Mese: dicembre 2024

La grande magia


Eduardo de Filippo, La grande magia

Regia di Gabriele Russo

Torino, Teatro Carignano, 18 dicembre 2024

La commedia più pirandelliana di Eduardo

Come nel caso del Gedankenexperiment quantistico di Schrödinger – il paradosso del gatto in una scatola sigillata di cui non si sa se è vivo o morto – così avviene della moglie di Calogero Di Spelta: Marta, volendo incontrare segretamente il suo amante, per sfuggire alla continua sorveglianza del marito geloso corrompe il mago Marvuglia organizzando il trucco della sua sparizione durante uno spettacolo di magia in un grande albergo di una località termale. Il mago riesce a convincere il marito geloso e disperato che in realtà la moglie non è sparita ma è rimasta intrappolata in una scatola e l’apertura della stessa significherebbe accettare la realtà del tradimento e il fatto che lei se ne sia andata. Calogero, cioè, potrà riabbracciare sua moglie, di cui ha sempre sospettato, a condizione di accettarne il tradimento senza mai più dubitare della sua fedeltà, altrimenti ella sparirà definitivamente. L’uomo si abbandona alla sua follia vivendo senza mai separarsi dalla scatola e senza aprirla, preferendo quindi credere all’illusione che ella sia lì dentro, sempre con sé e fedele al suo amore. Ma passano quattro anni e Marta, abbandonata dall’amante, decide di tornare dal marito che però, prigioniero della sua illusione, respinge quella donna per lui estranea: se Marta fosse la donna ricomparsa vorrebbe dire che lo aveva abbandonato e tradito, per cui è meglio continuare a credere che sia ancora nella scatola, fedele e innamorata di lui. 

Con La grande magia Eduardo ha abbandonato le illusioni della giovinezza, anche queste un trucco della vita, e ha scoperto l’inganno delle vicende umane. Siamo nella fase della “Cantata dei giorni dispari”, dove la vita presenta il conto di tutte le sue amarezze e disillusioni. Quando Eduardo scrisse e mise in scena La grande magia nel 1948 il pubblico rimase spiazzato: in un’Italia che cercava ancora di riprendersi dalla guerra, lo spettacolo, con la sua atmosfera onirica e filosofica, sembrò troppo distante dai drammi quotidiani a cui Eduardo aveva abituato gli spettatori e la commedia non fu un grande successo. Troppe metafore, troppi livelli di lettura. Pirandello, con Così è (se vi pare) e i Sei personaggi in cerca d’autore, aveva già scardinato le certezze del pubblico: la realtà non è mai oggettiva, ma sempre una costruzione, un’interpretazione. Eduardo, ci aveva aggiunge un tocco tutto suo: mentre Pirandello gioca con la mente e con le strutture teatrali, Eduardo ci mette il cuore. La crisi di Calogero, che costruisce un mondo fittizio per sopravvivere alla propria mediocrità, non è solo un esperimento filosofico, ma un dramma profondamente umano. 

Con il tempo si è riconosciuta la potenza di questo lavoro che non è solo una riflessione sulla verità e sull’illusione, dove l’illusione si sostituisce prepotentemente alla realtà, ma uno specchio della nostra modernità. Se all’estero La grande magia ha conosciuto diverse interpretazioni e letture, in Italia resta insuperata e quasi unica quella del 1985, portata anche a Parigi, di Giorgio Strehler che la volle come terzo capitolo della “Trilogia dell’Illusione”, insieme a La tempesta di Shakespeare e a L’illusion comique di Corneille. Ora La grande magia è messa in scena da Gabriele Russo per la stagione del Teatro Stabile di Torino. Una coproduzione della Fondazione Teatro Bellini di Napoli, il Teatro Biondo di Palermo e l’ERT, Emilia Romagna Teatro. 

Entrando nella sala del Carignano, il progetto sonoro di Antonio Della Ragione forma un primo impatto per il pubblico, quello acustico: un fondale continuo di suoni che creano un’atmosfera straniante, quasi onirica, alla David Lynch. Il sipario è già aperto sulla scenografia di Roberto Crea: il giardino dell’albergo con le piante in vaso, una passerella metallica sopraelevata e un pannello di velatino che occulta oppure lascia passare la vista di quanto succede dietro. Con le luci di Pasquale Mari i colori sono lividi. Nel secondo atto l’abitazione del mago Marvuglia è una Wunderkammer inondata di luce calda, nel terzo l’appartamento di Spelta è un ambiente vuoto e semibuio, un luogo della mente più che uno spazio reale.

A preludio della vicenda si ascolta la voce di Eduardo nell’introduzione alla versione televisiva del 1964 definire La grande magia «una frattura» nel corpus delle sue opere, «non definitiva ma significativa, per quello che poteva essere un nuovo teatro, un nuovo linguaggio». Un soggetto «un po’ scabroso, assurdo, che procede per simbolismi». Ed è infatti la cifra dell’assurdo a connotare la lettura di Gabriele Russo e la recitazione degli attori di cui il regista preserva le cadenze regionali. Il Marvuglia di Michele di Mauro usa le mille intonazioni della voce in maniera istrionica e virtuosistica per delineare il suo personaggio cinico ma umano, Natalino Basso dà vita al personaggio di Spelta cocciuto nella sua chiusa tragica follia. Tutti efficaci gli altri interpreti: Veronica D’Elia, Gennaro Di Biase, Christian Di Domenico, Maria Laila Fernandez, Alessio Piazza, Manuel Severino, Sabrina Scuccimarra, Alice Spisa, Anna Rita Vitolo. Teatro pieno e successo calorosissimo con innumerevoli chiamate alla ribalta.

