Mese: luglio 2025

Trittico

Giacomo Puccini, Trittico

Parigi, Opéra Bastille, 16 maggio 2025

★★★★☆

Un Trittico permutato per la diva

Turandot e Lauretta: quale cantante ha mai avuto in repertorio due ruoli così diversi affrontati negli stessi anni? Asmik Grigorian, la cantante per la quale molte certezze vanno in frantumi.

È costruito su di lei il Trittico proveniente da Salisburgo (2022) e ora all’Opéra Bastille dove cambia l’ordine degli atti unici in relazione all’importanza del ruolo dell’interprete femminile: prima Gianni Schicchi con la giovane Lauretta; poi Il tabarro con il sofferto personaggio di Giorgetta; per concludere Suor Angelica, la parte più impegnativa e lunga dell’atto tutto al femminile. Si realizza così una forte curva emotiva che va dalla commedia alla tragedia passando per il dramma più cupo.

Nel debutto all’Opéra National, col suo timbro un po’ scuro, il suo stile di canto intenso, l’interiorizzazione della parte, i lunghi fiati e gli acuti sempre funzionali all’interpretazione, la Grigorian caratterizza in modo molto personale tutti e tre i ruoli dando a Lauretta una dimensionale meno ingenua e adolescenziale di quella a cui siamo abituati nel magico momento di «O mio babbino caro», di Giorgetta «È ben altro il mio sogno» non lo abbiamo mai sentito così struggente mentre in Suor Angelica accumula una tensione inarrestabile a partire da un «Senza mamma» tutto sul filo della voce. Un’interpretazione che scatena il crescente entusiasmo del pubblico e che termina in una standing ovation non rituale nel teatro parigino.

Efficace il cast. Misha Kiria è un Gianni Schicchi di sapida presenza scenica e un umorismo ben equilibrato tra commedia e farsa; pregevole, con acuti un po’ faticosi il Rinuccio di Alexei Neklyudov; come Zita si fa notare Enkelejda Shkoza che ritroveremo nelle altre due parti; tra i parenti lo Scott Wilde di Simone, autorevole rivela una dizione perfettibile, meglio Dean Power come Gherardo e Lavinia Bini come Nella. Nel Tabarro il Michele di Roman Burdenko punta al tono verista mentre Joshua Guerrero delinea un Luigi di bei mezzi vocali; quasi espressionistico il Tinca di Andrea Giovannini e dolente il Talpa di Scott Wilde in coppia con la sensibile Frugola di Enkelejda Shkoza che ritroviamo come Zelatrice in Suor Angelica. Due glorie del passato per la Badessa (Hanna Schwarz) e la Zia Principessa (Karita Mattila) che compensano con la presenza scenica mezzi vocali non proprio più freschi. Alla testa dell’orchestra del teatro Carlo Rizzi fornisce un’esecuzione trascinante in questo accumulo di tensione drammatica esaltando parimenti la stupefacente abilità orchestrale del Puccini più maturo.

Il regista tedesco Christopher Loy svolge la narrazione di sogni irrealizzati e di occultamento della morte: il cadavere di Buoso e i desideri testamentali in Gianni Schicchi; il figlioletto morto e il delitto nascosto sotto un mantello ne Il tabarro; il figlio, anche lui morto, di Suor Angelica e le sue speranze di ricongiungersi nell’aldilà. La scenografa Étienne Pluss e la costumista Barbara Drosihn ci trasportano negli anni ’50 con una scena fissa formata da una grande stanza spoglia con un letto al centro. Il tono da commedia all’italiana è dato dai parenti seduti a mangiare spaghetti o dei due giovani Rinuccio e Lauretta che alla fine, dopo che tutti i parenti se ne sono andati cercando di arraffare qualcosa, si ritrovano sotto il piumone sul letto. Per Suor Anglica quel poco suggerisce che ci troviamo in un convento anche se nemmeno un crocifisso adorna le pareti tetre, un minuscolo “giardino” di piante in vaso funge da orto e semplici tavoli da superfici di lavoro per le attività quotidiane delle suore. Solo ne Il tabarro lo spazio del palcoscenico è diviso tra la chiatta di Michele sul molo e una serie di mobili che indicano i sogni domestici della moglie Georgetta. Ed è proprio Il tabarro l’atto migliore della regia di Loy, essendo la sua lettura dello Schicchi troppo legato a un’immagine frusta e stereotipata dell’ambientazione italiana come s’era già scritto per la produzione di Salisburgo e poco convincente il finale di Suor Angelica che si cava gli occhi ma “vede” il figlio redivivo. Comunque, come in tutti i suoi spettacoli è la cura nell’interpretazione attotriale il punto di forza, e tutti quanti, trascinati da Asmik Grigorian sembrano voler dare il massimo a questo proposito.

Invettive musicali

Nicholas Slonimsky, Invettive musicali

Adelphi Editore, 430 pagine, 2025

Il nome di Nicolas Slonimsky non dice molto al di qua dell’Atlantico, ma oltre oceano la sua figura è quasi leggendaria: nato a San Pietroburgo nel 1894 e genio musicale fin da piccolo, durante la Rivoluzione Russa lascia il paese e dopo un lungo e rocambolesco viaggio arriva a Parigi nel ’21 dove la sua attività di pianista gli dà la possibilità di entrare in contatto con le maggiori personalità musicali del tempo. Nel 1923 è negli Stati Uniti, acquisisce la cittadinanza americana nel 1931 e morirà qui all’età di 101 anni. Nel 1988 aveva pubblicato il suo libro di memorie Perfect Pitch e a questo proposito Leonard Bernstein scrisse: «Se unite l’Enciclopedia Britannica con una storia della musica scritta da Oscar Wilde, avete qualcosa che assomiglia a questo straordinario memoir».

Lexicon of Musical Invective, “critical assaults on composers since Beethoven’s time” è il suo testo più famoso. Uscito nel 1953 e con una seconda edizione ampliata nel 1965, si tratta di una minuziosa raccolta dei «giudizi prevenuti, ingiusti, maleducati e singolarmente poco profetici» espressi anche da illuminati esegeti sui musicisti elencati in ordine alfabetico da Bartók a Webern e con le citazioni riguardanti ogni singolo compositore presentate in ordine cronologico. Mentre è comprensibile che “il rifiuto dell’insolito”, come Slonimsky intitola il saggio che accompagna il suo irriverente campionario, colpisca i musicisti nel loro tempo, stupisce come ancora nel 1881 John Ruskin in una lettera a John Brown ammettesse che Beethoven gli suonasse «come un sacco di chiodi che vengono rovesciati, a cui ogni tanto si aggiunge la caduta di un martello» mentre nel 1899 Philip Hale sul “Musical Record” a proposito della Nona sinfonia scrivesse: «il Finale mi sembra per la maggior parte fiacco e orrendo  […]  musica stupida e irrimediabilmente volgare […] indicibile grossolanità del tema principale»…

