Eugène Scribe

Il giovedì grasso

Gaetano Donizetti, Il giovedì grasso

★★★☆☆

Szeged, Nemzeti Színház, 1 luglio 2017

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Un raro Donizetti in Ungheria

La città di Szeged è la terza dell’Ungheria e ospita ogni anno gli spettacoli dell’Armel Opera Festival, arrivato nel 2017 alla sua decima edizione. In programma opere prime o poco conosciute del repertorio, come questo Il giovedì grasso, farsa in un atto che Gaetano Donizetti presentò a Napoli il 26 febbraio 1829. Il libretto di Domenico Gilardoni è tratto dal vaudeville Le nouveau Pourceaugnac (1817) di Eugène Scribe e Charles-Gaspard Delestre-Poirson, a sua volta ispirato da una commedia di Molière, come dice uno dei personaggi: «Voi per caso non vedeste di Molière il Pourcegnac? Ebben: quella commedia riprodurre in oggi io vo’!».

Nina e Teodoro sospirano per il loro amore contrastato dal colonnello, padre della ragazza, che l’ha promessa a un certo Ernesto. Per aiutare i due giovani, i coniugi Sigismondo e Camilla architettano un piano come quello della commedia di Molière. È giovedì grasso, giorno degli scherzi, e con le burle faranno «perdere il cervello» ad Ernesto. Sigismondo si travestirà da Monsieur Piquet, avvocato, e abbraccerà Ernesto come suo vecchio amico. Appena giunto, Ernesto riesce tuttavia a conoscere dall’ingenua cameriera Serafina il piano ordito ai suoi danni e decide di stare al gioco e di ritorcerlo contro gli autori. Camilla, vestita da Madame Piquet, rimprovera il marito di tradirla; allora Ernesto la consola espansivamente e provoca una reale gelosia di Sigismondo che è insospettito ulteriormente da un biglietto lasciato scivolare da Ernesto nella tasca del vecchio servo Cola. All’arrivo del colonnello, Ernesto riconcilia Sigismondo con la consorte e approva il matrimonio di Nina e Teodoro.

Al Teatro del Fondo furono scritturati i coniugi Giovanni Battista Rubini e Adelaide Comelli, già applauditi nel Gianni di Calais, e il mitico Luigi Lablache. Scrive al proposito l’Ashbrook: «Lo scorrevole trattamento delle idee musicali prova la maggior fluidità del linguaggio donizettiana. Più che le idee stesse, colpiscono la facilità e la naturalezza con cui esse sono fra loro concatenate. L’aria di Sigismondo, in dialetto napoletano scritta per Lablache, guarda ancora una volta al mondo della musica popolare napoletana, nel caso specifico alla tarantella». La parte di Ernesto, realizzata dal Rubini, è quella di un tenore “buffo” e costituì allora la maggior novità per le consuetudini musicali del genere.

Con una regia spiritosa e piena di gag surreali di Toronykőy Attila, un guardaroba eclettico di costumi variopinti e la efficace direzione di Gyüdi Sándor, una compagnia di voci magiare si impegna nelle pagine ora liriche ora comiche di un Donizetti ormai maturo e pronto per i capolavori degli anni ’30. Il soprano Morgane Heyse nel ruolo di Nina è stato premiato come miglior interprete dell’Armel Opera Festival 2017.

Sulla dizione non si può che apprezzare la buona volontà dei cantanti. D’altronde, perché non allestiamo noi nei nostri teatri queste rarità donizettiane? E poi, me la vedo proprio una compagnia di italiani cantare in ungherese!