Guillaume Tell

Ferdinand Hodler,  Wilhelm Tell, 1987

Gioachino Rossini, Guillaume Tell

Losanna, Opéra, 13 ottobre 2024

★★★

(video streaming)

A Losanna Tell fa centro per la prima volta

Nel 1897 Ferdinand Hodler aveva dipinto l’eroica figura di Wilhelm Tell, ora al Museo d’Arte di Solothurn che possiede altre opere del pittore svizzero. Per la sua messa in scena  a Losanna il regista Bruno Ravella utilizza un paesaggio di Hodler – uno dei tanti in cui le montagne si riflettono sulla superficie di un lago – uno dei pochi elementi figurativi nella sua sobria lettura dell’ultimo capolavoro di Rossini, lasciando alla supremazia della meravigliosa musica tutto il suo spazio. Musica ascoltata per la prima volta nella città sul lago Lemano grazie al nuovo direttore del teatro, il marsiglese Claude Cortese, che inaugura la stagione e il suo incarico con questo grande successo.

Ma per una volta partiamo dal lavoro del regista televisivo, che durante l’ouverture, pur non rinunciando a farci vedere scorci naturali della confederazione e la presentazione degli interpreti nei loro personaggi, scende in buca per farci ammirare la bella figura del Maestro Lanzillotta ed i musicisti dell’Orchestre de Chambre de Lausanne impegnati con i loro strumenti – dal meraviglioso assolo del violoncello alle frasi del flauto agli ottoni prima nel temporale poi nella marcia – nell’ouverture più trascinante mai scritta. E tutti chiaramente soddisfatti dei primi applausi di una serata che si preannuncia musicalmente gloriosa. Le quattro ore e mezza della versione originale sono qui ridotte a tre ore 45 minuti, compreso un intervallo, a scapito di alcuni dei divertimenti danzati. Francesco Lanzillotta dirige il Tell con la vivacità e la finezza delle prime opere di Rossini: questo ultimo capolavoro spesso è visto come un Grand Opéra in cui si esagera la monumentalità con colori troppo saturi e tratti spessi. Brillante concertatore, dimostra quanto siano fondamentali gli ensemble in quest’opera, e come il loro intreccio nel quadro musicale e drammatico permetta di far sbocciare l’apoteosi dei finali. Privilegiando le battute sospese, i silenzi prolungati e i contrasti sonori finemente calibrati, con la sua  una sensibilità musicale fa partecipare tutti gli orchestrali alla vasta tavolozza di delicate sfumature con cui Rossini stabilisce atmosfere bucoliche e pastorali.

Installatosi definitivamente a Parigi, Rossini aveva abbandonato il primato della voce solista virtuosistica adattandosi allo stile francese più declamatorio derivato dalla tragédie lyrique di Lully e Gluck. Qui la parola prevale sul suono, sul canto ornato. Una vera e propria rivoluzione per Rossini. Nel Tell predominano i recitativi e le declamazioni rispetto alle arie solistiche, con il coro diventato personaggio a sé stante. Il coro dell’Opéra de Lausanne, preparato da Alessandro Zuppardo, con la sua dizione perfetta dà il giusto colore a ogni sillaba, sfoggia una notevole gamma di sfumature, trasparenze e coesione. Non sono da meno i solisti, che formano un cast omogeneo e di eccezionale qualità. Nel ruolo che fu di Adolphe Nourrit, Julien Dran si affianca alle massime voci tenorili francesi di oggi – Jean-François Borras e Benjamin Bernheim – nella eleganza e capacità di cantare esprimendo tutte le intenzioni drammatiche del personaggio di Arnold con una tavolozza di colori e toni invidiabile. Il suo personaggio è combattuto tra il dovere di orfano e patriota da un lato, e il suo amore per una principessa straniera legata agli invasori dall’altro. E questo si esprime in un canto di grandi varietà espressive, lunghi fiati – uno solo per la frase « Asile héréditaire, | Où mes yeux s’ouvrirent au jour », l’aria del IV atto momento culminante della rappresentazione.

Altra rivelazione della serata è Elisabeth Boudreault, soprano canadese che riesce nell’impresa di trasformare Jemmy in un vero protagonista, grazie a una voce potente, dal timbro chiaro, luminoso, dalla eccezionale proiezione e dalla perfetta presenza scenica. Una conferma della conosciute qualità interpretative viene dal Tell di Jean-Sébastien Bou, baritono che supplisce con intelligenza ed espressività a un registro grave non immenso; dalla Mathilde di Olga Kulchynska, uno dei pochi cantanti non di lingua francese ma dalla dizione impeccabile; dal Gessler impressionante per presenza vocale di Luigi De Donato; dalla intensa Edwige di Géraldine Chauvet. Solidi ed efficaci il Mechtal/Walter Fust di Frédéric Caton e il Leuthold di Marc Scoffoni, mentre al Rodolphe di Jean Miannay mancano potenza e cattiveria. Deludente il Ruodi di Sahy Ratia per le note emesse con difficoltà.

La messa in scena di Ravella come s’è detto è molto semplice, quasi oratoriale, con costumi uniformi e una certa insipidezza visiva che contrasta con l’opulenza della musica. Le immagini che ci propone il regista questa volta sono di scarso impatto drammatico,  come nel finale in cui non succede nulla se non la pietra su cui si trova Tell che si alza trasformando l’eroe in una statua sul piedistallo. C’è chi preferisce una regia rinunciataria a una velleitaria, ma una via di mezzo è sempre preferibile. 

Il video dello spettacolo è disponibile su ArteTv.

Festival Incanto Egizio

Wolfgang Amadeus Mozart, Thamos, König in Ägypten K 345 
1. Schon weichet dir, Sonne! coro
2. Intermezzo atto I
3. Intermezzo atto II
4. Intermezzo atto III
5. Intermezzo atto IV
6. Gottheit, Gottheit, über Alle mächtig!, coro
7. Intermezzo atto V
8. Ihr Kinder des Staubes, erzittert, aria del Gran sacerdote
9. Wir Kinder des Staubes, erzittert, coro 

Ensemble Obiettivo Orchestra, direttore Lugi Cociglio, Coro dell’Accademia Stefano Tempia, baritono Gabriele Barinotto

Torino, Conservatorio Giuseppe Verdi, 15 dicembre 2024

«un certo Signor Mozzart»

Il numero di opus non tragga in inganno: il K 345 si riferisce a un lavoro iniziato quando Mozart aveva diciassette anni!

