Eugène Scribe

L’elisir d’amore

foto © Mattia Gaido

Gaetano Donizetti, L’elisir d’amore

Torino, Teatro Regio, 5 febbraio 2025

(cast alternativo)

Sul palcoscenico del Teatro Regio un cast diverso si alterna nell’Elisir d’amore, ma all’ultima recita due ulteriori sostituzioni salvano lo spettacolo per le indisposizioni delle interpreti femminili.

Daniela Cappiello veste i panni di Adina e convince nella trasformazione del personaggio sia di Felice Romani, che da giovinetta superficiale diventa tenera amante, sia del regista Daniele Menghini, che da marionetta di legno la fa diventare persona umana. Il momento clou della trasformazione è l’aria del secondo atto quando Adina restituisce a Nemorino il contratto con cui si è arruolato soldato e che lei ha riscattato: «Prendi; per me sei libero» canta su una melodia non distante dalla belliniana «Prendi: l’anel ti dono» de La sonnambula. Puro bel canto nella nitidissima linea musicale che la cantante esegue con legati e pianissimi di grande bellezza. Prima però nei duetti aveva sfoggiato precise agilità già sperimentate nelle sue passate Gilde, Amine, Regine della notte e Susanne. L’altra sostituzione è quella di Yuliya Tkachenko che delinea una Giannetta vivace sia vocalmente che scenicamente nei suoi pochi ma ben calibrati interventi.

Confermati invece i ruoli maschili con Valerio Borgioni che incarna un Nemorino di bella presenza, timbro gradevole e generosi mezzi vocali non sempre però controllati e sfogati in acuti che sporcano la linea di canto. I suoni sono generalmente troppo aperti e il fraseggio un po’ disordinato, ma il momento migliore della sua performance è comunque quello della «Furtiva lagrima» in cui, accompagnato dai tempi comodissimi del Maestro Carminati, riesce a sfoggiare pianissimi e indugi che scatenano l’entusiasmo del pubblico. Simone Alberghini è un Dulcamara tutt’altro che caricaturale, quasi composto nel bailamme in scena. La voce mantiene una proiezione e un giusto colore per affrontare un carattere esuberante e con doti sicure dote attoriali. Con Lodovico Filippo Ravizza il personaggio di Belcore si conferma il più riuscito della serata, come era successo alla prima. La grande musicalità e la bellezza del timbro caratterizzano il giovane baritono ascoltato come Renato nel Ballo in maschera dello stesso Menghini a Busseto. L’atteggiamento guascone del personaggio non eccede mai una linea di eleganza che comunque non rende mai meno sapido il personaggio.

L’occasione di ascoltare il cast alternativo di questa produzione ha permesso di ammirare ancora una volta l’attenta concertazione di Fabrizio Maria Carminati in una partitura che oltre alla sublime vena melodica cela tesori nascosti di strumentazione. Un esempio per tutti la scena del coro delle Paesane del secondo atto «Sarà possibile?», punteggiata in orchestra dagli ineffabili interventi di flauto e clarinetto, poi fagotto e corno, e poi, inattesi e misteriosi, i timpani, il tutto reso con grande sensibilità dalla bacchetta del Maestro, come gustose sono le improvvisazioni al fortepiano di Paolo Grosa quando accenna all’accordo del Tristano se Dulcamara cita Isotta…

Questa seconda visione permette di scoprire qualche altro dettaglio nella regia di Daniele Menghini, una messa in scena zeppa di idee efficacemente realizzate,  ma con gag spesso estemporanee per compiacere il pubblico – il chiodo, il fallo, l’estintore… – , pubblico numeroso e giovanile che infatti risponde con applausi travolgenti alla fine della recita.

Questa di Donizetti è opera spesso presente nei cartelloni del Regio di Torino, molto meno le sue opere serie. Sarà bene rimediare: il bergamasco è compositore quantitativamente più fecondo nel dramma che nel genere buffo, come sanno bene all’estero dove grande successo hanno ad esempio le sue regine…

L’elisir d’amore

foto © Mattia Gaido

Gaetano Donizetti, L’elisir d’amore

★★★★☆

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Torino, Teatro Regio, 28 gennaio 2025

Il mondo di legno di Nemorino

Arriva dalla platea Nemorino: parka, borsa di plastica con bottiglie che finiranno nel frigorifero del suo laboratorio di burattinaio sporco di segatura e ingombro di ciocchi di legno. Sul fondo le marionette pronte per la consegna, sul tavolo di lavoro una marionetta femminile a cui mancano ancora pochi tocchi. Ma Nemorino ne è già innamorato: un po’ Geppetto, un po’ Pigmalione, il creatore si è invaghito della sua creatura. Ma non sarà inghiottito dalla balena, bensì dal suo onirico subconscio.

Burattinaio improvvisato, «non avendo trovato un suo posto nel mondo, [Nemorino] crea un suo mondo di legno», dice il regista Daniele Menghini, e tutta la vicenda del libretto di Felice Romani diventa così una soggettiva del giovane che si trova a fare i conti con l’amore per la prima volta. Da una parte c’è un uomo fragile, genuino e semplice, dall’altra personaggi caricaturali, farseschi, delle maschere, appunto. Nemorino quindi è l’unico essere umano, tutti gli altri sono burattini. Ma mentre la sua creatura di legno acquista sempre più le qualità umane della ragazza Adina, il giovane si trasforma invece in burattino, in Pinocchio. Ed ecco allora Dulcamara diventare Mangiafuoco, mentre una inquietante figura mezzo Grillo Parlante mezzo Fata Turchina passeggia sgranocchiando gli arti di legno del burattino che era stato portato in scena in una bara trasportata dai lugubri conigli della fiaba di Collodi. Però nel gioioso lieto fine Nemorino riacquista la sua totale umanità e scappa con l’amata passando nuovamente per la platea.

Spettacolo ricco – forse troppo – e carico di simboli quello del giovane e talentuoso Daniele Menghini di cui era stato molto apprezzato Un ballo in maschera al recente Festival Verdi. Arriva da un altro Teatro Regio, quello di Parma, questo Elisir d’amore e piace al pubblico, anche perché il regista riesce a conquistarselo con la sua sicura tecnica teatrale, talora anche troppo esibita, e immagini di grande suggestione. Niente villaggio campestre, covoni di fieno e mietitori: i costumi settecenteschi di Nika Campisi richiamano quelli delle marionette della Fondazione Grilli (a Parma erano quelli del Museo Giordano Ferrari) mentre le scenografie di Davide Signorini ricreano un mondo cupamente onirico che ricorda Freaks, il film di Browning, con una incombente gigantesca mano da cui pendono i fili delle marionette mentre le luci di Gianni Bertoli sottolineano l’artificialità dell’ambiente. 

Se la complessa drammaturgia messa in atto dal regista per una vicenda così semplice e immediata può non aver convinto tutti, non sembrano invece esserci state riserve sulla qualità dell’esecuzione musicale affidata a un sicuro concertatore quale Fabrizio Maria Carminati che della partitura ha dato una lettura corretta e precisa, esaltandone il tono patetico quando necessario con tempi comodi e con una bella ricerca di colore strumentale. A suo onore anche l’aver eseguito l’opera nella sua interezza aprendo i tagli di tradizione e ripristinando i da capo. Apprezzatissimi sono stati gli arguti interventi al fortepiano di Paolo Grosa con i suoi accenni al Don Pasquale o alle musiche del Pinocchio televisivo di Comencini.

Del quartetto di cantanti principali il migliore è il Belcore di Davide Luciano, grande proiezione ottenuta senza ispessire o strangolare la voce, eleganza di fraseggio e convincente presenza scenica. Non è da meno il simpaticissimo Nemorino di René Barbera, parte da lui spesso frequentata, dal bellissimo colore timbrico messo in luce, assieme alla grande tecnica, nelle due arie solistiche nel finale del primo atto e poi nella celeberrima «Una furtiva lagrima», che non è stata bissata solo perché, da grande artista qual è, non ha voluto eccedere nei facili effetti mantenendo una linea vocale di grande purezza. Paolo Bordogna si dimostra come sempre uno straordinario attore, ma il suo Dulcamara è inferiore alle aspettative per comicità, colore della voce e potenza. E spesso con ricorso al parlato.

