Novecento

Matrimonio al convento

Sergei Prokof’ev, Matrimonio al convento

Musiktheater an der Wien, Vienna, 26 marzo 2025

★★★★☆

Pesci puzzolenti, travestimenti e frati gaudenti

Alla fine sono ben tre i matrimoni in questa vicenda di pesci, frati gaudenti e travestimenti. Composta nel 1940 ma presentata al pubblico solo sei anni dopo e presto ritirata perché non gradita al regime di Stalin, venne ripresa nel 1959, ma al di fuori dell’URSS. Una bella produzione di Matrimonio al convento è quella del 1998 al Mariinskij approdata poi al Regio di Torino nel marzo 2004. In quella occasione Daniele Martino scriveva di «filtro perfetto di tradizione buffa italiana e opera russa» riguardo alla direzione di Gianandrea Noseda. Lo stesso si può ripetere per la lettura scoppiettante di Dmitrij Matvienko alla guida dell’ORF Radio-Symphonieorchester Wien in questa edizione del Musiktheater an der Wien. Sotto la sua bacchetta si esalta la «beffarda pernacchia circense» con cui viene stravolto il minuetto settecentesco approntato da Don Gerolamo con cornetta e grancassa, per non parlare della confraternita di frati avvinazzati da Carmina Burana dai nomi inequivocabili (fratello Elixir, fratello Chartreuse, fratello Bénédictine…) che brinda con cori da Boris Godunov ribaltati al sarcasmo, e qui l’Arnold Schoenberg Chor istruito da Erwin Ortner si conferma uno dei cori più duttili nei teatri europei.

Tra gli interpreti si riconosce Evgenij Akimov, allora a Torino il giovane Don Antonio, qui un anziano Don Gerolamo dai mezzi vocali un po’ stanchi. Così come quelli di Valerij Gilmanov, che affida soprattutto alla vivacità scenica la sua definizione di Mendoza, il puzzolente boss del mercato del pesce di Siviglia. Molto meglio le voci dei giovani: Stacey Alleaume è una Luisa vibrante e dalla bella voce lirica;  Anna Goriačëva è Clara, fanatica degli schemi morali, cantante eccellente in voce e presenza scenica. Scalzata dal titolo originale del lavoro da cui è tratto il libretto – il settecentesco The Duenna or The Double Elopment di Richard Brindsley Sheridan – la dueña si riprende la scena con la verve e il temperamento di  Elena Maximova, mentre Pëtr Sokolov (Don Ferdinando) e Zoltán Nagy (Don Carlos) si distinguono tra gli interpreti secondari più efficaci.

Con la drammaturgia di Kai Weßler, che ambienta la favola negli anni ’60, Damiano Michieletto allestisce uno spettacolo ironico e fluido che Paolo Fantin, da par suo, rende memorabile per le geniali scenografie: il palcoscenico a tre gradini, tramite la discesa dall’alto di pareti costellate di porte, si trasforma in ambienti di diversa dimensione. I bordi marcati dal neon – neanche stavolta “Fantineon” rinuncia alla sua cifra… – danno al tutto un tocco moderno e surreale, sottolineato dalla calata dall’alto di un enorme pesce lucido e guizzante che nel finale si ridurrà a una lisca spolpata. I costumi azzeccatissimi di Klaus Bruns e gli interventi coreografici di Erika Rombaldoni completano la parte visuale di questa produzione di cui è ancora da menzionare il sempre puntualissimo light design di Alessandro Carletti che gioca molto abilmente con colori e ombre. L’entusiasmo del pubblico e le acclamazioni finali suggellano giustamente la riuscitissima serata.

Wozzeck

Alban Berg, Wozzeck

Mosca, Bol’šoj Teatr, 24 novembre 2010

★★★★☆

(registrazione video)

Due russi per un Wozzeck revisited

Dopo il 1927 a Pietroburgo, il Wozzeck di Alban Berg non è mai stato presentato in Russia. Arriva al Bol’šoj nel 2010 per la prima volta grazie a una produzione di Dmitrij Černjakov. Una trasposizione audace, con cui il regista russo ha voluto «mettere in luce i dolori nascosti di un uomo di fine Novecento che vive in una megalopoli». Infatti, Wozzeck non è un soldato, non è un emarginato, non è un rappresentante della classe oppressa: è uno dei tanti abitanti di una grande città.

Come gli altri milioni di abitanti ha una vita di routine e i suoi sentimenti sono “ibernati” o meglio trasferiti in una realtà virtuale, un gioco di ruoli. Nei video game si rifugia invece il figlio, anche dopo la morte della madre. Ed è con il cadavere della moglie che Wozzeck finalmente riesce a parlare, dopo essere sempre stato incapace di comunicare con lei. Cosa che avviene anche per gli altri nuclei famigliari – una coppia e un/a bambino/a – che vediamo rappresentati contemporaneamente in una scacchiera di dodici stanze molto simili le une alle altre nella scenografia dello stesso Černjakov. Mondi paralleli, mondi di solitudini. Solo un ambiente prende tutta la scena nella sua larghezza: il bar in cui si svolge la vita “sociale”,  il luogo dove si incontrano le solitudini. Dove va anche Marie per sfuggire alla sua.

Tutti sono simili, anche Il dottore e Il capitano, che qui diventano “Il dottore” e “Il capitano”, i personaggi che si sono scelti in un gioco di ruoli per sfogare le loro pulsioni inespresse, il loro lato folle. Ma anche la loro solitudine. La prima scena è ambientata nella stanza del “Capitano”: i due si vestono in uniforme militare (Wozzeck ha persino una palla al piede), ma è chiaramente una recita. Sono alla ricerca di sensazioni per ravvivare la monotonia. Simile è la scena con il “Dottore”.

Anche la scena dell’assassinio di Marie è un role-play dove lui è il giudice e lei l’accusata, bendata e in piedi su una sedia. Lui le evidenzia col rossetto le labbra – «Was dafür süße Lippen hast, Marie!» (Che labbra dolci hai Marie!), le dice prima di ammazzarla, «Den Himmel gäb’ ich drum und die Seligkeit, wenn ich dich noch oft so küssen dürft! Aber ich kann nicht!» (Darei il cielo e ogni beatitudine se potessi baciarti ancora spesso così! Ma non posso!) – costringendola a indossare il vistoso abito che lei aveva al bar per adescare il Tamburmaggiore. Alla fine Wozzeck non si uccide, tanto è già morto dentro. Vivere così è una punizione peggiore della morte.

Prima di questo Wozzeck Černjakov e Currentzis avevano già lavorato insieme nel Macbeth di Verdi che Mortier aveva voluto fortemente a Parigi. La direzione di Teodor Currentzis mette in luce con chiarezza la struttura musicale voluta da Berg per le quindici scene in cui è divisa la vicenda: cinque pezzi caratteristici per il primo atto (suite [preludio, pavana, giga, gavotta e aria], rapsodia, marcia militare e ninna nanna, passacaglia [ventuno variazioni su un’unica serie] e rondò); una sinfonia in cinque movimenti per il secondo atto (allegro in forma sonata, fantasia e fuga su tre temi [i tre personaggi di Wozzeck, Marie e il bambino], largo in forma di canzone, scherzo, rondò marziale); cinque invenzioni musicali per il terzo (su un tema con sette variazioni e una fuga, sulla nota si, su un ritmo, su un accordo di sei note nella tonalità di re minore, su un movimento regolare di crome). Anche così però, o forse proprio grazie a questa lucida lettura, il dramma diventa più teso, l’emotività più scoperta, stranianti i momenti di musica volgare, da pelle d’oca il crescendo con cui si apre la scena terza dell’ultimo atto. Nello stesso tempo però Currentzis esalta il carattere sinfonico degli interludi orchestrali dove spesso si ascoltano alcuni momenti chiaramente mahleriani. I musicisti dell’orchestra del teatro che non hanno mai suonato quest’opera di Berg si rivelano comunque estremamente duttili nei diversi ensemble previsti dal compositore: la grande orchestra, la banda militare, l’orchestrina da taverna sulla scena, l’orchestra da camera.

Il baritono austriaco Georg Nigl porta sulla scena un Wozzeck fortemente disturbato e molto espressivo, sottolineando la sua incapacità di esprimersi stringendo le mani sul viso e spalancando la bocca come ne Il grido di Munch. I suoi movimenti quasi da automa diventano parossistici quando è ubriaco, altrimenti le sue azioni sono sempre molto contenute. Magnifica la Marie del soprano americano Mardi Byers, bellissima voce lirica e un’interpretazione di grande intensità ma insieme anche liricità. Efficacemente tratteggiati sono gli altri personaggi affidati a interpreti per lo più russi: il Capitano di Maxim Paster, il Dottore di Pëtr Migunov, il Tamburmaggiore di Roman Muravitskij, l’Andres di Roman Šulakov e la Margret di Xenia Vyaznikova.

Der junge Lord

foto © Michele Monasta

Hans Werner Henze, Der junge Lord

★★★★☆

Firenze, Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, 25 maggio 2025

Feroce satira borghese, Der junge Lord di Henze torna al Maggio Musicale Fiorentino diretto da Markus Stenz che ne esalta l’orchestrazione brillante e l’ironia colta. Regia visionaria di Davide Menghini, debuttante al Maggio, tra echi felliniani e neorealisti. Eccellenti Marily Santoro e Antonio Mandrillo. Grande successo per uno spettacolo intelligente, ironico e visivamente sontuoso.