Tornato dai viaggi che il padre Leopold aveva organizzato per presentare il Wunderkind alle corti europee dove era ammirato per le sue straordinarie doti esecutive e di improvvisazione, Wolfgang, intenzionato a costruirsi una carriera autonoma ed indipendente come compositore, dovette accettare la modesta carica di organista presso la corte arcivescovile di Salisburgo dove entrò in contatto con una compagnia teatrale itinerante guidata dall’impresario Johann Böhm e dal suo assistente Emanuel Schikaneder. Fu questa l’occasione per rivedere i due cori che aveva scritto sei anni prima, nel 1773, per il Thamos, König in Ägypten, un dramma di ambientazione egiziana del barone Tobias Philipp Freiherr von Gebler da lui ritenuto degno di essere messo in musica.

La prima persona a cui si era rivolto il barone fu Gluck, che declinò l’offerta pur accettando di esaminare composizioni di altri. Si trovò infatti un musicista disposto a musicarlo e il lavoro fu effettivamente esaminato da Gluck, ma alla fine venne rifiutato dal barone che successivamente scrisse ad uno dei suoi corrispondenti di aver trovato invece «un certo Signor Mozzart» [sic] disposto a scrivere la musica per il suo dramma. Nel dicembre 1773 due cori erano pronti per la prima rappresentazione a Pressburg che non venne però salutata con particolare favore dal pubblico, né a Vienna l’anno dopo e nemmeno nella sua Salisburgo, dove non venne citato neppure il nome del compositore.

Mozart ampliò contrappuntisticamente i due pezzi, scrisse intermezzi musicali tra gli atti, più un finale corale con interventi solistici. Nonostante l’intenso rimaneggiamento e arricchimento, le successive rappresentazioni a Salisburgo e a Francoforte ebbero uguale insuccesso, definitivamente sancito dal fiasco a Vienna nel 1783. La compagnia riciclò le musiche per un altro dramma ad ambientazione orientale e Mozart trasformò i cori in “inni spirituali” con versi in latino: Splendente te Deus (KV Anh. 121) e Ne pulvis et cinis (KV Anh. 122).

Intricata la trama del testo del barone von Gebler: un ginepraio di successioni dinastiche e un triangolo amoroso presente solo per giustificare l’argomento politico. L’ambientazione egizia e l’esotismo non sono che occultamenti per un messaggio pedagogico offerto a modello all’erede Giuseppe II: se la figura del nobile sovrano spodestato e vestito di abiti sacerdotali fosse interpretata come guida e riferimento per il giovane re, la sua investitura sarebbe un rito d’iniziazione ai segreti che un giorno egli stesso rappresenterà.

Il re d’Egitto Menes è stato detronizzato dal ribelle Ramesses e creduto morto; in realtà vive a Heliopolis come grande sacerdote del Sole sotto il falso nome di Sethos. Thamos, figlio dell’usurpatore, alla morte del padre diviene l’erede legittimo al trono, ma non è a conoscenza che il vecchio re deposto è vivo e ha assunto il nome di Sethos. Anche la figlia di Menes, Tharsis, rapita durante la rivolta, vive sotto mentite spoglie con il nome di Sais ed è affidata alla sacerdotessa Mirza.Thamos è innamorato di Sais che lo ricambia. Pheron, consigliere di Thamos, ordisce un complotto con l’aiuto di Mirza per detronizzare l’erede legittimo e sposare Sais. Dopo diverse vicende e complesse confessioni, la verità viene svelata. Sethos dichiara di essere il re Menes, ma non accetta più la corona; sancisce il fidanzamento della figlia con Thamos e cede loro il trono. Il traditore Pheron viene punito colpito da un fulmine per volere divino e Mirza finisce per uccidersi.

Le scene corali si collocano all’interno dell’azione teatrale, rappresentando nella prima, ad apertura del dramma, i sacerdoti e le sacerdotesse (divisi anche in due cori distinti) intenti a venerare la divinità del Sole in un solenne sacrificio nel Tempio; nella seconda, la scena rituale dell’incoronazione, con inni cantati in onore al Re d’Egitto in episodi solistici, alternati e d’insieme; l’ultimo coro chiude grandiosamente, preceduto da un Sacerdote solista, con la morale d’obbedienza e sottomissione alla divinità e al Re.

L’occasione per riproporre questa musica è il “Festival Incanto Egizio” per celebrare i 200 anni del Museo Egizio. Per “Thamos, re d’Egitto, un enigma mozartiano svelato”, il salone del Conservatorio torinese vede schierato il coro dell’Accademia Stefano Tempia e gli strumentisti dell’Ensemble Obiettivo Orchestra diretti da Luigi Cociglio. Le voci solistiche sono quelle del baritono Gabriele Barinotto, diplomato in questo stesso conservatorio, e di una non precisata e promettente giovane corista. L’attrice Virgina Risso ha letto dei brani che hanno collegato i vari numeri musicali di un’opera che risveglia inevitabili assonanze con Il Flauto Magico: l’ambientazione egizia, la trama e i personaggi sospettosamente simili (tratti dalla stessa fonte: il Séthos dell’abate Jean Terrasson); il librettista, Schikaneder, che aveva anche lavorato alle produzioni del Thamos; il genere del Singspiel, versione tedesca del melologo, o mélodrame francese; l’impiego intensivo di un lessico musicale di chiara simbologia (il triplice accordo, il ritmo puntato, accordi diminuiti a sottolineare significati negativi o l’uso di particolari intervalli melodici).