Infine Federica Guida. A me non piacciono le Adine soubrette, ma qui il soprano palermitano sfoggia un temperamento eccessivo per il personaggio, con un timbro non molto piacevole, un’emissione sempre troppo forte e qualche grido di troppo. Convincente è la Giannetta di Albina Tonkikh del Regio Ensemble e ottimo il coro che non solo si dimostra eccellente musicalmente sotto la guida di Ulisse Trabacchin, ma sta migliorando sempre più la sua presenza scenica, qualità non sempre evidente nei cori italiani. Si era già notata nella Manon Lescaut di Auber – di cui si vorrebbe vedere Le Philtre, tratto dalla stessa pièce di Scribe, e un tempo molto popolare in Francia – e anche qui i movimenti e la gestualità, con il concorso dei bravi mimi-ballerini, sono risultati estremamente efficaci.

Accoglienza molto calorosa del pubblico con applausi particolarmente intensi per gli interpreti maschili. Nelle successive repliche si alterna un cast altrettanto prestigioso.

Manon Lescaut

Dolores Costello in un fotogramma del film When A Man Loves (1927) di Alan Crosland

Daniel Auber, Manon Lescaut

Torino, Teatro Regio, 27 ottobre 2024

(cast alternativo)

E quando ci sarà la possibilità di vedere un’altra Manon Lescaut firmata da Auber? La presenza di un cast alternativo è quindi un ottimo pretesto per sentire una seconda volta questa musica di così grande forza comunicativa.

Anche se conosciuto per La muette de Portici – il primo grand-opéra, ma lavoro poco frequente nei cartelloni, anche in quelli dei teatri francesi – Auber ottenne i suoi maggiori successi con le opéra-comique dove canto e recitazione si alternano per vicende raramente con finale tragico, e questa Manon Lescaut è un’eccezione. Si tratta di un genere che mescola spesso il sublime con il popolare come avviene in questo lavoro che inizia con un primo atto frizzante su ritmi talmente orecchiabili che ti rimangono appiccicati per giorni, come l’allegro coro da chez Bancelin «C’est à la guinguette | que l’amour nous guette!», continua con un secondo atto da commedia brillante e termina inopinatamente con un finale oratoriale di solenne spiritualità.

La parte di Manon fu costruita per il soprano belga Marie Cabel, cantante descritta da Fétis come «fresca, seducente, allegra, con il diavolo in corpo», caratteristiche che ritroviamo nella protagonista, che deve avere stile e timbro argentino, qualità della performance di Marie-Eve Munger, soprano coloratura canadese apprezzato nel repertorio ottocentesco (Fantasio) come in quello contemporaneo (Pinocchio). La Munger non è una macchinetta di agilità e anche se risolve con grande brillantezza la “Bourbonnaise” del primo atto con i suoi éclat de rire nei frivoli versi pieni di maliziose reticenze sulla storia di un «galant fier à bras» («Son nom! Vous allez rire. | Je m’en vais vous le dire, | bien bas… tout bas… tout bas… | Non, non, je ne le dirai pas!»), convince altrettanto nelle pagine più patetiche del secondo atto quando intercede presso il Marchese d’Hérigny per il suo Des Grieux («Mais il m’attend») o quando è combattuta tra la malinconia («Plus de rêve qui m’enivre, plus d’espoir») e la tentazione del lusso («Et cet écrin, comme il scintille!”). E infine nelle pagine tragiche dell’atto finale in cui si vede lo spessore dell’interprete che esibisce per di più una dizione perfetta e un fraseggio ricercato.

Come s’è già scritto il Marchese d’Hérigny qui ha una parte molto più importante di quella di Des Grieux: il giovane Gurgen Baveyan affronta con eleganza e un timbro chiaro di bari-tenore a cui manca solo un po’ più di proiezione per essere perfetto. Marco Ciaponi è un Des Grieux appassionato e dai generosi mezzi vocali qui accortamente impiegati e da un timbro luminoso già apprezzato nel suo Elvino romano. Qui invece la dizione è perfettibile.

Si conclude quindi così questo progetto del Teatro Regio di Torino che ha voluto approfondire un personaggio declinato in tre opere diverse nel tempo, nello stile e nelle intenzioni. Un programma intrigante che intende rinnovare la fruizione dell’opera, un’esigenza espressa anche da altri teatri, come La Monnaie di Bruxelles con le sue doppie serate che hanno fuso i quattro titoli donizettiani sui Tudor (Bastarda) e più recentemente i punti più salienti di sedici opere verdiane messe insieme per raccontare una nuova storia (Rivoluzione e Nostalgia). Di notevole sforzo produttivo, il bel progetto torinese sembra sia stato apprezzato soprattutto dai non-torinesi: gli storici abbonati hanno disertato per pigrizia l’offerta limitandosi alla proposta sicura della Manon pucciniana, l’unica che ha sempre riempito la sala questo mese. Peggio per loro, hanno perso una bella occasione.

Manon Lescaut

 

foto © Simone Borrasi

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Daniel Auber, Manon Lescaut

Torino, Teatro Regio, 17 ottobre 2024

★★★

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Auber conclude il progetto delle tre Manon al Regio di Torino

Un secolo dopo la pubblicazione del settimo e ultimo volume delle Mémoirs et aventures d’un homme de qualité dell’abbé Prévost, “L’Histoire du Chevalier des Grieux et de Manon Lescaut” fu messa in musica per un balletto-pantomima su testo di Eugène Scribe con musiche di Halévy. Quando, ancora su libretto dello stesso Scribe, Manon Lescaut divenne un’opéra-comique, il suo autore Daniel François Esprit Auber aveva 74 anni. Il lavoro debuttava infatti il 23 febbraio 1856 alla Salle Favart ed era il quint’ultimo di una lunga e feconda carriera (47 titoli di cui ben 38 su libretto di Scribe) iniziata nel 1805 e che si sarebbe conclusa solo nel 1869, due anni prima della morte del compositore.

Allievo di Cherubini, Auber gli successe come direttore al conservatorio parigino grazie a Luigi Filippo, mentre Napoleone III lo nominò Maître de Chapelle Impériale. Il suo stile spiccatamente individuale e caratterizzato da leggerezza, vivacità ed eleganza tipicamente francesi si ritrova in questa sua Manon Lescaut, ma si capisce anche come sia Massenet sia Puccini non temessero il confronto con il lavoro: la Manon di Auber è una macchinetta per agilità canore senza grande spessore psicologico e nei primi due atti la musica è una serie di motivi da operetta sui versi ironici di un libretto frivolo – «Me voler ma maîtresse | et son amour… d’accord! | Mais, mon souper, Monsieur, | ah! c’est vraiment trop fort!» (Rubarmi l’amante e il suo amore, va bene, ma la mia cena, signore, è davvero troppo!), come esclama il marchese d’Hérigny, uno dei due personaggi inseriti da Scribe e assenti negli altri libretti: il marchese d’Hérigny appunto, uno Scarpia che si redime in punto di morte, e Marguerite, l’alter-ego saggio e piuttosto borghese di Manon. Scribe e Auber, condizionati dalla destinazione del lavoro, ossia i palcoscenici in cui veniva rappresentato il genere opéra-comique, privilegiano gli aspetti brillanti della vicenda e la scrittura virtuosistica della protagonista, così che la loro Manon Lescaut diventa un affare di “guinguette, goguette et grisette” (1), come canta il coro del primo atto.

