Arte degenerata

Das Wunder der Heliane

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★★★★★

L’ambizioso “capolavoro erotico” di Korngold

Venti minuti di applausi hanno salutato alla Deutsche Oper di Berlino nel marzo 2018 questa produzione di Christof Loy diretta da Marc Albrecht. Un bel riconoscimento dopo quasi un secolo di oblio per la quarta opera di Korngold (1).

Das Wunder der Heliane (Il miracolo di Eliana), su libretto di Hans Müller-Einigen tratto da Die Heilige (La santa) di Hans Kaltneker – un misconosciuto poeta romeno morto in giovane età di tubercolosi – fu presentata all’Opera di Stato di Amburgo il 7 ottobre 1927 con discreto successo. Il successivo debutto a Vienna il 29 ottobre ebbe invece non pochi problemi, tra cui la defezione di Maria Jeritza, la diva che aveva portato al successo prima la sua Violanta e poi Die tote Stadt come Marie/Marietta, la quale per il protrarsi delle prove dovette partire per l’America a causa di precedenti impegni. Al suo posto ci fu Lotte Lehman a fianco del giovane Jan Kiepura come lo Straniero. Ripresa un anno dopo a Berlino da Bruno Walter neanche allora suscitò entusiasmo. Nelle intenzioni dell’autore questo doveva essere il suo capolavoro, invece sia il pubblico sia la critica rimasero freddi giudicandone la musica «non moderna» e la vicenda una favola kitsch. L’opera fu presto dimenticata e con l’avvento del Nazismo la musica di Korngold fu definitivamente bandita come entartete Musik (musica degenerata) e lui, che era già a Hollywood, non poté ritornare in patria.

Atto I. In uno stato totalitario, in un’epoca imprecisata. Il crudele Sovrano esercita il suo potere ma soffre perché non è in grado di conquistare l’amore di sua moglie Heliane e poiché è infelice non tollera che i suoi soggetti vivano felici. Un giovane straniero arrivato di recente sta dando gioia alla gente, di conseguenza è stato e condannato a morte. Sarà giustiziato all’alba. Il Sovrano lo visita per conoscere il motivo delle sue azioni. Lo Straniero chiede pietà, ma il Sovrano è fermo sulla sua decisione, tuttavia, accetta di consentire allo Straniero di rimanere incatenato quest’ultima notte della sua vita. Quando suo marito se n’è andato, Heliane viene in cella per confortare lo Straniero. Mentre parla allo Straniero e si rende conto della sua bontà, i suoi sentimenti di pietà e tristezza si trasformano in amore. Lo Straniero dice a Heliane quanto è bella e lei gli svela i suoi lunghi capelli dorati. Quindi espone i suoi piedi nudi e, infine, rimane completamente nuda davanti a lui. Lo Straniero chiede a Heliane di donarsi a lui durante la sua ultima notte di vita, ma lei rifiuta e va in cappella per pregare per lo Straniero. Il Sovrano ritorna nella cella, proponendo che se lo Straniero può insegnare ad Heliane ad amare il marito, allora gli risparmierà la vita e gli concederà Heliane. Heliane ritorna, ancora nuda. Il Sovrano ordina la morte dello Straniero e il processo di Heliane.
Atto II. Il Sovrano e la sua messaggera (che è anche la sua ex amante che ha respinto) attendono l’arrivo del carnefice e dei membri dell’alta corte. Heliane verrà processata quando arriveranno i sei giudici e il capo della giustizia, cieco. Il Sovrano la accusa di adulterio con lo Straniero. Heliane non può negare di essere stata nuda davanti allo Straniero, ma insiste sul fatto che si è data a lui solo nei suoi pensieri. Il Sovrano preme il suo pugnale sul petto dicendole che dovrebbe uccidersi. Lo Straniero viene chiamato per testimoniare ma non parla, volendo rimanere solo per qualche momento con Heliane. La bacia, quindi prende il pugnale e si uccide, rendendo impossibile per il Sovrano provare che Heliane sta mentendo. Il Sovrano licenzia la corte e dice a Heliane che sarà sotto processo davanti a Dio: se è innocente, come sostiene, deve riportare in vita lo Straniero. La donna accetta di sottoporsi alla prova.
Atto III. Una folla si è radunata fuori dal palazzo del Sovrano: vogliono vedere lo Straniero. I giudici, insieme al giudice supremo, arrivano per assistere al tentativo di Heliane di riportare in vita lo Straniero. La messaggera agita la folla contro Heliane all’inizio della prova. Lei piange, non mente e ammette di aver amato il giovane Straniero. Quando il Sovrano la vede piangere vuole salvarla, ma solo a condizione che sia sua. Heliane rifiuta quest’ultima offerta. La folla la trascina sul rogo. All’improvviso tutti sono scioccati da un tuono. Allo stesso modo all’improvviso, le stelle iniziano ad apparire nel cielo e tutti sono sorpresi di vedere il cadavere del giovane Straniero sollevarsi, trasfigurato dalla bara funebre. Per qualche miracolo è vivo. Heliane si stacca dalla folla e corre tra le braccia dello Straniero. In un impeto di rabbia, il Sovrano le affonda la spada nel petto. Lo Straniero offre una benedizione al popolo e bandisce il sovrano. Lo Straniero prende Heliane tra le sue braccia e uniti nel loro amore, salgono in paradiso.

Korngold lavorò alla sua Heliane per ben sei anni e la concepì per un’orchestra grandiosa: tre flauti, ottavino, corno inglese, tre clarinetti, clarinetto basso, due fagotti, controfagotto, quattro corni, tre trombe, tre tromboni, basso tuba, tre insiemi di timpani, una ricca percussione, due arpe, chitarra e archi. Un coro femminile fuori scena, una banda d’ottoni anch’essa fuori scena (con altre tre trombe, tre tromboni e sei trombe naturali). Pianoforte, organo, celesta, harmonium e glockenspiel si aggiungono a sostenere l’armonia di questa pagina ricca di glissandi, arpeggi, ritmi propulsivi, improvvisi cambiamenti metrici. Nella sua armonia il tardare le risoluzioni porta a prolungare la tensione quasi erotica della sua musica. Ben tre sono i duetti d’amore presenti nell’opera, uno per ogni atto, e l’aria più famosa, «Ich ging zu Ihm», portata al successo dalla Lehmann e in tempi recenti uno dei temi preferiti di Renée Fleming, trasuda un erotismo che le parole vogliono negare (2).

Quello dell’amore che sopravvive alla morte è un tema caro al compositore: lo dimostrano il suo ciclo Abschiedslieder (I canti dell’addio, 1921) e ovviamente Die tote Stadt. Anche a Hollywood Korngold ebbe a occuparsi di amore oltre la morte in Between two Worlds (Tra due mondi, 1944), film di Edward A. Blatt per cui scrisse musiche che citano liberamente la sua opera di 17 anni prima.

Oltre all’improponibilità del libretto e alla mancanza di azione drammatica, è la difficoltà dell’esecuzione ad aver tenuto lontano dalle scene Das Wunder der Heliane e solo recentemente si è ridestato un nuovo interesse per questo lavoro: nel 2007 Jurowski l’aveva diretta in forma di concerto a Londra e nel 2010 Uwe Sanders l’aveva concertata al Pfalztheater di Kaiserslauten con la regia di Johannes Reitmeier. Era poi seguita la produzione dell’Opera Vlaanderen con Alexander Joel e David Bösch nel 2017. E ora questa di Berlino, prontamente riversata in Blu-ray.