L’elisir d’amore

 

Gaetano Donizetti, L’elisir d’amore

Alessandria, Palazzo Cuttica, 13 giugno 2017

Gli aeroplanini di carta di Nemorino

Dopo quello del Conservatorio di Milano, un altro Elisir d’amore conclude un anno accademico, stavolta quello del Conservatorio di Alessandria nell’ambito di Scatola Sonora, il festival arrivato alla sua ventesima edizione. Ma se il vivace allestimento di Laura Cosso si avvaleva di una scenografia scarna che però sfruttava effetti multimediali, costumi coloratissimi e location di prestigio – per le ultime due repliche la bomboniera del novarese Teatro Coccia – questo Elisir, messo in scena da Luca Valentino, fa del minimalismo il suo punto di forza: siamo nel cortile di Palazzo Cuttica, con la ghiaia che scricchiola sotto i piedi e la polvere sollevata dai passi. Non ci sono scenografie e gli abiti sono quelli di tutti i giorni: jeans e t-shirts, felpe, tute mimetiche per Belcore e i suoi militari, qualche outfit un po’ più ricercato per la festa di matrimonio di Adina.

Anche Laura Cosso aveva scelto un’ambientazione moderna, quella di uno studio registico pubblicitario in cui si girano spot che decantano la vita rurale, ma qui il konzept che sta alla base del progetto di Luca Valentino è meno stringente: siamo infatti nel cortile del Conservatorio alessandrino in cui si svolgono lezioni di coro, d’arte e anche un momento di tai chi con gli studenti del “Vivaldi”. E siamo all’aperto. Le note del preludio si dipanano quando è ancora chiaro in questa lunga giornata già estiva. Motori di aerei lontani, qualche scampanio e il garrire delle rondini cesseranno però come per incanto al momento del duetto finale dei due giovani quando sarà sceso anche un po’ di buio per rendere più intima e commossa la loro dichiarazione d’amore.

Nemorino si presenta come un ragazzo ingenuo che si trastulla con aeroplanini di carta e ha appena il coraggio di abbordare un’Adina interessata più al giardinaggio che alla goffa corte del semplicione di turno, salvo ingelosirsi quando quello si dimostra più sicuro di sé grazie alla pozione ottenuta da quel simpatico furfante che è Dulcamara. Belcore e i suoi commilitoni entrano in scena distribuendo tra il pubblico volantini che invitano ad arruolarsi nell’esercito e Nemorino si convincerà a farsi soldato per poter pagare il surplus di elisir necessario ad anticiparne l’effetto su Adina, prima che questa si sposi per dispetto con quello zoticone di militare. Alla festa per l’imminente matrimonio il regista Luca Valentino risolve brillantemente la scena talora imbarazzante della “barcaruola a due voci” de «la Nina gondoliera e il senator Tredenti» con un inaspettato siparietto rock, un karaoke della sposa e di quel mattacchione di Dulcamara sulle gustose rime del Romani. Un’altra intromissione di note non propriamente donizettiane è quella delle suonerie delle varie applicazioni telefoniche con cui Giannetta divulga in piena notte a tutte le amiche la notizia che Nemorino è diventato improvvisamente ricco in seguito a un’eredità, divertente pretesto per mostrare i variopinti completini notturni delle ragazze. Come sappiamo tutto si risolverà per il meglio, anche per Dulcamara, che potrà aggiungere alla lista dei suoi specifici toccasana il nuovo “Isotta energy & love drink” il cui poster srotola orgogliosamente dal balcone del primo piano del palazzo.

Con Giovanni Battista Bergamo alla direzione dell’orchestra del conservatorio, volenterosi giovani interpreti coprono i ruoli di questo melodramma giocoso (nell’ordine, Nemorino, Adina, Belcore, Giannetta): Rosario Di Mauro, Sumireko Inui, Zhu Wen Hao, Valentina Porcheddu, che il 13 giugno si sono alternati a Giovanni Botta, Ilaria Lucille De Santis, Lorenzo Liberali e Jia Jia Juan della prima serata. Andrea Goglio ha invece indossato i panni di Dulcamara in entrambe le recite.