Goethe, freaks, la bella, la bestia

“Opera comica tedesca”. La librettista Ingeborg Bachmann sottolinea il secondo aggettivo nella sua definizione di Der junge Lord. Comica sì, ma non opera buffa italiana. Un’opera con quel particolare umorismo tedesco, che talora è greve, qui invece è estremamente intellettualizzato, arrivando a utilizzare addirittura in senso comico i versi del Faust di Goethe.

Dopo aver accantonato il progetto di mettere in musica Love’s Labour’s Lost di Shakespeare, Henze aveva seguito il consiglio della fidata Bachmann – che gli aveva già fornito il libretto di Der Prinz von Homburg (1958, da Kleist), di Nachtstücke und Arien per soprano e orchestra (1957), dei Lieder von einer Insel (1964) e del testo per il balletto-pantomima Der Idiot (1952, da Dostoevskij) – di sfruttare un racconto compreso nel ciclo “Der Scheich von Alessandria und seine Sklaven”, Der Affe als Mensch (La scimmia come essere umano), pubblicato nel suo ultimo anno di vita da Wilhelm Hauff, favolista morto nel 1827 a soli venticinque anni. Una vicenda inquietante e grottesca in cui si narra dell’arrivo in una placida cittadina tedesca di provincia dell’eccentrico Sir Edgar. Giunto con un seguito di servi neri e di animali, il nobile inglese rifiuta tutti gli inviti, con gran dispetto dei socialiser locali. Per di più, dalla sua lussuosa magione giungono grida scomposte che seminano il panico, ma si viene a sapere che sono del giovane signore del titolo, Lord Barrat, il nipote del proprietario, che viene educato al tedesco tramite gli immortali versi del Faust di Goethe. A un certo punto il misterioso Lord Barrat dà un ballo dove danza con le più belle signore della città salvo rivelarsi alla fine, tra lo sconcerto generale, una scimmia ammaestrata. Rispetto al soggetto originale, la Bachmann inserisce i nuovi personaggi degli innamorati Luise e Wilhelm e ha l’idea, teatralmente efficacissima, di avvolgere il gentiluomo inglese in un’aura enigmatica rendendolo un personaggio muto che parla solo per bocca del suo segretario.

Atto primo. Scena prima. La cittadina tedesca di Hülsdorf-Gotha nell’anno 1830. Tutta la popolazione è in fermento per l’arrivo di un ricco Milord inglese. Le cerimoniose maniere con le quali i notabili di Hülsdorf-Gotha accolgono lo straniero sono farsesche. Nel succedersi di ‘zoomate’ cinematografiche sui diversi gruppi, Luise e Ida notano un bel giovane, lo studente Wilhelm. Mentre la banda militare suona a tutta forza, Wilhelm dà un biglietto a Luise e lei gli offre un fiore. All’arrivo di Sir Edgar, con il suo strano seguito, tutti restano esterrefatti: dalla carrozza sbucano dapprima una capra, poi altri animali. Da una seconda carrozza escono l’elegantissimo moro Jeremy, due lacché, il vecchio maggiordomo e Begonia, la cuoca nera della Giamaica. Lo stupore della folla è ormai al massimo. Solo dalla terza carrozza scendono finalmente il giovane segretario e il placido sessantenne Sir Edgar. Dopo di che, i due si ritirano, lasciando sconcertati gli astanti e rifiutando anche l’invito al pranzo serale poiché, come dice il segretario, «il signore deve concentrarsi sui suoi studi e non gradisce distrazioni». Scena seconda. Salone della baronessa Grünwiesel che ha raccolto intorno a sé tutte le signore bene della città, speranzose di essere notate da Sir Edgar. Sapendo di non poter contare sul suo fascino, la baronessa dirotta i suoi progetti sulla povera Luise che ne è, naturalmente, disperata. Ma, come prevedibile, giunge il gentile diniego da parte di Sir Edgar che non si presenta alla festa. La baronessa, furiosa, decide di rovinargli la vita. Comincia infatti a spargere notizie e insinuazioni sul suo conto che presto dilagano. Scena terza. Giunge un piccolo circo in città. Sir Edgar, per la prima volta, esce di casa, guarda lo spettacolo e lascia dei soldi ai circensi. Inferociti dal suo inaccettabile comportamento e considerando il suo interesse per il circo uno schiaffo alla loro sollecitudine snobbata. Non potendosela prendere con lui, i cittadini decidono di scacciare il circo per ripicca. Sir Edgard invita allora gli artisti (tra cui il direttore del circo e la scimmia Adamo) a casa sua.
Atto secondo. Scena prima. Una notte invernale di Germania, fuori dalla casa di Sir Edgar. I bambini si prendono gioco di Jeremy. Il lampionaio sente dei lamenti provenire dalla casa di Sir Edgar e accorre per prestare aiuto. Nel frattempo, Luise e Wilhelm, innamorati, si incontrano segretamente. Il borgomastro chiede di poter entrare per scoprire di che natura sia quel lamento. Il segretario esce e dice che il nipote di Sir Edgar, Lord Barrat, giunto dallo zio per affinare la sua educazione e imparare il tedesco, trova le lezioni esasperanti ed è solo per quello che soffre e si dispera. Comunque, tra poco, verrà sicuramente presentato alla cittadinanza. Tutti se ne vanno, un poco rassicurati da questa notizia. Scena seconda. Sir Edgar ha organizzato un incontro a casa sua: la società bene di Hüldsdorf-Gotha è tutta schierata e gongolante, compresa la baronessa. Le donne sono affascinate dal nipote di Sir Edgar, Lord Barrat. La baronessa subito gli fa conoscere Luise, che resta ammaliata, in modo inquietante e inspiegabile, dal giovane. Il povero Wilhelm dapprima si sforza di assumere anche lui atteggiamenti stravaganti, ma in realtà non vede l’ora di ritirarsi a parlare di scienze naturali con Sir Edgar. Lord Barrat perde l’autocontrollo e provoca lo svenimento di Luise. Scena terza. Grande sala da ballo. Luise è sola in attesa di Lord Barrat, verso il quale prova un’incomprensibile attrazione. Il giovane giunge con una rosa che strofina contro la mano della ragazza fino a fargliela sanguinare. La fanciulla non riesce a reagire, come ipnotizzata dalla sua presenza e dai suoi modi. La baronessa è felice poiché il pretendente è «poeta, giovane, ricco e Lord». Tutti seguono con interesse la loro evidente passione e viene dato l’avvio al valzer delle debuttanti, sotto la guida di Monsieur La Truiare. Lord Barrat si scatena in una danza insolita e sempre più audace, finché diventa irrimediabilemente scomposta. I giovani dabbene si lasciano sempre più andare cercando di imitarlo e assumendo anche loro atteggiamenti selvaggi. Lord Barrat si mette a suonare in modo folle e stonato una tromba, poi riprende la danza con Luise che fatica a seguirlo. Giunge Sir Edgar che, preoccupatissimo, osserva la scena. Luise viene scagliata contro una parete e si accascia mentre Lord Barrat continua a ballare, salta sopra i tavoli, si rotola per terra. Tutti sono terrorizzati. Sir Edgar è costretto ad estrarre una frusta per ammansire il giovane, che si strappa i vestiti e si svela per Adamo, la scimmia del circo.

Deluso dalle sperimentazioni della scuola di Darmstadt, ma senza per questo ricorrere a un linguaggio passatista, con la sua musica Henze ha sempre dimostrato interesse per la scena, una vera e propria riconquista del teatro musicale in tempi non proprio felici per lo spettacolo. Lo dicono i numeri – quindici opere, sette musiche per balletto, innumerevoli musiche per film – e lo dice la felicità inventiva della sua musica. Der junge Lord venne presentato a Berlino con grande successo il 7 aprile 1965. Un’opera «fuori dell’avanguardia anche più di tante altre cose di Henze», scriveva Fedele D’Amico all’indomani della prima italiana nel 1966 di cui il musicologo aveva curato la versione ritmica in italiano, una musica che «accoglie strutture, ritmi, procedimenti, che vengono più o meno direttamente […] da Falstaff, Gianni Schicchi, Il Cavaliere della rosa…». Ma anche da Il ratto dal serraglio (la banda militare del primo atto) e da Il barbiere di Siviglia per il travolgente ritmo rossiniano con cui sono trattate le scene di insieme. Per non dire della stravinskiana Carriera di un libertino (la scena dell’asta).

Il direttore Markus Stenz ha già tenuto a battesimo altri titoli di Henze avendo diretto le prime di Das verratene Meer (1990), Venus und Adonis (1997) e L’upupa (2003). Ora, in anticipo di un anno rispetto al 2026, centenario della nascita del compositore tedesco ma italiano di adozione, Stenz porta Der junge Lord al Festival del Maggio Musicale Fiorentino ed è la prima volta in lingua originale nel nostro paese. Il direttore tedesco riesce a mettere pienamente in luce la brillante orchestrazione e il virtuosistico intreccio tra procedimenti tonali, atonali e politonali che formano la teatralità della partitura punteggiata inoltre da bellissimi interludi sinfonici che intensificano il tono sospeso tra serio e sarcastico della vicenda. La sua concertazione risolve egregiamente i complessi ensemble vocali che coinvolgono non solo i cantanti solistici ma anche il quasi onnipresente coro, abilmente condotto da Lorenzo Fratini, affiancato dal vivace coro di voci bianche dell’Accademia del Maggio istruito da Sara Matteucci.