Il cappello di paglia di Firenze

Nino Rota, Il cappello di paglia di Firenze

Genova, Teatro Carlo Felice, 15 dicembre 2024

★★★★★

La folle journée di Nino Rota

«Giovane regista» è la locuzione con cui nel novembre 2007 veniva definito Damiano Michieletto in occasione del suo allestimento de Il cappello di paglia di Firenze al Teatro Carlo Felice di Genova. Pochi mesi prima al Rossini Opera Festival di Pesaro era andata in scena La gazza ladra, che gli valse il prestigioso Premio Franco Abbiati ed era stata la conferma del suo originale talento dopo la partecipazione, sempre al ROF, nel 2004 con Il trionfo delle belle di Stefano Pavesi – opera del 1809 che ispirerà la rossiniana Matilde di Shabran. Il debutto di Michieletto era però avvenuto nel 2003 al Festival di Wexford con Švanda dudák (Svanda il pifferaio), l’opera di Jaromír Weinberger. Insomma, una scelta di titoli ben poco convenzionali per il neanche trentenne regista di Scorzè (Venezia).

L’opera di Nino Rota è andata in scena alla Scala lo scorso settembre e in quella occasione scrivevo: «una serata tutt’altro che memorabile che però accende la curiosità per quello che saprà fare Michieletto». La risposta si può così sintetizzare: Genova batte Milano 1-0! Non tanto per il fatto che alla Scala l’esecuzione sia stata affidata agli allievi dell’Accademia di perfezionamento per cantanti lirici del teatro mentre qui al Carlo Felice sono in scena affermati professionisti, e neppure per la direzione orchestrale, eccellente in entrambi in casi, quanto per la messa in scena, che si fa fatica pensare abbia tutti quegli anni vista la freschezza e l’ingegnosità dell’allestimento che viene riproposto con pochissimi cambiamenti.

Michieletto imprime alla vicenda un ritmo cronometrico e sceglie un’ambientazione che non è quella della pochade di Labiche (1851) né quella della composizione di Rota (1945), bensì i colorati anni ’60 del secolo scorso, con i costumi disegnati dalla solita bravissima Silvia Aymonino. La stilizzatissima scenografia di Paolo Fantin è ingegnosa nella sua incredibile semplicità: sei pannelli uguali, ognuno con due porte, che, mossi per lo più a vista, formano i vari ambienti previsti dalla vicenda. Sono montati su una base girevole – 17 anni fa ancora non erano inflazionate le piattaforme rotanti… – ma, ed ecco il tocco geniale, su un piano inclinato, che rende surrealmente sbilenca e instabile la vicenda di nascondimenti e corse a perdifiato. Il tutto forma una scatola bianca sul fondo totalmente nero del palcoscenico, dove il bianco è spezzato dal rosso acceso del divano della baronessa di Champigny, delle poltroncine della casa di Anaide e del suo outfit, del telo spugna del malcapitato Beaupertuis, delle lenzuola del letto che aspetta inutilmente lo sposo.

Mentre la scena gira inesorabilmente, tutti corrono da una porta all’altra – e sono ben dodici! – , da una casa all’altra, da una piazza all’altra di una Parigi che non è solo sfondo ma quasi protagonista. Corre il suocero con le sue scarpe strette e il suo alberello d’arancio che ad ogni giro perde qualche foglia fino a ridursi a un alberello scheletrico salvo rifiorire per miracolo quando i due sposi finalmente si ritrovano soli alla fine di questa folle giornata. E corrono i poveri ospiti del corteo nuziale («Tutta Parigi noi giriam | lieti e felici siam») sempre più spossati e fradici per l’acquazzone («Tutta Parigi noi giriam | stanchi, sfiniti, morti siam»). Il momento del temporale diventa un quadro di Magritte quando dall’alto “piovono” ombrelli mentre le luci, magnifiche, di Luciano Novelli perdono ogni connotazione realistica per inondare la scena di blu o di verde.

Alla testa dell’Orchestra del teatro, particolarmente vivace e pronta, Giampaolo Bisanti mette in luce la frizzante partitura, glorioso pastiche di citazioni che spaziano da Rossini a Wagner a Ravel al jazz e che accompagnano o sottolineano i versi di un libretto che qui sembra più arguto e scoppiettante di quanto fosse sembrato mesi fa, grazie anche a interpreti che oltre che grandi cantanti si rivelano animali da palcoscenico per la loro inappuntabile presenza scenica. Primo fra tutti, ovviamente, Paolo Bordogna che costruisce il personaggio di Beaupertuis, il marito geloso e scimunito, con tocchi di grande eleganza dove ogni mossa, ogni inflessione della voce pur se attentamente studiata nasce con naturalezza e con un grande senso del comico. Prima ancora era stato il militare Emilio. Canto e recitazione qui sono un tutt’unico inscindibile e di livello eccelso. Per presenza scenica e auto-ironia si impone la presenza di Sonia Ganassi, iconica Baronessa di Champigny mentre altrettanto iconico si dimostra Blagoj Nacoski, flamboyant Achille di Rosalba con annesso cagnolino e poi stralunata Guardia.

Il puro belcanto lo troviamo nella voce di Marco Ciaponi, tenore che ad ogni sua performance conferma le doti di bellezza di timbro e fraseggio già ammirate come Elvino, Des Grieux e Beppe/Arlecchino e col le quali il cantante lucchese risolve le esigenze vocali della parte non facile di Fadinard. Benedetta Torre è la sposina timida che si esprime come un’eroina romantica («Trema nell’estasi d’amor | il cuor beato!») e di Donizetti assume lo stile tutto trilli e volatine. Il suocero, che punteggia i suoi interventi con il tormentone «Tutto a monte!», ha la compostezza, eleganza e magnificenza vocale di Nicola Ulivieri, un Nonancourt di gran lusso. La proprietaria del cappello eponimo, Anaide, trova in Giulia Bolcato felice presenza scenica e vocale. Folto il gruppo dei personaggi secondari con Didier Pieri, lo zio Vezinet sordo ma deus ex machina col suo provvidenziale regalo; Gianluca Moro, il domestico Felice: Franco Rios Castro, il vivace Caporale delle guardie; Marika Colasanto, la modista. Divertito e divertente il coro del teatro istruito da Claudio Marino Moretti. 

