nei più piccoli teatri di provincia, in tutta la Germania, nel resto dell’Europa, oltre Manica e anche oltre Oceano. Ha frequentato teste coronate – da Federico Guglielmo IV di Prussia alla Regina Vittoria a Napoleone III – artisti, intellettuali e sapienti – George Sand, Victor Hugo, Alexandre Dumas, Heinrich Heine, Franz Liszt, Alexander von Humboldt tra i tanti.

Erede di Rossini a Parigi, venerato inizialmente da Wagner, poi sia da vivo che da morto vittima dell’antisemitismo, aveva capito perfettamente le aspettative della società europea di metà Ottocento inventando un genere d’opera del tutto nuovo. Al successo immenso subentrò un rapido oblio alla fine del secolo con la sua sparizione dall’immaginario lirico collettivo e ancora non ha goduto di una rivalutazione come è accaduto con la Rossini Renaissance, anche se, per lo meno oltralpe, si riprendono a mettere in scena le sue opere maggiori: Robert le diable, Les Huguenots, Le prophète, L’Africaine. Chissà se anche l’Italia saprà ricordarsi delle opere scritte nel nostro paese: Romilda e Costanza per Padova, Semiramide riconosciuta per Torino, Emma di Resburgo per Venezia, Margherita d’Anjou L’esule di Granata per Milano, Il crociato in Egitto ancora per Venezia. (1)

Lo smilzo librino di Jean-Philippe Thiellay, vice direttore generale dell’Opéra National di Parigi, giunge a colmare qualche lacuna e a stimolare un rinnovato interesse per il compositore senza il quale la storia del teatro musicale sarebbe stata ben diversa.

(1) Per dover di cronaca Margherita d’Anjou ha avuto un bell’allestimento a Martina Franca nell’estate 2017.

La finta giardiniera

Wolfgang Amadeus Mozart, La finta giardiniera

★★★★☆

Milano, Teatro alla Scala, 11 ottobre 2018

(diretta-differita televisiva)

Amore come pazzia nel giovanile capolavoro mozartiano

RAI Cultura inaugura con questa ripresa la tecnologia 8K che offre una definizione di immagine molto maggiore della comune HD. L’occasione è la messa in scena al Teatro alla Scala de La finta giardiniera, spettacolo di Glyndebourne del 2014 che aveva rivelato il giovane Frederic Wake-Walker. Sulla scia di quel successo il regista era stato poi invitato ad allestire nel teatro milanese una produzione de Le nozze di Figaro che si era rivelata però piuttosto discutibile. Ancora alla Scala presenterà Ariadne auf Naxos il prossimo aprile: sarà l’occasione per capire finalmente se ha le qualità dimostrate in questa produzione.

Con numero d’opus K 196, l’opera era stata presentata a Monaco da un compositore diciannovenne che aveva già scritto sette lavori per le scene, di cui tre per il Teatro Ducale di Milano. Una Finta giardiniera sullo stesso testo, forse del Petrosellini, era stata messa in musica da Pasquale Anfossi e presentata a Roma l’anno prima.

Sotto la guida esperta di Diego Fasolis, la compagine barocca nata in seno all’orchestra del teatro affronta per la prima volta un titolo mozartiano dopo due Händel. Gli strumenti originali danno un colore particolare alla partitura e il direttore luganese imprime alla musica un passo vivace ma allo stesso tempo galante con cui sottolinea la malinconia di cui è diffuso il lavoro, con quella marchesa Violante sfuggita a un tentativo di omicidio del marito geloso, ora finta giardiniera col nome Sandrina, che poco per volta ricomincia ad amare e a essere riamata e se le arie buffe hanno la preminenza quantitativa su quelle malinconiche, sono queste ultime quelle che si imprimono nella memoria. La finta giardiniera è ancora un’opera a numeri chiusi, soprattutto arie solistiche e concertati e c’è un solo duetto che però è strepitoso. Delle 23 arie che compongono l’opera, in questa edizione ne vengono espunte quattro e sono tagliati alcuni recitativi. Con tutto ciò la durata dello spettacolo arriva alle tre ore e mezza comprensive di un intervallo.

