Mese: novembre 2019

Euryanthe

★★★☆☆

«Musica stupenda, libretto pessimo» (1)

Euryanthe è dello stesso anno del Fierrabras di Franz Schubert, ma diversamente da questo e dalla tradizione del Singspiel tedesco su cui si erano basate Die Zauberflöte, Fidelio e Der Freischütz, questo lavoro è durchkomponiert, musicato da cima a fondo. Nonostante la debolezza del suo impianto drammatico, l’opera venne recepita come un modello fondamentale da alcuni dei maggiori esponenti del Romanticismo tedesco, in primis Wagner che nel Lohengrin dimostra il suo debito nei confronti del maestro.

Il libretto è di Helmina von Chézy, che nel 1804 aveva tradotto L’histoire de tres-noble et chevalereux prince Gerard conte de Nevers et de Rethel et de la vertueuse et tres chaste princesse Euriant de Savoye s’amye, racconto in prosa del 1520 tratto da un poema medievale il cui soggetto, la scommessa sulla fedeltà di una moglie, sarà tema anche per un racconto del Boccaccio (Giornata seconda, novella nona) e del Cymbeline di Shakespeare. La librettista non riesce a concentrare l’ampia trama dell’epica su elementi essenziali, né soddisfa le esigenze sceniche di un libretto d’opera e le assurdità del testo sono la ragione principale della riluttanza dei teatri d’opera a mettere in scena un’opera che per Weber costituì invece il suo progetto più ambizioso.

Atto primo. In una sala del castello di re Luigi VI di Francia, il conte Adolar canta una romanza in cui tesse le lodi della moglie Euryanthe. Il conte Lysiart non crede alla fedeltà della giovane e scommette di poterla sedurre con facilità. Il marito accetta la sfida mettendo come posta i suoi possedimenti. Euryanthe, che ha giurato ad Adolar di non rivelare mai che la sorella di lui, Emma, si è uccisa con del veleno contenuto in un anello, si lascia indurre a parlare con Eglantine, giovane a cui ha dato rifugio, credendola amica, mentre in realtà è falsa e subdola; le rivela così che di notte prega sulla tomba di Emma il cui fantasma le è apparso e le ha confessato che, solo quando le lacrime di una fanciulla innocente bagneranno l’anello che conteneva il veleno, potrà avere la pace eterna. Eglantine giura di mantenere il segreto, ma pensa già di tradirla.
Atto secondo. Lysiart conferma di voler continuare nel suo piano perverso, mentre Eglantine, che ha prelevato l’anello nascosto nella tomba di Emma, si incontra con lui, gli affida l’anello ed accetta la sua proposta di matrimonio. Lysiart si reca quindi al castello regale, dove si trovano Adolar ed Euryanthe, affermando di avere la prova del tradimento della giovane e mostra l’anello dichiarando di conoscerne il segreto. Adolar si convince che la moglie gli sia stata infedele e, vinto, lascia ogni suo bene e si allontana con lei verso luoghi inospitali.
Atto terzo. In una gola fra i monti Adolar pensa di uccidere Euryanthe quando viene attaccato da un serpente; la giovane si interpone tra esso e il marito per salvarlo; l’uomo uccide la bestia, ma non ha il coraggio di fare altrettanto con la moglie e decide di abbandonarla. Sopraggiunge Re Luigi in persona con un gruppo di cacciatori; Euryanthe gli racconta la sua storia ed il tradimento di Eglantine. Nel frattempo il matrimonio tra questa e Lysiart sta per avere luogo, ma all’improvviso appare Adolar nascosto da un’armatura nera; egli rende nota la sua identità e sfida a duello Lysiart. Il re però impedisce il combattimento, rivela l’innocenza di Euryanthe e racconta che la giovane è morta. Eglantine, trionfante, svela il complotto scontrandosi con Lysiart che la uccide. L’uomo viene trascinato via mentre Euryanthe sopraggiunge e corre piangendo tra le braccia di Adolar; le sue lacrime, bagnando l’anello, donano finalmente la pace al fantasma di Emma.