Nessun compositore sfugge alla idiozia di certi critici: si arriva a definire «straziante cacofonia» la musica di Chopin; Berlioz è classificato come «lunatico delirante»; Wagner è, a seconda dei casi, «eunuco demente» o «ciarlatano disperato»; quella di Debussy è «mal de mer»; di Stravinskij «le massacre du printemps»; quelli di Bartók «escrementi»; quella di Schönberg «la sinfonia da camera degli orrori». Non si salva neppure Puccini, ovviamente. Sul New York Herald Tribune del 5 febbraio 1901 ecco che cosa viene scritto  sulla sua Tosca: «Libidine e ferocia sono presentate nella loro nudità, e non c’è tempo di riflettere sui meccanismi (e ce ne sono parecchi  nella musica di Puccini) in cui la musica diventa un intralcio insolente, dove frasi di autentica sostanza sono mischiate a incredibili scemenze»! Ogni commento appare superfluo.

Un giorno di regno

foto © Giulian Guidera

Giuseppe Verdi, Un giorno di regno

Wormlesy, Garsington Opera Pavilion, 5 luglio 2025

★★★

(video streaming)

Il finto Stanislao convince tutti

La seconda opera di Giuseppe Verdi Un giorno di regno fu accolta così male alla Scala nel 1840 che fu ritirata la sera stessa del debutto e le repliche cancellate. Il compositore si prodigò per giustificare l’opera come il prodotto malriuscito di un periodo di tragedia personale (morte della prima moglie Margherita Barezzi e dei due figli) e di un libretto, scritto da Felice Romani nel 1818, di un gusto teatrale del tutto superato. Ripresentata al Teatro San Benedetto di Venezia l’11 ottobre 1845, col titolo Il finto Stanislao, riuscì ad ottenere finalmente successo ma sarebbero passati più di 50 anni prima che scrivesse Falstaff, la sua unica altra commedia.

Alla Garsington Opera il regista americano Christopher Alden non ambienta la vicenda nel 1730 della concezione originale, ma in un mondo moderno di social media e telegiornali presenti 24 ore su 24. Tutto per distogliere l’attenzione da una delle trame più insensate. Alden accompagna il pubblico in un’altalena comica dove il Barone di Kelbar è un trafficante d’armi e i suoi servitori guardie del corpo in abito nero e occhiali da sole alla Men in Black mentre Belfiore, convinto dal Re di Polonia a impersonarlo per un giorno, è vestito con una corona, un mantello e uno scettro che avrebbero fatto la gioia di Freddie Mercury. I costumi splendidamente pacchiani di Sue Willmington catturano alla perfezione questo ambiente volgare e le scenografie di Charles Edwards delineano perfettamente l’ambientazione da nuovi ricchi mentre il coreografo Tim Claydon affida ai personaggi passi di danza esilaranti e ben congegnati.

Subentrato all’ultimo minuto per sostituire l’indisposto Tobias Ringborg, Chris Hopkins alla guida della Philharmonia Orchestra dirige con gusto e senso di continuità musicale una partitura che sprizza energia e personalità. Molto valido il cast. Nel ruolo del falso re Joshua Hopkins conferisce ironia e stile a un personaggio che potrebbe facilmente risultare insipido. Svelando la codardia che si cela dietro la sua prepotenza, Henry Waddington è perfetto nel ruolo di Kelbar e Grant Doyle non è da meno come l’intrigante La Rocca, suo partner durante il loro tumultuoso scontro a colazione. Oliver Sewell interpreta un Edoardo risoluto ed eloquente mentre Robert Murray è un sapido Ivrea. Eccellenti i ruoli femminili: Madison Leonard è una efficace Giulietta e Christine Rice ruba la scena nei panni della Marchesa i cui assoli sono i momenti salienti dell’opera.

A parte la curiosità per un lavoro poco conosciuto, al perché riproporlo risponde Christopher Alden con la sua geniale messa in scena che si rivela così divertente che quasi quasi convince sulla possibilità di quest’opera buffa di entrare in repertorio.

Rocchetta Grand Jeté

Denilson Almeida

tutte le foto © Graham Spicer

Rocchetta Tanaro, Tenuta dei Marchesi Incisa della Rocchetta, 15 luglio 2025

Stelle sotto le stelle

Metti una sera d’estate sotto le stelle nel Monferrato per un programma di danza di altissimo livello organizzato non da un ente pubblico, ma da un privato. Ebbene sì, è quanto succede tra le colline astigiane: nato da un gesto di solidarietà nel corso della pandemia di Covid del 2021 quando le Cantine dei Marchesi Incisa lanciarono il progetto “A Bottle for the Arts” in collaborazione con la principale istituzione di danza del Regno Unito, il “Rocchetta Grand Jeté”, grazie all’impegno della padrona di casa Francesca Massone Incisa, è arrivato quest’anno alla sua seconda edizione.

Charlotte Tonkinson e Aiden O’Brien

Sul palco allestito nel cortile ottocentesco delle cantine si sono esibiti i danzatori del teatro che recentemente ha cambiato nome e da “Royal Opera House” è diventato “Royal Ballet and Opera”, una chiara indicazione dell’importanza della danza nella programmazione del glorioso Covent Garden londinese. Caso unico tra i teatri d’opera più importanti al mondo quello di scalzare al secondo posto nel nome il genere lirico!

Ha introdotto le due parti dello spettacolo il violino di Sergey Levitin, concert master dell’orchestra del teatro, che si è esibito in due numeri di grande difficoltà tecnica: la Paganiniana di Nathan Milstein, tributo del violinista russo naturalizzato statunitense al genio di Paganini, e poi un Allegro dalle Sonate di Johann Sebastian Bach. Ancora su un tema di Paganini è la musica di Sergej Rachmaninov della coreografia di Frederick Aston Rhapsody, balletto del 1980 dedicato agli ottant’anni della Regina Madre d’Inghilterra, un pezzo romantico che dà la possibilità ai due danzatori Daichi Ikaraschi e Sae Maeda di sfoggiare la loro eccelsa tecnica in passi di danza iperclassica.

Caspar Lench

Il programma ha alternato momenti di scuola tradizionale ad altri di danza contemporanea, come il secondo pezzo, Infra, una coreografia di Wayne McGregor del 2008 su musica di Max Richter (piano, elettronica e quintetto d’archi) ispirata a The Waste Land di T.S.Eliot. Un pas de deux drammatico in cui si evidenziano le qualità espressive di Charlotte Tonkinson e Martin Diaz. Sul Requiem di Fauré Kenneth MacMillan ha ideato un momento affidato all’assolo di Meaghan Grace Hinkis mentre un altro pas de deux tra i più popolari è quello tratto da La bella addormentata di Marius Petipa sulla sempre trascinante musica di Čajkovskij danzata con grande tecnica ed eleganza dai giovani Julia Roscoe e Aiden O’Brien. Tutt’altra atmosfera per Takademe di Robert Battle sul pattern ritmico di Sheila Chandra con i movimenti secchi e precisi di Caspar Lench. Conclude la prima parte della serata il pas de deux dal Grand Pas Classique su musica di Auber coreografato da Victor Gsovsky nel 1949, una sfida tecnica felicemente superata qui dalla coppia di danzatori Martin Diaz e Olivia Findlay.