Come era successo al Salvatortheater di Monaco di Baviera il 13 gennaio 1775, anche qui la primadonna ha perso la voce, ma mentre là furono annullate le repliche successive alla terza e venne così compromessa la diffusione del lavoro, qui un altro soprano ha prontamente sostituito quello titolare. Nella rappresentazione odierna è dunque Julie Martin du Theil che canta la parte di Sandrina/Violante al posto dell’indisposta Hanna-Elisabeth Müller. La giovane cantante svizzera parte con qualche incertezza di intonazione e rigidità espressiva, poi nel corso della serata acquista sicurezza. Il timbro rimane esile e se non nelle arie è nei recitativi che esprime al meglio la sua sensibilità. Il momento migliore è il duetto con il marito Belfiore, qui un validissimo Bernard Richter, bella voce, a suo agio nelle agilità e scenicamente spigliato.

Il personaggio caricaturale di “Don Anchise podestà di Lagonero” trova in Krešimir Špicer la figura adatta per ironia e presenza, ma anche una vocalità potente che sa però piegare in pianissimi e frasi suadenti. Anett Frisch è la possessiva e manesca Arminda, sicura negli acuti e nelle agilità. In «Vorrei punirti indegno» prefigura l’Elettra dell’Idomeneo per la veemenza dell’espressione. Lucia Cirillo, mezzosoprano en travesti per la parte del Cavalier Ramiro, si conferma stilisticamente inappuntabile, così come Giulia Semenzato, vispa Serpetta maliziosa in «Appena mi vedon chi cade, chi sviene». Energico Nardo è quello di Mattia Olivieri che costruisce una scena caldamente applaudita con l’aria «A forza di martelli» cantata con foga ma precisione. Qui, come nel «Dentro il mio petto sento» con cui il Podestà dialoga con gli strumenti dell’orchestra, Diego Fasolis si è divertito a tener testa alle intemperanze vocali in scena.

La chiave di lettura del bello spettacolo messo in scena da Frederic Wake-Walker è l’amore inteso come follia: all’inizio i personaggi si presentano come figure di un carillon nel rotante quintetto iniziale, con i gesti affettati e caricaturali delle maschere della Commedia dell’Arte, per poi acquisire sempre maggior “umanità” col tempo quando prendono atto della follia rappresentata dalle loro passioni. La «pazza gelosia» del contino Belfiore è il motore di tutta la vicenda, ma non sono da meno neanche gli altri personaggi: «Siam pazzi tutti quanti | che andiamo appresso a femmine» canta Nardo e dopo «Qui con costoro divengo pazzo anch’io». Gli fa eco il Podestà «Ma se perder dovrò Sandrina mia, | ah ch’io certo farò qualche pazzia», ma è tutto il quintetto a ribadire «Che caso funesto che gran frenesia; | più strana pazzia chi mai può trovar». In totale nel libretto si ripetono dodici volte i termini pazzo/a/i, impazzire, pazzia.

I sontuosi costumi di Antony McDonald si rifanno a un Settecento riletto da John Galliano per cedere il posto nel finale a semplici indumenti moderni per la coppia Sandrina-Belfiore.

Non c’è alcun giardino nella scenografia, dello stesso McDonald: una sala rococo nello stile del castello bavarese di Nymphenburg dal cui soffitto però cadono i calcinacci – ecco spiegata la fretta di Don Anchise a impalmare la nipote al nobile Belfiore per risollevare le sorti economiche della casa. A mano a mano la scenografia diviene più effimera, fino a diventare di carta e infine è distrutta per lasciar spazio a un fondale dipinto a bosco con viale, che poi si abbassa pure lui lasciando il teatro nudo. Un sipario di velluto verde viene allora calato a mano dal finto boccascena ricostruito sul palcoscenico del teatro.

La finzione ha così termine. Ora tocca a noi vivere nella nostra realtà.

Il trovatore

Giuseppe Verdi, Il trovatore

★★★☆☆

Torino, Teatro Regio, 10 ottobre 2018

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Nel Trovatore di Torino sono le donne a primeggiare

Una volta era l’opera della trilogia popolare verdiana meno rappresentata, ora non c’è teatro in Italia che non la metta in scena e molti aprono la loro stagione lirica proprio con Il trovatore, così come fa il Teatro Regio di Torino.