Nemorino vocalmente acerbo ma dalla efficace presenza, Rosario Di Mauro non ha deluso nel momento più impegnativo della sua toccante romanza e neanche stavolta il genio di Donizetti ha mancato l’effetto. Esile vocalmente e fisicamente, Sumireko Inui ha portato in scena un’Adina meno acida del solito, che da subito fa capire che il suo cuore alla fine cederà. Qualche problemino di dizione per il Belcore di Zhu Wen Hao mentre spigliata e vocalmente sicura nella sua piccola parte la Giannetta di Valentina Porcheddu. Come spesso avviene, vero mattatore della serata si conferma Dulcamara, qui un pregevole Andrea Goglio dal bel timbro, chiara dizione, accurato fraseggio ed eleganza espressiva. Ottimo il lavoro fatto dal direttore Marco Berrini sul coro dei giovani del conservatorio rinforzato per l’occasione da un insieme di “veci” più esperti, quello del coro Mozart di Aqui Terme.

Un momento teatrale particolarmente riuscito e toccante dello spettacolo è quando, dopo la struggente «furtiva lacrima», dalle finestre del palazzo esce una miriade di aeroplanini di carta: il sogno di Nemorino ha messo le ali e il miracolo di San Gaetano si è ripetuto ancora una volta e sono i nostri cuori ad essersi liquefatti per la commozione.

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Manon Lescaut

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Daniel Auber, Manon Lescaut

Liegi, Théâtre Royal, 16 aprile 2016

★★★☆☆

(video streaming)

La prima Manon di successo

L’Histoire du Chevalier des Grieux et de Manon Lescaut, settimo e ultimo volume di Mémoirs et aventures d’un homme de qualité dell’abbé Prévost, era stato pubblicato nel 1731 e prima di Auber venne messo in musica due volte: nel 1830 per un balletto-pantomima su testo di Scribe con musiche di Halévy e nel 1852 per un altro balletto di Matthias Strebinger. Quando, ancora su libretto dello Scribe, divenne un’opéra-comique in tre atti che debutta il 23 febbraio 1856 alla Salle Favart, il compositore aveva 74 anni. L’intrigo predisposto da Scribe, spesso alquanto macchinoso, inizia a Parigi per concludersi nel deserto della Louisiana.

Atto I. Lescaut, approfittando della sua parentela con Manon, estorce del denaro al marchese d’Hérigny. I due si allontanano e Manon, giunta nella sua mansarda, espone a Margherita il suo credo: divertirsi, ridere e sognare; l’amica cerca invece di convincerla dell’importanza dell’amore. Sopraggiunge il cavaliere Des Grieux con una borsa di denari, e con Manon va a festeggiare; ai due si aggiunge Lescaut. Quest’ultimo perde al gioco tutti i soldi, creando non poco imbarazzo al momento di pagare il conto alla locanda e convince Des Grieux ad arruolarsi nel reggimento del marchese.
Atto II. Manon, per avere il permesso di vedere l’amato, è costretta a recarsi a casa di d’Hérigny, che la ricatta chiedendole in cambio un bacio. Nel frattempo giunge Lescaut, con la notizia che Des Grieux è fuggito e ha colpito un superiore. Ora è facile per il marchese imporre il ricatto: rinunciare per sempre a vedere l’amato, pena la sua condanna a morte. Mentre Manon si dispera, giunge Des Grieux: i due progettano la fuga. Ma il marchese rientra e i due uomini si sfidano a duello: Des Grieux ferisce il rivale a morte e viene arrestato insieme a Manon.
Atto III. In una piantagione della Louisiana Margherita, che festeggia le sue imminenti nozze, riconosce Manon su un carro di deportati e apprende da Des Grieux, che l’ha seguita, la storia dell’infelice amore. Des Grieux e Margherita riescono a organizzare la fuga di Manon; ma, mentre i due amanti attraversano l’impietoso deserto della Louisiana, la giovane, ormai stremata, spira tra le braccia dell’amato.