Sotto la bacchetta di Marc Albrecht la partitura di Heliane dispiega tutti i suoi fulgidi colori e i temi ora sensuali ora sinfonicamente opulenti trovano nell’orchestra della Deutsche Oper e nel coro del teatro diretto da Jeremy Bines una realizzazione magnificamente coinvolgente. Superlativi gli interpreti: Sara Jakubiak (la Marie/Marietta della Komische Oper) come Heliane offre una performance ancora più esaltante e scenicamente valida. Il crudele Sovrano qui si rivela un marito patetico e tormentato, sessualmente impotente e ossessionato dall’impossibile possesso della moglie, è reso magistralmente da Josef Wagner. Nei panni dello Straniero – figura messianica di un liberatore sessuale, un po’ come il pastore del Król Roger di Szymanowski (1926) o il misterioso ospite di Teorema, il film di Pasolini – si cala alla perfezione l’imponente Brian Jagde di cui non si sa se ammirare maggiormente la potenza e la liricità vocale o la magnetica figura e lo sguardo ammaliatore. Perfetto il Portiere di Derek Welton, inquietante il giudice cieco di Burkhard Ulrich ed efficace la Messaggera di Okka von der Damerau.

Tanto la musica di Korngold è lussureggiante, quanto la messa in scena di Christof Loy è severa e minimalista. Il suo allestimento fa chiaramente riferimento al film del 1957 Witness for the Prosecution (Testimone d’accusa): la scenografia di Johannes Leiacker costruisce una stanza di tribunale con le sue alte pareti in pannelli di legno ed è splendidamente illuminata dalle luci di Olaf Winter. Negli abiti di Barbara Drohsin la figura della protagonista richiama quella di Marlene Dietrich, l’interprete della pellicola di Billy Wilder, mentre il nero assoluto predomina nei costumi degli altri personaggi e del coro abilmente coreografato dal regista Christof Loy che si dimostra ancora una volta uno dei più interessanti artisti della scena di oggi.

(1) Senza contare il balletto pantomima Der Schneemann scritto nel 1908 (a 11 anni!), la precedono Der Ring des Polykrates, Violanta (entrambe in un atto e presentate assieme nel 1916) e Die tote Stadt (1920, tre atti). Seguiranno Das Lied der Liebe (operetta su musiche di Johann Strauß figlio, 1931), Die Kathrin (1939, tre atti) e Die stumme Serenade (1946, commedia con musica in due atti).

(2) Ich ging zu ihm, der morgen sterben sollt. | Der Abend neigte sich–da ging ich hin. | Er bat mich um mein Haar, ich gab es ihm. | Er bat um meine Füsse. Aus den Schuh’n | Trat ich und gab ihm die entblössten Füsse. Er warf sich hin, erflehend meinen Leib, | Da löst ich das Gewand von mir und stand, | Wie mich mein Gott erschaffen, vor ihm: nackt. | Ich war sein in Gedanken… ja, ich war’s! | Auf meinen Knien bat ich zu Gott, dass er | Die Kraft mir schenke, dies zu vollenden. | Nicht hab ich ihn geliebt. Nicht ist mein Leib in Lust entbrannt. Doch schön war der Knabe | Schön wie ein Stern im Vergehen. Und neigt ich mich, | So tat ich’s, damit sein armes Aug | Noch Liebe könne sehen, ehe dass es bräche. | Und also schwör ich, Gott nehme mich hinauf in den Himmel,| So war ich nun schwöre: | Nicht hat mich Lust meines Blutes zu jenem Knaben getrieben, | Doch sein Leid [hab’ ich] | Mit ihm getragen, und bin in Schmerzen | Sein geworden. Und nun tötet mich. (Sono andata da lui, che sarebbe dovuto morire il giorno successivo. La sera stava calando mentre andavo da lui. Mi ha chiesto i capelli, glieli ho dati. Mi ha chiesto i piedi. Via le scarpe, gli ho dato i miei piedi nudi. Si è gettato in terra, implorando il mio corpo. Mi sono sciolto il vestito e mi sono mostrata a lui come Dio mi ha fatto: nuda. Ero sua nel pensiero … sì, lo ero! In ginocchio ho supplicato Dio di darmi la forza di compiere quello che stavo facendo. Io non l’ho amato. Il mio corpo non ardeva di piacere per lui. Ma bello era il giovane, bello come una stella calante. E se mi sono umiliata l’ho fatto in modo che i suoi poveri occhi potessero ancora vedere l’amore, prima di chiudersi. Lo giuro, che possa il Signore non negarmi il Cielo. Lo giuro sinceramente: non è il piacere del corpo che mi ha portato a quel ragazzo, ma la sua pena, che porto con me. Sono stata sua nel dolore. E ora uccidetemi).

Karl V.

Tiziano Vecellio, La Gloria, 1554

Ernst Křenek, Karl V.

★★★★☆

Monaco, Nationaltheater, 23 febbraio 2019

(diretta streaming)

Un imperatore e i fantasmi del suo passato

Nel Giudizio Finale (anche conosciuto come La Gloria) di Tiziano, la grande tela che Carlo V d’Asburgo voleva destinare alla sua cappella funeraria e ora al Museo del Prado, si vede sulla destra in alto una figura inginocchiata avvolta in un semplice sudario, con la corona per terra e le riconoscibili fattezze del capo del Sacro Romano Impero. L’imperatore stesso, coadiuvato da un’equipe di teologi, contribuì in maniera determinante all’elaborazione dell’iconografia del dipinto. Dopo aver ottenuto il dipinto dal Vecellio, l’imperatore non se ne separò più portandolo con sé a Yuste nel 1555, dove morì contemplandolo tre anni dopo.

Questo è lo spunto del Karl V. di Ernst Křenek (Krenek quando fu naturalizzato americano nel 1938). Il compositore e direttore d’orchestra austriaco che ebbe il suo primo unico successo con l’opera jazz Jonny spielt auf (1927) tradotta in 18 lingue. Nessu altro suo lavoro incontrerà lo stesso successo.

«Dopo l’atto unico Der Diktator (1928) e il successivo Leben des Orest [1930], Křenek torna ad analizzare una figura di uomo politico, in una sorta di meditazione retrospettiva che passa al setaccio le speranze e gli errori di una vita; accantonati sia il modulo della Zeitoper sia quello neoclassico, l’interesse si concentra su uno spaccato di storia particolarmente nodale per i paesi tedeschi ripercorrendo, attraverso la biografia di Carlo V, le vicende della Riforma. […] Karl V. è frutto della passione storica di Křenek e del tentativo di conciliare l’attività creativa con le imposizioni dettate dal regime, eludendo in apparenza i temi di attualità. In realtà la riflessione politica dissimula in chiave rinascimentale una serie di interrogativi ben radicati nella contemporaneità; e proprio per dar voce a queste connessioni con il presente Křenek scavalca il fosso dell’atonalità e opta per il linguaggio dodecafonico, che gli pare in quel momento il più valido a garantire unità a una partitura». (Elisabetta Fava)

Col numero d’opus 73 e su libretto proprio, Karl V.  era stato commissionato a Křenek da Clemens Krauss e sarebbe dovuto andare in scena nella stagione 1933-34 all’Opera di Stato di Vienna, ma la produzione fu cancellata quando nella Germania nazista il nome del compositore fu aggiunto alla lista dei musicisti di “musica degenerata” non perché ebreo, ma perché Jonny spielt auf era stato considerato «eine frechen, jüdisch-negerischen Besudelung» (una spudorata contaminazione giudeo-negroide). Karl V. fu presentato la prima volta solo cinque dopo a Praga quando l’autore si era già rifugiato negli USA.