Per l’inaugurazione era prevista una rara opera di Umberto Giordano, Siberia, ma le vicissitudini subite col cambio di soprintendente e le conseguenti dimissioni del direttore musicale Gianandrea Noseda hanno portato a una rivoluzione nel cartellone che ora si presenta in forma del tutto autarchica: solo opere di autori italiani, le più popolari e in allestimenti di rassicurante tradizione, come questo spettacolo che recupera una produzione bolognese del 2005.

Ben distante da Le trouvère “lunaire” parmense di Robert Wilson – anche se qui un’enorme luna piena sovrasta la scena – la regia di Paul Curran non aveva destato soverchi entusiasmi tredici anni fa e non li desta neppure adesso. La lettura del regista scozzese è lineare, descrittiva e non si scosta dalla tradizione anche se sposta l’ambientazione in epoca risorgimentale, quella della composizone dell’opera (1851-1853), che i costumi di Kevin Knight aiutano a definire: i soldati del Conte con le loro giubbe rosse qui sembrano volontari di Garibaldi e le donne sfoggiano ampie gonne e corpetti stretti in vita. Alcune trovate sceniche vanno contro la drammaturgia prevista da Verdi, come la presenza di Azucena durante duetto Manrico-Leonora in carcere, mentre il libretto prescrive che si svegli solo poco prima del finale in cerca del figlio. O come l’uccisione di Manrico in scena, con una pistola finta di cui si sente il clic fuori tempo sul tremolo degli archi prima del finale in fortissimo.

Il regista evidenzia il clima bellico e passionale dell’opera nella scena dell’accampamento che apre il terzo quadro, “Il figlio della zingara”. Prima ancora che si ascoltino le note di inizio, una donna urlante irrompe davanti al sipario braccata da due soldati. La stessa donna la vedremo insanguinata ed esamine alla fine della scena. I disastri della guerra non hanno età e colpiscono sempre i più deboli e le donne in primis. Le scenografie, dello stesso Kevin Knight, sono formate da un’alta scalinata che scorre e si apre per formare altri spazi, e da due bastioni laterali, il tutto scuro e incombente. Le tenebre qui regnano sovrane, punteggiate dalle fioche lampade delle religiose e dalle fiaccole dei monaci durante il Miserere.

All’atmosfera cupa in scena corrisponde la direzione piena di contrasti di Pinchas Steinberg che sceglie la tradizione dei tagli e dei rallentandi per la sua lettura della partitura, non priva di efficacia, però non evita talora l’effetto zum-pa-pa di certi accompagnamenti.

Nel cast vocale primeggiano le voci femminili. Inizialmente Verdi voleva intitolare il lavoro col nome della zingara poi, dopo la morte prematura del librettista Cammarano, il compositore aveva sviluppato ulteriormente la parte di Leonora, salvo poi a evidenziare nuovamente quella di Azucena nella versione francese del 1857. La maggior cura psicologica qui è dedicata ai due personaggi femminili e in scena qui a Torino due grandi interpreti sembrano dar ragione al compositore. Il soprano americano Rachel Willis-Sørensen debutta nel ruolo di Leonora, il suo secondo ruolo verdiano, e incanta il pubblico torinese con la sua bella linea di canto, una voce dal timbro particolare ma molto ben proiettata e dalla dizione perfetta. Più esaltante nei momenti lirici che in quelli di agilità, delinea una Leonora difficile da dimenticare. Sulla prestazione di Anna Maria Chiuri si andava sul sicuro: sono noti il temperamento e la ricca vocalità del mezzosoprano, appropriati per definire la figura di Azucena, una donna investita di una missione ineludibile, quella di vendicare la morte della madre sul rogo. Le alterne passioni che agitano la donna sono rese con grande mestiere dalla Chiuri che alterna a pianissimi sussurrati scoppi di emotività incontrollata, quella stessa emotività che l’ha portata a scambiare sul rogo il proprio figlio con quello dell’aborrito Conte.