Nei primi tre anni l’opera fu rappresentata 63 volte per poi essere dimenticata e rivivere centoventi anni dopo in un’incisione discografica del 1975 con Mady Mesplé e nel 1984 in un’edizione al Filarmonico di Verona con Mariella Devia. La produzione ora sul palcoscenico del Regio, affidata alla direzione di Guillaume Tourniaire e alla messa in scena di Arnaud Bernard, conclude il progetto “Manon Manon Manon” del teatro torinese. La volontà del regista di abbinare a ciascun titolo operistico un prodotto del cinema francese qui si scontra col fatto che, stranamente, oltre a quella di Clouzot, non ci sia un’altra Manon, neanche nel cinema muto: la Manon Lescaut del 1926 (con Marlene Dietrich tra i personaggi secondari) è una produzione tedesca, mentre ricca è la filmografia italiana che nel 1911 ha un muto con Francesca Bertini, il 1940 vede la Manon Lescaut di Carmine Gallone con Alida Valli e Vittorio De Sica e il 1954 Gli amori di Manon Lescaut di Mario Costa con Myriam Bru e Franco Interlenghi. Bernard si rivolge quindi oltre oceano con il film di Alan Crosland del 1927, che originariamente doveva intitolarsi Manon Lescaut ma che fu poi distribuito come When a Man Loves. Gli attori che vediamo sono il fascinoso John Barrymore e la dolcissima Dolores Costello.

Come per le altre due puntate in bianco e nero, anche questa utilizza il cinema come chiave di lettura, con gli spezzoni del film che diventano entr’acte mentre la vicenda rappresentata sul palcoscenico è un film muto girato in un set cinematografico che richiama il padiglione a vetrate di Georges Méliès a Montreuil, compresi il regista in bombetta e baffi, solerti assistenti di studio e operatori alle macchine da presa a manovella. Poi nel terzo atto tutto l’apparato sparisce ed entriamo direttamente nella pellicola con la morte di Manon – un finale tragico generalmente bandito all’Opéra-Comique – che avviene davanti a una rigogliosa foresta, rigorosamente in bianco e nero, nello stile del Douanier Rousseau. Il finale incongruamente oratoriale di Auber, con la redenzione della frivola fanciulla che «s’élève vers l’Éternel», dà lo spunto al regista di chiudere ciclicamente questo terzo episodio portando in scena i personaggi delle due opere precedenti – prima si era intravisto sul balcone della casa in Louisiana il Pierrot Jean-Louis Barrault di Les Enfants du Paradis – a intonare il coro finale, mentre su tre schermi appaiono i visi dei tre personaggi cinematografici femminili con cui Bernard ha voluto illustrare le tre Manon dell’opera lirica.

Qui, funzionano molto meglio che nella Manon di Puccini gli inserti cinematografici, con le loro ingenue didascalie e l’enfatica recitazione, che spiegano quello che manca nel libretto, anticipano o commentano quello che si vedrà, dimostrandosi molto meno invasivi, anzi perfettamente efficaci nello sviluppo drammaturgico della vicenda. Come negli altri casi, anche questa volta è degno di ammirazione il bellissimo lavoro dello scenografo Alessandro Camera, della costumista Carla Ricotti e il disegno luci di Fiammetta Baldiserri.

Alla testa dell’orchestra del teatro, non abituata a questo repertorio ma che si è dimostrata all’altezza della situazione, Guillaume Tourniaire dirige con slancio e vivacità, restituendo la brillantezza della partitura e la trasparenza dell’orchestrazione. Qualche scollamento tra buca e voci in scena, specialmente nei complessi concertati, si risolverà sicuramente nelle repliche. Bravo come sempre il coro istruito da Ulisse Trabacchin che ha risolto con cronometrica precisione lo stralunato sopracitato coro del primo atto. E comunque bravi, assieme all’orchestra, ad adattarsi agevolmente in poco tempo alle tre opere diverse per stile, tono e mano direttoriale.

La parte creata originariamente per Marie Cabel è qui affidata all’agile voce di Rocío Pérez, soprano spagnolo di cui si è ammirata recentemente la sua Olympia ne Les contes d’Hoffmann veneziani. La voce non è enorme, ma la tecnica le permette di affrontare con agio le agilità richieste dai couplet della famosa “Bourbonnaise”, cavallo di battaglia dei soprani coloratura, nella scena chèz Bancelin, o nell’aria con stretta del secondo atto, in cui però fanno difetto una dizione perfettibile e quello spumeggiante esprit de vie che il personaggio deve esprimere per destare la meraviglia e accendere l’entusiasmo del pubblico, cosa che qui in effetti non avviene. Accettabili sono i suoi recitativi parlati, ma questo è uno scoglio su cui tutti i cantanti, chi più chi meno, vanno a cozzare in questo genere a noi così distante dell’opéra-comique con i suoi numeri musicali che si succedono ai passi recitati.

In questa versione il personaggio di Des Grieux è vocalmente meno importante: due soli duetti e nessuna aria solistica. Non esaltante è la performance del tenore Sébastien Guèze, elegante ma dall’emissione un po’ ingolata e senza grande personalità. La parte del leone nell’opera di Auber la fa il Marquis d’Hérigny con tre interventi solistici importanti. Personalità e carisma abbondano nel baritono argentino Armando Noguera che però trova qualche difficoltà nel registro basso che gli scrive Auber. Efficace il Lescaut del basso Francesco Salvadori. Dei molti personaggi secondari di cui pullula l’opera meritano menzione la sapida Mme Bancelin di Manuela Custer, il Renaud di Guillaume Andrieux, la Marguerite di Lamia Beuque, il vivace Gervais di Anicio Zorzi Giustiniani e il Monsieur Durozeau di Paolo Battaglia. Anche in questa produzione si esibiscono alcuni artisti del Regio Ensemble: Tyler Zimmermann (Un sergente), Mark Kim (Un borghese) e Albina Tonkikh (Zaby).

Calorosissimo il pubblico della prima, finalmente numeroso dopo le tristi defezioni di alcune repliche, ma c’è ancora molto lavoro da fare per riaffezionare il vecchio pubblico e conquistare quello nuovo. La qualità e novità delle proposte, come si dimostra, è condizione necessaria ma purtroppo non sufficiente per riempire il teatro di una città che non può contare, come Milano e Venezia, sulla massa dei turisti stranieri.

(1) «Qu’Horace en goguette, | Courant la guinguette, | Verse à sa grisette | Le falerne si doux» (Che Orazio brillo, all’osteria, versi alla sua donnina il Falerno più dolce) sono i versi di una vecchia chanson di Marc-Antoine Désaugiers di inizio ‘800 ben nota ai parigini dell’epoca di Auber.

Un ballo in maschera

foto © Roberto Ricci

Giuseppe Verdi, Un ballo in maschera

Busseto, Teatro Verdi, 27 settembre 2024

Non grand-opéra, ma vaudeville: il Ballo in maschera a Busseto

Busseto, il borgo più odiato che amato da Verdi che qui nacque, fin da metà Ottocento possiede un teatrino incastonato nella severa mole della duecentesca rocca. Stucchi, dorature, velluti e damaschi rossi decorano la sala e i locali annessi di questo minuscolo gioiello di soli 300 posti dove il Festival Verdi allestisce almeno uno dei suoi spettacoli. Quest’anno tocca a Un ballo in maschera e come sempre è una sfida adattare una produzione lirica nata per un grande teatro alle ridotte dimensioni di un palcoscenico di sette metri. 

Nato nel 1859 per il Teatro Apollo di Roma, il lavoro tratto da Gustave III ou Le bal masqué di Scribe, basato su un fatto vero, ossia l’assassinio del re svedese Gustavo III avvenuto nel 1792, subì come sappiamo una travagliata gestazione a causa della censura e nel corso del 1858 Verdi vide con costernazione cambiare la sede del debutto (da Napoli a Roma), il titolo (da Gustavo III a Una vendetta in domino ad Adelia degli Adamari a Una festa da ballo in maschera a Un ballo in maschera), il protagonista declassato da re svedese a duca della Pomeriania a capo della fazione guelfa a Firenze a conte in quel di Boston, l’ambientazione passare dal XVIII secolo a un’epoca precristiana al XIV secolo alla fine del XVII. E così i nomi: Gustavo diventava Armando e infine Riccardo, Amelia fu Adelia prima di riprendere il suo nome e Carlo fu Roberto e infine Renato. Che si sia mantenuta la coerenza drammaturgica in tutti questi passaggi è un miracolo quasi inspiegabile. Non grand-opéra, ma vaudeville, una tragedia che si intreccia alla commedia, il sublime al grottesco, questo è Un ballo in maschera di Verdi e di questo deve tener conto chi ne realizza la partitura e chi lo mette in scena. 