«L’opera era stata commissionata da Domenico Barbaja, all’epoca impresario del viennese Teatro di Porta Carinzia. Weber era reduce dal successo clamoroso del Freischütz e gli veniva richiesta proprio un’opera che ricalcasse le orme di quel capolavoro. Tuttavia la fantasia creativa del compositore era già attratta da altre soluzioni formali: in particolare era sua intenzione superare il modello del Singspiel, sostituendo i dialoghi parlati tipici di questo genere e creando così una struttura totalmente musicale che prevedesse anche il recitativo di tradizione italiana. Dietro questa intenzione si celava il desiderio di affrancare il proprio progetto di opera tedesca dalle accuse di facile cedimento all’elemento popolare, nonché la volontà di competere con i connazionali Spohr e Mosel. […] Se la fortuna dell’opera non fu grande, ciò è dovuto anche alla musica di Weber, che rappresenta uno dei tentativi più avanzati, in quegli anni, di creare un organismo musicale continuo, in grado di abolire le divisioni tra i pezzi chiusi, di tipo lirico, e i dialoghi, durante i quali procede l’azione. Un tentativo accompagnato dall’utilizzo esteso di motivi ricorrenti, quasi dei motivi conduttori, aspetto che pone l’opera alle soglie dell’esperienza del teatro di Wagner. I connotati di Euryanthe apparvero poco tollerabili al pubblico dell’epoca: mentre i direttori iniziarono a operare vasti tagli nella partitura, Schubert, da parte sua, criticò il rapporto tra le voci e l’orchestra. Il valore della musica si manifesta al meglio nella caratterizzazione delle singole situazioni, affidata in misura rilevante al complesso tessuto orchestrale. Diverse melodie presentate nell’ouverture ricompaiono, a guisa di motivi conduttori per tutta l’opera, conferendole così una notevole compattezza tramite mezzi puramente musicali. Ciò avviene, ad esempio, durante la scommessa e la descrizione del fantasma di Emma nel primo atto e nell’aria di Adolar nel secondo, mentre la coppia malvagia – che fungerà da modello per i personaggi analoghi che appariranno in Lohengrin – viene accompagnata costantemente da una musica cromatica, tortuosa e armonicamente inquietante». (Raffaele Mellace)

Dopo la sporadica comparsa al Maggio Fiorentino con Carlo Maria Giulini, per un’opera così desueta chi se non il Lirico di Cagliari poteva pensare di metterla in scena? Infatti, una produzione allestita da Pier Luigi Pizzi inaugura la stagione del 2002 e viene prontamente registrata per la Dynamic. Sulla regia meglio stendere un velo pietoso, giacché è praticamente inesistente: il lavoro di Pizzi è tutto concentrato sulla scenografia gotico-romantica e sul paesaggio roccioso, che hanno ovviamente nobili rimandi pittorici, mentre sui costumi si scatena con una fantasia disneyana di calzamaglie, stivali e guanti da principi azzurri per gli uomini, abiti da principesse nella torre per le donne e da Robin Hood per i cacciatori.

Direzione molto brillante di Gérard Korsten a capo di un’orchestra particolarmente dotata. Voci belle e generose quelle di Elena Prokina e Yikun Chung, magari non molto espressive. L’espressività è nei personaggi “cattivi” di Eglantine e Lysiart efficacemente affidati a Jolana Fogašová e Andreas Schneiber; Luca Salsi è il Re mentre come Rudolph si intravede un giovanissimo Pavel Černoch. Fredy Franzutti è autore di coreografie di cui si farebbe volentieri a meno.

(1) Parole di Elvio Giudici che del libretto sottolinea «la goffaggine sentenziosa alternata a leziosità bamboleggianti con cui i versi dipanano [la vicenda]».

  • Euryanthe, Trinks/Loy, Vienna, 12 dicembre 2018

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La voix humaine

Francis Poulenc, La voix humaine

Torino, Teatro Vittoria, 8 novembre 2019

Sala d’attesa per l’aldilà

Secondo il suo malizioso autore, lo spunto per la scrittura di questo lavoro fu l’immagine della Callas che spingeva dentro le quinte Mario Del Monaco per prendersi lei tutti gli applausi alla fine di una recita: da qui era nata l’idea di un’opera per una sola cantante – anche se poi il 6 febbraio 1959 all’Opéra Comique La voix humaine non fu portata in scena dalla Maria, bensì da Denise Duval.

“Esperimento teatrale” che circoscrive spazio e tempo a una sola dimensione – un atto, una camera, un personaggio – il libretto è tratto dall’omonima pièce di Jean Cocteau rappresentata alla Comédie-Française il 17 febbraio 1930. Il testo originale è particolare anche dal punto di visto tipografico con quelle fitte righe di puntini di sospensione e le rarissime didascalie, tra cui quella finale: «Le récepteur tombe par terre».