Julia Roscoe e Aiden O’Brien

Altro grande momento classico è quello de Le corsaire di Petipa su musiche di Adam in cui dimostrano la loro esuberante vitalità e sfida alle leggi della gravità Meaghan Grace Hinkis e Denilson Almeida. Christopher Wheeldon è invece l’autore del pezzo seguente, Within the Golden Hour su musica di Antonio Vivaldi arrangiata da Ezio Bosso, balletto creato nel 2008 per il San Francisco Ballet e qui interpretato da Charlotte Tonkinson e Aiden O’Brien. Un tono ironico e gioioso è quello che ritroviamo in Elite Syncopations: Calliope Rag, The Alaskan Rag creato da Kenneth MacMillan nel 1974 su musiche di Scott Joplin, pezzo che dà la possibilità ai tre danzatori Olivia Findlay, Julia Roscoe e Caspar Lench nei loro coloratissimi costumi di esprimere un irresistibile lato umoristico molto apprezzato dal pubblico.

Olivia Findlay e Caspar Lench

In una serata antologica come questa non poteva mancare Coppelia di Delibes nella coreografia originale di Arthur Saint Lèon del 1870, un bel contrasto stilistico gestito qui con impeccabile aplomb da Daichi Ikaraschi e Sae Maeda. Ancora un brusco cambiamento di atmosfera per Czardas, l’ultimo pezzo in programma, l’entusiasmante assolo di Steven McRae su musiche di Vittorio Monti con la magnetica presenza del suo autore e principal dancer. Un assolo di tip-tap che anche nel 2023 aveva fatto scalpore.

Nell’elenco dei danzatori manca il nome previsto di Giacomo Rovero, il piacentino solista del Royal Ballet, che per un infortunio non ha potuto danzare e allora si è assunto il compito di direttore artistico e ha seguito dalla platea la performance dei colleghi molto applaudita da un pubblico entusiasta.

Steven McRae

Giuditta

 foto © Klara Beck

Franz Lehár, Giuditta

Strasburgo, Opéra, 20 maggio 2025

★★★☆☆

(video streaming)

Né Carmen né Vedova Allegra

Rappresentata per la prima volta all’Opera di Stato di Vienna il 20 gennaio 1934, con Jarmila Novotná e Richard Tauber nei ruoli principali, Giuditta fu trasmessa in diretta da 120 stazioni radiofoniche in tutta Europa e negli Stati Uniti e rimase in scena per 42 rappresentazioni nella sua stagione di debutto. Nonostante l’interesse iniziale uscì però presto dal repertorio: nel 1938, con l’Anschluss, Tauber lasciò la città, così come la Novotná, mentre il librettista Fritz Löhner-Beda fu deportato e morì ad Auschwitz.

Commedia musicale in cinque scene con una partitura per grande orchestra, fu l’ultima e più ambiziosa opera di Lehár, scritta su una scala più ampia rispetto alle sue precedenti operette. Il libretto è di Paul Knepler e Fritz Löhner-Beda e di tutte le sue opere è quella che più si avvicina a una vera e propria opera lirica. Le somiglianze con la storia della Carmen di Bizet e il suo finale drammatico ne accentuano le risonanze. Un’altra forte influenza, soprattutto per l’ambientazione nordafricana, fu il film Marocco di Josef von Sternberg del 1930, con Marlene Dietrich e Gary Cooper in ruoli molto simili: lei cantante-ballerina, lui soldato.

Come altre opere successive di Lehár, anche Giuditta manca del lieto fine, altrimenti tipico del genere dell’operetta. Tra operetta e grand-opéra e con un’orchestrazione che ricorda spesso Puccini, nonostante questa ambivalenza stilistica, Lehár ha creato melodie immortali, soprattutto la canzone di Octavio “Freunde, das Leben ist lebenswert “(Amici, la vita è degna di essere vissuta) o quella dell’eroina del titolo “Meine Lippen, sie küssen so heiß! (Le mie labbra sono così calde da baciare), due melodie orecchiabili che vengono spesso eseguite anche dai più grandi tenori e soprani nei concerti.

Scena prima. Una città portuale nel sud della Francia, negli anni Trenta. Séraphin e Anita sono teneramente innamorati e fanno di tutto per pagarsi il viaggio verso l’altra sponda del Mediterraneo, dove sperano di fare fortuna grazie al canto e alla danza. Nel frattempo, l’anziano Manuel veglia gelosamente sulla moglie, la giovane e bella Giuditta, che ha conosciuto sulla spiaggia e il cui passato rimane per lui un mistero. La voce magnetica di Giuditta conquista presto l’ufficiale Octavio. Incantati l’uno dall’altra, condividono i loro sogni d’amore e Octavio supplica Giuditta di seguirlo in Africa, dove si unirà a un reggimento della Legione Straniera. Desiderosa di libertà e stanca della possessività del marito, Giuditta accetta infine la sua offerta e si imbarca sullo Champollion, mentre Séraphin e Anita sono già a bordo.
Scena seconda. Saada. Séraphin e Anita hanno trovato rifugio presso Giuditta e Octavio. Hanno lasciato prima il circo e poi il cabaret che li aveva assunti e si sono ritrovati senza alcuna entrata. Séraphin decide di tornare in Europa per guadagnarsi da vivere, promettendo di tornare per Anita e sposarla. Giuditta offre all’amico un posto dove stare al suo fianco, mentre Octavio apprende dal compagno Marcelin che il loro reggimento potrebbe presto essere impiegato in campagna.
Scena terza. Ottavio non ha ancora detto a Giuditta della sua imminente partenza. Profondamente possessivo, teme che, una volta lasciata sola, lei lo tradisca e se ne vada. Mentre si salutano, Giuditta chiede a Ottavio di dimostrare il suo amore restando con lei. Lui è sul punto di cedere, ma la parola “disertore” pronunciata da Marcelin lo frena e lo convince a partire con il resto del reggimento. Disperata, Giuditta si lancia in una danza furiosa.
Scena quarta. Tangeri. Circondata dal suo corpo di ballo, Giuditta trionfa sul palcoscenico del cabaret l’Alcazar, dove il cantante Cévenol si esibisce insieme a diversi intrattenitori, tra cui la giovane Lolitta. I numeri di Giuditta hanno affascinato un ricco inglese, Lord Barrymore, che la ricopre di sontuosi regali e spera di invitarla a cena. Alla fine Giuditta accetta le avances del suo nuovo ammiratore, senza sapere che Octavio, che ha lasciato il suo reggimento per trovarla, la sta osservando dall’ombra.
Scena quinta. Una capitale europea. Giuditta è diventata un’amata celebrità. Dopo un’esibizione, si reca in una suite privata di un hotel per cenare con un aristocratico di alto rango. Il pianista ingaggiato per accompagnare il loro incontro discreto si rivela essere nientemeno che Ottavio. Giuditta lo riconosce e gli rivela che i suoi sentimenti per lui sono immutati, ma lui la respinge: non è più capace di amare.