Folto e di eccellente qualità il cast, formato da solidi professionisti e da promettenti talenti dell’Accademia del Maggio, in cui si distinguono Marily Santoro e Antonio Mandrillo nella coppia dei due giovani amanti: la prima dà vita alla Luise morbosamente attratta dalla enigmatica figura del Giovane Lord in un’intensa caratterizzazione che sfocia nella lunga aria «Diese Benommenheit» (Questa vertigine) interpretata con grande gusto musicale; il secondo delinea con generosi mezzi vocali il personaggio di Wilhelm. Più macchiettistici gli altri personaggi: tratteggiata con efficacia da Marina Comparato è la Baronessa Grünwiesel; Levent Bakirci è il particolare Segretario del Lord; Nikoletta Hertsak è la giovane Ida con i suoi virtuosismi vocali efficacemente realizzati. Da menzionare almeno il Lampionaio interpretato con grande disinvoltura scenica e lodevoli qualità vocali da Davide Sodini, ascoltato nella Salome che ha aperto il festival fiorentino. Un nome da ricordare. Nel personaggio muto di Sir Edgar l’attore Giovanni Franzoni si muove con nobile eleganza.

Dopo il diploma alla Scuola di Teatro Paolo Grassi di Milano e una breve carriera d’attore, Davide Menghini nel 2020 vince il concorso di regia dal Macerata Opera Festival su un progetto de Il barbiere di Siviglia. Lo stesso anno lavora come assistente di Graham Vick alla Zaide di Roma e di Jacopo Spirei al Ballo in maschera del Festival Verdi del 2021, la stessa opera che metterà in scena quattro anni dopo nel teatrino di Busseto. Dopo una Carmen a Macerata e un Tristano a Palermo, ha da poco ideato L’elisir d’amore visto a Torino e adesso debutta al Maggio Musicale Fiorentino con quest’opera di Henze connotata fin dalle prime immagini dalla sua personalità. Con la scenografia di Davide Signorini, i costumi ironicamente Biedermeier di Nika Campisi e le luci di Gianni Bertoli, Menghini crea un mondo di grande ricchezza visiva che, come la musica di Henze, ha innumerevoli riferimenti, dal Pinocchio illustrato da Fiorenzo Faorzi (nella scena del circo oltre alla funambola e al saltimbanco non manca il mangiafuoco) ai felliniani mascheroni. Non manca il tenero ma arguto richiamo alla Bohème quando Wilhelm regala a Luise un manicotto per riparare le mani dal freddo di «ein deutscher Winterabend» accompagnando il dono con le parole «Tausend Dinge muß ich dich fragen» (Ho mille cose da chiederti) e non può non venire in mente il verso che Giacosa e Illica mettono in bocca a Mimì: «Ho tante cose che ti voglio dire»!

Ma sono l’ipocrisia e il perbenismo il tema caro al regista in questa lettura in cui il diverso è emarginato con violenza, come il servo di colore Jeremy bullizzato dai bambini, «Hu der böse Mohr, der so schwarz wie Sünde ist» (Dagli a quel moro malvagio, nero come il peccato), ma anche come il bizzarro Lord che sfugge alle convenzioni borghesi. Ecco, magari dalla regia ci saremmo aspettati una maggior cattiveria nei confronti di quella società provinciale chiusa e ristretta che era nelle intenzioni degli autori. Qui prevale la festa  per gli occhi, con i danzatori della compagnia KOMOKO, i circensi, i figuranti e cantanti/attori di eccellenza. Lo spettacolo così suscita l’entusiasmo del pubblico foltissimo che è intervenuto alla prima delle tre recite previste. Poche, visto il successo.

Il piccolo Marat

Pietro Mascagni, Il piccolo Marat

Livorno, Teatro Goldoni, 12 dicembre 2021

★★★☆☆

(registrazione video)

Cent’anni dopo 

Livorno ricorda il suo più illustre concittadino mettendo in scena a distanza di cento anni Il piccolo Marat di Pietro Mascagni, opera presentata la prima volta al Teatro Costanzi di Roma il 2 maggio 1921.

Dopo il periodo del disimpegno di Lodoletta e dell’operetta , al compositore erano state proposti due soggetti a sfondo politico: da Illica una Maria Antonietta e da Targioni-Tozzetti e Menasci una Carlotta Corday. Pur rifiutando i soggetti – «Come si può mettere in musica l’acquisto dei voti dei deputati della Convenzione? […]. E poi, Forzano, si può far cantare Robespierre? Lei lo vede Robespierre tenore, o anche baritono, o basso profondo. Io non me la sento», come aveva scritto al librettista – il compositore aveva però continuato a pensare a un’opera ambientata nel clima della Rivoluzione Francese, ma senza personaggi storici.

Nacque dunque Il piccolo Marat, ispirato da Les noyades de Nantes (Gli annegamenti di Nantes) di Georges Lenôtre, un episodio del Terrore che ebbe luogo tra il novembre 1793 e il febbraio 1794 a Nantes quando migliaia di persone sospettate dalla Repubblica (prigionieri politici, prigionieri di guerra, criminali comuni, ecclesiastici e loro familiari) furono annegate nella Loira su ordine di Jean-Baptiste Carrier. Queste vittime morirono in quello che Carrier chiamò il “torrente rivoluzionario” o la “vasca nazionale”. Forzano scrisse alcuni versi, che vennero poi virgolettati per distinguerli dagli altri, del libretto e per il resto fu Targioni-Tozzetti, non senza forti polemiche con Forzano. L’opera al debutto ebbe un enorme successo, replicato subito dopo al Teatro dal Verme di Milano

Atto primo. Il principe di Fleury, sotto mentite spoglie, salva Mariella, nipote dell’Orco, il presidente del Comitato rivoluzionario: la folla affamata l’aveva assalita perché portava un paniere pieno di vivande. Il giovane chiede poi di essere arruolato nei Marats, le guardie rivoluzionarie, e viene quindi soprannominato il Piccolo Marat. Il carpentiere mostra all’Orco il modello dell’imbarcazione sulla quale saliranno i prigionieri: il perverso progetto dell’Orco per liberare le carceri è infatti quello di imbarcare i prigionieri, e poi far esplodere la barca. Ma il carpentiere chiarisce all’Orco che lui è un artigiano, non un boia; e l’Orco, per punirlo, lo condanna ad assistere a tutte le esecuzioni. Il Piccolo Marat riesce a parlare attraverso una grata con la madre, la principessa di Fleury, rinchiusa in prigione, e le promette che la salverà.
Atto secondo. La casa dell’Orco. Mariella canta tra sé e sé. Il Falegname viene a trovarla. È molto cambiato, “emaciato, cenerino, disfatto”. È venuto a chiedere a Mariella di intercedere per lui presso lo zio. I due ricordano com’era un tempo la loro città. Il Falegname confessa di essere una spia del Soldato. Mariella rivela una Madonna in un presepe nascosto dietro il ritratto di Marat, sul quale giura di non tradire il Falegname. Entra il Piccolo Marat. Con le sue azioni dimostra il suo affetto per Mariella. Chiede se il Falegname ha “una barca che va in mare”. Il Falegname ammette di averla. Il Piccolo Marat si accorda con il Falegname per incontrarlo più tardi per l’uso della barca. Entra il “Portatore di ordini” con dei documenti per l’Orco. Il Piccolo Marat li sfoglia, ne estrae alcuni e li mette in tasca. Entrano l’Orco e i suoi uomini. Estorcono oggetti di valore a una serie di prigionieri che vengono portati davanti a loro. L’Orco nota l’assenza di documenti per la Principessa Fleury, cosa che lo fa arrabbiare. L’Orco fa per colpirla e al suo grido entra il Soldato. L’Orco rivela che governa secondo le istruzioni di Robespierre. A questo punto il Soldato commette un errore fatale chiamando Robespierre tiranno. L’Orco batte il Soldato vantandosi con la folla che è entrata nel Palazzo del Comitato e che si avventa sul Soldato, lo lega e lo porta al fiume per gettarlo. Tutti escono, tranne Mariella e il Piccolo Marat che dichiara il suo amore per Mariella e cerca di conquistarla, rivelandole di essere il Principe Jean-Charles di Fleury. La arruola nel suo piano per salvare la madre e Mariella acconsente. I due si nascondono nell’ombra mentre l’Orco, ubriaco, torna e sale le scale verso la sua camera da letto.
Atto terzo. L’Orco si è addormentato: il Piccolo Marat lo lega e lo costringe a firmare un salvacondotto per lui, la madre, Mariella e il carpentiere. L’Orco firma, ma con il braccio rimasto libero riesce a impossessarsi di una pistola e ferisce il principe di Fleury. L’uomo supplica Mariella di fuggire e di salvarsi insieme alla madre. Arriva il carpentiere e con un candelabro uccide l’Orco; quindi si carica sulle spalle il Piccolo Marat ferito e fugge con lui verso la libertà .