Si capisce come sia Massenet sia Puccini non temessero il confronto con questo lavoro: la Manon di Auber è una macchinetta per agilità canore senza grande spessore psicologico e nei primi due atti la musica è una serie di valzerini da operetta. Solo verso la fine la partitura prende più sostanza e si apre a una drammaticità che contrasta però con l’ironia sorniona del libretto – «Me voler ma maîtresse et mon amour, d’accord | mais mon souper, Monsieur… ah vraiment, c’est trop fort!» esclama il marchese d’Hérigny, mentre nella Louisiana del terzo atto sentiamo cantare: «Quand esclave avoir bon maître | bon maître il aime à servir! | Le défendre et le servir | est un plaisir»…

Per non turbare il pubblico benpensante (ricordiamo che del romanzo di Prévost fu vietata la diffusione per 22 anni) Scribe e Auber privilegiano gli aspetti brillanti della vicenda che diventa un affare «de guinguette, de goguette et de grisette». Due sono i personaggi inseriti da Scribe e assenti negli altri libretti: il marchese d’Hérigny, uno Scarpia che si redime in punto di morte, e Marguerite, l’alter-ego saggio di Manon.

Nei primi tre anni l’opera fu rappresentata 63 volte per poi essere dimenticata e rivivere centoventi anni dopo in un’incisione discografica del 1975 con Mady Mesplè protagonista e in un’edizione al Filarmonico di Verona con Mariella Devia nel 1984.

Qui viene riproposta dall’Opéra Royal de Wallonie-Liège con la messa in scena di Paul-Émile Fourny e la direzione musicale di Cyril Englebert. Con i dialoghi decimati e un cast non francofono che ha qualche problema di dizione, questo allestimento non rende piena giustizia all’opera di Auber. Lo scenografo Benoît Dugardin propone una scena fissa: una biblioteca in cui durante la lunga ouverture studenti di un college inglese in abiti moderni scoprono il libro dell’abbé Prévost e “si immaginano” la storia. Una scenografia che andrebbe bene anche per le altre diecimila opere tratte da un testo letterario. E la biblioteca nel terzo atto sparisce solo in parte per far posto alle lande desertiche della Louisiana, rappresentate da un enorme libro aperto sulla sua mappa. Con la morte di Manon il libro ritorna al suo posto sullo scaffale. Accurati i costumi di Giovanna Fiorentini.

Protagonista sempre in scena e con una maratona di acrobazie canore, la star Sumi Jo mostra ahimè la corda con una pronuncia a tratti incomprensibile e acuti di incerta intonazione. Non aiuta molto la sua presenza scenica la mancanza di occhiali che dà alla poveretta uno sguardo stralunato e fisso. Vocalmente meglio il Des Grieux di Enrico Casari, ma neanche lui riesce a definire il suo personaggio, anche colpa di una regia attoriale inesistente. Più o meno convincenti sono gli altri comprimari.

Il giovane Englebert dirige con impegno un’orchestra non delle migliori, mentre il coro ne esce non male.

  • Manon Lescaut, Tourniaire/Bernard, Torino, 17 ottobre 2024
  • Manon Lescaut, Tourniaire/Bernard, Torino, 27 ottobre 2024 (cast alternativo)

Le domino noir

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★★★★☆

Esprit d’Auber

Prolifico autore Daniel-François-Esprit Auber! Da L’erreur d’un moment (1805) a Rêve d’amour (1869) si contano più di cinquanta opere, tra cui i grand opéra La muette de Portici e Fra Diavolo. Sembra poi che il compositore francese fosse destinato a precorrere alcuni dei titoli più importanti dell’opera italiana: Le philtre (1831) anticipa di un anno L’elisir d’amore donizettiano, Gustave III ou Le bal masqué (1833) Un ballo in maschera di Verdi, Manon Lescaut (1856) quella di Puccini.

Le domino noir, su libretto di Scribe, va in scena la prima volta all’Opéra Comique il 2 dicembre 1837 con un successo strepitoso. Nel 1869 Čajkovskij scrive dei recitativi per sostituire i dialoghi parlati dell’originale per una rappresentazione in Russia che poi però non avrà luogo.