«Ogni cura si doni al diletto»: l’esortazione di Riccardo alla sua corte pazzerella è la chiave interpretativa della messa in scena del giovane Daniele Menghini, assistente di Graham Vick nei suoi ultimi spettacoli quali la Zaide di Roma. Davanti al sipario ci mostra un palloncino colorato attraversare il palcoscenico prima di scoppiare nelle mani di uno degli invitati che ritornano ancora in maschera e in preda a una solenne sbornia da un ballo. Tutta la vicenda è letta come una corsa all’abisso di un sovrano stravagante, un artista che indossa la corona, come fu appunto Gustavo III, eccessivo e forse proprio per questo assassinato.

Nella lettura di Menghini Riccardo arriva dalla festa travestito da donna, la faccia con i segni di un trucco pesante, per trasformarsi poi nel marinaio che interroga la maga diventando il Jack Sparrow de I Pirati dei Caraibi. Non sono da meno i suoi amici in costumi irriverenti, ma non i congiurati, che per tutta l’opera esibiranno impeccabili smoking. Molto accurato e fantasioso il lavoro del costumista Nika Campisi: Ulrica è una cadaverica Elisabetta I e Oscar una vivace ragazza che si travestirà da uomo nel ballo finale. La scenografia di Davide Signorini è efficace per rappresentare i diversi ambienti richiesti: il tono camp della corte si trasforma abilmente nell’abituro della maga con angioletti neri che scendono dal soffitto e poi nell’orrido campo con profusione di teschi ghignanti, teste mozze e scheletri, mentre il ballo in maschera finale riprende, esaltandola, la scena iniziale con mirror balls che si aggiungono ai luttuosi amorini. Sempre ben realizzate le luci Gianni Bertoli.

Un giuoco della morte grottesco e ironico questo del regista portato avanti con mano maestra e grande senso del teatro. Non sono fuggiti alcuni particolari quali l’effigie di Gustavo III sulle bandierine sventolate nel primo atto e gli occhialini tondi di Tom, un rimando a quelli di Jacques Offenbach il cui spirito riaffiora spesso in questa sorprendente partitura. Elemento che invece sembra sfuggito a Fabio Biondi, che nelle sue note di direzione sul programma ricorda come «lontano dai grandi palcoscenici italiani, il teatro lirico si producesse in spazi assai ridotti e per questo fosse implicito ridurre l’organico orchestrale», ma non è solo un problema di riorchestrazione, si tratta anche di riarmonizzare gli equilibri sonori tra le diverse famiglie di strumenti e tra l’orchestra e la sala, cosa che porta a ripensare la drammaturgia sonora sottolineando la dimensione grottesca, cosa che è in parte mancata nella sua direzione non sempre ironica e leggera a capo di una compagine, l’Orchestra Giovanile Italiana, volenterosa ed entusiasta ma con suoni talora pesanti e poco precisi, messi in evidenza da un’acustica che, in un ambiente così piccolo, non perdona.

Riguardo alle voci si sono ascoltate molti interpreti giovani al debutto nella parte e anche allievi ed ex allievi dell’Accademia Verdiana del Corso di Alto perfezionamento in repertorio verdiano, come l’applauditissima Ulrica di Danbi Lee, l’Oscar pimpante di Licia Piermatteo e l’inappuntabile Samuel di Agostino Subacchi. Giovanni Sala non è nuovo ai palcoscenici italiani e i suoi mezzi vocali non strabordanti hanno avuto la meglio nell’acustica della sala così che la sua prestazione come Riccardo, dopo alcune iniziali incertezze, si è fatta sempre più convincente. Autorevole ma non molto ricco di colori il Renato di Lodovico Filippo Ravizza mentre Caterina Marchesini col suo timbro un po’ metallico ma una sicura tecnica ha costruito con intensità la parte di Amelia. Bene il Silvano di Giuseppe Todisco, il Tom di Lorenzo Barbieri e il Giudice di Francesco Congiu.

Insomma, si è trattato di uno spettacolo apprezzabile soprattutto per l’aspetto visivo, cosa non sempre scontata nella frequentazione dei teatri lirici.

La sonnambula

Vincenzo Bellini, La sonnambula

Roma, Teatro dell’Opera, 11 aprile 2024

★★★

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Il sonno agitato di Amina

La Svizzera, che era totalmente assente nel Guillaume Tell scaligero, la ritroviamo ne La sonnambula ora in scena al Costanzi, ma solo nel nome della galleria d’arte “Elvezia”, la location che Elvino ha noleggiato per le sue nozze con Amina, perché la vicenda è ambientata a Roma dove la fanciulla, dopo aver visitato il Palazzo Barberini si addormenta in una camera dell’hotel Quirinale. Quello collegato al Teatro dell’Opera da una porta nel suo giardino che dà direttamente sul corridoio dei palchi di prim’ordine sinistro: Domenico Costanzi nel 1874 fece costruire lungo la nuova via Nazionale prima l’Hotel Quirinale e nel 1880, sul terreno confinante, il teatro d’opera che nella nuova capitale ancora mancava. L’architetto di entrambi gli edifici aveva ideato quel passaggio che veniva regolarmente utilizzato dagli artisti che soggiornavano nell’albergo, da Verdi alla Callas e della Divina nello spettacolo viene mostrato il ritratto, uno fra i tanti appesi sulle pareti della galleria. In realtà si tratta di video in cui si possono vedere capolavori del passato come la Maddalena penitente del Vouet rivisitata in stile contemporaneo, o la Velata del Corradini che diventa il «marmo dell’estinta madre» di Elvino su cui si rotolano molto irriverentemente in uno scomodo amplesso i due giovani.

Sul programma di sala ben tredici pagine sono dedicate alle note di regia dello spettacolo affidato a Jean-Philippe Clarac e Olivier Deloeuil > Le lab, un collettivo artistico di Bordeaux che ha tra i collaboratori Christof Pitoiset per le scene e le luci, Pascal Boudet e Timothée Buisson per gli interventi video e Julien Roques graphic design. Con la drammaturgia di Luc Bourrousse la semplice vicenda diventa la visualizzazione di diversi livelli di esplorazione dell’inconscio in cui «il sonno diventa riserva di metafore visive: della vita erotica, della vita spirituale, della malattia e della morte. L’allestimento crea un dialogo costante tra i video e l’azione teatrale sul palco. Un dialogo tra sogni, incubi, allucinazioni, ossessioni e immagini mentali».

Prima che inizi la musica vediamo dunque una ragazza alter ego di Amina che dopo aver vagato di notte per Roma entra nella stanza dove soggiornava la Divina, stanza trasformata in un piccolo museo con foto e manifesti dei suoi spettacoli romani, manda giù qualche pasticca con del liquore e cade in un sonno profondo. Non è dunque sonnambula e la vicenda di Scribe trasformata in libretto da Felice Romani non è che un incubo indotto dal mix di psicofarmaci e superalcolici. Non un’idea originalissima, ma accettabile se la realizzazione fosse convincente. Cosa che non avviene in questo caso in cui la discrepanza tra quanto teorizzato e quanto rappresentato è massima, cozza con la musica, si fa beffe dell’opera stessa e introduce trovate di dubbio gusto o del tutto ridicole, come l’apparizione di Amina con due cuscini legati dietro la testa o i numeri musicali annunciati come “performance”.

Alla seconda recita i registi non si presentano per i saluti finali e quindi si sono risparmiati i probabili bu che hanno caratterizzato il loro ingresso alla prima e il pubblico ha concentrato il suo favore sui fautori della parte musicale, primo fra tutti Francesco Lanzillotta che della difficile partitura di questo “semplice” lavoro, il settimo titolo del catalogo di Bellini, ha dato una lettura difficilmente superabile per qualità. «La semplicità dell’orchestra belliniana è un complesso lavoro compositivo che porta alla sublimazione dell’elemento melodico. “Ah! Non credea mirarti” è depurata persino di ipotetici raddoppi degli strumentini. Scrivere musica con pochi elementi, raggiungendo vette artistiche così alte, è più complesso che farlo con molti», dichiara il Maestro Lanzillotta che evidenzia la difficoltà di scrivere per un’orchestra ridotta: è facile ottenere grandi risultati con settanta e più strumenti, ognuno col proprio colore e il proprio timbro. È con pochi strumenti a disposizione che si vede l’abilità di un compositore a esprimersi e il giovane direttore romano, presenza di eccellenza in tutti i maggiori teatri e festival mette magistralmente in luce la qualità di scrittura del giovane Bellini e dimostra la sua abilità nel gestire l’ampiezza dei cantabili di depurata bellezza. 