L’opera si ambienta a Parigi in una camera da letto, sul cui pavimento giace esanime la protagonista della quale non viene mai fatto il nome e sarà indicata come una generica “Lei” (Elle). La donna viene svegliata dallo squillo del telefono: dopo due chiamate di persone che hanno sbagliato numero, viene contattata dal suo amante e i due avranno una lunga e dolorosa conversazione a proposito della loro relazione terminata da poco. La telefonata sarà spesso interrotta a causa della cattiva ricezione e da alcune interferenze; inoltre lo spettatore sentirà solo ciò che dice la donna, intuendo le battute dell’amante dai suoi silenzi e dalle risposte che Lei gli dà. L’inizio del dialogo è ai limiti della banale: tra frasette sdolcinate e luoghi comuni romantici, Lei racconta all’uomo di essere appena tornata da una cena con la sua amica Martha, e di aver poi preso un sonnifero a causa di un’emicrania. Presto però le cose si fanno più tese: l’uomo le chiede indietro alcuni effetti personali che ha lasciato a casa sua e Lei promette di restituirglieli. Parlando della fine della loro storia, Lei se ne assume tutta la colpa, poi prende a rievocare tristemente i loro momenti felici, tra i quali la gita a Versailles durante la quale si sono conosciuti, ma a questo punto cade la linea. Lei tenta di ricontattare il suo ex telefonando a casa sua, ma scopre che lui non si trova lì: è lui che la richiama subito dopo, spiegandole di essere in un ristorante. A quel punto Lei, già molto provata, gli rivela di aver mentito circa ciò che ha fatto poco prima: non è uscita con Martha, ma si era preparata per venire sotto casa sua e attenderlo per parlargli; non trovando il coraggio di farlo, aveva preso dodici pastiglie di tranquillanti con l’intenzione di suicidarsi, ma si era poi salvata grazie all’intervento di Martha e di un suo amico medico. L’uomo reagisce con freddezza a questa notizia e sposta subito il discorso su un altro argomento, il proprio cane, rimasto a casa di Lei. Poco dopo la telefonata si interrompe di nuovo, stavolta a causa dell’interferenza della donna che aveva sbagliato numero all’inizio del dramma, ma che ora si rivela inquietantemente interessata a spiare il discorso tra i due ex-amanti. L’uomo la richiama, ma a questo punto Lei è quasi completamente fuori di sé: dai rumori di fondo ha compreso che lui non si trovi, come ha detto, in un ristorante, ma probabilmente a casa di una sua nuova partner. L’uomo inizia a incalzarla perché riagganci; Lei, ormai conscia che quella telefonata sia l’unico filo che la tiene unita al suo amante, decide di troncare con un solo gesto la chiamata, la relazione e, probabilmente, anche la propria vita: si stringe il filo del telefono al collo. Come ultima richiesta al suo antico amore, poiché questi ha in precedenza detto di dover andare a Marsiglia nei giorni seguenti, Lei lo implora di non alloggiare nello stesso albergo dove hanno dormito insieme tempo prima, ormai consapevole che vi si recherà con la sua nuova donna. Dopodiché è lei a chiedergli insistentemente di chiudere la telefonata e al suo saluto non può che rispondere balbettando «Ti amo», mentre scivola dal letto e lascia cadere il ricevitore, probabilmente strangolata dal filo del telefono.

Interessanti sono le avvertenze dell’autore sull’interpretazione musicale: «1.Le rôle unique de La voix humaine doit être tenu par une femme jeune et élégante. Il ne s’agit pas d’une femme âgée que son amant abandonne; 2. C’est du jeu de l’interprète que dépendra la longueur des points d’orgue, si importants dans cette partition. Le chef voudra bien en décider minutieusement, à l’avance, avec la chanteuse; 3.Tous les passages de chant sans accompagnement sont d’un tempo très libre, en fonction de la mise en scène. On doit passer subitement de l’angoisse au calme et vice versa; 4 L’œuvre entière doit baigner dans la plus grande sensualité orchestrale». (1)

Opera ridotta ai minimi termini, qui al teatro Vittoria La voix humaine è ancora ridotta in estrema sintesi a un pianoforte che deve riprodurre quella «sensualité» presente nella partitura orchestrale. Compito non facile, ma Alessandro Boeri riesce nell’impresa con un tocco preciso che mette a nudo l’articolata struttura della musica di Poulenc mentre lo strumento solo dà un colore di café chantant all’esecuzione in cui alle nervose dissonanze e ai  suoni materici (come quello dello squillo del telefono) si affiancano languidi temi come di chansons francesi del dopoguerra.