L’azione si svolge in Spagna.
Atto I. La giovane novizia Angèle de Olivarès, di nobili natali, che per ordine regale deve vestire l’abito e divenire badessa, per godersi gli ultimi momenti di libertà prima di pronunciare i voti finali, scappa dal convento assieme alla sua amica Brigitte per andare a un ballo per il compleanno della regina di Spagna. Per nascondere la propria identità indossa un domino nero. L’anno precedente, nella stessa occasione, Angèle aveva incontrato un giovane, Horace de Masserena. Horace se ne era innamorato all’istante e ora è tornato al ballo nella speranza di rivederla. Si imbatte allora nella sconosciuta mascherata e i due danzano insieme. Anche Angèle ama Horace, ma non è libera di farlo perché ha l’obbligo di farsi monaca. Pensando di aiutare Horace, il suo amico Juliano manda indietro di un’ora le lancette dell’orologio, facendo sì che Angèle non riparta dal ballo a mezzanotte come aveva progettato in modo da poter rientrare al convento prima che le porte si chiudano. Agitata, la giovane scappa dalla festa.
Atto II. Angèle cerca ospitalità per la notte in una casa, dove però trova Juliano, che ha organizzato per i suoi amici un’altra festa che durerà fino all’alba. Angèle convince la domestica a farla passare per sua nipote venuta dalla campagna. Riesce così a ingannare tutti tranne, naturalmente, Horace, che la riconosce come la fanciulla del ballo dell’anno precedente. Senza smascherare il suo inganno, il giovane però la chiude in una stanza, sperando di tenerla lì finché non avrà ricevuto da lei una spiegazione. La giovane però è inavvertitamente liberata dall’amante della domestica, Gil Perez che, ubriaco, apre la porta e, vedendola con la maschera nera al volto, la scambia per un demone e scappa via.
Atto III. Angèle riesce a raggiungere il convento e a entrarvi senza essere scoperta. Tuttavia, quella stessa mattina una lettera della regina la dispensa dal diventare monaca e nomina nuova badessa del convento Ursule, che, gelosa di Angèle, le ordina di lasciare il convento e trovarsi un marito. Casualmente, si presenta Horace, che ben volentieri approfitta dell’occasione per chiedere in moglie Angèle. Anche Brigitte e Juliano si sposano.

Nel 1995 (lo stesso anno in cui esce la registrazione in studio con Sumi Jo, Bruce Ford e Jules Bastin diretti da Bonynge) a Compiègne, nel “suo” Théâtre Impérial, Pierre Jourdan mette in scena questa deliziosa opera di Auber, uno dei tanti gioielli di quella felice e irripetibile stagione in cui si fece rinascere un teatro e se ne riempì la sala con i non frequenti titoli dei capolavori dell’opera francese dell’Ottocento.

In un turbinio di maschere, sontuosi copricapi, inganni e qui pro quo questa comédie à surprises si districa al ritmo di una pochade di Feydeau, il quale però nascerà 25 anni dopo! I problemi della produzione oggi di un’opéra-comique in cui sono necessari bravi cantanti lirici e bravi attori, tradizione che anche in Francia in parte è andata persa, sono affrontati e risolti qui da un cast di validi interpreti giovani poco conosciuti oltralpe e dalla frizzante direzione musicale di Michel Swierczewski. Si capiscono quindi le difficoltà a esportare all’estero uno spettacolo come questo. Ci è riuscito però Marc Minkowski quando nel 2003 ha portato Le domino noir con la regia di Pier Luigi Pizzi e i recitativi di Čajkovskij al Malibran di Venezia.