In 19 scene suddivise in due parti si svolge un dialogo tra l’imperatore Carlo V sul suo letto di morte e il confessore. Al dialogo si mescola uno scarno materiale drammatico relativo alle guerre che ha intrapreso, l’ansia per l’oro delle Americhe, l’ossessione a cristianizzare il mondo intero. L’elenco dei personaggi rende bene la complessità e l’impegno del lavoro: oltre a Carlo ecco infatti Giovanna la pazza (la madre), Eleonora (la figlia), Isabella (la moglie), Francesco Borgia (un gesuita), il conquistador Pizarro, François I re di Francia, Frangipani, Lutero, il sultano Solimano, Juan de Regla (il confessore), un astrologo, quattro spiriti/ore, la voce del papa Clemente VII ecc.

Parte prima. Carlo V sente la morte avvicinarsi e deposte le insegne regali si rifugia nel convento di Yuste dove chiama il suo confessore Juan de Regla con cui ripercorre le tappe del suo operato politico: dapprima la ribellione di Lutero, con cui l’imperatore fu forse troppo blando e diplomatico, poi i difficili rapporti con l’infido Francesco I, infine la minaccia dei Turchi, sobillati dallo stesso re di Francia, cui pure Carlo aveva dato in sposa la sorella. Dopo la sciagura del sacco di Roma, Carlo rimase vedovo e la sofferenza personale incominciò a renderlo più sensibile riguardo alle persecuzioni inflitte agli eretici.
Parte seconda. Lutero lamenta la politicizzazione della sua parola. Il confessore si mostra sempre più commosso di fronte al dramma del vecchio imperatore, ma il gesuita Borgia lo rimprovera, ricordandogli che l’indecisione di Carlo ebbe come conseguenza l’avvento rovinoso della lega di Smalcalda: l’imperatore riuscì in seguito a imporre ai tedeschi il cattolicesimo a viva forza, ma ormai vacillava in lui definitivamente la fiducia nella sua missione storica e morale e l’abdicazione nelle mani del fratello Fernando I segna irreparabilmente il crollo dei suoi antichi ideali, e insieme la frantumazione dell’impero.

Nel 2008 la produzione di Bregenz diretta da Lothar Koenig e messa in scena da Uwe Eric Laufenberg era stata registrata su DVD mentre ora sono Erik Nielsen e Carlus Padrissa de La Fura dels Baus a presentarne una nuova edizione per la stagione della Bayerische Staatsoper che la trasmette in diretta dal suo sito. È la seconda volta qui sul palcoscenico del Nationaltheater di Monaco di Baviera dopo il 1965.

Nella messa in scena di Padrissa il palcoscenico è invaso dall’acqua. Anche l’altro elemento, il fuoco, viene spesso utilizzato. Specchi, videografica, proiezioni, acrobati appesi sono i mezzi già altre volte sperimentati dalla compagnia catalana e rendono spettacolare un lavoro che è quasi assente di drammaturgia e che non si affida alla bellezza e piacevolezza della musica: un rigoroso stile dodecafonico accompagna tutto lo svolgimento della vicenda.

All’inizio una voce fuori campo elenca le terre in cui si estende l’impero «su cui non tramonta mai il sole». Con una fanfara di ottoni non molto dissimile da quella della “maledizione” di Rigoletto inizia un coro (Dio stesso) che chiede ragione al vecchio imperatore delle sue azioni prima del giudizio finale. In alcuni momenti minacciosi ritmi di marcia accompagnano i cori che inneggiano alla Germania, ma spesso l’orchestra ha una trasparenza che lascia il predomino della scena alle voci, cantate e parlate. Infatti il confessore e altre parti secondarie sono attori recitanti.

Con i costumi di Lita Cabellut, come il re Ubu disegnato da Jarry, Carlo ha sull’abito (poco più di un camicione) una spirale, qui con le ore dell’orologio: l’ossessione del tempo che scorre e il moltiplicarsi delle figure sugli specchi e sulla superficie dell’acqua sono elementi costanti della lettura di Padrissa. Nel libretto gli orologi diventano addirittura quattro personaggi nel finale quando la voce fuori campo dell’inizio scandisce sarcasticamente il motto dell’imperatore: «plus ultra». Anche gli altri personaggi hanno costumi molto marcati, come il gesuita Borgia con una fotografia di un teschio.

Instancabile Bo Skovhus dà vita con efficacia alla figura di Carlo V mentre Wolfgang Ablinger-Sperrhacke è il fatuo François I e Michael Kraus un autorevole Lutero. Tra le interpreti femminili si fa notare per doti vocali Anne Schwanewilms, la moglie Isabella. A capo dell’orchestra Erik Nielsen dipana con lucidità le aride armonie della partitura.

Der zerbrochene Krug (La brocca rotta)

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★★★☆☆

Opera buffa scritta in un campo di concentramento

«I soldati del Terzo Reich nella loro marcia folle inflissero un colpo auto-distruttivo alla cultura tedesca. Nel tentativo di “purificare” la loro società ne sradicarono il cuore e l’anima. Molti grandi talenti furono uccisi, costretti alla fuga o al silenzio. La terra in cui era fiorita quella grande cultura fu resa sterile. […] I compositori la cui musica fu messa al bando appartenevano a generi diversi. Le storie erano tante quanti erano gli individui. Come gruppo sfuggono a una categorizzazione: molti ebbero grande fama al loro tempo, altri dovettero combattere per farsi conoscere e sopravvivere; c’erano i fautori dell’avanguardia e della tradizione, i dodecafonici e quelli che flirtavano col jazz, il cabaret e la musica popolare e quelli che rifuggivano da tutti questi elementi. […] Quello che li unisce è il destino della loro musica, morta con loro o rimasta sconosciuta per oltre mezzo secolo». È con queste parole che James Conlon introduce il suo progetto “Recovered Voices” con cui riporta alla luce questo tesoro nascosto tra cui c’è anche il lavoro di Viktor Ullmann.

Assistente di Zemlinsky, di cui è quasi trent’anni più giovane, e allievo di Schönberg, le sue tre opere furono scritte durante la permanenza nel campo di concentramento di Terezin, lager di raccolta e transito, prima di essere internato nel campo di sterminio di Auschwitz dove morì dopo appena due giorni nelle camere a gas, il 18 ottobre 1944. Ullmann quindi non vide mai la messa in scena di Der Sturz des Antichrist (La caduta dell’Anticristo, 1936), Der zerbrochene Krug (La brocca rotta, 1941-42), Der Kaiser von Atlantis (L’imperatore di Atlantide, 1943-44).

Nonostante i tragici eventi, concisione e umorismo contraddistinguono la sua seconda opera, tratta dall’omonima commedia di Heinrich von Kleist del 1802 in cui si racconta la storia di Adam, giudice del villaggio olandese di Huisum, che deve guidare un processo per scoprire il colpevole della rottura di una brocca a casa di sua cugina Frau Marthe e della sua giovane figlia Eve, aiutato dal suo cancelliere Licht e sotto la supervisione straordinaria del Consigliere di giustizia Walter venuto da Utrecht. Con il procedere degli interrogatori e delle testimonianze diventa sempre più palese che il colpevole è il giudice Adam, il quale, pur facendo di tutto per impedire che si scopra la verità, incalzato dal consigliere Walter e tradito da Licht, è costretto infine a scendere dal seggio e scappare. In quella fatidica notte il giudice si era intrattenuto con Eve e aveva rotto lui la brocca tentando la fuga dalla sua camera dopo l’irruzione del fidanzato Ruprecht e lasciando lì cadere la parrucca.