Il secondo cast dell’11 aprile non fa quasi rimpiangere le stelle assolute del primo. Soprattutto Marco Ciaponi, giovane tenore dal bellissimo timbro che ricorda quello del giovane Pavarotti. Apprezzato interprete del repertorio belcantistico – Nemorino, Tonio, Ernesto… – e vincitore di prestigiosi concorsi, Ciaponi ha già interpretato il ruolo di Elvino a Dresda. Assieme al dono naturale della voce si ammira la sensibilità di uno stile elegante mentre nelle pagine più liriche esibisce filati e mezze voci da brivido. Molto ben realizzate anche le variazioni nelle riprese. Solo gli acuti sono sembrati talora un po’ cauti, ma nel complesso la sua è stata una prestazione di gran classe e molto applaudita. Di Ruth Iniesta ricordiamo le sue ottime prove in repertori molto diversi quali la zarzuela, l’opera francese o il belcanto italiano. Qui dimostra una volta di più la sua convincente tecnica e il suo bel mezzo vocale. Non solo i momenti magici di «Come per me sereno» o «Ah, non credea mirarti», ma anche i duetti con Elvino rivelano la chiarezza delle agilità e il fraseggio espressivo del soprano spagnolo. Il giovane Manuel Fuentes delinea un solido Conte Rodolfo anche se con una certa monotonia nella linea vocale e talora la difficoltà di mantenere il passo con l’orchestra. Monica Bacelli da par suo conferisce una sapida dimensione a mamma Teresa mentre Francesca Benitez si rivela una sorprendente Lisa nelle sue due arie zeppe di impervie difficoltà affrontate e risolte con grande agio e temperamento. Mattia Rossi (Alessio) e Leonardo Trinciarelli (Notaro) completano un cast calorosamente applaudito assieme al coro molto ben preparato da Ciro Visco. Giuste ovazioni per Francesco Lanzillotta.

Un ballo in maschera

 

foto ©  Andrea Macchia – Teatro Regio Torino

Giuseppe Verdi, Un ballo in maschera

Torino, Teatro Regio, 21 febbraio 2024

★★★☆☆

bandiera francese.jpg  ici la version française sur premiereloge-opera.com

L’ossessione della maschera

Un ballo in maschera è presente fin dall’inizio in questa produzione: la corte del governatore di Boston, il Conte Riccardo – ex Signore capo della fazione Guelfa in Adelia degli Adimari, ex Duca di Pomerania in Una vendetta in domino, ex Re di Svezia in Gustavo III… tante sono le versioni di questo lavoro così avversato dalla censura – non è dissimile da quella del dissoluto Duca nel Rigoletto, anche qui orge e donnine allegre al riparo di una maschera. Avendo la possibilità di ambientare la vicenda a seconda delle versioni di Un ballo in maschera nel XVII secolo o nel XIV o nel XVI e in Pomerania o a Firenze o a Stoccolma o in America, il regista Andrea de Rosa sceglie il Seicento napoletano…

Così infatti ci appare ad apertura di sipario la scena ideata da Nicolas Bovey: l’interno di un palazzo di Napoli rigorosamente simmetrico, con una scala a sinistra e una identica a destra che portano al piano superiore. L’ambiente si divide a metà scorrendo vero l’esterno per creare «l’antro abbietto» di Ulrica, uno spazio buio in cui la donna «dell’immondo sangue dei negri» – sì, proprio così dice il libretto e bene è stato fatto a non censurare e modificare, come sembra invece sia prassi corrente oltre oceano nella patria della cancel culture e del politically correct, le parole del Somma pronunciate dal Giudice – è una sacerdotessa issata su un podio gradinato e accudita da sei assistenti. Un po’ troppo per il personaggio dell’indovina su cui pende un bando e qui trasformata in ieratica profetessa. Nel secondo atto «l’orrido campo» è una distesa disseminata di cadaveri con al centro lo stesso podio, mentre nel terzo atto la stanza di Renato e il sontuoso gabinetto di Riccardo sono uno spazio chiuso ricavato all’interno di un grande ambiente con altra scalinata, questa volta unica e centrale, che porta a una loggia al primo piano. Spazio che funge da «vasta e ricca sala di ballo splendidamente illuminata e parata a festa» per il ballo in maschera fatale. I ricchi costumi di Ilaria Ariemme ricreano con qualche libertà il periodo storico e le luci di Pasquale Mari, che si avvalgono anche di quelle delle candele, distinguono i vari ambienti. Troppo sovente movimenti coreografici di imbarazzante banalità riempiono una scena che non si distingue per un particolare lavoro sulle masse corali o sulla gestualità dei personaggi che rimane piuttosto convenzionale.

A parte alcune trovate poco convincenti – Renato che si pulisce la mano dopo averla stretta a Riccardo, l’uso ossessivo delle maschere che tutti si mettono e si tolgono in continuazione e che limitano l’espressività dei cantanti – l’allestimento di Andrea de Rosa rimane su un livello neutro che probabilmente è quanto richiesto da Riccardo Muti che per il suo terzo ritorno al Teatro Regio di Torino non ha voluto completare la trilogia dapontiana iniziata con il Così fan tutte nel 2021 e proseguita nel 2022 con il Don Giovanni. La sua scelta è caduta invece su questo titolo verdiano che ha diretto più volte, la prima cinquant’anni fa al Maggio Musicale Fiorentino con il mitico Richard Tucker (che sarebbe mancato dopo poco) e Renato Bruson come protagonisti maschili principali.

Si direbbe quindi un titolo di elezione questo per il Maestro napoletano e la sua concertazione sembra infatti dimostrare l’attenta cura e la predilezione per questo lavoro di Verdi. Superata la prima fase delle interpretazioni infuocate e frementi, ora la sua lettura è più analitica, l’approccio più approfondito. Nel maggio 2001 Riccardo Muti aveva diretto Un ballo in maschera alla Scala passato alla storia per le intemperanze del pubblico nei confronti dei cantanti e in parte anche del direttore al quale non si perdonava di voler correggere gli arbitrii di una pessima tradizione per proporre invece «un Verdi di riferimento, risultato di un affinamento interpretativo e di una riflessione di altissimo profilo artistico e culturale (serietà, affidabilità, equilibrio, consapevolezza stilistica)», come scriveva allora Sergio Sablich.

Quelle stesse parole possono essere riproposte oggi per la sua concertazione sempre attenta alle esigenze dei cantanti, al perfetto equilibrio tra buca e scena, alla gestione mirabile dei diversi registri espressivi, quello tragico e quello da commedia, tipico di questo lavoro dai colori sempre cangianti, dai contrasti di luci e ombre. Un gioco di opposti chiaramente presente nella sua condotta orchestrale illuminata da momenti geniali quali quell’intervento improvviso dei timpani netto come una fucilata nella scena che precede il ballo o quello degli archi nel tema grottesco dei congiurati. Diventa una sua chiave di lettura molto personale anche la scelta di tempi olimpici che illuminano la bellezza dei suoni di un’orchestra in stato di grazia e di un coro in gran forma ma che diluiscono la tensione teatrale.

Note meno trionfali vanno alla compagnia di canto in cui Piero Pretti, come sempre con sicuro squillo negli acuti, esibisce un timbro po’ fibroso e soprattutto denuncia una espressività indeterminata: i vari momenti vissuti dal personaggio mancano di contrasti, di personalità. Come per l’ambientazione registica, anche il personaggio di Riccardo ha la bidimensionalità del Duca di Mantova, tanto che a un certo punto invece di «Sì, rivederti Amelia» ci si aspetta che intoni «Parmi veder le lagrime»! 