«Da una parte i buoni (Mariella, Il piccolo Marat, il carpentiere), dall’altra i cattivi (l’Orco): proprio come nelle fiabe, tanto che nel libretto si citano pure l’orco vero e proprio e Cappuccetto Rosso. Ma Mascagni riesce innanzitutto a descrivere musicalmente il clima del Terrore: i cori degli affamati di pane e di sangue (di bell’effetto è, nel terzo atto, il Coro dei diavoli neri); le pagine orchestrali delineano un’atmosfera tutt’altro che di fiaba, cupa, colma di una paura e di un’oppressione che solo il luminoso finale, con l’apparizione della vela bianca della libertà, riuscirà a fugare. In un affresco storico nel quale l’attenzione si appunta sulla vita di una collettività, spiccano l’Orco, un cattivo tout court che si esprime anche con un modernissimo declamato, e il Piccolo Marat: l’eroe buono e dalla vocalità spinta, che sembra ritornare alle origini del verismo. L’opera non è peraltro immune da una certa dose di retorica, ad esempio nelle ripetute invocazioni di Fleury nei confronti della madre. Così, in un’intervista, Mascagni aveva spiegato le novità del suo lavoro: “Il piccolo Marat è forte, ha muscoli d’acciaio. La sua forza è nella sua voce: non parla, non canta; urla! urla! urla! Ho scritto l’opera coi pugni tesi, come l’anima mia! Non si cerchi melodia, non si cerchi cultura: nel Marat non c’è che sangue! è l’inno della mia coscienza”. In una Roma dove le tensioni del dopoguerra stavano per sfociare nelle elezioni, l’opera venne accolta con un successo trionfale al grido di Viva Mascagni! Viva l’Italia!». (Susanna Franchi)

Se, giustamente, la parola “morte” ricorre 34 volte nel libretto di Forzano, “mamma” è ripetuto ben 44 volte, talora accompagnata dagli attributi «buona, soave, amorosa», ed è anche l’ultima battuta del protagonista principale nel finale di questo drammone a forti tinte che nell’Italia della crisi del dopoguerra e sull’orlo di una rivoluzione comunista, ma che avrebbe visto un anno dopo la Marcia su Roma, ottenne un enorme successo di pubblico per poi finire nel dimenticatoio. Non a Livorno però, dove si contano ben undici produzioni da llora, l’ultima nel 1989. Non tanto la musica, che qui mescola allegramente i linguaggi di compositori coevi ma che, per lo meno nel secondo atto, ha una certa efficacia teatrale, quanto l’orrendo libretto ha tenuto lontano dalle scene non livornesi questo terz’ultimo lavoro di Mascagni che concluderà la sua carriera operistica con Pinotta (1932) e Nerone (1935), questo però scritto recuperando musica composta precedentemente, prima di un decennio improduttivo.

Mentre all’estero le opere della Giovane Scuola vengono riproposte in interessanti produzioni che esaltano il loro taglio cinematografico – Holland Park, Wexford, An der Wien, Francoforte – il ripescaggio di un teatro di provincia come quello di Livorno viene affidato a un direttore di buon mestiere, Mario Menicagli alla guida dell’Orchestra della Toscana, che non sa però trarre il meglio che può offrire questa partitura e a una regista, Sarah Schinasi, che non sfrutta le potenzialità della vicenda, manca in pieno il lavoro attoriale sui cantanti e scade in particolari o ingenui o imbarazzanti, come quella che sembra una fellatio sull’Orco ubriaco. La realistica e semplice scenografia di William Orlandi rende la pesante e cupa claustrofobia della storia ma rinuncia a distinguere i vari ambienti in cui è vissuta. Lo stesso Orlandi disegna i costumi che mescolano inopinatamente epoche diverse.

Meglio va con l’insieme degli interpreti. Sono una dozzina i personaggi, ma tre quelli più importanti. Il ruolo tenorile del titolo è estremamente impervio con un declamato importante e un registro acuto esigente che Samuele Simoncini risolve con sicurezza e timbro squillante. Per l’Orco Andrea Silvestrelli dispone del volume adeguato e dei suoni gravi necessari per delineare la parte di uno dei vilain peggiori della storia dell’opera. Valentina Boi è una Mariella remissiva che trova nel primo amore la forza per vivere. La cantante, se non per la presenza scenica, rende convincente il personaggio con una efficace performance vocale fatta di tanti recitativi e repentini salti all’acuto di impronta pucciniana. È anche grazie a lei che viene bissato a richiesta del pubblico il duetto del terzo atto dove l’«Insieme nell’amore! Insieme nella morte!» inneggiato dai due non può non richiamare l’analogo momento dell’Andrea Chénier. Alberto Mastromarino è un dolente Carpentiere mentre Stefano Marchisio si ritaglia un suo successo personale per la spavalda presenza vocale nel personaggio del soldato. Coro non sempre preciso e attento quello del Teatro Goldoni. 

Madama Butterfly

foto © Bettina Stoß

Giacomo Puccini, Madama Butterfly

Berlino, Philharmonie, 27 aprile 2025

(diretta streaming della versione da concerto)

I Berliner tornano a casa dopo Baden-Baden

Dopo le trionfali recite in forma scenica al Festspielhaus di Baden-Baden, i Berliner Philharmoniker tornano a casa loro e riprendono in due serate in forma di concerto Madama Butterfly. Stessa direzione musicale, quella del loro direttore Kirill Petrenko, e stesso cast vocale. Ghiotta occasione per riascoltare, con ancora maggior attenzione senza la “distrazione” visiva, un’interpretazione che ha stregato il pubblico, una delle più sconvolgenti degli ultimi anni.

In questa ripresa trasmessa in diretta streaming sul canale in abbonamento dei Philharmoniker, la Digital Concert Hall, complice una regia video attenta agli interventi strumentali, si ammira una volta di più la qualità dell’orchestra pucciniana messa in luce magistralmente dalla bacchetta di Petrenko, che pone in perfetto equilibrio la cura analitica dei particolari con il senso drammatico della vicenda facendo scoprire anche questa volta, come se fosse la prima, momenti di una partitura saldamente proiettata verso il futuro. Un esempio per tutti i valzerini intonati dagli archi nella scena di Yamadori e ancora alla fine del duetto di Cio-Cio-San con Suzuki, che sembrerebbero un evidente plagio del Rosenkavalier – se non fosse che l’opera di Richard Strauss è del 1911, sette anni dopo il lavoro di Puccini! Quei rubati, quegli indugi, quelle minime esitazioni Petrenko li inserisce anche nel coro a bocca chiusa, ponendo così sotto una nuova luce questa celeberrima e usurata pagina facendoci sentire ancora più palpitante l’attesa di Cio-Cio-San. La trasparenza di certe pagine rende più dirompenti i fortissimi orchestrali che giacciono sotto, come dormienti, in quest’opera di una drammaticità sconvolgente. E poi, che cosa dire della fluidità con cui dipana l’intreccio dei motivi ricorrenti, veri e propri Leitmotive, che innervano la partitura? Petrenko, inarrivabile interprete del repertorio tardo ottocentesco, riesce a rendere Puccini il più grande compositore di teatro di tutti i tempi con questa sua Butterfly, esaltando però anche la scrittura sinfonica delle pagine puramente strumentali, rese in maniera inarrivabile dai Berliner con il suono caldo degli archi, gli interventi da pelle d’oca del primo violino, la pienezza degli ottoni, la morbidezza dei legni, il rullo spietato dei timpani. Ogni elemento dell’orchestra meriterebbe di essere citato per lo splendido lavoro individuale che apporta all’insieme.

Soprano, tenore, mezzosoprano, baritono: Puccini riesce a dare nuova vita al tradizionale quartetto di voci, creando un’opera di grande modernità. Anche in questa esecuzione “oratoriale” si rimane stupefatti davanti alla personalità degli interpreti. Di Eleonora Buratto non si può che ripetere le lodi di una parte che ha già interpretato a New York nel 2022 e a Parigi l’anno scorso, così che ora quanto ne esce fuori è un distillato di eccellenza vocale piegato alle forme espressive più varie, dove il tono infantile e civettuolo, o quello drammatico o passionale ricevono perfetta soluzione. I dettagli dinamici sono evidenziati magistralmente non solo nelle scontate pagine di «Un bel dì vedremo» o di «Tu, tu, piccolo iddio», ma anche in ogni suo altro intervento, come i duetti con Pinkerton nel primo atto e poi con Suzuki nel secondo. Anche i momenti di gusto verista sono risolti con grande senso teatrale per accentare la drammaticità del momento, ma sempre tenendo presente la bellezza della linea musicale.

Nella recita di Baden-Baden in cui ero presente, Teresa Iervolino aveva fatto annunciare di essere indisposta e infatti la sua performance non aveva avuto la giusta intensità che qui invece si è rivelata nella sua totalità, donando a questa parte l’importanza drammaturgica che ha: Suzuki, con la sua rassicurante presenza, è il personaggio che cerca inutilmente di riportare la giovane padrona alla realtà. CoI suo timbro sontuoso e le qualità ben note di belcantista, Il mezzosoprano di Bracciano riporta un meritatissimo successo personale.