Come sono buone le ciliegine sulla torta, ma una torta fatta solo di ciliegine alla fine risulta stucchevole. Ecco, questo è il caso dell’operetta di Lehár zeppa di melodie fascinose che però dopo un po’ vengono a noia con quell’accompagnamento orchestrale alla linea vocale che ogni tre per due finisce nell’acuto rapinoso. Rispetto alle due operette più famose, La vedova allegra e Il paese del sorriso, Lehár in questo suo ultimo lavoro guarda all’opera: l’orchestra è più grande, l’orchestrazione più meticolosa e il trattamento delle voci più impegnativo – i ruoli vocali erano stati costruiti da Lehár su misura delle voci della Novotná e di Tauber. Un ruolo esigente soprattutto quello del tenore, qui un Thomas Bettinger dai fiati un po’ corti e dalla linea vocale discontinua. La Giuditta di Melody Louledjian è tecnicamente solida, ma la voce del soprano francese con origini armene non seduce, gli acuti non sono potenti, la linea vocale difetta di omogeneità. La presenza scenica e i movimenti di danza sono ricercati ma il risultato è poco convincente. Meglio la coppia comica di Anita e Séraphin, Sandrine Buendia et Sahy Ratia, uniti da una bella complicità, scioltezza vocale e sicura presenza scenica. Ottimo il Cévenol di Jacques Verzier, mentre Nicolas Rivenq e Christophe Gay fanno valere la loro consumata esperienza teatrale in più parti. Sul podio il viennese Thomas Rösner dirige con competenza e precisione, ma non coglie le diversità di colore offerte dalla partitura né le esigenze di un ensemble vocale che forse aveva bisogno di essere meglio accompagnato.

È curioso che ci siano le nacchere nell’orchestra di Giuditta quando nessuno degli eventi si svolge in Spagna. In realtà, è in Spagna che i librettisti avevano originariamente ambientato la vicenda molto simile a quella della Carmen, almeno quando Giuditta incita il suo bell’amante legionario alla diserzione. Ma nel 1933 Mussolini era diventato il principale alleato dell’Austria del cancelliere Dollfuss e Lehár ritenne politicamente più opportuno trasporre l’azione in Italia, trasformando il romantico legionario in un ufficiale italiano diretto in Libia, allora in piena occupazione coloniale. Quanto alle nacchere e alle españolades, sono rimaste al loro posto nelle parti già scritte. Lehár ebbe l’idea di inviare la sua partitura, debitamente autografata, al Duce, il quale, scandalizzato dal soggetto (un ufficiale italiano spinto alla diserzione da una donna promiscua che aveva appena lasciato il legittimo marito!), gliela restituì senza tanti complimenti.

Qui all’Opéra du Rhin l’azione si sposta nel sud della Francia, poi in Marocco, quindi sotto il protettorato francese, e infine in una capitale europea non specificata. Si utilizza infatti la versione in francese di André Mauprey e non quella originale in tedesco. Già il libretto originale non è il massimo della genialità, nella traduzione non migliora, anzi.

La nostra sensibilità contemporanea rivela poi una serie di questioni non secondarie in questo libretto – il maschilismo e la sua violenza (Giuditta viene schiaffeggiata o aggredita in diverse occasioni), l’eroticizzazione sistematica delle donne ridotte a meri oggetti di desiderio sessuale, gli abusi del colonialismo – ma il regista Pierre-André Weitz si astiene da qualsiasi riflessione su questi temi a favore di una lettura superficiale e una scenografia spettacolare, ricca di color. L’ambientazione della prima scena all’ingresso di un tendone da circo con culturisti, trapezisti e personaggi quali una donna cannone, un nano e due gemelle siamesi, ricorda Freaks il film di Tod Browning uscito due anni prima, ma senza l’occhio critico di quest’ultimo. Le tele dipinte, il modello della nave che attraversa il Mediterraneo, il cabaret nella quarta scena e il ristorante elegante nella quinta, sono riusciti e accattivanti, ma il regista non riesce a dare sostanza e vita ai personaggi: Giuditta è senza fascino e mistero, il militare una figura monodimensionale. Che poi la vicenda si svolga negli anni più terribili del Nazismo non ha la minima implicazione nell’allestimento, se non una croce uncinata sul bracciale del lord inglese (?) con cui Giuditta ha un appuntamento galante. La riproposizione di questo raro titolo avrebbe avuto senso con una lettura più problematica della vicenda, cosa che qui è mancata.

Les brigands


foto © Agathe Poupeney

Jacques Offenbach, Les brigands

Parigi, Opéra Garnier, 21 giugno 2025

★★★★☆

(registrazione video)

Un Offenbach che sa di aglio e sudore

Sono pochi i titoli di Offenbach creati per Palais Garnier o l’Opéra Bastille negli ultimi cinquant’anni, da quando cioè il compositore è entrato in repertorio con Les contes d’Hoffmann nella produzione di Chéreau del 1974. La tradizione delle opéras-bouffes di Offenbach si è infatti cementata intorno alla coppia Marc Minkowski e Laurent Pelly all’Opéra de Lyon, con indimenticabili spettacoli di cui rimangono preziose registrazioni in CD e video. Per rimediare, l’Opéra de Paris affida a Stefano Montanari e a Barrie Kosky il compito di far rivivere le deliranti vicende di Les brigands.

È un Offenbach «che sa di aglio e di sudore», dice il regista di questa sua produzione, e per recuperarne l’originaria impertinenza e carica provocatoria, la ambienta in un universo queer popolato da una variopinta mafia malavitosa in cui regna la fluidità del genere e dove il capo dei briganti Falsacappa ha le fattezze di Divine, la drag queen dei film di John Waters, all’inizio nel famoso abito rosso di Pink Flamingos, accessoriato di pistola, e poi in una varietà di outfit rigonfi e con paillettes. Il travestimento è d’altronde uno degli elementi determinanti in questa vicenda dove i briganti si travestono prima da mendicanti, poi da cucinieri, quindi da nobili spagnoli, infine da carabinieri, e dove il ritratto della promessa sposa al Principe di Mantova, il regno “confinante” con quello di Granada (!), viene scambiato con il ritratto della figlia del capo dei briganti.