Ma questa eccezione conferma, nelle parole di Gianni Ruffin, «quanto sia limitata la conoscenza del repertorio operistico europeo, da parte del pubblico d’opera italiano […] un fatto oltremodo evidente a chi scorra i cartelloni delle stagioni liriche proposte dai teatri della penisola: i più importanti autori d’opera francese della prima metà dell’Ottocento – nomi del calibro di Meyerbeer, Halévy, Mehul, Cherubini, Boïeldieu, unitamente al nostro Auber – risultano pressoché ignorati; e i soli titoli che, di quel vasto repertorio, raggiungono i nostri palcoscenici, sono (come Guillaume Tell e La fille du régiment) quelli composti da autori nostrani, che per giunta vengono proposti nella versione italiana. Il fatto è tanto più paradossale se si considera che tutto questo ‘italocentrismo’, ancorché ridicolo – oggi, nel contesto della globalizzazione –, finisce per essere autolesionista: evitare di prendere in considerazione i rapporti che legarono gli autori italiani all’opera e alla cultura musicale francese – in un secolo che considerava Parigi il centro nevralgico della cultura europea –, preclude infatti di verificarne in rebus la presunta superiorità artistica… ».

Rincara la dose Hervé Lacombe: «La Posterità e la Musicologia sono state particolarmente crudeli col repertorio francese ottocentesco. Per lungo tempo abbiamo dovuto leggere storie della musica, se non addirittura dell’opera, del tutto (o quasi) prive della produzione nata sul suolo di Francia. […] La posterità deve fare i conti con un gusto metamorfico i cui continui cambiamenti dipendono dalle strutture sociali e dai paradigmi estetici di una data epoca. D’accordo. Ma la musicologia, in quanto scienza umana, dovrebbe cercare più di comprendere che di giudicare. Dunque, il meno che si possa dire è che, evitando se non disprezzando l’immenso iceberg francese perduto nel mar glaciale dei tempi passati, essa è venuta meno ai suoi scopi. Immenso, dicevamo, innanzitutto dal punto di vista quantitativo. Non va infatti dimenticato che il repertorio del teatro dell’Opéra Comique conta in due secoli di produzione (all’incirca dal 1760 al 1960) più o meno milleottocento titoli. Non si tratta certo di un corpus trascurabile… D’altronde, dal punto di vista della pratica, della diffusione e dello statuto sociale della musica, l’opéra-comique appare come un oggetto fondamentale per la storia culturale, la storia del pubblico d’opera e della sociologia della musica francesi. Di più: tale repertorio ha goduto, per tutto l’Ottocento, di un prestigio internazionale e di una diffusione assai considerevole in Europa e perfino oltreoceano».

Les Huguenots

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★★☆☆☆

Il commiato della Stupenda

«Organismo elefantiaco dove il calligrafismo strumentale tenta di conferire patente di nobiltà a quanto è solo un’infilata di svolazzi e sghiribizzi vocali» è stata definita anche così l’opera di Meyerbeer (1), prototipo del grand opéra francese che ha influenzato sia Wagner sia Verdi con le sue importanti innovazioni sul piano musicale. L’orchestra propone in più punti l’inno luterano ‘Ein feste Burg’ quasi come un motivo conduttori: lo troviamo nell’ouverture, nell’aria di Marcel del primo atto, nel finale del secondo, e poi ancora nel terzo e nel quarto. Utilizzato è anche l’inno ebraico del sabato, lo ‘Yigdal’. La partitura di Les Huguenots tiene conto dello spazio: il movimento scenico diventa costruzione musicale policorale nell’atto III con tre diversi interventi contrappuntati da Ugonotti, donne cattoliche e preti della basilica. C’è poi l’innovazione della melodia continua che tende a rompere la struttura di arie chiuse e recitativi. Infine la strumentazione, le cui sonorità inedite e le cui caratterizzazioni timbriche avevano affascinato Liszt e Berlioz – ma scandalizzato Schumann.

Per la complessa vicenda (2) il libretto di Scribe e Déchamps attinge da innumerevoli fonti ed è ispirato al massacro della notte di San Bartolomeo quando tra il 23 e il 24 agosto 1572 furono sterminati migliaia di protestanti ugonotti (fonti moderne ne indicano 30 mila) radunati a Parigi in occasione delle nozze tra Margherita di Valois ed Enrico III di Borbone.