Timbro non felice anche quello di Lidia Fridman, altrove eccellente tragédienne (Ecuba, Mina, Sylvia), come Amelia rivela una linea vocale non sempre omogenea e suoni talora metallici che non si addicono agli slanci lirici. Ecco quindi che il duetto del secondo atto, assieme alla voce di Pretti, rimane distante da quel livello estatico che Mila aveva paragonato al duetto del Tristano. Rimane la dimensione drammatica del personaggio realizzata con una presenza scenica che la regia avrebbe comunque potuto rendere più efficace. Con la linea vocale scomposta dell’Ulrica di Alla Pozniak e l’accettabile Oscar di Damiana Mizzi, il Renato di Luca Micheletti sarebbe stato il migliore elemento della serata per bellezza di timbro e carattere se un’indisposizione non avesse inficiato la sua performance: dopo un primo atto terminato con un piccolo incidente sulle ultime note di «Alla vita che t’arride», alla fine del primo intervallo il sovrintendente Mathieu Jouvin ha annunciato che il baritono avrebbe continuato la recita nonostante il precario stato di salute e il pubblico alla fine gli ha dimostrato la sua gratitudine con calorosi applausi.

Applausi copiosi anche per gli altri interpreti e ovazioni per il Maestro Muti. Meno convinti ma senza contestazioni quelli per il regista quando ai saluti finali si è presentato assieme agli altri nove artefici dell’allestimento scenico.

La Juive

foto © Andrea Macchia – Teatro Regio Torino

Fromental Halévy, La Juive

Torino, Teatro Regio, 21 settembre 2023

★★★

Apertura di stagione con il grand opéra a Torino

Con tredici titoli, di cui ben sette pucciniani, la stagione del Regio, intitolata “Amour toujours”, inizia con un’opera in cui di amore ce n’è ben poco, solo odio e desiderio di vendetta. Lavoro molto popolare nel passato – è con La Juive (L’ebrea) che Enrico Caruso terminò la sua carriera al Metropolitan di New York nel 1920, otto mesi prima di morire, e fu proprio l’aria dal IV atto «Rachel quand du Seigneur» la sua ultima registrazione discografica – da qualche anno La Juive sta risalendo la china dall’oblio in cui era scivolata ed è tornata in auge grazie a diverse pregevoli produzioni come quella che aveva inaugurato l’anno scorso la stagione del Grand Théâtre di Ginevra o quella del 2019 diretta da Antonino Fogliani e allestita da Peter Konwitschny ad Anversa.

Salvo errore, in Italia l’ultima volta La Juive è stata data nel 2005 alla Fenice. A Torino mancava dal 1885!

Daniel Oren ha dichiarato di essere un grande estimatore dell’opera, che ha già diretto due volte. Essendo israeliano poi si capisce come sia sensibile all’argomento del lavoro di Halévy che infatti affronta con solennità liturgica, soprattutto nella scena prima dell’atto secondo, quella della Pesach. Ma anche negli altri momenti Oren adotta tempi estremamente dilatati che, nonostante i numerosi tagli, hanno portato l’esecuzione a superare le quattro ore. La grandiosità e la tensione del lavoro si sono così persi in una lettura analitica che ha sfiorato la decostruzione della partitura e il grand opéra è diventato un rito di estenuata lentezza dove ogni battuta viene centellinata, ogni intervento solistico strumentale assaporato, i recitativi si perdono nella lunghezza, pause eterne sfilacciano il discorso musicale fino allo stremo e per i cantanti è come se dovessero cantare due volte visto che ogni nota viene allungata del doppio. Ma per fortuna che in scena ci sono interpreti come Gregory Kunde, debuttante nella parte, che opera il miracolo con uno strumento vocale che non conosce usura e viene piegato con estrema intelligenza per delineare quell’immenso e tragico personaggio che è Éléazar. L’atteso momento dell’aria «Rachel quand du Seigneur la grâce tutélaire» (che nella lettura di Oren supera i sette minuti contro i cinque-sei di molte esecuzioni) e della successiva cabaletta – cantata “avec exaltation” prescrive il libretto – «Dieu m’éclaire» sono risolte con un’eleganza, un’espressività e un controllo dei fiati e una facilità degli acuti stupefacenti e se si pensa che questo avviene a mezzanotte passata, dopo quattro ore estenuanti, si rimane senza parole per la resistenza e l’inossidabilità di una voce non più verdissima. Eppure, è proprio il confronto con l’altro tenore, il giovane rumeno Ioan Hotea già sentito come Léopold a Ginevra, a esaltare la qualità della performance del quasi settantenne cantante dell’Illinois che riprende la parte che fu scritta per Adolphe Nourrit, forse il più grande tenore dell’Ottocento. 

Per un’altra star di quel secolo, Marie-Cornélie Falcon, fu invece creata la parte di Rachel, qui affidata a Mariangela Sicilia giunta a un punto luminoso della sua fulgente carriera. Con sicurezza e grande sensibilità il soprano calabrese dà il meglio di sé oltre che nei tanti ensemble nel momento solistico della trepidante romanza «Il va venir» del secondo atto con bellissimi pianissimi e smorzandi.

Il secondo soprano, che alla Salle Le Peletier il 23 febbraio 1835 fu Julie-Aimée-Josèphe Dorus-Gras, qui è Martina Russomanno, cantante la cui biografia precisa che ha iniziato la carriera artistica come cantante pop a 11 anni e sarà per questo che esibisce una sicura presenza scenica e doti vocali che le permettono di eccellere nella virtuosistica parte della principessa Eudoxie. Assieme le due cantanti evidenziano al meglio le differenti personalità e i caratteri decisamente differenziati dei due ruoli: in Rachel il registro grave (che da allora viene definito proprio come “Falcon”), in Eudoxie la brillantezza del registro acuto e le agilità belcantistiche.

Due tenori, due soprani, due baritoni e un basso: la figura del cardinale Brogni è interpretata senza particolare rilevanza da Riccardo Zanellato le cui note gravi sono talora troppo piene d’aria e poco sonore, Gordon Bintner e Daniele Terenzi invece si suddividono le parti di Ruggiero, il gran prevosto della città di Costanza, e Albert, il sergente d’armi. Il coro del teatro è alle prese con la lingua francese, stavolta resa meglio del solito – grazie forse alla nazionalità del sovrintendente… – e con un ruolo decisivo in quest’opera, ora come insieme di fedeli, ora come folla festante, ora cortigiani, ora popolani. È lo stesso coro che, sotto la guida del Maestro Ulisse Trabacchin, neanche due settimane fa si era esibito swingando nel musical di Leonard Bernstein eseguito per MITO Settembre Musica. Ma è un peccato che qui con i tagli venga a mancare il coro iniziale del quinto atto dove si possono ascoltare gli ineffabili versi della versione italiana: «O che gioia, o che piacer, | gl’infedeli, i traditor | dalle fiamme arsi veder! […] Oh, davvero spettacol piacente | fra non molto da noi si vedrà! | A morire nell’acqua bollente | ogni ebreo condannato sarà»…

L’allestimento è affidato a quell’artista visivo che è Stefano Poda, personaggio tuttofare che non si deve confrontare con altri: un regista normalmente deve discutere con scenografo, costumista, coreografo, esperto luci e quant’altri fanno nascere uno spettacolo. Quelli di Poda sono invece parti in solitaria, che portano la firma riconoscibilissima del loro creatore unico, rivelano un’indubbia coerenza visiva, ma proprio in questo hanno la loro debolezza: si capisce che non sono il risultato di un confronto di idee, discussioni: sono installazioni, più o meno riuscite, che hanno alla base un’idea, anche geniale, perché no, che però non è passata attraverso l’elaborazione che comunemente subisce nella creazione di uno spettacolo teatrale che vive di interventi diversi. Da qui anche la ripetitività degli spettacoli di Poda, che ricrea il suo mondo in un linguaggio fatto di stilemi riproposti ogni volta. E può essere divertente scoprire gli scampoli delle sue produzioni del passato: la croce tagliata nel fondale (La forza del destino, Parma 2012), i gessi delle figure umane (Thaïs, Torino 2008; Eduardo e Cristina, Pesaro 2023), le sfilate al rallentatore con lunghe palandrane (Thaïs), i mimi/danzatori che formano un grappolo umano attorno ai personaggi (Aida, Verona 2023; Eduardo e Cristina) e così via. Questa volta Poda ci risparmia i baluginii e gli specchietti della sua Turandot (Torino 2018) e della Aida, essendo qui luccicanti solo il Grande Prevosto e la collana di Costantino.