Deludente il Manrico di Diego Torre: il tenore messicano, allievo del Domingo-Thornton Young Artist’s Program di Los Angeles, è scenicamente impacciato in un personaggio che il libretto vuole misterioso, sfuggente. Vocalmente è poco gradevole, il timbro è ingolato e la dizione non sempre cristallina. Il momento della “Pira” manca di pathos e gli acuti sono tutt’altro che luminosi. Massimo Cavalletti è un elegante Conte di Luna, qui personaggio meno cattivo del solito, che convince più nei momenti di riflessione lirica che in quelli di sdegno e gelosia. 

Arlecchino servitore di due padroni

© foto Bepi Caroli

Carlo Goldoni, Arlecchino servitore di due padroni

Regia di Valerio Binasco

Torino, Teatro Carignano, 8 ottobre 2018

Goldoni noir

Un morto ammazzato, un travestimento, fughe di ricercati, mistero. Sembrano gli ingredienti di un moderno thriller e invece si tratta di un’opera giovanile di Carlo Goldoni, Il servitore di due padroni (1745) con le maschere di Pantalone, Brighella, Smeraldina e Truffaldino. Ma essendo l’interprete che aveva commissionato il lavoro un famoso Arlecchino, la sua maschera soppiantò quella di Truffaldino fino ad arrivare al titolo, ormai standard a partire dalla mitica produzione di Giorgio Strehler.

Valerio Binasco neanche ci prova a confrontarsi con la commedia dell’arte strehleriana:  il suo Servitore richiama piuttosto la commedia all’italiana del secondo dopoguerra cui si rifanno i costumi di Sandra Cardini e gli ambienti di Guido Fiorato. E se non fosse per la parlata veneziana si potrebbe pensare di essere in una commedia di Eduardo.

Natalino Basso si carica del ruolo di Truffaldino/Arlecchino, il servitore che per mangiare due volte serve due padroni con risultati esilaranti, ma ne fa una maschera tutta sua, dolente in quanto vittima dei soprusi dei padroni – e come lui è Clarice, la donna che non vuol più essere sottomessa all’uomo. I momenti delle cinghiate ci ricordano i rapporti di forza nelle relazioni sociali e di genere dell’epoca, ma con un’eco disturbante alla realtà d’oggi.

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Die Zauberflöte

Wolfgang Amadeus Mozart, Die Zauberflöte (Il flauto magico)

Bruxelles, Teatro de La Monnaie, 28 settembre 2018

(video streaming)

Parlare dell’uomo all’uomo: Il flauto magico di Romeo Castellucci.

Chi l’avrebbe detto? Oggi le proposte artistiche più sperimentali non provengono dalle arti figurative, bensì da quelle performative, addirittura dai teatri d’opera, quella forma d’arte che molti davano per spacciata o vicina all’estinzione. E che invece è quanto mai viva e arzilla, perlomeno oltralpe. E grazie a teatri come quello della Monnaie di Bruxelles che ha il coraggio di proporre spettacoli che in Italia, la “patria del melodramma”, non arriverebbero neppure alla fine del primo tempo. Qui prevale la funzione museale e conservativa del genere e voci che minimamente si distaccano da una proposta che non sia usuale e stantia vengono presto coperte dai dissensi di certo pubblico.

Affidare un capolavoro al limite dell’usurato per le troppe proposte come Il flauto magico di Mozart a un regista come Romeo Castellucci significa non aspettarsi nulla di tradizionale e costringere il pubblico a fare uno sforzo per intendere le intenzioni del regista. E infatti il cesenate propone il suo Flauto in una maniera che dire inedita è poco. Che poi la sua lettura sia condivisibile è un altro paio di maniche.