Nell’ingenua messa in scena di Darko Tresnjak a Los Angeles nel 2008 durante l’ouverture un teatro d’ombre delinea la vicenda e quindi svela il finale in cui viene cantata la morale di questa evidente metafora in cui la brocca rotta rappresenta la verginità della giovane e l’onore della famiglia. Anche i nomi degli interpreti sono estremamente simbolici: Adamo qui è il corruttore di Eva e Licht è quello che porta la ‘luce’ per scoprire la verità in modo che «fiat iustitia», ironica conclusione in un mondo che in quegli anni di giustizia ne conosceva ben poca, ma conosceva molti corruttori dell’umanità.

Conlon con la sua direzione esalta gli aspetti coloristici della partitura ed è coadiuvato da interpreti che si muovono con agio in scena.

L’atto unico di Ullmann è presentato assieme a un altro atto unico: Der Zwerg di Alexander Zemlinsky in questo disco ArtHaus con sottotitoli anche in italiano.

Der Zwerg (Il nano)

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★★★★☆

Conlon dà voce all’“arte degenerata”

Il meritorio progetto “Recovered Voices” della OREL Foundation di James Conlon, nata per recuperare le opere dei compositori perseguitati dal Nazismo, ha uno dei suoi punti di forza in questo allestimento di Los Angeles di due atti unici di musicisti tacciati dai nazisti di aver scritto “arte degenerata” semplicemente perché di origine ebrea.

Nato a Vienna nel 1871 in un milieu multiculturale (ungheresi e bosniaci, ebrei sefarditi e cattolici in famiglia), mentre suonava l’organo nella sinagoga, Alexander von Zemlinsky studiava al conservatorio viennese con Bruckner. Brahms fu uno dei suoi primi sostenitori e Schönberg l’ebbe come unico maestro. Fu Kapellmeister prima al Carltheater e poi alla Volksoper prima di trasferirsi a Praga e poi a Berlino, che dovette lasciare in seguito alla salita al potere del Nazismo per ritornare a Vienna e fuggire definitivamente negli USA dopo l’Anschluss.

Nell’opera Der Zwerg (Il nano), composta nel periodo 1919-21 e presentata a Colonia nel 1922 sotto la direzione di Otto Klemperer, si possono trovare cenni autobiografici riguardo alla sua sfortunata relazione con Alma Schindler. Nel 1900 infatti Zemlinsky ha tra i suoi allievi un’attraente studentessa la quale rimane affascinata dalla personalità carismatica e dalla presenza intellettuale del compositore, nonostante la sua sgradevolezza fisica mai taciuta: «Uno gnomo orribile (1). Piccolo, senza mento, sdentato e con un odore perenne di caffè addosso» lo definisce la futura moglie di Gustav Mahler. Nel 1901 la storia finisce, ma a Zemlinsky non basteranno decenni per esorcizzare l’infatuazione vissuta per la donna.

Come per l’altro suo atto unico, Eine florentinische Tragödie, il testo dell’opera è tratto da Oscar Wilde: il libretto di Georg Klaren è infatti un adattamento de The Birthday of the Infanta (1891) ove si narra delle celebrazioni per il compleanno della principessa spagnola Donna Clara e del regalo di un nano fattole da un sultano. Il nano, ignaro della sua deformità, si innamora dell’Infanta che civetta con lui e gli regala una rosa. Quando vede la sua immagine riflessa per la prima volta in uno specchio e viene deriso dalla principessa alla sua richiesta d’amore, il nano muore di crepacuore stringendo la rosa mentre l’Infanta ritorna ai festeggiamenti in suo onore. Come nella Salome di Strauss – anche lei derivata da Oscar Wilde e che Zemlinsky aveva diretto alla sua prima viennese del 1918 – qui pure c’è una Prinzessin ingenua che alla fine con “voce infantile” si lamenta: «Geschenkt und schon verdorben, das Spielzeug zum achtzehnten Geburtstag» (Già rotto il giocattolo, regalo per i miei diciotto anni). (2)

«Il soggetto inclina ancora una volta più alla riflessione che all’azione, per quanto la sensibilità teatrale di Zemlinsky (tanto ammirata da Schönberg) riesca a esprimere con efficacia quasi plastica anche una vicenda povera di eventi esteriori, sottolineando con vivo acume psicologico una serie di piccoli gesti che si caricano di riflessi interiori senza per questo scadere nell’enfasi. La materia drammatica è molto affine al grottesco di Victor Hugo, mediato attraverso l’interesse moderno per il burattino sofferente, emblema della fragilità umana esposta all’egoismo derisorio del consorzio civile; il motivo del dolore altrui come pretesto di allegria e quello dell’inconsapevolezza della propria disgrazia, fino allo schianto imprevisto dell’agnizione, possono ricordare L’homme qui rit, trasponendo però il plot in un clima di cinica frivolezza. La lettura musicale di Zemlinsky riporta alla luce l’angoscia sotterranea, che le chiacchiere di corte dissimulano senza poterla estirpare: come scrisse Alban Berg all’indomani della prova generale viennnese, «l’elemento drammatico […] è di una tragicità così tormentosa che quasi non lo si può tollerare». Berg si riferiva qui alla prima comparsa in scena del nano, in un subitaneo attonimento generale: il gorgoglio informe e buffonesco dei fagotti su cui filtra il tema struggente del corno inglese, inquadra con precisione bruciante la figura del protagonista e la dicotomia in cui si scindono il suo corpo e il suo animo. Intorno a questo Pierrot deforme folleggia la corte spagnola, che Zemlinsky ritrae con mano maestra: il cicaleccio fatuo delle ancelle si traduce nella trasparente civetteria dei coretti femminili, intrisi quasi sempre di ritmi ballabili. I pizzicati (all’arpa, al mandolino, agli archi) evocano un clima rinascimentale, emulando vielle e violoni; e le danze su cui si apre la festa, affidate ai fiati e venate di echi modali, accentuano questo sapore arcaico e neoclassico. Alla corte viene riservato di solito il lucore di un diatonismo freddo e malizioso, su cui il cromatismo appassionato di Ghita e il pathos del nano non riescono a incidere: i due mondi si giustappongono a tratti, senza trovare conciliazione né dialogo, fino a quando la vocetta atona dell’infanta decreta l’oblio definitivo del suo giocattolo rotto, con un parlato incolore su cui Zemlinsky riprende il ritmo della danza interrotta. Il talento liederistico del compositore trapela, fra l’altro, dal bellissimo, ultimo monologo del nano, che dalla commossa incredulità della speranza scivola nell’orrore dell’inattesa autocoscienza; anche nell’importante scambio di battute con Ghita la voce articola le parole quasi auscultandone le vibrazioni interiori, sopra la base scura dei fiati, a dipanare un profilo informe, presago di sventura e insieme allusivo allo stadio di inconsapevolezza primigenia che caratterizza il nano». (Elisabetta Fava)

La fantasmagorica orchestrazione dell’opera (messa amorevolmente e sapientemente in luce da Conlon) è uno dei tanti buoni motivi per riportare alla luce questi lavori negletti che vanno a riempire il vuoto lasciato dal Nazismo nella musica tedesca tra Mahler e Schönberg. Tra le opinioni positive sull’opera di Zemlinsky è da ricordare il singolare giudizio di Theodor Wiesengrund Adorno che nel 1963 scriveva: «L’eclettismo di Zemlinsky diventa geniale perché le capacità ricettive dell’artista sono esaltate a tal punto da pervenire a una prontezza di reazioni veramente sismografiche verso tutti gli stimoli dai quali si fa inondare” (Quasi una fantasia, Essays on Modern Music).