Nella lettura di Kosky i dialoghi, spregiudicatamente riscritti, hanno molte allusioni all’attualità politica della Francia. La scenografia fissa di Rufus Didwiszus, un salone grigio sbiadito con modanature Secondo Impero, è arricchita da 11 tele dipinte con paesaggi. Nel secondo atto l’arrivo della principessa di Granada e della sua corte dà luogo a uno spettacolare tableau vivant grondante d’oro. Con i costumi di Victoria Behr, Kosky mette in campo tutti i mezzi dell’Opéra di Parigi per allestire un corteo degno di una produzione particolarmente sontuosa, ad esempio del Don Carlos, in cui i membri della corte spagnola avanzano come in una processione della Semana Santa. La principessa è alla testa del corteo, in un abito ampio e rigido ispirato all’Infanta Maria Teresa di Vienna ritratta da Velazquez, mentre le sue dame di compagnia hanno tutte costumi di alta moda disegnati individualmente. Gli uomini arrivano su cavalli da tiro a rotelle in farsetti, gorgiere e pantaloni d’oro. Le ballerine indossano i trajes de luces ricamati in oro dei toreador e tutti hanno i capelli di un vivace colore arancione. In fondo un Cristo in grande scala, quasi nudo e palestrato, ondeggia lentamente affiancato da due vergini dei dolori in nero, su piedistalli d’oro, una circondata da candele, l’altra da gigli. Se tra il pubblico si era alzato qualche sopracciglio al primo atto, questo quadro mette tutti d’accordo per la teatrale e ironica opulenza degna del miglior Kosky.

Anche nelle altre scene il palcoscenico brulica di un numero enorme di persone – solisti, coro, ballerini, figuranti – ma ognuno ha sempre qualcosa di speciale da fare, anche solo dimenare il fondoschiena verso il pubblico. Tutti quei movimenti frenetici e brulicanti della folla, avanti e indietro, mentre si indossano nuovi travestimenti, sono minuziosamente gestiti nella loro finta stravaganza. Si aggiungano le coreografie da cabaret di Otto Pichler per completare uno spettacolo trasgressivo e allegramente oltraggioso.

Coerente con la visione del regista è la recitazione degli interpreti, primo fra tutti il monumentale Marcel Beekman quale Falsacappa/Divine, che mescola registri diversi in una tessitura allungata e androgina. La figlia Fiorella ha le fattezze e la voce di Marie Perbost, soprano agile e corposo, mentre il mezzosoprano Antoinette Dennefeld delinea il vivace amante Fragoletto. Mathias Vidal (Principe di Mantova) dimostra ancora una volta la perfezione del suo stile unita a una sana dose di autoironia. Philippe Talbot era presente nella produzione del 2011 de Les brigands e qui ritorna nella stessa parte del Comte de Gloria Cassis, quello che canta i versi più famosi dell’opera: «Y’a des gens qui se dis’nt Espagnols | et qui n’sont pas du tout espagnols». Cast di lusso anche per le parti secondarie affidate ai veterani delle vecchie produzioni di Pelly/Minkowski: Yann Beuron come Le Baron de Campo-Tasso apporta il suo fraseggio elegante e la sua solita verve; Laurent Naouri affronta con gusto la parte del capo dei carabinieri, qui flic parigini col kepì; l’inconfondibile Franck Leguérinel si fa riconoscere come Barbavano (fu Pietro nel 2011) ed Eric Huchet (allora Falsacappa) come Domino.

Nella ripresa delle recite di giugno, Stefano Montanari è sostituito da Michele Spotti che aveva concertato Barbe-Bleu a Lione e che anche qui si adatta alla perfezione allo spirito dell’Opéra-Bouffe di Offenbach con tempi appropriati e grande gusto strumentale.

Norma

foto © Brescia e Amisano

Vincenzo Bellini, Norma

Milano, Teatro alla Scala, 4 luglio 2025

★★★

(video streaming)

Il tabù infranto

Presentata alla Scala il 26 dicembre 1831 con Giuditta Pasta protagonista, Giulia Grisi Adalgisa e Domenico Donzelli Pollione, Norma ora torna alla Scala 48 anni dopo l’ultima volta, quasi mezzo secolo in cui non si è osato riprendere il titolo. 

Certi “fantasmi” (leggi Maria Callas…) hanno tenuto lontano quest’opera per così tanto tempo dal teatro milanese e che ci si aspettasse una reazione non inerte da parte del pubblico era previsto, così come non hanno troppo sorpreso i fischi verso il regista e il suo team (cosa non rara, d’accordo, alle prime milanesi, ma questa volta unanimi e senza appello). Di Olivier Py ricordiamo molte messe in scena interessanti, qui alla Scala la sua Thaïs, ad esempio. È un regista dalla cifra molto evidente: ambientazioni moderne, eleganti e stilizzate, spesso al limite del Kitsch, molto nero e oro, controscene di figuranti e danzatori in una drammaturgia mai banale, ma in questo caso poco convincente.

Norma è una diva (attrice, cantante? non si sa) non più giovanissima, che se la deve vedere con una rivale più giovane. La vicenda è ambientata dal regista francese «in un Ottocento che è quello risorgimentale nel quale la partitura è stata scritta, quando in Italia ci si interrogava se agire o non agire, fare o interrompere la rivoluzione, prendere le armi o fare la pace. Se si toglie Norma dal contesto storico della sua scrittura, si perde moltissimo. Perché Norma è un’opera profondamente risorgimentale, persino più di Nabucco» dice Py. Norma si confronta con la figura di Medea, « due miti che la Callas, il fantasma che aleggia qui, ha portato sul palcoscenico. Norma è una Medea che non riesce a uccidere i suoi figli, perché è una donna dell’Ottocento, una donna italiana e l’Italia non uccide i suoi figli, dicono Bellini e il librettista Felice Romani».

Fin dalla sinfonia scopriamo l’ambientazione pre-risorgimentale con un rivoluzionario in camicia rossa che entra correndo con una bandiera italiana, piuttosto anacronistica nel 1831, ma viene arrestato e fucilato da figuranti in divisa austriaca. Il suo cadavere è poi adagiato sulla suddetta bandiera da Pollione/Mazzini tra il pianto di donne in gramaglia. Come nella scenografia del Nabucco di Arnaud Bernard all’Arena di Verona, in quella di Pierre-André Weitz la facciata del Piermarini campeggia in mezzo alla scena, ma quando ruota sull’immancabile piattaforma girevole non svela l’interno del teatro, bensì una scalinata da tempio classico ma dorata e un intreccio di altre scale su cui si muovono uomini in redingote e alto cappello a cilindro e gli onnipresenti danzatori a torso nudo e maschera, d’oro quando non sono impegnati nelle inutili coreografie di Ivo Bauchiero. Capelli fulvi ed elegante abito da sera, anche i costumi sono firmati da Pierre-André Weitz, Norma entra con un ramo di vischio e una sfera nera da veggente mentre dall’alto scende la sagoma di una grande luna. La struttura non smetterà mai di roteare e i danzatori di affacendarsi con teschi, maschere d’oro e finti fucili con cui uccidere nel finale la coppia invece del rogo. Le fiamme erano comparse in cartonato in una delle tante pantomime.