L’estenuante monologo, scandito dai silenzi (points d’orgue, punti con corona) di quello che viene detto all’altro capo del filo telefonico, è sostenuto da Cristina Mosca con infaticabile dedizione. L’operina di Poulenc è un catalogo delle espressioni e dei sentimenti e qui il giovane e temperamentoso soprano riesce a delineare con maestria l’iter doloroso della donna che ha la conferma di venire abbandonata. Il canto di conversazione trova nella Mosca un’attenta interprete in cui i moti di angoscia, i toni infantili di certe implorazioni, la sconsolata presa di coscienza definitiva, sono espressi con grande sensibilità, ma anche vigore, come quando la voce cresce quasi fino all’urlo in «Je devenais folle!».

Esperimento nell’esperimento, ai minimi termini sono anche la messa in scena e soprattutto la libertà d’azione dell’interprete, qui su una sedia a rotelle con vistose fasciature che fanno intendere sia stata vittima di un incidente. Se le note di Cocteau, autore del libretto, indicano: «Le rideau découvre une chambre de meurtre. […] une femme en longue chemise est étendue, comme assassinée», qui invece la donna non è sola e non è certo in una camera: assieme ad altri sette “passeggeri” aspetta di essere imbarcata per l’ultimo volo, quello senza ritorno. L’idea della regista Lucia Falco è appunto quella di ambientare l’ultima telefonata in un aeroporto, con i soliti i rumori e le voci di fondo. Lettere, cartoline, biglietti, piccoli oggetti riempiono la valigia della protagonista mentre, come in una pièce di Beckett, un ricevitore telefonico pende da un lungo filo che scende dall’alto. Liberatasi dalle bende – quella al polso suggerirebbe un tentativo (riuscito?) di suicidio – la donna a fatica si alza dalla sedia a rotelle, calza le scarpe (rosse come quelle delle manifestazioni sui femminicidi) e si mette anche lei in coda con gli altri per l’imbarco.

Lo spettacolo è parte di un più ampio progetto, dice la regista, «una trilogia sull’amore al femminile che attraversa epoche ed autori, unendo con un filo rosso le storie di Elle, Carmen e Judith [Il castello del duca Barbablù di Bartók]», i prossimi appuntamenti della rassegna “Opera Off”.

(1) 1. L’unico ruolo di La voce umana deve essere ricoperto da una donna giovane ed elegante. Non è una donna anziana che il suo amante abbandona; 2. Dipenderà dall’interprete la lunghezza delle pause, così importanti in questa partitura. Il direttore d’orchestra farà attenzione a deciderne attentamente la durata con la cantante prima; 3. Tutti i passaggi vocali non accompagnati hanno un tempo molto libero, a seconda della messa in scena. Si passa bruscamente dall’angoscia alla calma e viceversa; 4. L’intera opera deve essere immersa nella più grande sensualità orchestrale.

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  • Le château de Barbe-Bleu / La voix humaine, Salonen/Warlikowski, Parigi, 12 dicembre 2015
  • La voix humaine / Cavalleria rusticana, Mariotti/Dante, Bologna, 9 aprile 2017
  • Il segreto di Susanna / La voix humaine, Matheuz/Lagarde, Torino, 16 maggio 2018
  • La voix humaine / L’heure espagnole, Deseure/Lachaussée, Maastricht, 14 novembre 2020

Die ägyptische Helena

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Richard Strauss, Die ägyptische Helena (The Egyptian Helen)

★★★★☆

Milan, Teatro alla Scala, 6 November 2019

   Qui la versione italiana

The face that launched a thousand ships: Strauss’ Helena lands at La Scala

The penultimate collaboration between Hugo von Hofmannsthal and Richard Strauss, Die Aegyptische Helena (The Egyptian Helen), is on stage for the first time at La Scala and for only the second time in Italy since the 1928 premiere in Dresden. The librettist had proposed to the composer the Hellenistic subject of the beautiful Helena, the woman for whom the Trojan War had broken out, but the text combines the Homeric myth with Euripides.