Se sulla scena il Pinkerton di Jonathan Tetelman, anche lui in una parte affrontata con frequenza nel recente passato, con le sue generose doti vocali sembrava aver fin troppo sottolineato il carattere fatuo e arrogante dello Yankee, a un secondo ascolto si ammira il lavoro di cesello fatto dal tenore americano, come nell’aria «Addio fiorito asil» dove inserisce un Si bemolle in diminuendo non espressamente previsto in partitura, ma bellissimo, o dove con mezze voci e cantabili suadenti riesce a rendere ancora più fascinoso il personaggio.

La voce di baritono è affidata da Puccini al console Sharpless, che il greco Tassis Christoyannis carica di una grande umanità, sincera empatia, fraseggio elegante ed espressivo. Esemplare il Goro di Didier Pieri, che riesce a delineare il viscido personaggio senza eccessive sottolineature e utilizzando solo mezzi musicali e vocali efficacissimi, senza risolvere nel parlato come talora accade. Perfetto anche il resto del cast con Il mezzosoprano Lilia Istratii (Kate Pinkterton), il baritono Aksel Daveyan (il principe Yamadori, i bassi Giorgi Chelidze e Jasurbek Khaydarov (rispettivamente lo zio Bonzo e il commissario imperiale). Prezioso l’apporto del Rundfunkchor di Berlino.

Salome

 


foto © Michele Monasta

Richard Strauss, Salome

Firenze, Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, 27 aprile 2025

 ★ ★ ★

bandiera francese.jpg  ici la version française sur premiereloge-opera.com

La Salome mediterranea di Emma Dante


Emma Dante firma una Salome visionaria al Maggio Musicale, ambientata in un Bosco di Bomarzo popolato da figure oniriche e simboliche. Regia intensa e coerente, dominata da un potente immaginario femminile. Lidia Fridman magnetica protagonista, diretta da Alexander Soddy in una lettura sontuosa e drammatica della partitura. Successo trionfale, con ovazioni per interpreti e direttore.

«Oh, no, ancora i pupi!» mi è scappato di dire a voce alta ad apertura di sipario prima ancora che attacchi la musica: in scena, infatti, sei mimi/ballerini in armature bianche e decori azzurri, come certe ceramiche del sud, hanno le movenze marionettistiche dei pupi siciliani.

Così inizia la Salome di Emma Dante in cui nessun particolare sfugge alla cifra stilistica della regista palermitana che imprime la sua personale e inconfondibile impronta a tutti gli spettacoli che mette in scena. Qui comunque riesce a confezionare uno spettacolo del tutto convincente e che conquista il foltissimo pubblico accorso, alcuni per la seconda o terza volta come mi è stato confessato, all’ultima replica del titolo inaugurale dell’87° Festival del Maggio Musicale.

Cinque anni dopo la Carmen alla Scala, a Strauss fu legato il suo Feuersnot a Palermo. Ora al debutto al festival fiorentino, il mondo visivo della Dante non ricrea la decadente e orientaleggiante opulenza dell’ambientazione di Wilde/Strauss: il suo è uno sguardo onirico su una vicenda inserita nel verde del Sacro Bosco di Bomarzo, col faccione di pietra dell’Orco la cui bocca spalancata funge da ingresso alla cisterna di Jochanaan ma anche alla prigione delle schiave di Herodes che vediamo affacciarsi dagli occhi del mascherone. Si tratta infatti dell’eterna vicenda della violenza degli uomini sulle donne oggetto delle brame del Tetrarca, le schiave appunto o la figliastra Salome, a sua volta vittima e carnefice. Gli uomini o sono gli indistinguibili soldati nelle loro armature o gli ebrei impegnati in futili beghe teologiche. Solo nel finale la scena ideata da Carmine Maringola vira verso un mondo più astratto: durante il monologo necrofilo di Salome dall’alto scendono dei teli macchiati di sangue e poi delle “liane” nere che richiamano i lunghissimi dreadlocks neri del profeta usati dai soldati come funi per trattenerlo.

In scena è presente solo il tavolo del banchetto di Herodes e della moglie, con una barocca esposizione di teste di animali (bue, maiale, pesce spada… quasi presagi della testa del profeta). La tovaglia è dello stesso tessuto dei sontuosi abiti della coppia (costumi firmati da Vanessa Sannino), un ricco broccato rosso, lo stesso colore dell’abito di Salome. Sono parte stessa del banchetto Herodes e Herodias e, con la loro immagine da Re e Regina delle carte da gioco, confermano la dimensione favolistica – il Basile de Lo cunto de li cunti è sempre dietro l’angolo… – della lettura della regista. La scena della danza dei sette veli è risolta in maniera efficace: Salome – che ha il fisico da modella di Lidia Fridman – è il pistillo di un fiore i cui petali sono i veli agitati da sei ballerine a cui si uniscono sei ballerini nella coreografia di Silvia Giuffré che alla sensualità unisce la violenza maschile sulle sei schiave. Sintomatica è la scelta di far portare la testa mozza a Herodias mentre la morte di Salome strangolata dalle trecce del profeta porta a un finale di grande impatto che conferma l’infallibile senso teatrale della Dante. Qui poi viene esaltata la straordinaria partitura che nelle mani di Alexander Soddy rivela tutta la sua straordinaria magnificenza.

Questo doveva essere il debutto italiano del direttore inglese se non ci fosse stata nel frattempo la sostituzione di Christian Thielemann per il Ring alla Scala, affidata all’ultimo momento a Soddy in alternanza con Simone Young. Soddy, che potrebbe essere il nuovo direttore principale dell’Orchestra del Maggio dopo Daniele Gatti, rivela anche qui la sua maestria nel gestire un’orchestra poderosa ma dal suono lucido, lussureggiante, ma implacabilmente aggressivo, quasi tellurico, nei momenti chiave. Grande è la tensione drammatica, precisi i cambi di atmosfera e grande attenzione è data alle peculiari sonorità timbriche di una musica che aveva sconvolto il pubblico del 16 maggio 1906 allo Stadt-Theater di Graz quando, cinque mesi dopo la prima di Dresda, a sentire Strauss dirigere il suo lavoro arrivarono, tra i tanti, Giacomo Puccini, Gustav Mahler, Arnold Schönberg, Alexander von Zemlinsky, Alban Berg e forse anche un giovane Adolf Hitler. Di certo Adrian Leverkühn, il personaggio del Doktor Faust di Thomas Mann… Tanta era l’attesa per quella degenerata opera bandita dai censori del Hofoperntheater di Vienna. Oggi neanche riusciamo a immaginare l’impatto scandaloso di questa “dissonante”, “cacofonica” creazione, ma Soddy riesce a sconvolgerci mettendo in luce le malsane e incandescenti pagine di questo capolavoro unico nel suo genere. Dimostrando in tal modo di essere tra i migliori interpreti del repertorio wagneriano e post-wagneriano.

Mirabile è anche l’equilibrio della buca orchestrale con le voci: nell’intervista pubblicata sul programma di sala, Soddy sottolinea la grande sfida della Salome agli interpreti, con un’orchestra che deve suonare sempre forte, per cui è importante cogliere le tante opportunità offerte dalla partitura per far emergere le voci. Voci che in questa produzione fiorentina si rivelano pienamente adatte al compito. Arrivata a sostituire un’interprete precedentemente prevista, dopo alcune prove belcantistiche, Lidia Fridman dimostra di saper tener testa alla impervia tessitura del ruolo titolare grazie a una notevole proiezione, al timbro tagliente e a un fraseggio espressivo. Il tutto abbinato alla sua magnetica presenza scenica. Il personaggio della nevrotica giovane perde gli elementi infantili per assumere quelli di una femmina predatrice in risposta alle malsane attenzioni del patrigno. Dopo alcune performance non del tutto convincenti della cantante russo-italiana, questa ha messo tutti d’accordo e le ovazioni finali nei suoi confronti lo stanno a dimostrare.

Era stato Jochanaan a Napoli il mese scorso e anche a Firenze Brian Mulligan conferma la buona impressione allora ricevuta. Qui poi la regia gli restituisce quell’autorevolezza scenica che al San Carlo era mancata. Molto ben definiti vocalmente e attorialmente sono lo Herodes di Nikolai Schukoff e la Herodias di Anna Maria Chiuri mentre un po’ deludente è risultato il Narraboth di Eric Fennell. Marvi Monreal come Paggio, Arnold Bezuyen, Mathias Frey, Patrick Vogel, Martin Piskorski e Karl Huml (i Cinque Ebrei), William Hernandez, Yaozhou Hou, Frederic Jost, Karl Huml e Davide Sodini completano il bel cast.

Esito felicissimo per tutti gli artefici dello spettacolo con ovazioni per la protagonista e il direttore.

Madama Butterfly

foto © Monika Rittershaus

Giacomo Puccini, Madama Butterfly

Baden-Baden, Festspielhaus, 15 aprile 2025

★★★★

bandiera francese.jpg  ici la version française sur premiereloge-opera.com

Una Butterfly deluxe è il regalo d’addio dei Berliner Philharmoniker a Baden-Baden

Kirill Petrenko dirige a Baden-Baden una Madama Butterfly rivelatrice, asciutta e modernissima, con i Berliner Philharmoniker in stato di grazia. Eleonora Buratto è una Cio-Cio-San intensa e dignitosa, Jonathan Tetelman un Pinkerton vigoroso e sprezzante. L’allestimento di Davide Livermore, ambientato nel Giappone postbellico del 1978, unisce eleganza visiva e commozione. Trionfo finale con dodici minuti di ovazioni.