L’idea di base della sua lettura è l’oppressione e intolleranza della chiesa, ma soprattutto la religione che ha potuto portare a tante scelleratezze: “Tantum religio potuit suadere malorum” è infatti la frase che campeggia sulla struttura predisposta da Stefano Poda. È il verso del primo libro del De rerum natura con cui Lucrezio conclude l’episodio di Ifigenia sacrificata dal padre Agamennone: “hostia concideret mactatu maesta parentis” (perché dolente vittima cadesse  d’un sacrificio paterno). Un evidente parallelo con la figura di Rachel sacrificata dal “padre” Éléazar. Poda guarda dunque al passato, al mito greco, piuttosto che al grand opéra, ma il suo allestimento ha comunque una evidente grandiosità nella scelta di utilizzare il palcoscenico del Regio in tutta la sua profondità e con tutti i suoi marchingegni tecnologici: ponti mobili che si spostano avanti e indietro, si alzano, spariscono in basso, piattaforme rotanti. Assieme alla iperattività dei suoi danzatori costituiscono gli unici elementi in movimento di una mise en espace che ha la staticità di una esecuzione oratoriale, con i cantanti schierati in proscenio rivolti al pubblico e il coro sullo sfondo. Lo horror vacui visivo di Poda si esprime in innumerevoli simboli e scene multiple dove alla cena pasquale degli ebrei corrisponde in alto il tableau vivant dell’Ultima Cena, o il lento procedere di una figura che rappresenta il Cristo, o dell’iterazione della salita al calvario e altre pantomime cristologiche. Inspiegabili sono invece alcune cadute di gusto come il principe Léopold che si nasconde sotto il tavolo all’arrivo della Principessa, o l’outfit della Principessa stessa che sembra pronta per una scena di bondage sex. I bozzetti originali facevano prevedere una scenografia più ricca di quella effettivamente realizzata, ma anche così la presenza di una struttura metallica a forma di astrolabio che scende dal soffitto e poi risale rimane inconcludente e misteriosa. Privo di tensione è il finale, il vero climax di questo grand opéra,  quando Rachel sale al patibolo ed Éléazar svela a Brogni la tremenda verità, ossia che quella appena sacrificata è sua figlia. Qui Mariangela Sicilia si avvicina verso il fondo del palcoscenico e poi si gira verso il pubblico: che sia il coup de théâtre definitivo ce lo dice solo la musica, non quello che vediamo.

Lo spettacolo finisce ben dopo la mezzanotte e questo in una città dove i trasporti pubblici, già poco efficienti di giorno, si diradano ancora di più la sera. Invece di iniziare alle 20 non si poteva iniziare prima? A Ginevra il Don Carlos di Verdi, altrettanto lungo, era alle 18 e a Venezia si entra alle 19 alla Fenice. Dopo l’intervallo ci sono infatti alcune defezioni, ma il pubblico rimasto tributa caldi applausi agli artefici dello spettacolo con vere e proprie ovazioni per i due interpreti principali. Chiari invece sono alcuni segni di dissenso nei confronti del regista.

 

I Vespri siciliani

Giuseppe Verdi, I Vespri siciliani

Torino, Teatro Regio, 6 luglio 2023

(esecuzione in forma concertistica)

I Vespri, 50 anni dopo per il Concerto di Gala

Il 10 aprile 1973 si apriva a Torino il Nuovo Teatro Regio, 37 anni dopo l’incendio che aveva distrutto la gloriosa sala settecentesca di Benedetto Alfieri. Il fuoco aveva salvato solo la facciata su piazza Castello e dietro quella facciata ora si celava uno degli edifici più audaci e tecnologicamente all’avanguardia tra i teatri italiani, opera del visionario architetto Carlo Mollino.

Per l’inaugurazione era stato scelto Les Vêpres siciliennes, il lavoro presentato nella sala Le Peletier il 13 giugno 1855, la prima opera in francese di Giuseppe Verdi, essendo la precedente Jérusalem l’adattamento per Parigi de I Lombardi alla prima crociata. Verdi si era premurato fin dall’inizio che il contratto prevedesse la firma di Eugène Scribe, il librettista per antonomasia del genere allora in gran voga, il grand-opéra. A Scribe si affiancherà poi Charles Duveyrier, drammaturgo, filosofo e ideologo del sansimonismo. Dopo le 62 repliche parigine, Les Vêpres siciliennes conobbero i successi europei e sudamericani nella versione italiana di Arnaldo Fusinato, «più esportabile». In Italia, per questioni di censura – il soggetto di un’insurrezione armata del popolo era fuori discussione –, l’opera dovette cambiare titolo e vicenda diventando Giovanna de Guzman (Teatro Regio di Parma) ambientata nel barocco portoghese, Batilde di Turenna (Teatro di San Carlo di Napoli) nel medioevo francese, ma anche Giovanna di Braganza e Giovanna di Sicilia! Solo con l’unificazione del paese nel 1861 l’opera poté riprendersi il titolo originale.

Per l’inaugurazione del Nuovo Regio l’allora sovrintendente Giuseppe Erba aveva avuto il colpo di genio di chiamare alla regia la mitica Elena degli anni ’50, Maria Callas, affiancata dall’inseparabile Giuseppe Di Stefano e per la parte visiva l’artista Aligi Sassu. Colpo geniale dal punto di vista mediatico e pubblicitario, la messa in scena destò invece qualche perplessità e la produzione non fu mai più ripresa. Per un altro storico avvenimento, il 150° anniversario dell’Unità d’Italia nel 2011, fu scelto ancora una volta lo stesso titolo ma nell’altrettanto discusso ma geniale allestimento di Davide Livermore che ambientava la vicenda ai tempi nostri con l’immagine della strage di Capaci come sfondo alla scena dell’arrivo di Giovanni da Procida. Tra l’altro, quella sarebbe stata l’ultima fatica del regista torinese nel teatro della sua città che da allora non ha ancora spezzato l’ostracismo nei suoi confronti – Livermore nel frattempo ha avuto modo di consolarsi con le prime alla Scala e le innumerevoli produzioni negli altri teatri sia in Italia che all’estero.

Per festeggiare il cinquantenario del teatro, l’attuale sovrintendenza ha organizzato una ricca messe di manifestazioni di cui l’esecuzione de I Vespri siciliani è il piatto forte. Sul programma di sala, nel brillante e caustico intervento del mai abbastanza rimpianto Carlo Majer, viene definita «cattiva traduzione di un buon libretto francese» la versione italiana de Les Vêpres siciliennes. E come dargli torto mettendo a confronto il minaccioso primo coro dei siciliani «a mezza voce» dell’originale che nella traduzione diventa quello che Majer chiama «maldestro tentativo di gramelot. […] Soltanto la Caballé, o un programma di scrittura automatica, o ancora una persona geneticamente sprovvista di gusto e autoironia potrebbero scodellare un distico come “Oh dì di vendetta, | men lento t’affretta”». Ciononostante, e in controtendenza con quanto avviene comunemente – le recenti produzioni della Carrasco a Roma e della Dante a Palermo erano entrambe nella versione originale mentre all’estero neanche ci si pone il problema –, qui viene adottata la versione italiana per questa esecuzione in forma di concerto affidata alla bacchetta di Riccardo Frizza a capo dell’orchestra del Teatro. Il risultato è tra i più felici musicalmente: «la variété somptueuse, la sobriété savante de l’orchestration», che tanto avevano colpito Hector Berlioz a Parigi, qui trovano perfetta realizzazione. I Vespri in Italia non hanno avuto una grande considerazione critica. Mila la considerava «un’opera a situazioni, anziché un’opera a personaggi […] fantocci convenzionali […] dopo caratteri così concretamente umani come Rigoletto, Azucena e Violetta». Ma lo stesso musicologo ammetteva che il «confronto, certamente svantaggioso, dei Vespri siciliani coi tre capolavori che li precedono non può avvenire sullo stesso piano. Valgono meno, eppure sono più avanti: manifestano la ricerca di un nuovo ideale drammatico, sono il primo passo lungo un itinerario artistico in fondo al quale si troveranno il Don Carlo e l’Aida». Con I Vespri Verdi diventa «un uomo nuovo», che sa adattarsi alle esigenze delle piazze straniere, particolarmente Parigi: dopo la settecentesca fortuna del melodramma italiano esportato a scatola chiusa, ora esigevano dagli operisti un impegno compositivo maggiore nella strumentazione e nell’armonia. Frizza ha ben chiaro tutto questo e fin dalla sinfonia, un brano di raffinata composizione che si stacca da tutte le precedenti ouverture per complessità formale e per il trascinante effetto sull’ascoltatore, comunica la sua volontà di realizzare al meglio le intenzioni del compositore, quello che poi avviene nel corso dell’opera nei momenti più strumentali in cui si ammirano i solisti di un’orchestra in stato di grazia e nella concertazione con i cantanti, in perfetto equilibrio con la compagine orchestrale. Tempi e volumi sonori sono sempre ben scelti e il giusto tono del grand-opéra non inficia la personalità di un compositore all’apice della sua carriera artistica.