Returning from Troy, Helen’s husband Menelas plans to kill the woman who betrayed him…

continues on bachtrack.com

Die ägyptische Helena

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Richard Strauss, Die ägyptische Helena (Elena egizia)

★★★★☆

Milano, Teatro alla Scala, 6 novembre 2019

  Click here for the English version

Approda alla Scala la nave di Menelao. A bordo Elena, la “bella tra le belle”

Per la prima volta alla Scala, e la seconda volta in Italia dal 1928, anno della prima rappresentazione a Dresda, viene rappresentata Die ägyptische Helena (Elena egizia), la penultima collaborazione di Hugo von Hofmannsthal con Richard Strauss. Il librettista aveva proposto al compositore il soggetto ellenistico della bella Elena, la donna a causa della quale era scoppiata la Guerra di Troia, ma il testo mescolava il mito omerico con quello euripideo. Di ritorno da Troia Menelao ha intenzione di uccidere la moglie che l’ha tradito, ma la maga Etra impedisce il delitto facendo naufragare la nave su un’isola vicino all’Egitto, dove il re beve una pozione che gli fa credere che non fosse stata Elena a lasciarlo, ma che ad andare a Troia con Paride fosse stata una sua immagine fantasmatica e che la donna per tutto questo tempo fosse stata addormentata. Ora essa viene riconsegnata al marito fedele e bella come era all’inizio. Il risultato è la riconciliazione dei due coniugi dopo un episodio in cui compaiono dei guerrieri del deserto guidati da Altair e dal figlio Da-ud.

Atto primo. Su una una piccola isola non lontano dall’Egitto, la maga Etra, compagna del re del mare Poseidone, viene a sapere da un’enorme conchiglia onnisciente che Menelao si trova su una nave con la moglie Elena e sta per ucciderla. Etra scatena allora una tempesta per impedire il delitto. Scaraventata dalle onde, la nave dei due giunge sull’isola e Etra, non veduta, ode il dialogo tra i due sposi: Menelao non sopporta il tradimento inflittogli da Elena fuggendo con Paride, e perciò ha tentato di ucciderla, nonostante ella avesse già manifestato il suo pentimento. A questo punto Etra scatena contro Menelao gli elfi e dà un riparo a Elena presso il suo palazzo. Quando Menelao torna dal combattimento con gli elfi, Etra gli fa bere una pozione che cancella la memoria e gli racconta che quella amata da Paris non era che un’ombra: la vera Elena era stata condotta al palazzo molto tempo prima dal padre di Etra e lì aveva sempre dormito, sognando il ritorno dello sposo. Infine mette al corrente Elena del suo operato e indica ai due la dimora che ha preparato per loro ai piedi dell’Atlante.
Atto secondo. Ai piedi dell’Atlante, mentre Menelao dorme ancora, Elena esprime con il canto la gioia per la seconda notte di nozze appena trascorsa con lui. Giungono però i guerrieri del deserto guidati da Altair e da suo figlio Da-ud, entrambi attratti dalla bellezza di Elena. Menelao, geloso, scambia Da-ud per Paride, ma accetta l’invito di questi a recarsi con lui a caccia. Appare Etra per avvisare Elena di averle dato non solo la pozione che cancella la memoria ma anche quella che la restituisce. E mentre Elena respinge le profferte amorose di Altair, giungono i servi a riferire che Menelao ha trafitto Da-ud. Elena porge a Menelao, fuori di sé, la pozione della memoria: dapprima ritorna animato da sentimenti di vendetta ma poi, complici gli occhi innamorati della moglie, le accorda il perdono accettando le contrapposte immagini delle due Elena. Etra scaccia Altair e gli sposi possono ricongiungersi e riabbracciare la figlia Ermione, richiamata presso di loro da un nuovo sortilegio della maga.