Con i suoi 2500 posti il Festspielhaus di Baden-Baden, tranquilla città termale del Baden-Württemberg occidentale, è il più grande teatro d’opera della Germania – l’unico altro teatro tedesco che abbia più di duemila posti è infatti il Nationaltheater di Monaco di Baviera. Ricostruito sul sito della vecchia stazione ferroviaria, di cui utilizza l’edificio principale per la biglietteria, il guardaroba e un ristorante mentre la parte nuova si sviluppa dietro in tutta la sua modernità, ospita ogni anno a Pasqua un festival di cui fa parte una produzione teatrale che quest’anno prevede Madama Butterfly diretta da Kirill Petrenko alla guida dei suoi Berliner Philharmoniker.

Com’era prevedibile, la lettura del capolavoro pucciniano da parte del direttore russo risulta non solo magistrale, ma per certi versi illuminante e rivelatrice. La partitura è liberata fin dall’inizio di ogni presunta sdolcinatezza, di sentimentalismo, di “puccinismo”: ascoltiamo la musica moderna del XX secolo, tagliente, snella e drammaturgicamente efficacissima. Petrenko mette in luce pagine che si rivelano quasi inedite, come gli struggenti valzerini alla Rosenkavalier nella scena del principe Yamadori, sette anni prima del lavoro straussiano! o, addirittura, certi momenti che anticipano The Turn of the Screw di Britten, ossia l’inciso di «Malo, malo» all’inizio dell’interludio dopo il coro a bocca chiusa. Ma anche senza spingere troppo in là il gioco dei richiami musicali, è indubbio che la partitura della Butterfly (1904) contenga straordinari elementi di modernità svelati in una esecuzione cameristica che riserva i pochi picchi dinamici ai momenti salienti del tragico finale o dell’apparizione dello zio Bonzo o dell’untuoso sensale Goro, quando Butterfly si difende dalle sue beffe nel secondo atto.

La musica di Butterfly ha una violenza di fondo che esplode in vere e proprie eruzioni strumentali, come nella scena d’amore del secondo atto, quando l’orchestra spara un lancinante fortissimo o quando dopo i timpani sembrano insinuare col loro tragico battito il fatto che Pinkerton non tornerà più. E poi il suicidio di Cio-Cio-San anticipato dal lamento dell’oboe nel cupo preludio. Altrimenti il suono è perfettamente amalgamato e rotondo, le fioriture esotiche nei loro giri pentatonici stupendamente ricreati, così come i delicati inserti dei fiati che sembrano provenire da un unico strumento, non c’è nulla che si sfilacci e gli archi, perfettamente fusi, assumono ogni rubato nella loro linea all’unisono. Questo è l’ultimo anno dei Berliner a Baden-Baden, il dodicesimo. Dall’anno prossimo tornano al Festival di Pasqua di Salisburgo. Miglior regalo d’addio non potevano fare.

Eleonora Buratto e Jonathan Tetelman sono già stati assieme nella Tosca diretta da Harding con l’Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia in una registrazione da poco pubblicata, ora si ritrovano per questa Butterfly e la loro interpretazione anche questa volta lascia il segno. La Buratto è passata da tempo da soprano lirico a soprano drammatico mantenendo però la purezza della linea del canto e la sensibilità interpretativa. Il suo timbro, allo stesso tempo scuro ma scintillante, la sua tessitura di ampio respiro e l’ammaliante legato ricreano musicalmente ogni sfaccettatura emotiva di questa donna coraggiosa che non perde mai la dignità e la sua imponente presenza scenica.

Il personaggio spregevole di Pinkerton è punito da Puccini drammaturgicamente, facendolo apparire molto nel primo atto, per niente nel secondo e pochissimo nel terzo, e qui nell’appena credibile aria di pentimento «Addio, fiorito asil» aggiunta solo in una versione successiva. A questo proposito, nell’attuale fase politica, la prima versione di Butterfly, dove lo scontro fra la cultura giapponese e quella americana è più netto e più forte la denuncia del colonialismo, sarebbe un modello perfetto per la critica all’America. Chissà se oggi Puccini otterrebbe il visto per entrare negli USA…

Jonathan Tetelman non fa nulla per rendere moralmente più accettabile il suo personaggio, ma utilizza il suo splendido strumento vocale e la prestanza fisica per rendere plausibile l’innamoramento della giovanissima giapponese per l’aitante yankee. Specializzatosi nel repertorio italiano, il tenore cileno-americano accetta la sfida con una prestazione esuberante, acuti abbaglianti tenuti anche più a lungo di quanto sia previsto in partitura sottolineando così la strafottenza e superficialità del personaggio.

Eccellenti gli interpreti secondari con un bravissimo Tassis Christoyannis quale Sharpless, il sempre efficace Didier Pieri come Goro, Giorgi Chelidze zio bonzo e lo Yamadori di Aksel Daveyan. Annunciata come indisposta, Teresa Iervolino ha comunque convinto lo stesso come Suzuki. Perfetto il Coro Filarmonico Ceco di Brno diretto da Petr Fiala.

Per la prima volta in un teatro tedesco, Davide Livermore ha ideato un allestimento che, anche senza abbandonare la sua cifra stilistica, risulta fondamentalmente tradizionale – c’è il Giappone, ci sono i kimono, i ciliegi in fiore… – e lineare nella narrazione. È però ambientato nel 1978, quando il figlio di Cio-Cio-San parte dall’America e arriva in Giappone per ritrovare le sue radici, la madre e la sua vicenda nel secondo dopoguerra, quando gli USA erano impegnati ad aiutare la ricostruzione del paese sconfitto. Con lui ha portato solo i disegni infantili che vediamo proiettati sugli schermi, e qui incontra la vecchia Suzuki, interpretata, come il figlio di Butterfly, da artisti di Butoh. Assieme rivedono i momenti passati come in un lungo flashback, un espediente che non interferisce in alcun modo con la fruizione della storia, ma aggiunge un elemento di commozione in più. Livermore non rinuncia certo all’apporto dei video della D-Wok con immagini di Nagasaki, di alberi in fiore, di cieli nuvolosi, del cerchio rosso del sole, delle montagne immerse nella nebbia, mentre Giò Forma crea una scenografia semplice ma efficace: una struttura che ruota o si ritrae nello sfondo, la «casa a soffietto» che nel terzo atto diventa una gabbia-prigione per la farfalla Cio-Cio-San che vediamo come in un teatro d’ombre cinesi.

Neppure i giochi di prestigio sono assenti nella regia di Livermore: uno solo, ma bellissimo e fulmineo, quando, come negli spettacoli di Brachetti, il vestito di Butterfly cambia in un istante dietro la bandiera a stelle e strisce che cade dall’alto. È il momento della svestizione per la prima notte d’amore, una scena risolta con molta eleganza dal regista che mette un alter-ego di Cio-Cio-San tra le braccia di Pinkerton, preservando così la purezza dell’amore della ex-geisha. La bandiera che nei video vediamo fluttuare stracciata nell’acqua nel finale diventa il sudario della donna suicida.

Con i costumi di Mariana Fracasso e le luci di Fiammetta Baldiserri la messa in scena conquista il cuore del pubblico e Livermore firma uno spettacolo che si rivela tra i suoi migliori. Gli oltre dodici minuti di standing ovation al termine per i creatori della parte musicale, con il sipario che si chiude e si riapre più volte dietro l’insistenza degli applausi, dimostrano la gratitudine per questo bellissimo regalo di Pasqua.

Die Liebe der Danae

foto © Marcello Orselli

Richard Strauss, Die Liebe der Danae (L’amore di Danae)

Genova, Teatro Carlo Felice, 13 aprile 2025

★★★★☆

L’ultimo amore di Zeus

Nel pieno dell’incubo nazista, Strauss compone Die Liebe der Danae, favola luminosa tra le rovine d’Europa. Nata da un’idea di Hofmannsthal e completata nel 1940, l’opera fu eseguita solo in forma privata dopo l’attentato a Hitler. A Genova rivive in una regia ironica e sontuosa di Laurence Dale, diretta con raffinatezza da Michael Zlabinger e dominata dalla superba Angela Meade.

Altro che pioggia d’oro! Sarà una pioggia di bombe quella che nel ’42 si abbatterà sulle città tedesche. Richard Strauss aveva composto il suo penultimo lavoro per il teatro negli anni più tragici della tirannide nazista e non riuscirà a vederne la messa in scena perché morirà prima.

La “Heitere Mythologie” (gaia mitologia) Die Liebe der Danae nasceva nel 1920 come bozza di libretto di Hugo von Hofmannsthal, Danae o il matrimonio per convenienza. La morte nel 1929 del suo librettista di predilezione lo aveva profondamente abbattuto ed è solo quasi dieci anni dopo che Strauss aveva ripreso in considerazione l’idea, affidandone il libretto a quel Joseph Gregor che gli aveva già scritto la Daphne, un’altra vicenda mitologica.