A Genova nel 2007 le poche rappresentazioni previste si ridussero ancora a causa di uno sciopero alla prima: ha fatto benissimo il teatro a riprendere quella felice produzione e lo dimostra il successo, meritatissimo, che ha avuto lo spettacolo. Ahimè, solo due le repliche dopo la prima.

I viaggi del signor Brouček

Leoš Janáček, Výlety páně Broučkovy (I viaggi del signor Brouček)

Brno, Janáčkovo Divadlo, 4 dicembre 2024

★★★★☆

(live streaming)

Viaggi nella Praga del XX secolo

Robert Carsen avrebbe dovuto presentare cinque opere di Janáček al Regio di Torino a partire dalla stagione 2015-2016, ma riuscirono ad andare in scena solo La piccola volpe astuta e Kát’a Kabanová, poi le cose andarono come sappiamo per il teatro torinese. Tra quelle cinque non era comunque inclusa I viaggi del signor Brouček che ora, nel 170esimo anniversario della nascita, inaugura il biennale Festival Janáček di Brno che dal 1 novembre al 4 dicembre presenta il teatro musicale del compositore moravo – tra cui L’affare Makropulos nella produzione di Claus Guth e Jenůfa, nella versione del 1904 – e tanta musica sia orchestrale che da camera.

La scelta dell’argomento – ossia la vicenda del movimento hussita del XV secolo nella seconda parte e il datato intento satirico della prima, in cui il musicista e il librettista prendono in giro gli intellettuali velleitari e fatui della Praga di quegli anni – ha reso I viaggi del signor Brouček l’opera di Janáček meno eseguita, non solo al di fuori della Repubblica Ceca ma persino in patria. Questa di Brno sarà una coproduzione con la Staatsoper Unter den Linden di Berlino e il Teatro Real di Madrid e che cosa ha fatto Robert Carsen per rendere comprensibile questo particolare lavoro alle platee internazionali? Ha scelto di ambientarlo negli ultimi ’60 del secolo scorso: nel 1968 era avvenuta l’invasione russa della allora Cecoslovacchia, mentre nel 1969 il primo uomo aveva posto piede sulla Luna. 

Ecco allora che il viaggio sulla Luna di Matěj Brouček, conseguenza di una formidabile bevuta di birra, parte da una vikárka (taverna) praghese dove sullo schermo televisivp del locale si vedono le immagini in bianco e nero di Neil Armstrong lasciare la sua impronta nella polvere della superficie del nostro satellite. Nella mente obnubilata del proprietario immobiliare signor ‘Bacherozzo’ (in ceco brouček vuol dire scherzosamente ‘insetto’), i serbatoi della Pilsner si trasformano nel Saturn V che porta il nostro eroe, dopo un allunaggio nello stile del cinema di Méliès, fra l’estetizzante umanità selenita dove i prosaici personaggi incontrati nella taverna diventano esseri che si nutrono solo di eterei profumi e versi poetici. L’iscrizione ‘Moonstock ’68’ e le copertine psichedeliche degli album di quell’epoca fanno da sfondo alla festa di questi figli dei fiori lunatici che alle salsicce di Brouček inorridiscono non per snobismo ma per convinzioni vegane.

Nella seconda parte si fa un salto all’indietro nel tempo non di secoli durante la rivolta degli hussiti nella Praga del 1419, ma di un solo anno: se David Pountney nel 1992 all’English National Opera aveva messo in scena I viaggi alludendo alla Rivoluzione di velluto che tre anni prima aveva condotto alla dissoluzione dello Stato comunista cecoslovacco, qui Carsen ambienta invece il secondo viaggio di Brouček durante la Primavera di Praga del 1968. Iniziata il 5 gennaio, il 20 agosto dello stesso anno i carri armati del Patto di Varsavia invadevano il paese ponendo termine a quel periodo di riforme democratiche. Le coloratissime atmosfere un po’ lisergiche della prima parte qui, grazie alle scenografie di Radu Boruzescu, ai costumi di Annemarie Woods e alle luci di Peter van Praet e dello stesso Carsen, si trasformano nelle cupe e grigie oscurità della stessa taverna dove Brouček si ritrova solo al buio dopo la chiusura. Unica luce è quella della televisione che mostra il nuovo segretario del Partito Comunista Ceco, Alexander Dubček, uscire poi dallo schermo e declamare l’Inno al sole di Svatopluk Čech, il poeta e autore dei racconti che stanno alla base del libretto. Nell’incontro con i resistenti, si vedono le drammatiche immagini dell’invasione e dei funerali di Jan Palach, il giovane di 21 anni che si diede fuoco per manifestare il proprio dissenso verso il nuovo regime e scuotere le coscienze, mentre copie del suo ritratto ricoprono una parete del locale dove si riunisce la resistenza anti-sovietica. Una piccola rivincita i cechi se la sarebbero presa con la vittoria della loro squadra di hockey su quella russa nel marzo 1969, come vediamo rappresentato in scena. Ma il finale ritorna amaro quando l’atmosfera festante della vikárka è all’improvviso interrotta dall’irruzione di un carro armato mentre scende il sipario. Alla sua settima regia di opere di Janáček, Robert Carsen dimostra tutta la sua intelligenza e grande tecnica teatrale nel dare una vita plausibile a questo difficile titolo. Il risultato è come sempre sorprendente.