Quasi coeva di Intermezzo, l’altro dramma borghese che parla della crisi di una coppia, qui la vicenda dei coniugi è intercalata da irruzioni dell’elemento fantastico, con pozioni magiche, folletti e miraggi. Hofmannsthal vuol quasi farsi gioco dell’elemento psicologico nell’arguto libretto che presenta gli opposti caratteri della tragedia e della commedia, del mito e della storia. Di conseguenza il vocabolario musicale è molto variegato, ricco di melodie, anche se non è mai definito un confine rigido tra l’aria e il recitativo: tutto si regge su un arioso che si adatta alle diverse situazioni. Nonostante un imponente organico strumentale, l’orchestrazione è leggera e alla ricerca di un edonistico colore esotico ben messo in evidenza dal direttore Franz Welser-Möst, specialista straussiano che ritorna nel teatro milanese pochi mesi dopo l’Ariadne auf Naxos. Sotto la sua bacchetta l’orchestra del teatro dà vita a una lussureggiante partitura che richiama l’esotismo della Salome, ma qui raramente se ne raggiungono i climax drammatici. Al contrario l’orchestra è straordinariamente trasparente come quando l’apparizione di Elena nel primo atto avviene su un motivo ondeggiante che ricorda l’inizio del Ring wagneriano. Che siamo negli anni ’20 ce lo ricordano poi le dissonanze che accompagnano la figura di Da-ud.

Il difficile compito di equilibrare la buca con le voci in scena è ottenuto dal direttore austriaco anche grazie a degli interpreti di eccezione che hanno nel Menelas di Andreas Schager il punto più alto. La sua è una voce di Heldentenor che unisce alla potenza sonora impressionante il colore abbagliante del timbro. Uno dei più rinomati Siegfried dei nostri giorni, qui nel faticante ruolo del re spartano non dimostra mai un attimo di stanchezza. Gli fa da contrappunto un’altra cantante wagneriana, prossima Brünnhilde a Madrid, Ricarda Merbeth, che rappresenta la donna di bellezza ideale per eccellenza – il tema della bellezza è l’idea fissa di un libretto in cui le parole schöhne, schöhnste, Schöhnheit sono ossessivamente ripetute più di trenta volte e «O Schönste der Schöhnen» (O tra le belle la più bella) è il saluto iterato dagli elfi. Lunghi capelli biondi e sfavillante abito di paillettes azzurre, il soprano tedesco concentra soprattutto nella voce l’incanto seduttore del personaggio e anche se eccessivamente vibrato il timbro è luminoso e gli acuti sicuri. Eva Mei è la Maga Aithra, il lato seducente della magia, a suo agio nella lingua tedesca anche se non sempre la voce riesce a bucare l’orchestra. Una piacevole conferma è la proprietà di dizione di Thomas Hampson che utilizza al meglio i mezzi vocali in suo possesso e anche se deve rinunciare agli acuti, riesce però a delineare la figura di Altair con molta eleganza. Importanti si sono rivelati gli interventi del coro, distribuito nei palchi di proscenio, e preparato da Bruno Casoni.

Della messinscena di Sven-Eric Bechtholf si ammira la capacità di dare consistenza a questa strampalata vicenda con la chiave dell’ironia: la scena disegnata da Julian Crouch è occupata da un enorme apparecchio radiofonico degli anni ’30 che funge da guscio della onnisciente conchiglia, copia gigantesca di quella da cui Aithra e le sue ancelle sentono le “notizie” della coppia che ritorna da Troia. La scatola intarsiata di radica si apre nel secondo atto per rivelare all’interno le “valvole” che racchiudono i guerrieri del deserto. Le videoproiezioni di Josh Higgason, il gioco luci di Fabrice Kebour e gli elegantissimi costumi di Mark Bouman declinati sugli abiti anni ’20 in stile déco per i personaggi femminili hanno reso particolarmente attraente questa rara proposta. Il pubblico non foltissimo ha tributato calorosi applausi allo spettacolo dimostrando particolare apprezzamento per Andreas Schager e il direttore Franz Welser-Möst.

TEATRO MUNICIPAL

Teatro Municipal

Santiago (1857)