Il tempo non specificato dal racconto di Wilde e dal libretto di Klaren, nell’allestimento di Los Angeles nel marzo 2008 è invece determinato dal regista Darko Tresnjak nell’epoca del Siglo de Oro spagnolo con i rimandi iconografici a Las Meninas di Velázquez nei costumi di Linda Cho e nelle scenografie di Ralph Funicello.

Se non nella figura, è la voce chiara del soprano Mary Dunleavy a richiamare il carattere infantile della protagonista femminile, così come il timbro squillante del tenore Rodrick Dixon dà voce al nano cantore.

L’atto unico di Zemlinsky è presentato assieme a un altro atto unico: Der zerbrochene Krug di Viktor Ullmann in questo disco ArtHaus con sottotitoli anche in italiano.


(1) In tedesco “scheußlich”, lo stesso termine utilizzato dal ciambellano per descrivere il nano regalato all’Infanta.

(2) Nella novella di Wilde le sue ultime parole sono invece: «For the future let those who come to play with me have no hearts» (In futuro quelli che verranno a giocare con me non dovranno avere un cuore).

  • Der Zwerg, Runnicles/Kratzer, Berlino, 24 marzo 2019

Die Vögel (Gli uccelli)

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★★★☆☆

Una parabola pessimista

Quasi due generazioni di compositori tedeschi di origine ebrea hanno dovuto fare duramente i conti con il Nazismo o venendo essi annientati nei campi di concentramento (Viktor Ullmann, 1898-1944), costretti all’esilio (Ernst Křenek, 1900-1991; Erich Korngold, 1897-1957; Berthold Goldschmidt, 1903-1996) o comunque perseguitati come “artisti degenerati” e la loro musica bandita (Alexander von Zemlinsky, 1871-1942 e Franz Schreker, 1878-1934 fra i tanti).

Non dissimile fu la sorte di Walter Braunfels (1882-1954) la cui opera Die Vögel (Gli uccelli), presentata al Nationaltheater di Monaco di Baviera il 30 novembre 1920 con la direzione di Bruno Walter fu replicata oltre cinquanta volte per poi venir ripresa con altrettanto successo a Berlino e a Colonia da Klemperer. Il lavoro piacque talmente a Hitler che, senza sapere trattarsi di un musicista mezzo ebreo, incaricò Braunfels di scrivergli l’inno del Partito Nazista, cosa che il compositore sdegnosamente rifiutò. Nel 1933 Braunfels perse il posto di direttore del conservatorio di Colonia e visse il resto della vita in esilio in Svizzera.

Prologo. L’usignolo accoglie il pubblico nel regno degli uccelli, esaltando le sue virtù utopiche. Tuttavia, confessa un desiderio insoddisfatto nella sua anima.
Atto I. Hoffegut (Sperabene) e Ratefreund (Fidoamico), disillusi dai loro simili, partono per una regione desolata alla ricerca dell’upupa, re degli uccelli. Incontrano lo Scricciolo, che è sospettoso degli umani, ma riescono a persuaderlo a convocare il suo padrone. Risvegliata dal sonno, l’Upupa, che una volta era stata lui stesso un uomo, affronta Hoffegut e Ratefreund, che dichiarano il loro desiderio di vivere tra gli uccelli spensierati. Quando l’Upupa sospira che gli uccelli non hanno un vero regno da chiamare proprio, Hoffegut osserva che il cielo è il loro dominio. L’Upupa esita, osservando che l’aria appartiene a tutte le creature. Ratefreund proclama che gli uccelli dovrebbero costruire una grande città tra le nuvole, fortificata contro gli uomini in basso e gli dèi in alto. Hoffegut è scettico, ma l’Upupa abbraccia la proposta con entusiasmo e convoca gli uccelli al suo fianco, annunciando che sono arrivati ​​due uomini con un piano che andrà a beneficio degli uccelli. La prima reazione degli uccelli è denunciare gli uomini come malvagi e traditori. Tuttavia, nonostante un avvertimento da parte dell’Aquila, l’Upupa convince la folla ad ascoltarli. Giocando sulle loro emozioni, Ratefreund ricorda un’età dell’oro in cui gli uccelli erano venerati dagli uomini e li incita a reclamare la loro gloria perduta. Galvanizzati, gli uccelli si impegnano nel piano escogitato da Ratefreund, anche se significa guerra. Anche Hoffegut è coinvolto nell’eccitazione, immaginando ingenuamente un mondo migliore a portata di mano. Incoraggiato dal suo successo, Ratefreund esige che gli uccelli lo onorino come loro signore e padrone, e loro acconsentono volentieri. In mezzo a tanta gioia, gli uccelli si precipitano per iniziare la loro grande impresa.
Atto II. La notte successiva. Hoffegut viene risvegliato dalla canzone dell’Usignolo. Si sente rivitalizzato, inebriato dalla sua dolce voce e lo supplica di avvicinarsi e gli chiede di insegnargli a vedere il mondo attraverso i suoi occhi. All’inizio l’uccello gli dice che non riuscirà mai a capire cosa significhi vivere in armonia con l’universo, ma la sua dichiarazione d’amore la fa cedere e gli dà un bacio sulla fronte, esaudendo il suo desiderio. L’aria si riempie delle voci del profumo dei fiori, e Hoffegut soccombe al loro incanto e sviene. L’alba illumina la cittadella nel cielo costruita dagli uccelli. Guidati dall’Upupa e da Ratefreund, gli uccelli vantano le loro nobili conquiste e il loro imminente dominio su tutti gli esseri viventi. Un corteo nuziale si fa largo tra la folla, guidato dallo Scricciolo, che annuncia con orgoglio l’arrivo dei primi sposi ad entrare nella grande città. Tutti si uniscono alla celebrazione nuziale, che culmina in una danza cerimoniale guidata da due colombe come sposa e sposo. L’atmosfera è sconvolta quando altri uccelli si precipitano dentro, gridando a gran voce che una potente creatura ha sfondato le barricate. Lo straniero entra, pesantemente ammantato, e gli uccelli si rannicchiano per la paura. L’Upupa e Ratefreund sfidano l’intruso, che annuncia di essere venuto come amico ad ammonirli; grazie alla grazia di Zeus, è stata data loro la possibilità di riorganizzarsi e sottomettersi alla volontà degli dèi. Gli uccelli reagiscono con aria di sfida, dopo di che lo straniero rivela di essere il titano Prometeo, che una volta si era ribellato agli dèi ed era stato punito severamente. Nonostante questo terribile avvertimento e le perplessità espresse da Hoffegut e dall’Upupa, Ratefreund esorta sfacciatamente gli uccelli a dichiarare guerra agli dèi. All’improvviso scoppia una terribile tempesta che manifesta l’ira di Zeus e un fulmine distrugge la cittadella degli uccelli. Castigati, gli uccelli cantano un inno di lode e ringraziamento a Zeus. Ratefreund emerge dal nascondiglio. Congedando l’intera avventura tra gli uccelli come un’allodola sciocca, esorta Hoffegut a tornare con lui nelle comodità di casa in città. Hoffegut si sofferma per un momento, riflettendo sul suo breve incontro con l’Usignolo, un’esperienza che vivrà per sempre nel suo cuore. Mentre si gira per andarsene, si sente ancora una volta il richiamo dell’Usignolo; sopraffatto dall’emozione, Hoffegut si mette in viaggio verso casa.