Non solo dal Canada, paese natale di Carsen, arriva una dimostrazione dell’interesse per il compositore moravo: anche gli inglesi si sono distinti nel divulgarne e farne apprezzare la musica, come il musicologo John Tyrrell, il direttore Charles Mackerras o il già citato regista David Pountney. Ora a questi si può aggiungere il nome di Nicky Spence, il tenore scozzese che ha sempre dimostrato interesse per l’opera slava di Dvořák e di Janáček in particolare e che qui riesce a delineare in maniera memorabile il personaggio eponimo con una felice vocalità e una gustosa presenza scenica. Gli altri interpreti sono avvantaggiati dal fatto di essere tutti locali, ma devono dimostrare la loro abilità nel trasformarsi da avventori dell’osteria a manierati abitanti della Luna a patrioti. Il cast si rivela all’altezza del compito, sia il secondo tenore Daniel Matoušek (Mazal/Blankytný/Petňik) che Doubravka Novotná (la fidanzata Málinka/Etherea in stile Barbarella del coevo fumetto/la partigiana Kunka). Gran voce più che grande attore quella del basso Jan Šťáva (l’oste Würfl/il Presidente/il Consigliere), più convincente scenicamente il basso-baritono David Szendiuch (il Sagrestano/Lunobor/il Campanaro). Sottolinea l’elemento sinfonico della partitura più che la concertazione delle voci il direttore Marko Ivanović. Efficace l’apporto del coro del teatro spesso presente in scena.


Calibano

Calibano, l’Opera e il mondo

144 pagine, numero cinque, novembre 2024

Simon Boccanegra, potere

Anche il teatro della capitale, dopo l’indigestione pucciniana dovuta al centenario della morte del compositore di Lucca, come la maggior parte degli enti lirici italiani punta su Verdi per l’inaugurazione della sua stagione. Al Costanzi è infatti andato in scena il Simon Boccanegra e il tema del potere è oggetto del n° 5 di “Calibano”, la rivista dell’Opera di Roma.

«L’esistenza è una questione di verbi modali. La parola ‘potere’ infatti non è solo un sostantivo che indica la capacità di terminare le azioni altrui, e anche un verbo, che rappresenta la possibilità di fare. Il verbo modale ‘potere’ in questo senso sembrerebbe agli antipodi del suo parente ‘dovere’: il primo indica la possibilità di svolgere un’azione, l’altro indica l’obbligo di farlo. La possibilità implica la scelta, l’obbligo no. A entrambi in ogni caso è correlato l’ultimo verbo modale rimasto ‘volere’. Si può volere qualcosa che si può fare; si può volere qualcosa che non si può fare; si può volere qualcosa che si deve fare; si può volere qualcosa che non si deve fare». Così introduce il tema il Direttore Paolo Cairoli, un tema declinato in mille modi sulle pagine della rivista: nella scelta tra supremazia e non-violenza (Roberta Covelli); nel linguaggio da Verdi a oggi (Federico Faloppa); nei caratteri architettonici (Sergio Pace); nella rinuncia del potere della specie umana (Francesca Matteoni); nel dominio digitale (Donata Columbro); nel fenomeno delle fake news e del gaslighting e del pericolo per la  democrazia (Francesca Coin).

Particolari sono i due articoli di Francesco Antinucci su cucina e Potere e di Virginia Gg Niri su erotismo e Potere mentre tra gli speciali sono interessanti gli scritti di Marco Montanaro sugli eroi delle strisce e sull’architettura dei i teatri e il potere politico di Giuliano Danieli. Come sempre intriganti le illustrazioni create questa volta da Katie Morris con i software di intelligenza artificiale.

Simon Boccanegra

Rating criteria/VALUTAZIONI

Giuseppe Verdi, Simon Boccanegra

Roma, Teatro dell’Opera, 4 dicembre 2024

★★★☆☆

bandiera francese.jpg  ici la version française sur premiereloge-opera.com

Tra camalli e De Chirico: Simon Boccanegra inaugura la stagione romana

Due anni fa al Festival Verdi di Parma si era potuta ascoltare la versione veneziana originale del 1857, mentre ora, per l’inaugurazione della stagione del Teatro dell’Opera di Roma, si torna alla seconda versione del Simon Boccanegra, quella definitiva e comunemente eseguita.

L’autore, insoddisfatto del risultato, soprattutto del libretto di Francesco Maria Piave, tornò sul suo «figlio gobbo» per dargli una nuova veste, letteraria innanzitutto, affidandone la revisione del testo ad Arrigo Boito e modificando buona parte della musica. La nuova versione andò in scena nel marzo 1881 a Milano, nel frattempo però c’erano stati Un ballo in maschera, La forza del destino, Don Carlos, Aida – per non parlare del Tristano, del Ring, di Carmen… –  e Verdi non era più il compositore di quasi un quarto di secolo prima. Alla Scala allora non piacquero le scelte stilistiche che ora invece ammiriamo nel Simon, ossia la vicenda tutta dolore e rimpianti, i personaggi tutt’altro che eroici, l’armonia sofisticata ma torbida, il senso melodico non trascinante, il colore scuro e opaco della strumentazione, le poche arie scritte in funzione drammatica e non per compiacere il pubblico. Da qui l’assenza di virtuosismi vocali, anzi, la scelta di una vocalità plasmata sulla parola che rende memorabili per scultorea monumentalità i momenti di Fiesco («A te l’estremo addio, palagio altero»), Simone, («Plebe! Patrizi! Popolo dalla feroce storia!») o Paolo («Me stesso ho maledetto!»). Solo i giovani hanno momenti lirici: di dolce cantabilità Amelia/Maria nella sua aria strofica («Come in quest’ora bruna») o impetuosi Gabriele Adorno («Sento avvampar nell’anima»).

Michele Mariotti ritorna diciassette anni dopo il suo primo Simon Boccanegra bolognese e ora è all’apice della carriera. Si capisce che sarà una serata speciale fin dalle prime note, meravigliosamente distillate, del breve preludio – meno di un minuto e mezzo – diverso da tutte le sinfonie d’opera precedenti. Qui cui non c’è un tema che risentiremo nel corso dell’opera, non viene annunciato un motivo che verrà sviluppato, c’è solo un lento ondeggiare in un allegro moderato tenuto dai violini prima che alla nona battuta entrino i fiati (fagotto, trombone, corno) con una nota lunga. Tutto in pianissimo, pura atmosfera. Atmosfera liquida. È il luccichio del mare? La superficie calma dell’acqua? Chissà, a Verdi non interessa descrivere, quanto “far sentire il mare” sullo sfondo di una città eternamente in tumulto. Mariotti sottolinea le novità di una scrittura che porterà all’Otello: un’alternanza di stile declamato, conversativo e intimo, con grandi contrasti e un’orchestra che respira con i personaggi e che qui sfoggia strumenti perfettamente intonati, sì anche gli ottoni nei fragorosi vertici drammatici dell’acclamazione del nuovo doge o della sommossa abortita.