Ecco quello che si vede in scena. Un uomo in tuta lancia una sbarra di metallo contro un tubo fluorescente acceso (“l’orizzonte dei lumi”?). Dopo alcuni tentativi andati a vuoto lo centra, la scena quindi piomba nel buio e attaccano finalmente le note dell’ouverture. Quattro uomini in nero e con maschere a gas “seppelliscono” il tubo ripiegando un telo colorato che alla fine ha la forma di una bara. Con l’inizio dell’opera un bianco lattiginoso riempie fino alla fine dell’atto la scena con costumi settecenteschi, piume candide e figurazioni del tutto simmetriche, come specchiate. Ovviamente le figure devono essere in numero pari per sostenere l’effetto, quindi i Tamino sono due, due i Papageno, le tre dame quattro. La Regina della notte no, è una sola. Ovviamente i doppi aprono la bocca in un sincrono più o meno riuscito. Nota: i cantanti veri sono a sinistra. I dialoghi non ci sono e i numeri musicali si succedono senza soluzione di continuità. Nemmeno i personaggi sono tali, sono statuine rotanti di un carillon che non racconta nessuna storia dietro un velatino che rende le immagini sfumate. Un prodigio di bravura che incanta ma viene presto a noia, in verità. Sullo sfondo stucchi rococo – architettura algoritmica di Michael Hansmeyer – sembrano inquietanti macchie di Rorshach tridimensionali sempre più invasive che soffocano la scena con il loro candore di meringa.

E questo era il primo atto. Come nella Jenůfa di Hermanis, il secondo è completamente differente.

Tre giovani donne offono il petto a dei tiralatte il cui rumore è l’unico suono fino alle note solenni del coro «O Isis und Osiris». Il latte viene versato in un tubo di vetro orizzontale come il tubo fluorescente di prima. Tutti sono in tute giallo kaki e parrucchino biondo, l’ambiente ha la squallida banalità di una sala riunioni di periferia. I dialoghi originali sono sostituiti da testi scritti dalla sorella del regista, Claudia Castellucci, e i protagonisti sono cinque donne non vedenti e cinque uomini che hanno avuto gravi ustioni col fuoco, che a turno raccontano l’esperienza della loro menomazione: le prove di iniziazione invece che dai due giovani sono già state sostenute dalle donne che hanno perso la vista (“accecate” dalla luce) e dagli uomini (“toccati” dal fuoco). Tanto la prima parte era impalpabile e incipriata quanto la seconda è dura e spietata, emotivamente quasi insopportabile e si affida a corpi segnati dal dolore. Il velo che filtrava le immagini della prima parte è sparito e ora ci sono storie di persone vere che portano in scena il loro coraggio e la loro sofferenza. Un’esperienza scioccante, ma i due mondi antitetici sono sovrapposti alla stessa musica, quella meravigliosa creazione umana che è la musica di Mozart. Ed è dell’uomo di cui parla la sua musica. «Non c’è amore senza un corpo» dice Papageno nel suo lungo monologo prima di incontrare la sua Papagena.

Cast vocale eccelso: dalla meravigliosa Sabine Devieilhe, attualmente insuperabile Regina della notte, all’eroico Tamino di Ed Lyon, dall’intensa Pamina di Sophie Karthäuser al vivace Papageno di Georg Nigl, dal Sarastro del profondo basso Gábor Bretz all’efficace e fascinoso Monostatos di Elmar Gilbertsson, dallo Sprecher impeccabile di Dietrich Henschel alla Papagena di Elena Galitskaya. In buca un sensibile Antonello Manacorda si adatta con grande professionalità alle esigenze del regista e riesce a dare una lettura impeccabile della partitura.

Alla Monnaie chi si aspettava l’evasione ha trovato la dura realtà: qualcuno si è arrabbiato, qualcuno si è commosso. Non sono mancate le emozioni, nella seconda parte.

Nessun dubbio della sincerità dell’operazione di Romeo Castellucci che continua nei suoi spettacoli la sua esplorazione del significato della malattia, ma certo è che questa produzione segna un altro passo verso un punto di non ritorno per la rappresentazione dell’opera lirica, vista come mero pretesto per veicolare il messaggio autre del regista. Impossibile dare un voto. Questo di Castellucci non è confrontabile con nessun altro Flauto.

Un’entusiastica analisi dello spettacolo si trova in questo articolo in rete: “Romeo Castellucci: toccare la luce” di Pietro Bianchi. Lasciamo a chi legge decidere quanto sia convincente e condivisibile.