Due personaggi maschili dalla voce grave dominano nell’opera: Guy de Monfort, governatore di Sicilia per Charles d’Anjou, re di Napoli, e Giovanni da Procida, medico della scuola salernitana e proscritto. Il primo è il capo degli oppressori, che però rivela doti di umana pietà quando scopre nel nemico Arrigo il figlio e impone il suo matrimonio con la duchessa Elena come mezzo di rappacificazione tra le fazioni rivali; il secondo si presenta come nobile esule che arriva al sacrifico della sua vita per la patria, ma si rivela anche cinico manipolatore sfruttando il matrimonio di pace come segnale per scatenare la rivolta popolare. Per due personaggi così complessi e articolati sono richiesti due interpreti di eccellenza che qui hanno avuto i nomi di Vladimir Stoyanov e Michele Pertusi. Il baritono bulgaro ha spiegato il suo sontuoso mezzo vocale per tratteggiare magistralmente in chiaro e scuro la personalità di Monfort con risultati eccellenti mentre il basso parmense ha confermato il miracolo di una carriera che non conosce gli anni e che ogni volta stupisce per intensità espressiva, eleganza della frase, ampiezza di registro e sonorità delle note basse. Il canto legato indissolubilmente alla parola trasforma ogni suo intervento in una lezione di recitazione e l’ha ben compreso il pubblico che ha tributato ovazioni al termine di «O tu, Palermo, terra adorata». 

Meno spessore ha il personaggio di Henri (Arrigo nella versione italiana), giovane siciliano, qui con la voce dal timbro luminoso, seppure un po’ povero di armonici, di Piero Pretti, cantante dotato di squillo potente e a suo agio negli acuti. Più che a rendere maggiormente empatico il suo personaggio, il tenore sardo ha puntato alla fluidità dell’esecuzione in cui ha dimostrato le sue indubbie doti vocali, il fraseggio appropriato, l’omogeneità della tessitura. Neanche Roberta Mantegna possiede un timbro ammaliante, anche se il vibrato aggiunge una sorta di trepidazione alla sua Elena, personaggio che passa da momenti di intensa drammaticità allo sfoggio vocale della “siciliana” del quinto atto, tutti correttamente eseguiti. Di ottimo livello di sono dimostrati gli altri interpreti tra cui abbiamo ritrovato Irina Bogdanova, Artista del Regio Ensemble, come Ninetta; l’elegante e autorevole Amin Ahangaran, Artista International Opera Studio Opernhaus Zurigo, come Sire de Béthune; il Comte de Vaudemont di Emanuele Cordaro; il Danieli di Francesco Pittari; il Tebaldo di Paolo Antognetti; il Roberto di Lodovico Filippo Ravizza e il Manfredo di Lulama Taifasi, altro Artista del Regio Ensemble. Impegnati come francesi, siciliani, cavalieri, giovinette e voci interne per il De profundis, i coristi del teatro istruiti da Ulisse Trabacchin hanno avuto vari momenti di gloria in un lavoro che li ha messo spesso in gioco.

La serata ha avuto un esito calorosissimo da parte di un pubblico che ha gremito il teatro nonostante la stagione non delle più propizie e confortando così il lavoro che attende la soprintendenza per riportare il Regio di Torino a un teatro di livello e di interesse internazionale.

La sonnambula

Vincenzo Bellini, La sonnambula

Düsseldorf, Opernhaus, 15 marzo 2023

★★★★☆

(video streaming)

Bellini in purple

Ecco uno spettacolo che non sarebbe possibile presentare in un teatro italiano. Non per la drammaturgia di Anna Melcher che rende intrigante la tenue vicenda dalle innumerevoli fonti letterarie – il vaudeville La Somnambule (1819) di Eugène Scribe e Germain Delavigne; la commedia-vaudeville La Villageoise somnambule ou Les deux fiancés (1827) di Armand d’Artois e Henri Daupin; il balletto-pantomima La Somnambule ou L’arrivée d’un nouveau seigneur (1827) di Scribe e Jean-Pierre Aumer – ma perché nella scenografia e in gran parte dei costumi di questa produzione della Deutsche Oper am Rhein di Düsseldorf il tono dominante è il viola, tinta che sui nostri palcoscenici è bandita in quanto considerata in potere di portare sfortuna – e solo perché era il colore della Quaresima, periodo in cui in passato i teatri italiani dovevano rimanere chiusi.

In area tedesca tali fisime non hanno peso ed ecco quindi che il regista Johannes Erath e lo scenografo Berhardt Hammer riempiono il palcoscenico di divani e abiti viola. I costumi moderni suggeriscono una certa contemporaneità, ma particolari tirolesi come i Lederhosen confermano l’ambiente alpino. La scena è divisa orizzontalmente in due parti: in basso si svolge l’azione dell’opera vera e propria con un tavolo per il ricevimento nuziale perennemente presente in scena e attorniato da elementi imbottiti viola che fungono da divani; in alto si svolgono scene oniriche con una ballerina vestita dell’altrettanto onnipresente abito da sposa bianco e video di paesaggi invernali. Il coro svolge un ruolo centrale, perché formula le aspettative della società e si intreccia strettamente con i numeri musicali dei protagonisti: in un ambiente così chiuso come quello di un villaggio alpino sperduto tra le montagne, l’opinione degli altri esseri umani è importante e il controllo sociale asfissiante. Anche nella regia di Erath non possono mancare i doppi dei personaggi, ma qui almeno sono più accettabili e la semplice psicologia di Amina, Elvino & Co. acquista uno spessore maggiore nella lettura del 48enne regista tedesco ex violinista ed assistente di Graham Vick.

Rimpiazzo all’ultimo momento della titolare indisposta, Stacey Alleaume stupisce per l’agio con cui affronta il ruolo di Amina, dove le agilità sono importanti quanto la sensibilità, ma il soprano coloratura australiano supera pienamente la prova con acuti che raggiungono il do sopracuto e una presenza scenica efficace. Meno sorprendente la bella performance di Edgardo Rocha in una parte, quella di Elvino, che richiede una voce spinta verso il registro alto che il tenore uruguayano raggiunge con l’eleganza e lo stile che gli vengono riconosciuti da tempo. Una sorpresa invece per il Conte Rodolfo di Bogdan Taloș, basso rumeno di bel timbro, grande proiezione, rapinoso fraseggio e bella presenza scenica. Una Lisa particolarmente pungente è quella di Heidi Elisabeth Meier, precisa nelle agilità e buona attrice. Antonino Fogliani dirige l’orchestra dei Düsseldorfer Symphoniker con tempi e volumi sonori adeguati e accompagna con intelligenza i cantanti.

Uno spettacolo che meriterebbe fosse portato in Italia. Ma quel viola…