Terminato nel 1940, in un primo tempo Strauss aveva deciso che Die Liebe der Danae non si sarebbe dovuta mettere in scena nei teatri tedeschi prima della fine della guerra, ma su insistenza del direttore Clemens Krauss, acconsentì che l’opera fosse presentata a Salisburgo l’11 giugno 1944, giorno del suo ottantesimo compleanno, evento poi posticipato al ferragosto dello stesso anno. Ma l’attentato a Hitler fece chiudere tutti i teatri tedeschi e Die Liebe der Danae potè essere eseguita solo in forma privata.

Un momento comunque di grande emozione per il vecchio maestro, che durante la prova d’orchestra alla fine della seconda scena del terzo atto parlò ai musicisti con voce rotta dalle lacrime: «Forse ci rivedremo in un mondo migliore». Le stesse parole che ascoltiamo prima che si alzi il sipario sulla produzione che il teatro Carlo Felice di Genova offre per la sua stagione lirica, prima esecuzione italiana nella versione originale in tedesco. Due figuranti, che rappresentano Strauss e la moglie, arrivano in platea e si sporgono sul golfo mistico mentre ascoltiamo la registrazione di quelle parole. In seguito si affacceranno da uno dei balconi che costituiscono la scenografia naturale del teatro genovese e saranno spesso sulla scena per ricordarci il periodo della composizione, assieme ai filmati dei bombardieri alleati nei cieli tedeschi, alle rovine della sala del trono del re Polluce assediato dai debitori e alle immagini di repertorio di Richard Strauss che passeggia nel giardino della sua villa.

Cantante passato definitivamente alla regia, di Laurence Dale ricordo una non memorabile Cambiale di matrimonio al ROF di cinque anni fa, mentre ora dell’opera di Strauss Dale fornisce una lettura che ricrea la vicenda mitologica con gusto e umorismo. Le scene e i costumi di Gary McCann e le luci di John Bishop inventano un ironico mondo visivo per la figlia venduta al re Mida per appianare i debiti. Un re Mida che è l’ennesima trasformazione di Zeus innamorato di Danae, la quale però s’invaghisce del messaggero Chrysopher, il “portatore d’oro”, e che preferirà una vita povera con l’uomo che ama, e che ha perso il suo tocco magico di trasformare in oro tutto quello che sfiora, piuttosto che il tempio d’oro promessogli dal re dell’Olimpo, ora sbeffeggiato dagli altri dèi perché soppiantato da un asinaio.

Quattro mimi/ballerini dorati sono l’unico riferimento favolistico in una rappresentazione che ironicamente trasforma le quattro conquiste di Zeus – Europa, Semele, Leda e Alcmene – in quattro regine di una corte superficiale che pensa solo al ballo. Ben realizzata tramite video la pioggia d’oro che ha incantato Danae – e che la musica realizza in maniera mirabile con i suoni luccicanti e argenti di glockenspiel, celesta e arpe – così come i passaggi di scena, fino al finale, apoteosi dell’amore umano “borghese” rappresentato dalla villa di Strauss a Garmisch.

La complessa e lussureggiante partitura viene ricreata dalle mani del giovane direttore austriaco Michael Zlabinger con competenza e sensibilità: le pagine più liriche, gli intensi momenti di svolta (come il bacio di Mida e la conseguente trasformazione di Danae in statua d’oro), quelli più “operettistici” trovano il perfetto equilibrio. Anche quello tra buca orchestrale e scena, ad eccezione del Jupiter di Scott Hendricks, che rimane spesso travolto dai marosi orchestrali, ma qui la colpa è nella voce del maturo tenore americano alle prese di un ruolo al di sopra delle sue possibilità e che risolve solo grazie alla consolidata presenza scenica. Peccato perché lo Jupiter de Die Liebe der Danae è un grande personaggio che ha molto in comune con il Wotan del Ring e col tema del crepuscolo e del congedo che qui è anche l’uscita di scena del compositore che si scopre alla fine della sua carriera. Eccellenza vocale invece è quella di John Matthew Myers, Mida travolgente per la bellezza del timbro e l’eleganza del fraseggio. E poi c’è quella forza della natura che è Angela Meade che, giocoforza, ricrea il personaggio del titolo con la sola sontuosissima voce piegata alle minime inflessioni espressive con acuti in pianissimo e un’intensità di tono che richiama infallibilmente i futuri Vier letzte Lieder.

Veramente ottimi gli altri personaggi, dal Merkur di Timothy Oliver, al Pollux di Tuomas Katajala, alla Xanthe di Valentina Farcas. Di pari livello i quattro re Albert Memeti, Eamonn Mulhall, Nicolas Legoux e John Paul Huckle, così come Europa, Semele, Leda e Alcmene a cui danno voce rispettivamente Agnieszka Adamczak, Anna Graf, Valentina Stadler e Hagar Sharvit. Eccellente il coro istruito da Claudio Marino Moretti ed efficaci le coreografie di Carmine de Amicis, anche regista collaboratore.

Applausi insistenti e meritatissimi da parte di un pubblico straboccante anche a causa dello sciopero che aveva fatto annullare la prima recita.


Salome

 

Richard Strauss, Salome

Napoli, Teatro di San Carlo, 20 marzo 2025

 ★ ★ ★

bandiera francese.jpg  ici la version française sur premiereloge-opera.com

Una Salome nuova nell’impatto ecologico ma vecchia nella concezione 

L’altro ieri a Roma Alcina, questa sera a Napoli Salome. Un’altra donna incantatrice e altrettanto pericolosa, un altro caso di seduzione mancata. 170 anni separano la maga di Händel dalla ragazzina necrofila di Strauss, Una respinta da Ruggiero che aveva ammaliato con i suoi incantesimi, l’altra respinta da Jochanaan, profeta illuminato dal divino.

Altri 120 anni e siamo all’oggi, con una produzione non nuova per il San Carlo: è la ripresa infatti della messa in scena di Manfred Schweigkofler del novembre 2014, uno spettacolo nato tre anni prima per i teatri di Bolzano, Modena e Piacenza. E ci sarebbe stata anche la ripresa del 2021 se non ci fosse stato di mezzo il Covid a cancellarla.

Non era uno spettacolo particolarmente nuovo neanche allora, però. Negli anni successivi Van Hove, Castellucci, Warlikowski, Michieletto, Loy, Černjakov e Kosky, quest’ultimo proprio un anno fa a Roma, avrebbero fornito la loro versione. Quella di Schweigkofler non risulta particolarmente originale e delle sue intenzioni espresse nell’intervista pubblicata sul programma di sala ben poco rimane in una lettura che non è neppure illuminante sulla psicologia dei personaggi e sulle morbose relazioni con la principessa di giudea dei tre uomini: Jochanaan, Erode e Narraboth. La vicenda è trattata in maniera didascalica in un’ambientazione senza tempo: il disegno scenico di Nicola Rubertelli, illuminato dalle fredde luci di Claudio Schmid, mostra una scalinata racchiusa tra due alte mura, mentre uno specchio a 45° riflette dall’alto il palcoscenico – rivelando un disegno che ricorda una tela di Chagall – così come l’interno della cisterna, una prosaica botola con scaletta che porta al sotto palco. Un elemento questo dello specchio del tutto inutile nell’economia dello spettacolo se non quello di mostrare anche al pubblico della platea il pavimento della scena.

Se i registi predetti hanno tutti evitato in un modo o nell’altro l’immagine grandguignolesca della testa mozza – nascosta in una scatola per Warlikowski, trasformata in testa di cavallo per Castellucci… – Schweigkofler non rinuncia invece a mostrare il capo sanguinante per il facile raccapriccio del pubblico. Anche la danza dei setti veli, che ha spinto la fantasia degli altri metteur en scêne a soluzioni inedite, qui è invece banalmente eseguita da sette fanciulle, una per ogni velo… La morbosa sensualità della danza rimane però tutta nella musica, certo non nella ingenua coreografia di Valentina Versino in cui si inseriscono anche i movimenti della cantante, con risultati non propriamente esaltanti.

Nuovi rispetto alla produzione del 2014 sono i costumi, qui disegnati con tocchi orientali da Daniela Ciancio e confezionati con un nuovo materiale, lo ScobySkin, un tesssuto bio-based che non utilizza né alberi, né animali, né sostanze chimiche artificiali, ma è realizzato a partire da fogli di nanocellulosa ottenuta con un processo di fermentazione batterica a partire da scarti di frutta a chilometro zero. Un esempio virtuoso di riduzione dell’impatto ambientale in tutto il ciclo, dalla produzione allo smaltimento, come riporta il programma di sala.

La concertazione dell’opera è affidata al direttore musicale Dan Ettinger che della lussureggiante partitura più che la sensualità accentua i toni barbarici, brutali, con livelli sonori tali da coprire le voci in scena, ma grazie all’orchestra del teatro in gran forma, si dimostra molto abile a districarsi nella fitta rete tematica e nei subitanei cambi di ritmo e rendendo appieno i colori ora rutilanti ora lividi di questa musica.