Contrariamente a quanto si potesse prevedere, trionfano le voci femminili. Nella parte del titolo è la volta del soprano lettone Marina Rebeka affiancata dalla Adalgisa di Vasilisa Beržanskaja, mezzosoprano russo, ed è un trionfo, soprattutto per la seconda. Molto meno entusiasmante il Pollione di Freddie de Tomaso e come sempre esemplare l’Oroveso si Michele Pertusi nonostante l’usura della voce.

All’indomani della prima si sono letti giudizi diametralmente opposti da parte di due importanti firme del giornalismo: «Bontà dell’esecuzione musicale, tenore a parte, con due prime donne splendide e la direzione di Luisi che valorizza con rara sensibilità quegli accompagnamenti al canto dove solitamente i direttori rimestano la zuppa nel paiolo» scrive Francesco Maria Colombo. «La direzione: l’orchestra di Luisi è una morta gora limacciosa nelle sue rarissime pulsioni dinamiche, opaca sempre, chiassosa spesso, colori mai, elasticità ai minimi termini, logica narrativa yo-yo tra quello che Cimarosa chiamava «oh che armonico fracasso» nei momenti concitati e catatonia plumbea in quelli elegiaci», afferma Elvio Giudici.

In realtà la direzione di Fabio Luisi è generalmente apprezzabile. Rispetto alla prima nel corso delle recite, questa è la terza, certi squilibri sonori si sono probabilmente limati. Luisi è a suo agio in questo repertorio e ha diretto solo la scorsa estate Norma a Martina Franca. Non viene quindi messa in discussione la padronanza tecnica e la capacità a sostenere i cantanti. È stata poi scelta l’edizione critica di Roger Parker che reintegra, tra l’altro, il finale del coro di guerra e il da capo del primo duetto Norma-Adalgisa.

In definitiva si è trattato di uno spettacolo con luci e ombre con il quale perlomeno si è rotto il tabù che aveva impedito al teatro milanese di mettere in scena questo ineludibile titolo del Belcanto italiano.

West Side Story

Leonard Bernstein, West Side Story

Roma, Terme di Caracalla, 5 luglio 2025

★★★★☆

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La fine del sogno americano


Nel West Side Story di Michieletto alle Terme di Caracalla, l’America non è più terra di speranza ma scenario di disillusione. In una piscina vuota, emblema di un sogno infranto, Jets e Sharks incarnano un conflitto sterile. Regia lucida e amara, direzione intensa di Mariotti, interpreti efficaci. Spettacolo potente, ma penalizzato da una pessima amplificazione.

Allora, negli anni ’50, gli immigrati negli Stati Uniti si scazzottavano per le strade. Ora vengono prelevati e chiusi in gabbia a El Salvador. Da terra di speranza, l’America è diventata il lager dei derelitti.

Quando, mesi fa, fu concepita la nuova produzione di West Side Story gli U.S.A. erano diversi da quello che sono diventati oggi e lo spettacolo di Damiano Michieletto, pur in parte profetico, non è riuscito a star dietro alla corsa degli eventi che abbiamo vissuto a partire dalle elezioni di novembre in un paese che ha segnato i nostri gusti, i nostri desideri, che è stato un modello di vita nel Novecento, ma il cui sogno ora si è infranto in modo repentino.

Dopo Mass di tre anni fa il regista veneto torna a Bernstein in uno spettacolo all’aperto per l’estate romana, ma questa volta anche come direttore del festival. A contrasto con le terme di un impero crollato, qui Michieletto ricrea il West Side con una piscina. Però è abbandonata, in disuso, vuota, luogo simbolo di una innocenza perduta, di un’adolescenza disillusa. Questo posto desolato è uno scampolo di terra conquistato delle due bande rivali, i Jets e gli Sharks, che se ne contendono lo spazio per affermare la loro superiorità, di immigrati bianchi i primi, di immigrati portoricani i secondi.

Michieletto rinuncia a una lettura nostalgica e realistica della vicenda, dandone invece una spoglia e in parte simbolica: in scena vediamo un gonfiabile dorato a forma del logo del dollaro mentre grosse lettere luminose montate su rotelle formano parole come miracle o America, parole a cui però nessuno crede più. La fiaccola della Statua della Libertà giace a terra a pezzi, quella statua che oggi innumerevoli cartoonist americani disegnano disperata, piangente o con la valigia in mano per scappare da quella che una volta era la «Land of the free, home of the brave», come recitano i versi di The Star-Spangled Banner, l’inno nazionale U.S.A. Durante la sarcastica Gee, Officer Krupke Michieletto ci regala un numero “alla Kosky” quando il suddetto poliziotto entra in scena con una gran testa di cartapesta assieme alle sagome in cartone delle altre figure richiamate nella canzone. Il gusto amaro del sarcasmo sembra permeare anche il messaggio di pace e tolleranza di quest’opera alla luce di quanto avviene oggi, tingendolo di una certa mestizia.

Con lo sfondo delle grandiose rovine delle Terme di Caracalla illuminate da una luce color ambra, la scenografia di Paolo Fantin si staglia per i colori freddi della vasca, i fumi e il bellissimo gioco luci di Alessandro Carletti che dà spazialità alla scena unica in cui si individuano tre piani: quello del fondo della piscina, quello intermedio dei bordi e la piattaforma del trampolino, il balcone di Maria/Giulietta per l’incontro con Tony/Romeo.

I costumi di Carla Teti ricreano l’epoca – il musical di Bernstein, Laurents e Sondheim è del 1957 – , in bianco i Jets, coloratissimi i portoricani e le loro ragazze. Le coreografie di Sasha Riva e Simone Repele distinguono le due bande con movimenti più stilizzati per i Jets, sinuosi quelli dei portoricani, ma entrambi nervosi, spigolosi, ben diversi da quelli delle coreografie storiche di Robbins. In azione è il corpo di ballo del Teatro dell’Opera di Roma che si confonde con i cantanti impegnati quindi non solo in passi di danza ma anche in momenti di recitazione con risultati più che accettabili per una compagnia italiana.