Si alterna con il primo cast un quartetto di cantanti di tutto riguardo. Claudio Sgura è un Simon Boccanegra di grandissima statura, in tutti i sensi. Interprete dalla variegata tavolozza espressiva, dispone di uno strumenti vocale di tutto rispetto che però sa modulare all’occasione, com’è il caso di quel «Figlia!» sfumato e tenuto all’infinito. Ne esce un personaggio umanamente dolente: giandiose sono le sue esplosioni di rabbia o disperazione, ma ancora più intensi sono i momenti di affetto e malinconia espressi con un fraseggio di grande morbidezza. Il soprano russo Maria Motolygina è un’interprete di notevoli mezzi vocali, talora fin troppo esibiti, bellissimo timbro, grande tecnica ed espressività che le permettono di delineare una Maria/Amelia viva e sensibile. Come sempre autorevole ed elegante, Riccardo Zanellato se la deve vedere con la tessitura bassissima di Jacopo Fiesco, un personaggio che riesce ad imporre col suo fraseggio nobile e la sua sensibilità interpretativa. Bella sorpresa quella di Anthony Ciaramitaro, un Gabriele Adorno dallo splendido timbro, caldo e ricco di sfumature, e dalla notevole capacità espressiva. Gran vocione quello di Gevorg Hakobyan, baritono armeno che riesce a dare al suo Paolo Albiani la statura del futuro Jago. Particolarmente soddisfacente il resto del cast: Luciano Leoni (Pietro), Caterina D’Angelo (ancella di Amelia) e soprattutto Enrico Porcarelli, che fornisce un rilievo particolare al suo Capitano dei balestrieri. Ottimo l’apporto del coro del teatro istruito da Ciro Visco.

Richard Jones, di cui ricordiamo importanti e geniali allestimenti, qui sembra limitarsi al risparmio: la sua regia non brilla per tensione drammatica, la recitazione è lasciata alla buona volontà dei cantanti, la particolare dimensione atmosferica dell’opera è quasi assente nell’ambientazione che non si capisce sia tra le due guerre (con riferimenti ai totalitarismi nella testa monumentale dell’ultimo atto) o dopoguerra (nei costumi di Anthony McDonald e Luis F. Carvalho che citano i lavoratori del porto per la plebe, sono genericamente borghesi per i patrizi e costumi d’epoca per il doge e i Consiglieri del Senato), ma perché allora le spade di latta? Le scenografie dello stesso McDonald oscillano tra il didascalico e il simbolico: la piazza dechirichiana del prologo solo per il faro in fondo richiama la città di Genova; il “salotto di passaggio” del palazzo dei Grimaldi è ambientato ai piedi di un faro tra nere rocce puntute; la stanza del doge del secondo atto è una soffitta sghemba e squallida dalla triste tappezzeria; l’interno del palazzo ducale del terzo atto è ancora la piazza e tutto avviene per strada; dal catafalco su cui giace la morta Maria si alza poi Amelia e sullo stesso si adagerà il doge morente. Il trascolorare dell’alba è una cupa eterna notte nel gioco luci di Adam Silverman e una coreografa per i movimenti mimici e un maestro d’armi sono stati impiegati per gli scontri tra popolani e patrizi, inutilmente rappresentati in scena quando il libretto neanche li prevede. Per non dire poi di quel sipario che sembra di cartone con le finestre e la porta ritagliate…

Fortunatamente è ancora una volta la pregevole esecuzione musicale che prevale. Quella che ha pienamente convinto il pubblico romano che ne ha decretato il successo con calorosi applausi rivolti a tutti i cantanti e in particolare al direttore musicale Mariotti.

 

Rusalka

Antonín Dvořák, Rusalka

Napoli, Teatro di San Carlo, 3 dicembre 2024

★★★

Da Partenope a Rusalka: Napoli, città sirena

Dopo 2700 anni dalla fondazione mitica della città – la parte vecchia, quella del borgo marinaro vicino a Castel dell’Ovo, perché quella nuova, Neapolis, venne due secoli dopo – due “sirene” si impongono nell’immagine della città di oggi: la Parthenope del film di Sorrentino e la Rusalka dell’opera di Dvořák…

(il seguito su Le Salon Musical)

Stagione di Concerti Teatro di San Carlo

foto © Luciano Romano

Sergej Vasil’evič Rachmaninov

Ne poj, krasavica, pri mne (Non cantare, mia bella), op. 4 n. 4
Vsjo otniali menia (Tutto mi ha tolto), op. 26 n. 2
O, ne grusti (Oh, non rattristarmi), op. 14 n. 8
Kak mne bol’no (Come sto male), op. 21 n. 12
“Hopak” dall’opera La fiera di Soročinci di Modest Musorgskij
Margaritki (Margherite), op. 38 n. 3
“Il volo del calabrone” dall’opera La favola dello Zar Saltan di Nikolaj Rimskij-Korsakov
Ditia! kak cvetok ty prekrasna (Bambino, sei bello come un fiore), op. 8 n. 2
Oni otvečali (Hanno risposto), op. 21 n. 4
V molčanii noči tajnoj (Nel silenzio della notte misteriosa), op. 4 n. 3
Ne ver’ mne, droug (Non credermi, amico), op 14 n. 7
Sumerki (Crepuscolo), op. 21 n. 3
Zdes’ khorošo (Com’è bello qui), op. 21 n. 7
Ia ždu teba (Ti aspetto), op. 14 n. 1
Vesennie vody (Acque primaverili), op. 14 n. 11
Preludio in sol diesis minore, op. 32 n. 12
Preludio in re bemolle, Oop. 32 n. 13
Son (Il sogno), op. 8 n. 5
Otrijvok iz A. Mjusset (Frammento da De Musset), op. 21 n. 6
Dissonans (Dissonanza), op. 34 n. 13