Musicista di grande successo tra le due guerre, dopo la morte cadde nel dimenticatoio poiché il suo stile neo-romantico veniva considerato conservatore e passatista. Solo recentemente la sua musica è stata in parte recuperata, ad esempio, da James Conlon che col suo progetto “Recovered Voices” della OREL Foundation ha dato nuova voce ai compositori perseguitati dalla tirannide nazista.

Nel 2009 Conlon dirige dunque a Los Angeles questa opera “lirica fantastica” in 1 prologo e 2 atti su libretto del compositore. Ispirata all’omonima commedia di Aristofane tratta infatti di «due cittadini di Atene, in fuga dal regime democratico, il quale significa egualitarismo coattivo, delazioni, multe, confische, condanne all’esilio e a morte, sono in cammino verso il libero Regno degli Uccelli: Pisetero ed Euelpide si chiamano, nomi che Walter Braunfels, nella sua opera, solo per lo spunto iniziale tratta dagli Uccelli e recante lo stesso titolo, traduce Fidoamico [Ratefreund] e Sperabene [Hoffegut]. Cercano una città ove si possa vivere così: “una città di lana morbida, per sdraiarsi come su una pelliccia bella soffice”. Per questo, lo spazio immenso intercorrente fra la terra e l’etere abitato dagli dèi sembra la regione giusta; e gli uccelli, fatti di gioia e per la gioia viventi, liberi, paiono i compagni ideali. Ma giunti presso di loro e parlato con l’Upupa, che prima era un uomo, Pisetero esprime ben più ambizioso piano. Esser gli Uccelli stirpe più antica, non che degli Dei, dello stesso Crono; poter essi dunque rivendicare i loro diritti anche contro gli uomini, che ne fanno strame. Potersi tutto lo spazio mediano tra i due mondi estremi circondare di mura e trasformare in città fortificata: ecco l’ idea. Allora il fumo dei sacrificî non si alzerebbe più, nutriente agli Dei, fino all’etere: costoro si ridurrebbero alla fame! […] Walter Braunfels era di sensi profondamente cattolici. Non poteva accettare una religione che si prende giuoco dei suoi dèi né voleva concepirne la profondità; e lo smisurato comico di Aristofane non era per il suo raffinato, appena appena estenuato, neo-classicismo. Il dramma ch’egli trae da Aristofane addirittura capovolge l’esempio, da non potersi chiamare nemmeno fonte; e mette capo a una restaurata religione per la quale uno Zeus-Jahvé, in scena deus absconditus, reprime facilmente la velleitaria rivolta e viene adorato dal popolo degli uccelli. I due ometti si ritrovano sulla superficie terrestre disgraziati come ne erano partiti; ma uno dei due, Sperabene, è più ricco e insieme più povero perché ha dentro di sé la dolorosa dolcezza del ricordo». (1)

Il linguaggio musicale del compositore di Francoforte tocca il punto più alto nel quadro notturno del secondo atto dove «Braunfels dedica, in via secondaria, un omaggio anche all’apertura dei Gurre-Lieder di Schönberg, […] tra le alte cose del Novecento musicale. Nella scena percorsa da brividi l’autore finge il desiderio di un arcano rapporto tra l’umana natura di Sperabene e quella non-umana del bellissimo Usignuolo, un soprano di coloratura del quale cercheremo il precedente non nei tanti esempî storici che subito vengono alla memoria, ma nella suprema eleganza della Fata-Madrina della Cendrillon di Massenet, a comprovare questo versante misterico (in senso romantico) dell’opera».

L’Usignolo in questa versione di Los Angeles ha la voce di Desirée Rancatore che svolge con disinvoltura le agilità richieste della parte. Il sognatore Hoffegut ha l’interessante e timbrata voce dell’allora emergente tenore americano Brandon Jovanovich, quasi una controfigura di Jim Carrey.

In ogni nota della partitura James Conlon dimostra la sua grande attenzione a questa musica, ma la sua amorevole lettura non riesce a trasformare in capolavoro quest’opera che non riesce a coinvolgere, manca di drammaticità (per non parlare di umorismo) e si sviluppa in maniera convenzionale, indecisa tra Zauberflöte e Parsifal.

Neanche l’ingenua messa in scena di Darko Tresnjak, i costumi filo-egiziani e i balletti con grande sbattere di braccia a simulare ali fanno il miracolo di convincere e l’interesse per la tenue vicenda si esaurisce con l’ultima nota della peraltro lussureggiante partitura.

Nel disco ArtHaus ci sono sottotitoli anche in italiano, ma nessun extra.

(1) Le citazioni sono di Paolo Isotta che recensisce l’allestimento al Lirico di Cagliari (aprile 2007) di Giancarlo Cobelli con la direzione di Roberto Abbado.


  • Die Vögel, Metzmacher/Castorf, Monaco, 31 ottobre 2020

Die tote Stadt (La città morta)

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★★★★☆

Intrigante produzione dell’opera giovanile di Korngold

Scritta a diciannove anni. Non sempre ci si ricorda di questo particolare quando si affronta quest’opera. Il giovane Korngold ne aveva iniziato la scrittura nel 1916, ma a causa del servizio militare dovette sospendere la composizione e riprenderla un anno dopo. Die tote Stadt aveva poi debuttato in contemporanea il 4 dicembre 1920 ad Amburgo, diretta da Otto Klemperer, e a Colonia, e qui alla guida dell’orchestra c’era Egon Pollack. Il libretto era stato scritto dal compositore stesso e da suo padre sotto lo pseudonimo Paul Schott. Il romanzo di Rodenbach Bruges-la-morte (1892) era già stato adattato a dramma teatrale dall’autore come Le mirage e tradotto in tedesco come Die stille Stadt (La città silenziosa).

Nel romanzo, «étude passionelle» lo definisce l’autore, la città di Bruges è personaggio lei stessa, indissolubilmente associata agli stati d’animo del protagonista che l’ha scelta per «insabbiarsi» nell’atmosfera muta delle sue strade e dei suoi canali, «arterie fredde» come quelle della “sua” morta, la moglie scomparsa da cinque anni di cui venera e coltiva il ricordo in una casa mausoleo dedicata alla sua memoria. Fino a che non incontra per caso una donna che gli ricorda incredibilmente la defunta o meglio, ossessionato dalla scomparsa dell’amata moglie, egli cerca di ricrearla nella figura di un’altra. Come nel film Vertigo (La donna che visse due volte, 1958), se nel film di Hitchcock lo sfondo del dramma era la città di San Francisco, qui è Bruges: «la donna morta, la città morta… c’è un misterioso legame tra loro». Paul, il protagonista, non riesce a conciliare il passato e il presente, l’ideale e la realtà. Il romanzo racconta l’ossessione dell’uomo per questa donna che alla fine uccide perché ha profanato il cimelio a lui più caro, la treccia bionda della defunta. Nel romanzo tre soli sono i personaggi: il vedovo Hugues, la ragazza Jane e Barbe, la governante.

Nella pièce teatrale ha maggior risalto suor Rosalie, la sorella di Barbe, che appare nella prima scena, ma soprattutto viene introdotto il personaggio di Joris, l’amico di Hugues. A lui e ai colloqui con Hugues sono affidate alcune delle descrizioni e dei commenti presenti nel romanzo. Nel terzo atto entra anche Geneviève, la moglie morta, che gli parla dei suoi capelli: «Te rappelles-tu mes cheveux? Tu les aimais tant! […] Je te les ai laissés, mes cheveux. […] Ainsi je continuais à être un peu vivante auprès de toi. C’est en ces cheveux qu’on se survit… C’est notre portion d’immortalité». Nella scena che segue Jane e Hugues si mettono crudelmente a nudo: lei ammette che lo vuole per i suoi soldi, lui la vuole solo perché gli ricorda la defunta. La scena decima del quarto atto vede la processione del Santo Sangue sotto le finestre e nella seguente il culmine del dramma. Barbe, che è ritornata per prendere un cesto che aveva dimenticato, scopre il cadavere. «Mon Dieu… Il l’a tuée… Il est fou… Au  secours!» grida. E Hugues: «Ce n’est pas moi… c’est la chevelure!».