1500 posti

Un decreto del 1853 del presidente Manuel Montt prevedeva la costruzione di un teatro municipale nella capitale della sua nazione, una città in rapida crescita. L’architetto cileno francese Claudio Brunet des Baines fu incaricato della sua progettazione e la costruzione fu affidata a un altro ingegnere civile cileno, Felipe Charme de l’Isle. Brunet des Baines creò un esterno neoclassico francese per il teatro, sebbene la sua morte nel 1855 lasciasse la supervisione del progetto al suo connazionale, Lucien Henault e all’assistente di quest’ultimo, Manuel Aldunate. Il nuovo team beneficiò anche di una collaborazione con Charles Garnier, l’architetto dell’Opéra national de Paris. Il Teatro Municipale fu inaugurato il 17 settembre 1857, con l’opera Ernani, eseguita da una compagnia italiana portata appositamente per l’occasione. All’epoca il teatro ospitava 1.800 spettatori e includeva particolari dettagli al suo interno, come un lampadario a goccia in cristallo. L’8 dicembre 1870 l’esibizione della diva dell’opera Carlotta Patti fu seguita da un enorme incendio, che praticamente distrusse l’edificio. Una rapida risposta sia del governo locale che dell’alta società cilena portò alla pronta ricostruzione del teatro, progettata da Henault e completata il 16 luglio 1873. La sua reinaugurazione fu accompagnata da una rappresentazione de La forza del destino di Verdi.

A causa di un terremoto nel 1906 il teatro subì la perdita della maggior parte dei suoi interni. Seguì un secondo grave incendio nel 1927, anche se si riprese rapidamente in entrambe le occasioni. A seguito di queste ricostruzioni, la capacità del teatro fu ridotta a 1.500, ma il suo interno divenne più opulento. Fu ulteriormente modernizzato nel 1952 e nel 1959 e in quell’epoca furono create numerose istituzioni culturali per il teatro: l’Orchestra Filarmonica di Santiago fu fondata nel 1955, la Corporazione Culturale di Santiago fu formata per amministrare il centro nel 1957, il Balletto di Santiago nel 1959 e il Coro del Teatro Municipale nel 1962. Il Teatro Municipale fu dichiarato Monumento Nazionale nel 1974 e ospitò le due edizioni del Festival OTI in Cile, nel 1978 e nel 1986. Il rinomato pianista cileno Claudio Arrau, che aveva lasciato la sua terra natale nel 1941, tornò per una visita nel 1984, in occasione della quale fu inaugurato il Salone Claudio Arrau, con 250 spettatori. Il sipario, installato nel 1926, fu sostituito nel 1995 con una raccolta fondi, offrendo ai donatori un pezzo della vecchia tenda come ricordo.

 

Don Giovanni

Wolfgang Amadeus Mozart, Don Giovanni

★★☆☆☆

Roma, Teatro dell’Opera, 27 settembre 2019

(video streaming)

En attendant Don Giovanni

Con questo Don Giovanni Graham Vick completa la sua trilogia dapontiana all’Opera di Roma, dopo il Così fan tutte del gennaio 2017 e Le nozze di Figaro dell’ottobre 2018. È almeno la sesta volta che il regista mette in scena la vicenda del “dissoluto punito” e forse proprio per averle già provate tutte questa volta ne fornisce una lettura con idee spesso discutibili.

In una scena beckettiana disegnata da Samal Blak, una pedana di legno in diagonale che si protende con uno spigolo sulla buca dell’orchestra, sotto una pioggia versata da un secchio, Leporello si ripara con l’ombrello («piova e vento sopportar») mentre don Giovanni e donna Anna, lui in mutande lei in sottoveste, recuperano i vestiti appesi ai rami di uno scheletrico alberello che sarà sempre presente come unico elemento scenico. Donna Anna non sembra molto spaventata dall’irruzione del Cavaliere, caso mai dal suo voler andare via. Così ovviamente l’agnizione della scena XIII perde senso, oppure fa di donna Anna un’ipocrita bugiarda. Il Commendatore entra in scena con un deambulatore, ma don Giovanni non ne ha pietà e abbatte il vecchio a colpi di randellate per poi soffocarlo con gli slip della figlia… Sì, il don Giovanni di Vick è proprio «a bad boy», come dichiara il regista. Ma a chi interessa un sociopatico così banale e svogliato?