Asmik Grigorian soprano, Lukas Geniušas pianoforte

Napoli, Teatro di San Carlo, 1 dicembre 2024

«Cantami, mia bella, i tuoi tristi canti»

Tra due recite di Rusalka, Asmik Grigorian ha trovato il tempo di un concerto quanto mai gradito dai suoi innumerevoli ammiratori. Nella grande sala del Teatro di San Carlo si svolge dunque un recital in cui il soprano lituano, accompagnato dal pianista russo-lituano Lukas Geniušas, ha presentato un programma tutto centrato su liriche di Sergej Rachmaninov…

(il seguito su Le Salon Musical)

Il gabbiano – Zio Vanja – Il giardino dei ciliegi

 

Anton Pavlovič Čechov

Il gabbiano

Zio Vanja

Il giardino dei ciliegi

Regia di Leonardo Lidi

Torino, Teatro Carignano, 30 novembre 2024

Il progetto Čechov arriva alla sua conclusione

Nel “Progetto Čechov”, coproduzione del Teatro Nazionale Spoleto Festival dei Due Mondi, del Teatro Stabile dell’Umbria e del Teatro stabile di Torino, il regista Leonardo Lidi affronta i tre capolavori del commediografo russo. Iniziato nel 2022 con Il gabbiano, l’anno successivo è stata la volta di Zio Vanja e ora la trilogia si conclude con Il giardino dei ciliegi. Al Teatro Carignano si possono rivivere le tre tappe in un giorno solo, tre momenti di una borghesia infelice a pochi anni dalla Rivoluzione d’Ottobre, artisti falliti e amori già stanchi sul nascere in una tenuta della campagna russa in cui poco lontano luccicano le acque di un lago o di un fiume e una vicina stazione ferroviaria permette di fuggire in città.

I tre spettacoli hanno la scenografia e le luci affidati a Nicolas Bovey, i costumi sono di Aurora Damanti, il suono è curato da Franco Visioli. La maratona inizia alle 11.30 del mattino con Il gabbiano, una vicenda di personaggi «inchiodati in un punto morto che si muovono a vuoto e per i quali la vita scivola come acqua dalle loro mani e li trascina, li inghiotte come turaccioli» aveva scritto a suo tempo Angelo Maria Ripellino. Il palcoscenico è vuoto e gli attori sempre a vista nei loro costumi ottocenteschi a turno sono chiamati a raccontare il testo, nella traduzione di Fausto Malcovati, con una frenesia di loquela che li porta a dire le battute in maniera accelerata. Qui lo spazio è capovolto: la panchina su cui la grande attrice Irina Arkadina, Trigorin siedono insieme a Sorin e al dottore Dorn è rivolta alla platea, dove si trova il lago che fa da sfondo allo spettacolo e da cui proviene il gabbiano del titolo. Nel prosieguo il lago diventa la scena stessa, quando teli neri calano ai lati e sul fondale verso cui si muovono i personaggi afflitti da una vecchiaia incalzante, come una compagnia d’attori che si presenta alla ribalta a fine spettacolo, qui dando le spalle allo spettatore. Intanto al proscenio assistiamo al “suicidio” di Kostia accompagnato da Sorin. I due faranno una loro comparsa anche nel secondo spettacolo.

Se nel Gabbiano gli attori avevano a disposizione l’intero palcoscenico vuoto, nello Zio Vanja del primo pomeriggio si accalcano tutti quanti su una stretta pedana davanti a una parete di assi di legni dietro cui molto spesso continuano a recitare. Su questa zattera claustrofobica il regista dimostra la sua virtuosistica abilità a gestire spazi e movimenti accompagnati da un’ironia che si ritrova negli abiti color pastello e nelle parrucche anni ’60 dei personaggi. Qui risentiamo le note de La bohème, la canzone di Aznavour che Gigliola Cinquetti aveva cantato nel Gabbiano, e le risentiremo ancora ne Il giardino dei ciliegi (1904), che conclude la trilogia in serata. Qui il palcoscenico si è ampliato di nuovo ma è limitato da teli neri, questa volta traslucidi, che contrastano con la plastica bianca delle sedie sparse o rovesciate per terra. Il traliccio dell’americana con le luci al neon a un certo punto si abbassa e funge da piattaforma sul quale si sdraiano i personaggi in tenuta balneare, ignari – o meglio ignavi – di quanto succederà alla loro proprietà che sta per andare all’asta assieme al giardino dei ciliegi che sarà abbattuto per fare posto alla lottizzazione e alle villette da costruire per la nuova borghesia. 

I tre spettacoli sono in progressione espressiva: dall’ambientazione spoglia e dal tono quasi filologico del Gabbiano, all’abbrutimento grottesco della vicenda dei personaggi dalle occasioni mancate che è Zio Vanja, fino alla volgarità, ai toni smaccatamente eccessivi, al desolato kitsch della sguaiata compagnia che entra dalla platea sulle note di Ritornerai, la canzone di Lauzi, stonata dall’anfitrione Lopachin, il servo che diventerà padrone nel Giardino dei ciliegi. I toni da farsa sono esagerati anche dalla non corrispondenza dei corpi ai personaggi con incongruenze anagrafiche e di genere (Sorin è interpretato da un’attrice, Charlottta Ivanovna da un attore), mentre il riutilizzo dell’ensemble nei diversi ruoli della trilogia (concepita anche per la visione in sequenza) esalta l’eccelsa qualità attoriale degli interpreti: Giordano Agrusta; Maurizio Cardillo; Alfonso De Vreese; Ilaria Falini; Sara Gedeone; Christian La Rosa; Angela Malfitano; Francesca Mazza; Orietta Notari; Mario Pirrello; Tino Rossi; Massimiliano Speziani; Giuliana Vigogna.