Nel libretto invece si tratta solo di un sogno e la seconda e la terza parte in cui è divisa l’opera è un unico dramma onirico. Diversi sono anche i nomi dei personaggi.

Paul (siamo alla fine del XIX secolo) coltiva quasi morbosamente la memoria della moglie Marie, morta in giovane età e ritratta in un grande quadro al centro di una sorta di museo casalingo a lei dedicato. L’inconsolabile vedovo confida all’amico Frank di avere incontrato una donna che a Marie somiglia straordinariamente, e l’ha invitata a fargli visita per inscenare una sorta di resurrezione. Si tratta di Marietta, una danzatrice e cantante dalla quale Paul è affascinato ed eccitato. Egli è combattuto tra la lealtà verso Marie e l’attrazione per Marietta e finisce per scambiare le due donne in una confusa immaginazione, tra realtà e sogno. E vive con senso di colpa uno straziante travaglio interiore, attratto e respinto al tempo stesso dalla giovane e provocante creatura. Nella sua visione nebulosa, coinvolge altri personaggi: la fedele governante Brigitta, che abbandona scandalizzata la sua casa e si rifugia in uno di quei béguinages per i quali la città va famosa; l’amico Frank, che a sua volta sarebbe sedotto dal prorompente fascino della donna di spettacolo. Assiste non visto a una festa, alla quale partecipa tutta la compagnia teatrale di cui Marietta fa parte. Tra canti, lazzi, libagioni, atteggiamenti licenziosi e blasfemi, l’atmosfera si fa surriscaldata e minacciosa. Si prova una scena dell’opera Robert le diable di Meyerbeer, nella quale Marietta interpreta la parte di Hélène. Nell’opera ricorre il motivo ‘della resurrezione’ e la concezione stessa della resurrezione è fatta oggetto di dileggio da parte dei teatranti. La città morta sembra ribellarsi al sacrilegio, tra suoni d’organo e di campane a morto, presagi di tempesta e apparizioni di beghine. Paul, offeso nei suoi affetti e nei suoi sentimenti religiosi, si palesa, affronta Marietta, la accusa delle sue perversità e le dice che in lei ha amato soltanto la moglie scomparsa. Piccata, Marietta accetta la sfida e, facendo uso di tutti i suoi poteri di seduzione, irretisce Paul e si introduce nella sua casa per una folle notte di passione. L’indomani, Marietta si ritrova di fronte al ritratto di Marie e, dalla stanza che ne custodisce le memorie, assiste con Paul allo spettacolo di una solenne, fastosa processione. Torna a deridere la religiosità di Paul e a profanarne i sentimenti esercitando il suo potere erotico, ma il giovane la respinge. Egli difende appassionatamente la propria fede, le ragioni dell’amore e della lealtà. Marietta si impadronisce di una treccia dei capelli di Marie, conservata in una teca e se la avvolge intorno al collo, danzando come indemoniata. Finisce che Paul, davanti a tanta intollerabile sfrontatezza, la strangola con la stessa treccia. Ma è stato un sogno, una visione: nessuna profanazione, nessun delitto è avvenuto. Brigitta viene ad annunciare che la signora venuta in visita è tornata sui suoi passi. Entra Marietta: ha dimenticato qualcosa e si chiede se non sia un invito a rimanere. Paul resta muto e allora lei se ne va, mentre arriva Frank. È avvenuto un miracolo? La donna del ritratto si è ridestata dal suo sonno di morte? No, non c’è stata, né può esservi resurrezione. Paul lascerà per sempre Bruges, la città morta.

Die tote Stadt aveva debuttato nel 1920 a Colonia sotto la bacchetta di Klemperer. Musicalmente l’opera si avvale di una lussureggiante orchestrazione (Korngold trasferito negli USA nel ’34 comporrà molte colonne sonore per film). C’è sì molto Strauss nella sua musica, ma anche tanto lirismo alla Puccini e come La Rondine anche la sua opera è conosciuta quasi esclusivamente per la canzone della protagonista, là Magda, qui Marietta. (1)

«Questa cupa vicenda, con i suoi potenti vertici melodrammatici, si colloca forse nell’atmosfera luttuosa di una società ancora ferita dagli eventi della grande guerra, in un clima dolente di orrifico dormiveglia. L’opera risente dell’impronta espressionistica che ispira un po’ tutta la creatività del periodo, soprattutto in Germania, dalle arti figurative al teatro al cinema. I suoi passaggi allucinatori sono esaltati da una musica di memorabile suggestione, dolorosamene intensa, mai clamorosa, distillata in motivi e melodie brevi a formare una struttura melodico-drammatica forte e compatta, a tutto vantaggio della plausibilità e tensione narrativa della trama, in apparenza evanescente e ambigua, in bilico fra sogno e realtà, straziante memoria e sprazzi di lucida, rabbiosa coscienza. Ricca di arie anche orecchiabili e divenute popolari perfino fuor di contesto, l’opera ebbe subito enorme successo e contribuì a consolidare la fama precoce di Korngold, giovane prodigio espresso dal fatato ambiente musicale austro-germanico di Mahler e di Richard Strauss. La partitura, che fu eseguita dall’autore in una riduzione per pianoforte alla presenza di Puccini nell’occasione di una sua visita a Vienna nel 1920, fu giudicata dal musicista italiano “la più forte speranza della nuova musica tedesca”. Padrone di tutte le tecniche e linguaggi musicali, Korngold si cimenterà in seguito nella confezione di abili arrangiamenti di operette, in composizioni orchestrali e cameristiche, e in un’altra opera di ispirazione espressionistica, Das Wunder der Heliane». (Francesco Cavallone)

La scenografia della Es Devlin in questa produzione di Kasper Holten sottolinea l’alterazione psichica del personaggio: le pareti e il pavimento sono pieni di ritratti della defunta, di scrigni contenenti suoi ricordi, di vasi da cimitero colmi di rose rosse. Il letto al centro della scena, di marmo come una tomba, ci suggerisce che si tratta di un sogno del protagonista e nello stesso tempo il letto è il simbolo dell’atto sessuale tanto desiderato ma anche tanto temuto da Paul, ossessionato dal suo senso di colpa. Ma è il fondo della scena quello che più colpisce in questa realizzazione dell’Opera Nazionale Finlandese del 2010: ad angolo retto col palcoscenico c’è una vertiginosa visione di Bruges vista dall’alto, la vecchia città, monumento di chi ci è vissuto e non c’è più, la memoria del passato che incombe sul protagonista.

Marietta è interpretata da una Camilla Nylund che affronta l’impervia ed estenuante parte con magnifica disinvoltura. Il tenore Klaus Florian Vogt ha la voce adatta ad esprimere lo stato onirico del protagonista, ma è un po’ debole nella parte bassa della tessitura. Mikko Franck dirige senza infamia e senza lode l’orchestra finlandese.

Ripresa con tecnica molto cinematografica, due dischi, immagine e audio non al massimo delle possibilità tecniche attuali, nessun extra e sottotitoli non in italiano.