Don Ottavio in pigiama e ciabatte e donna Anna in felpa e calzettoni sono l’ulteriore tocco di sciatteria. Vick ci fa capire che non ci sono allusioni o sottintesi nella sua lettura: in un’opera che è tra le più ambigue e inafferrabili, tutto è sempre chiaramente, implacabilmente evidente. Come quando Zerlina canta «Batti batti o bel Masetto» e sul fondo della scena coppie sono impegnate in acrobazie amorose. O come quando Donna Elvira si presenta in abito da suora, anticipando la sua decisione nel finale («Io me n’ vado in un ritiro | a finir la vita mia!»), attaccando sui muri e all’albero una foto dell’ex amante/marito, come si fa per il cagnolino smarrito al parco. Il realismo scelto da Vick lo porta a immiserire i personaggi che perdono qualunque grandezza drammatica e quindi il significato della loro esistenza in scena. Così l’identità di donna Anna si perde nella figura della barbona scarmigliata con le borsone di plastica in cui don Ottavio getterà la scatolina dell’anello delle sua proposta di matrimonio. Donna Elvira, suorina senza pace, affonderà la faccia nella torta di panna che ha portato per la cena di don Giovanni e la festa a casa del Cavaliere sembrerà più che un’orgia squallida, un raduno di invasati. Il Commendatore non appare come una statua bensì come un becchino che scava una fossa, certo non per sé ma neanche per don Giovanni, che nel finale infatti non muore, ma esce da una parte per poi ritornare senza che nessuno si stupisca, per salire sull’alberello a osservare da lì il concertato di «Questo il fin di chi fa mal». Mai il finale del Don Giovanni è sembrato più inconclusivo.

Non solo per il costume di donna Elvira Anna Bonomelli ha avuto poco da faticare: Leporello e don Giovanni vestono l’identico completo grigio da impiegato di banca, rendendo così vano il gioco dei reciproci travestimenti, per non parlare delle differenze di classe, cosa non proprio trascurabile in un’opera del Settecento, questa soprattutto. Qui esse  sono completamente rimosse, come rimosso è l’equilibrio tra comico e tragico. Tutto è uniformemente grigio, e non solo nei costumi. Scelta la versione di Praga, fin dalle prime note dell’ouverture si capisce che Jérémie Rhorer non ha intenzione di lasciare un segno particolare, diversamente da quello che aveva fatto ad Aix-en-Provence. La sua lettura per di più evidenzia un’orchestra pesante e imprecisa, tempi dilatati (un «Là ci darem la mano» plumbeo) e recitativi trascinati. In generale predomina un tono che non è né tragico né buffo («Dramma giocoso» dice il libretto!) che appiattisce l’azione musicale.

Se in una produzione del Don Giovanni il migliore interprete è quello di Don Ottavio, vuol dire che qualcosa nel casting è andato storto. Alessio Arduini è scenicamente piacevole e vocalmente corretto, ma niente di più. La grandezza del personaggio di Don Giovanni non esce mai fuori, neppure per un momento – e meno che mai la sua “nobiltà”, piuttosto la sua “miseria” quando mangia gli spaghetti con le mani alla stessa tavola da osteria del servitore. Arduini ha una voce simile a quella di Vito Priante, un Leporello che dovrebbe essere complementare al suo padrone (uno rappresenta la dimensione tragica, l’altro quella comica), ma qui invece è la sua copia indistinguibile. Ammirata l’eleganza e proprietà stilistica del don Ottavio di Juan Francisco Gatell, tra gli interpreti maschili rimane il Commendatore di Antonio Di Matteo, pregevole ma tra i peggio serviti dalla regia. Donna Elvira è Salome Jicia, non sempre controllata vocalmente, più precisa ma leggera la donna Anna di Maria Grazia Schiavo. Il trio delle maschere è comunque tra i momenti migliori, vocalmente, dello spettacolo. Poco caratterizzata la coppia Zerlina e Masetto, Marianne Croux ed Emanuele Cordaro.

Richard Strauss

 

Giangiorgio Satragni, Richard Strauss dietro la maschera, gli ultimi anni

2015 EDT, 426 pagine

Il libro di Satragni è un punto fermo sulla biografia e l’opera del compositore tedesco, oggetto delle critiche malevoli quanto superficiali di cui è stato vittima soprattutto dalla storiografia italiana.

Partendo dalla funzione del mito, presente in tre delle sue opere della maturità (Die ägyptische Helena, Daphne, Die Liebe der Danae), l’autore analizza i lavori per teatro dei suoi ultimi anni per evidenziare  la profonda visione del mondo, dell’arte e della storia da parte del musicista. «Nella filosofia come nelle arti, le creazioni estreme di un autore rappresentano spesso la chiave per interpretare il suo intero lascito: perché ciò non dovrebbe valere anche per Richard Strauss ? La luce radente del tramonto o i limpidi raggi lunari possono, nel suo caso, illuminare quanto se non più di uno sfolgorante mezzogiorno».