La parte del titolo è affidata alla voce di Ricarda Merbeth che non ricrea esattamente la figura di un’adolescente viziata e manipolatrice, ma di una donna ossessionata fino alla follia dalla figura del profeta, probabilmente il primo uomo che ha risvegliato le sue pulsioni sessuali che non più represse esplodono nel raccapricciante finale. Cantante che ha sviluppato nel tempo una carriera molto diversificata, da soprano coloratura a soprano wagneriano, Ricarda Merbeth ha uno strumento poderoso espresso in un’impegnativa estensione, ma non riesce a ricreare la complessa personalità della figliastra di Erode e la sua presenza scenica sembra volersi rifare a modelli del passato quale la Theda Bara del film di Edwards del 1918, con gran roteare di mantelli e sguardi intensi, piuttosto che a più moderne interpretazioni.

Il baritono americano Brian Mulligan sarà nuovamente Jochanaan tra un mese per l’inaugurazione del prossimo Festival del Maggio Musicale fiorentino. Voce dal timbro chiaro e dall’elegante canto declamato, forse a causa della regia non ha l’autorevolezza che ci si aspetta dal personaggio e anche scenicamente la sua figura non emerge con la dovuta evidenza. Sarà anche per il fatto che tutto vestito com’è non si capisce come Salome possa innamorarsi del suo corpo: «Ton corps est blanc comme les neiges qui couchent sur les montagnes, de Judée, et descendent dans les vallées. Les roses du jardin de la reine d’Arabie ne sont pas aussi blanches que ton corps. […] Il n’y a rien au monde d’aussi blanc que ton corps. — Laisse-moi toucher ton corps !» (Il tuo corpo è bianco come le nevi che si stendono sui monti della Giudea e scendono nelle valli. Le rose del giardino della regina d’Arabia non sono bianche come il tuo corpo. […] Non c’è nulla al mondo che sia bianco come il tuo corpo. – Fammi toccare il tuo corpo!), come dice il testo originale di Oscar Wilde.

Erode è spesso connotato in maniera caricaturale, non qui dove Charles Workman ridà al monarca la sua dignità regale anche se la voce è spesso coperta dall’orchestra e si perdono le sottigliezze della sua interpretazione. Lo stesso avviene per l’Erodiade di Lioba Braun, ma qui c’è da prendere in considerazione una certa usura dello strumento vocale. Buone si dimostrano le parti secondarie di Narraboth con un lirico John Findon e del Paggio di Štěpánka Pučálková. Nella complessità della trama teatrale sono efficaci i membri del quintetto di litigiosi ebrei: Gregory Bonfatti, Kristofer Lundin, Sun Tianxuefei, Dan Karlström e Stanislav Vorobyov. Apprezzabili anche gli altri cantanti, tra cui due artisti del coro del teatro.

Applausi non fragorosi hanno salutato dopo il cruento finale gli artefici dello spettacolo. Molti spettatori sembravano ansiosi di passare al guardaroba.

Il cappello di paglia di Firenze

Nino Rota, Il cappello di paglia di Firenze

Genova, Teatro Carlo Felice, 15 dicembre 2024

★★★★★

La folle journée di Nino Rota

«Giovane regista» è la locuzione con cui nel novembre 2007 veniva definito Damiano Michieletto in occasione del suo allestimento de Il cappello di paglia di Firenze al Teatro Carlo Felice di Genova. Pochi mesi prima al Rossini Opera Festival di Pesaro era andata in scena La gazza ladra, che gli valse il prestigioso Premio Franco Abbiati ed era stata la conferma del suo originale talento dopo la partecipazione, sempre al ROF, nel 2004 con Il trionfo delle belle di Stefano Pavesi – opera del 1809 che ispirerà la rossiniana Matilde di Shabran. Il debutto di Michieletto era però avvenuto nel 2003 al Festival di Wexford con Švanda dudák (Svanda il pifferaio), l’opera di Jaromír Weinberger. Insomma, una scelta di titoli ben poco convenzionali per il neanche trentenne regista di Scorzè (Venezia).

L’opera di Nino Rota è andata in scena alla Scala lo scorso settembre e in quella occasione scrivevo: «una serata tutt’altro che memorabile che però accende la curiosità per quello che saprà fare Michieletto». La risposta si può così sintetizzare: Genova batte Milano 1-0! Non tanto per il fatto che alla Scala l’esecuzione sia stata affidata agli allievi dell’Accademia di perfezionamento per cantanti lirici del teatro mentre qui al Carlo Felice sono in scena affermati professionisti, e neppure per la direzione orchestrale, eccellente in entrambi in casi, quanto per la messa in scena, che si fa fatica pensare abbia tutti quegli anni vista la freschezza e l’ingegnosità dell’allestimento che viene riproposto con pochissimi cambiamenti.

Michieletto imprime alla vicenda un ritmo cronometrico e sceglie un’ambientazione che non è quella della pochade di Labiche (1851) né quella della composizione di Rota (1945), bensì i colorati anni ’60 del secolo scorso, con i costumi disegnati dalla solita bravissima Silvia Aymonino. La stilizzatissima scenografia di Paolo Fantin è ingegnosa nella sua incredibile semplicità: sei pannelli uguali, ognuno con due porte, che, mossi per lo più a vista, formano i vari ambienti previsti dalla vicenda. Sono montati su una base girevole – 17 anni fa ancora non erano inflazionate le piattaforme rotanti… – ma, ed ecco il tocco geniale, su un piano inclinato, che rende surrealmente sbilenca e instabile la vicenda di nascondimenti e corse a perdifiato. Il tutto forma una scatola bianca sul fondo totalmente nero del palcoscenico, dove il bianco è spezzato dal rosso acceso del divano della baronessa di Champigny, delle poltroncine della casa di Anaide e del suo outfit, del telo spugna del malcapitato Beaupertuis, delle lenzuola del letto che aspetta inutilmente lo sposo.

Mentre la scena gira inesorabilmente, tutti corrono da una porta all’altra – e sono ben dodici! – , da una casa all’altra, da una piazza all’altra di una Parigi che non è solo sfondo ma quasi protagonista. Corre il suocero con le sue scarpe strette e il suo alberello d’arancio che ad ogni giro perde qualche foglia fino a ridursi a un alberello scheletrico salvo rifiorire per miracolo quando i due sposi finalmente si ritrovano soli alla fine di questa folle giornata. E corrono i poveri ospiti del corteo nuziale («Tutta Parigi noi giriam | lieti e felici siam») sempre più spossati e fradici per l’acquazzone («Tutta Parigi noi giriam | stanchi, sfiniti, morti siam»). Il momento del temporale diventa un quadro di Magritte quando dall’alto “piovono” ombrelli mentre le luci, magnifiche, di Luciano Novelli perdono ogni connotazione realistica per inondare la scena di blu o di verde.

Alla testa dell’Orchestra del teatro, particolarmente vivace e pronta, Giampaolo Bisanti mette in luce la frizzante partitura, glorioso pastiche di citazioni che spaziano da Rossini a Wagner a Ravel al jazz e che accompagnano o sottolineano i versi di un libretto che qui sembra più arguto e scoppiettante di quanto fosse sembrato mesi fa, grazie anche a interpreti che oltre che grandi cantanti si rivelano animali da palcoscenico per la loro inappuntabile presenza scenica. Primo fra tutti, ovviamente, Paolo Bordogna che costruisce il personaggio di Beaupertuis, il marito geloso e scimunito, con tocchi di grande eleganza dove ogni mossa, ogni inflessione della voce pur se attentamente studiata nasce con naturalezza e con un grande senso del comico. Prima ancora era stato il militare Emilio. Canto e recitazione qui sono un tutt’unico inscindibile e di livello eccelso. Per presenza scenica e auto-ironia si impone la presenza di Sonia Ganassi, iconica Baronessa di Champigny mentre altrettanto iconico si dimostra Blagoj Nacoski, flamboyant Achille di Rosalba con annesso cagnolino e poi stralunata Guardia.

Il puro belcanto lo troviamo nella voce di Marco Ciaponi, tenore che ad ogni sua performance conferma le doti di bellezza di timbro e fraseggio già ammirate come Elvino, Des Grieux e Beppe/Arlecchino e col le quali il cantante lucchese risolve le esigenze vocali della parte non facile di Fadinard. Benedetta Torre è la sposina timida che si esprime come un’eroina romantica («Trema nell’estasi d’amor | il cuor beato!») e di Donizetti assume lo stile tutto trilli e volatine. Il suocero, che punteggia i suoi interventi con il tormentone «Tutto a monte!», ha la compostezza, eleganza e magnificenza vocale di Nicola Ulivieri, un Nonancourt di gran lusso. La proprietaria del cappello eponimo, Anaide, trova in Giulia Bolcato felice presenza scenica e vocale. Folto il gruppo dei personaggi secondari con Didier Pieri, lo zio Vezinet sordo ma deus ex machina col suo provvidenziale regalo; Gianluca Moro, il domestico Felice: Franco Rios Castro, il vivace Caporale delle guardie; Marika Colasanto, la modista. Divertito e divertente il coro del teatro istruito da Claudio Marino Moretti. 

A Genova nel 2007 le poche rappresentazioni previste si ridussero ancora a causa di uno sciopero alla prima: ha fatto benissimo il teatro a riprendere quella felice produzione e lo dimostra il successo, meritatissimo, che ha avuto lo spettacolo. Ahimè, solo due le repliche dopo la prima.