Da non perdersi nei titoli di coda la vista dell’esterno del teatro di notte nella neve dell’inverno finlandese.

(1) Tra le tante versioni di quest’aria un posto a parte per sublime bellezza ha quella di Anne Sofie von Otter, con quartetto d’archi e pianoforte in concerto da Parigi, reperibile in rete.

Die Gezeichneten (Gli stigmatizzati)

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★★★★★

Una “tragedia dell’uomo brutto”

Die Gezeichneten, “I marchiati” o meglio ancora “Gli stigmatizzati”, debuttò nel 1918 – periodo non troppo fortunato per un autore ebreo come Schreker, che fu infatti presto messo al bando dai nazisti come rappresentante di quella “entartete Kunst” (arte degenerata) con cui furono bollate le opere degli ebrei o di quelli non in linea con l’ideologia nazista. Per di più l’opera fu  accompagnata dallo scandalo con cui molti accusarono l’autore di aver portato in scena passioni peccaminose e pornografia.

Il libretto, del compositore stesso e scritto su stimolo dell’amico Alexander von Zemlinsky, lui pure “artista degenerato”, narra di un nobile deforme, terribilmente brutto e incapace di trovare l’amore – da Riccardo III a Rigoletto a Wozzeck a Tonio le patologie psicofisiche hanno sempre avuto un loro fascino sulla scena dell’opera lirica. Zemlinsky era stato crudelmente rifiutato da Alma Mahler che l’aveva garbatamente definito «un nano repellente», per cui il soggetto gli sembrava tristemente congeniale, tanto che nel 1922 comporrà Der Zwerg (Il nano), opera in un atto ricavata da un racconto di Oscar Wilde. Il libretto de Die Gezeichneten doveva essere inizialmente musicato da Zemlinsky stesso, ma alla fine fu Schreker a comporre il lavoro.

Epoca il XVI secolo, a Genova. Alviano Salvago, gentiluomo di terribile bruttezza, possiede un’isola lussureggiante, Elysium, che per suo desiderio è stata curata e ingentilita tanto da sembrare un paradiso artificiale. Su quest’isola però non ha mai osato metter piede, perché la sua bruttezza vi stonerebbe con un contrasto troppo doloroso. Alcuni patrizi genovesi gli rivelano di aver approfittato della sua isola per darsi a orge clandestine. Alviano freme e li ammonisce ad astenersi almeno dal profanare la magica grotta sotterranea, ma comunque è deciso a donare ai concittadini l’isola di cui il suo fisico sgraziato gli impedisci godere. Arriva Carlotta, la bellissima figlia del podestà, e il giovane Tamare Vitellozzo se ne innamora follemente a prima vista. La fanciulla non se ne cura e chiede invece ad Alviano di recarsi da lei a posare per un quadro che sta dipingendo. Tamare confida all’amico Adorno la sua disperazione per il comportamento sdegnoso di Carlotta e afferma di essere risoluto a strappare il suo ricordo dal proprio cuore, non prima però di averla ridotta a propria postituta per farle scontare l’umiliazione inflittagli. Nel suo atelier Carlotta cerca di catturare in Alviano lo sguardo intenso che gli aveva sorpreso sul viso una mattina mentre l’uomo contemplava l’alba. Per ritrovare quell’espressione Carlotta cerca di avvalersi del suo fascino femminile e finisce per confessare ad Alviano di amarlo. Per portare a termine il suo dipinto gli ordina in ogni caso di rimanere immobile. Il casto abbraccio dei due viene interrotto dall’annuncio dell’arrivo di Adorno venuto a perorare la causa di Tamare. Sull’isola Carlotta, ammaliata dalla bellezza che vede fiorire intorno a sé, si riaccosta pentita a Tamare e lo segue nella grotta. Nel frattempo Alviano viene accusato di essere lui il rapitore ed è costretto a svelare l’ingresso alla grotta dove viene trovata Carlotta, ormai morente. Qui Tamare deride Alviano per non aver saputo godere di lei e gli rivela che Carlotta gli si è data spontaneamente. Convinto invece che Carlotta sia stata una vittima della furia bestiale del giovane, Alviano lo uccide, ma resta pietrificato nell’udire la donna invocare appassionatamente con l’ultimo respiro il nome amato di Tamare e impazzisce.

L’opera ha come argomenti principali la bellezza e la possibilità che l’arte “catturi” l’anima. L’azione ha luogo nel XVI secolo: i dissoluti patrizi genovesi lamentano la possibilità di accedere ancora all’Elysium, l’isola di bellezza creata dal nobile Alviano Salvago. Egli si reputa così brutto da non voler metterci piede e ha deciso di restituirla al popolo. Ma i nobili hanno fatto dell’isola il luogo privilegiato dei loro vizi segreti ove organizzano orge con le figlie rapite ai ricchi borghesi della città. Nella grotta dell’isola «la fiamma delle fiaccole rende tutto dorato | nella vertigine dell’orgia il brutto diventa bello | e il bello brutto. | Il contrasto sparisce nell’estasi». Salvago comincia ad avere qualche fiducia nella sua “bellezza interiore” solo quando incontra Carlotta, la figlia del Podestà, che si dichiara pittrice di anime ed è morbosamente attratta dal patrizio deforme oltre che gravemente ammalata. Nel momento in cui il quadro è terminato però, la donna perde ogni interesse per l’uomo e si concede al suo rivale, l’arrogante conte Vitelozzo, provocando l’ira di Alviano e la sua distruzione.

«Ad essere “predestinati” non sono i due infelici protagonisti, bensì la civiltà europea nel suo complesso, il pubblico di Vienna e di Berlino, tutto quel mondo sofferente e luccicante, e infine lo stesso Franz Schreker, mezzo-ebreo e consapevole profeta dell’apocalisse, morto di crepacuore nell’attimo in cui la sua musica – avendo forse concluso la sua missione – svaniva all’improvviso, si ammutoliva nel nuovo ordine del totalitarismo.» (Dario Oliveri)

L’opera ha avuto una ripresa in prima assoluta per l’Italia a Palermo tre anni fa con grande successo. Qui abbiamo invece l’edizione del Festival di Salisburgo del luglio 2005 diretta da Kent Nagano e con la messa in scena di Nikolaus Lehnhoff.

Per il regista la “diversità” di Alviano non è una deformità fisica, ma il travestitismo e il maquillage che il protagonista esegue durante l’ouverture nel tentativo di nascondere la sua bruttezza. Il vastissimo palcoscenico della Felsenreitschule salisburghese è occupato da un’enorme statua femminile, sdraiata e smembrata, dalla classica bellezza, ma poi alla fine dell’opera dalle sue viscere emerge la grotta dei vizi e delle violenze mentre sangue cola dagli occhi e dalla bocca del colosso. La suggestiva scenografia è di Raimund Bauer. La costumista Andrea Schmidt-Futterer non dimostra nessuna pietà per i cantanti che sotto i pesanti pastrani e le maschere (bellissime) sudano copiosamente nella calda serata salisburghese.

A capo della orchestra sinfonica di Berlino Kent Nagano sa ricreare magnificamente quel flusso post-romantico e sensuale dalla orchestrazione lussureggiante che è la partitura dell’opera ed è aiutato da un cast di interpreti eccellenti, dalla splendida Carlotta di Anne Schwanewilms, al Vitelozzo di Michael Volle, al podestà di Wolfgang Schöne. Nella difficile parte di Alviano, ruolo di Heldentenor, Robert Brubaker.

Ottima immagine, tre tracce audio, ma non ci sono extra né sottotitoli in italiano.