Del fitto cast ricordiamo il Tony di Marek Zukowski, la migliore voce maschile, con una sicura presenza scenica, bel timbro e ampia proiezione spiegata nell’immortale pagina di Maria e poi nel duetto Tonight. Sofia Caselli ha l’incantevole ingenuità del personaggio di Maria con una voce molto sottile ma ben intonata in I feel pretty, ma sa toccare la corda drammatica nel finale. Efficace il Bernardo di Sergio Giacomelli e soprattutto la Anita di Natascia Fonzetti, irresistibile nel delineare il suo personaggio a cui Bernstein dedica un’altra pagina memorabile, quella di America. L’altra canzone super popolare, quella di Somewhere, qui bisogna dire che è deludente, sia per la voce dell’interprete che la canta, sia per la coreografia un po’ banale.

Michele Mariotti alla testa di una vera orchestra sinfonica, quella del teatro, ci ricorda che Bernstein è stato uno dei massimi compositori del secolo scorso, grande creatore di melodie e fantastico strumentatore. Nella direzione di Mariotti lo si sente chiaramente: il Novecento sinfonico, le pagine irte di complesse poliritmie, il Jazz, e la musica latina in tutte le innumerevoli varietà stilistiche sono egualmente presenti. Peccato per la tutt’altro che eccelsa amplificazione sonora – signori dell’Opera di Roma, fatevi un viaggetto a Bregenz per vedere come si amplifica la musica all’aperto – e per l’unz-unz proveniente dalla Festa dell’Unità dall’altra parte della strada…

Grande successo di pubblico e insistenti applausi per gli artisti scatenati sulle note del Mambo! 

La Resurrezione

foto © Fabrizio Sansoni

Georg Friedrich Händel, La Resurrezione

Roma, Basilica di Massenzio, 4 luglio 2025

★★★☆☆

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Quando il diavolo veste in lamé


Il Festival di Caracalla 2025, curato da Damiano Michieletto e intitolato Tra sacro e umano, si apre con La Resurrezionedi Händel. L’oratorio, eseguito dalla Orchestra Nazionale Barocca dei Conservatori diretta da George Petrou, convince solo nelle voci femminili. La regia di Ilaria Lanzino, attualizzata in chiave familiare e borghese, risulta confusa, di gusto discutibile e accolta con freddezza.

“Tra sacro e umano”, così si intitola il festival estivo di Caracalla 2025, un cartellone ricco e multidisciplinare, curato da Damiano Michieletto, che si snoda tra opera (Traviata, Don Giovanni), musica sacra (La Resurrezione), musical (West Side Story), danza e concerti pop.

Dà il via l’oratorio sacro che il giovane Händel scrisse durante il suo viaggio in Italia nel 1708 a Roma ospite della famiglia Ruspoli: una commissione di papa Clemente XI impegnato nella guerra di successione spagnola. Stupisce la decisione di incaricare un luterano come Händel per un oratorio pasquale di argomento così cattolico, ma probabilmente la scelta faceva parte di una meditata strategia tesa a celebrare la “resurrezione” della chiesa cattolica contro i nemici protestanti, oltre ovviamente alla grande fama del Sassone.

L’8 e 9 aprile di quell’anno viene dunque eseguito a Palazzo Bonelli (oggi Valentini) di piazza Santi Apostoli uno dei più costosi e spettacolari oratori che si fossero visti allora a Roma: «l’Oratorio per la Risurrettione di Nostro Signor Giesù Cristo su poesia del Sig. Carlo Sigismondo Capece e musica del Sig. Giorgio Federico Hendel», come si legge sul libretto stampato in ben 1500 copie. L’impresa frutterà al marchese Ruspoli il titolo di principe di Cerveteri l’anno successivo. Il teatro ligneo allestito al piano nobile del palazzo prevedeva quattro gradinate per l’orchestra e un podio per il concertino degli archi diretto da Arcangelo Corelli. Gli strumentisti erano parzialmente celati alla vista del pubblico da una tavola riccamente decorata con cornucopie e da una grande tela di 12 metri quadrati dipinta da Michelangelo Ceruti raffigurante la resurrezione di Cristo in un tripudio di putti e cherubini, l’angelo seduto sul sepolcro per l’annunciazione alla Maddalena, Maria di Cleofa e Giovanni Battista. Sullo sfondo demoni che sprofondano nell’abisso. Sono i personaggi che troviamo nei 23 numeri (tra cui due duetti e due cori) ripartiti in due parti e otto scene. (1)

Sulla tela era intagliato il titolo dell’oratorio con lettere alte 18 cm retroilluminate da candele sorvegliate da due uomini di guardia! L’orchestra era composta da 36 archi, due trombe, un trombone, due oboi, flauto e fagotto. La parte di Maria Maddalena era sostenuta da Margherita Durastanti nonostante il divieto papale di far cantare donne sulle scene pubbliche, infatti dopo le due esecuzioni private, nelle repliche pubbliche fu sostituita da un evirato cantore. Una delle arie di Maddalena è la frivola «Ho un non so che nel core», che conclude la seconda scena della prima parte e che la Durastanti canterà l’anno successivo a Venezia nella profanissima Agrippina, uno dei tanti esempi di disinvolti autoimprestiti comuni all’epoca.

Ora, sotto la maestosa volta a botte dei ruderi della basilica di Massenzio, ma con il rumore del traffico romano e i garriti dei gabbiani sopra il Colosseo e i Fori Imperiali, la musica della volenterosa Orchestra Nazionale Barocca dei Conservatori – progetto sostenuto dal Ministero dell’Università e della ricerca in collaborazione con Conservatorio “Alessandro Scarlatti” di Palermo – viene amplificata in modo tale da appiattire i suoni così che diventa difficile giudicare la resa strumentale (che non sembra eccelsa, comunque) e la direzione di George Petrou, frequentatore assiduo del repertorio händeliano, asciutta e precisa in cui si nota però un certo allargamento dei tempi che si riflette sulla fatica dei cantanti, soprattutto maschili: un Charles Workman (Giovanni) sempre grandissimo stilista ma troppo sobrio e un Giorgio Caoduro in difficoltà con l’impegnativo ruolo di Lucifero. Alla fine della rappresentazione saranno gli interpreti meno applauditi.

Lodi incondizionate invece per le voci femminili. Sara Blanch è un angelo dalla voce cristallina e sicura tecnica che svetta nelle agilità della iniziale «Disserratevi, o porte d’Averno» o nella successiva «Risorga il mondo, lieto e giocondo col suo Signor» fino alla drammatica «Se per colpa di donna infelice». Ana Maria Labin (Maddalena) si esprime invece in un registro più introspettivo e doloroso, con una linea di canto attenta alla bellezza del suono. Perfetta la Cleofe di Teresa Iervolino, anche lei impegnata negli sbalzi e nelle puntature di «Naufragando va per l’onde», l’immancabile aria dove la metafora della tempesta di mare riflette i tumulti dell’anima umana. Prima aveva offerto un grandioso esempio di espressività emotiva unita a perfetta tecnica vocale con l’intensa «Piangete, sì piangete».

È la grande eterogeneità dei numeri musicali dell’oratorio a crearne la drammaturgia senza scene, ma ultimamente molti pezzi sacri vengono presentati con un’ambientazione e una drammaturgia che spesso aggiungono un qualcosa di più alla fruizione del lavoro: è il caso del Saul allestito da Kosky a Glyndebourne nel 2015 o da Guth a Vienna nel 2021. Per non parlare del recente Stabat Mater di Castellucci a Ginevra. Ci prova anche Ilaria Lanzino, pisana attiva all’estero come regista, in Polonia ma soprattutto in Germania, la patria del Regietheater, dove ha fatto diventare Lucia di Lammermoor un uomo. Ora debutta in Italia con questa sua lettura dell’oratorio händeliano come racconto di una famiglia contemporanea in lutto per la perdita del figlio. Il solenne tema sacro viene quindi svolto nell’intimità borghese di una coppia devastata dal dolore, ma fin dall’inizio si evidenziano problemi con la sua drammaturgia: come è prassi comune il lavoro di Händel è introdotto da una Sinfonia tripartita nei movimenti Allegro-Lento-Allegro, ed è appunto sul tema allegro iniziale che entra in scena un mesto corteo funebre con la piccola bara bianca del morticino. Un effetto decisamente straniante. Ma è il secondo allegro che dà il tono della sua ambientazione, allorché entra in scena un gruppo di cheerleader d’entrambi i generi capeggiato da un angelo dalle ali spelacchiate che dopo aver intonato la sua prima aria se la deve vedere con Lucifero che si era camuffato nel gruppo, ma che ora, smascherato, si ripara dietro le quinte per poi riapparire indossando il suo vero abito: se il diavolo veste Prada, qui porta un lungo abito nero da sera con paillettes, parrucca e trucco pesante. Insomma, ci dice la regista, il travestimento da drag queen è diabolico e il male sta nella commistione dei generi. I partecipanti dei Pride ringraziano…

Sulle note del sacro oratorio assisteremo poi al tableau vivant con fermo immagine del piccolo portato inutilmente in ospedale dove è presente, chissà perché, un clown. In seguito vedremo il dramma della madre (Maddalena) prima in crisi religiosa, poi consolarsi con l’alcol e quindi venire poco cristianamente cacciata di casa dal marito (Giovanni) che si consola con un’altra sposa, già incinta però, con la quale convola a nuove nozze. O era un flashback del primo matrimonio? Chissà. Nel finale arriva dalla platea un bambino, biondo ovviamente, che si porta via la mamma n° 1 mentre quella n° 2 col neonato in braccio, assieme alla nonna Cleofe, Lucifero, il clown e altri personaggi intonano il coro finale «Diasi lode in cielo e in terra».

Se con questo suo spettacolo Lanzino voleva aprirsi la strada verso i teatri italiani non so se ci è riuscita. Lo spettacolo è sì tecnicamente ben costruito, ma per nulla pertinente e zeppo di momenti che non sono atti di irriverenza ma semplice e gratuita caduta di gusto. Nella scenografia di Dirk Becker la solita piattaforma rotante illustra i vari ambienti realisticamente definiti: l’altare della chiesa; la stanzetta del bambino con i suoi peluche; la camera da letto dei genitori dove il marito cerca di consolare sessualmente la moglie mentre lei gorgheggia «Ho un non so che nel core», scambiando la visione mistica di Maddalena con i mugolii di un orgasmo…

I costumi di Annette Braun e le luci di Marco Filibeck completano visivamente una lettura che secondo la regista si ispira al cinema d’autore: Antichrist di Lars von Trier; La stanza del figlio di Nanni Moretti; The Broken Circle Breakdown di Felix van Groeningen; So Long, My Son di Wang Xiaoshuai. Tanta roba per uno spettacolo infelice accolto piuttosto freddamente dal pubblico che ha risposto con applausi da minimo sindacale al termine di questa terza replica. Stasera l’ultima.

(1) Parte I. Scena 1 – In un dialogo fra l’Angelo e Lucifero, quest’ultimo domanda da dove venga tanta luce e il motivo di quell’insolita visita. La creatura celeste risponde annunciando la venuta del Re. Il signore degli abissi, cacciato un tempo dal Paradiso, crede ora di aver avuto la sua rivincita poiché in quel giorno il Figlio di Dio è stato sconfitto dalla morte. L’Angelo gli impone di tacere; infatti egli non comprende che Dio ha scelto di soffrire la Passione per amore e che con il suo gesto ha riscattato l’umanità e vinto la morte. Scena 2 – Maddalena e Cleofe si dolgono della morte di Gesù, quindi giunge Giovanni a consolarle e infondere in loro la speranza giacché il terzo giorno, quello della Resurrezione, è prossimo. Maddalena e Cleofe si recano presso il sepolcro di Cristo con balsami e unguenti, mentre Giovanni si reca a confortare la Vergine Maria. Scena 3 – L’Angelo invita le anime dei morti a uscire dal tetro luogo ove per lungo tempo hanno atteso il momento di seguire Cristo nel giorno del trionfo della vita.
Parte II. Scena 1 – Rimasto solo, Giovanni racconta le lacrime versate dalla terra e la speranza di veder risorgere il Dio vincitore. Scena 2 – L’Angelo intona una lode alla Resurrezione del Signore e del mondo che egli ha salvato. All’udire quelle parole, Lucifero è mosso a vendetta e proclama la sua intenzione di confondere gli animi umani e impedire alle pie donne di diffondere la notizia che Cristo è risorto. Scena 3 – Maddalena e Cleofe, giunte al Sepolcro, rammentano che Gesù non ebbe timore di affrontare la morte per loro. Scena 4 – Cleofe ha l’impressione che il cielo si stia rasserenando, poi nota che la tomba è aperta e che un giovane è assiso a destra. Maddalena esorta l’amica ad avvicinarsi alla misteriosa creatura da cui sente promanare un senso di consolazione. L’Angelo annuncia alle donne che Gesù non è più nella tomba, ma è risorto dai morti e che il felice messaggio deve essere riferito a tutti. Colme di gioia, esse cantano lodi e vanno cercando il Signore. Scena 5 – Cleofe si imbatte in Giovanni che le domanda dove sia diretta ed ella lo informa della notizia e del modo in cui le è stata rivelata. Poco dopo i due vengono raggiunti da Maddalena, che narra loro come abbia visto il Signore e gli sia corsa incontro per baciargli le piaghe, ma egli le abbia detto di non poter essere toccato e sia scomparso. A quelle parole Giovanni comprende che il tempo del dubbio è finito, Gesù è risorto e con lui il mondo è salvo. Il coro invita a lodare Dio in cielo come in terra.