Gli interpreti della prima del 29 febbraio 1836 furono i più famosi cantanti dell’epoca: il soprano Marie-Cornélie Falcon, i bassi Nicolas Levasseur e Prosper Dérivis e il tenore Adolphe Nourrit, che già aveva portato al trionfo il Robert le Diable dello stesso Meyerbeer.

Il successo de Les Huguenots non porterà solo alle oltre 200 trascrizioni e parafrasi, ma sconterà anche le numerose parodie che ne verranno fatte, una fra tutte la scena della benedizione dei pugnali del quarto atto che ritroveremo deformata ne la prima versione de La Grande-duchesse de Gerolstein di Offenbach. Anche la letteratura si occuperà del lavoro di Meyerbeer: Jules Verne nella Fantaisie du Docteur Ox ne farà un elemento essenziale del suo racconto mentre nel Mastino dei Baskerville Sherlock Holmes inviterà il dottor Watson a una rappresentazione dell’opera.

Nel 1990 con questo lavoro di Meyerbeer dame Joan Sutherland suggellerà il suo addio alle scene dopo 43 anni di carriera anche se l’ultima sua apparizione pubblica avverrà al galà di san Silvestro dello stesso anno al Covent Garden nel Fledermaus di fianco a Pavarotti e alla Horne. La sua voce aveva iniziato a declinare negli anni ’70, tuttavia, grazie alla sua agilità vocale e alla salda tecnica, aveva potuto continuare a cantare nei ruoli più impervi: se la sicurezza vocale in un certo modo si era indebolita, era in egual misura accresciuta la sua padronanza drammatica e teatrale.

La Sutherland aveva debuttato nel ruolo di Marguerite de Valois nel 1962 alla Scala con la direzione di Gavazzeni. A quelli che ora a Sydney sono venuti a festeggiarla poco importa che la voce non sia più quella di quasi trent’anni prima: con il sapiente accompagnamento dell’amato Richard Bonynge sfoggia ancora tutte le agilità richieste, o quasi, e pazienza per i suoni traballanti e gli acuti periclitanti. Bonynge costruisce per lei una versione particolare dell’opera e la diva alla fine viene festeggiata dal pubblico in un delirio di ovazioni interminabili.

Degli altri interpreti pur apprezzabili si può dire che sembrano scelti per la loro telegenia e vocalmente per non fare ombra alla Stupenda. Pronuncia francese fantasiosa, ma siamo a oltre diecimila miglia da Parigi. Questa è una ripresa dell’allestimento ricco e tradizionalissimo di Lofti Mansouri del 1981.

Nonostante i cospicui tagli l’opera arriva a durare tre ore. Sottotitoli solo in inglese.

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Un’immagine dei festeggiamenti alla fine della recita

(1) Elvio Giudici, L’opera in CD e video, Milano 2007
(2) Atto primo. Siamo nel palazzo del conte di Nevers, nobiluomo cattolico, dove è in corso un allegro festino. Nevers annuncia che si attende ancora un commensale, il gentiluomo protestante Raoul de Nangis, e allo stupore dei suoi compagni ribatte che il re Carlo vuole l’amicizia tra le due confessioni. Quando Raoul arriva tutti, colpiti dal suo mesto aspetto, cercano di coinvolgerlo nel loro inno al piacere e alla fine il giovane si lascia andare a confidare l’amore che lo lega a una giovinetta sconosciuta, da lui salvata casualmente. L’appassionata confessione di Raoul è interrotta dall’arrivo del suo vecchio servo Marcel, austero ugonotto che si duole di trovarlo in tale compagnia e innalza a Dio una preghiera per il suo padrone sul corale ‘Ein feste Burg’; poi, a sottolineare il suo disprezzo di vecchio soldato, canta la chanson huguenote che rievoca la sconfitta cattolica di La Rochelle. Le risate degli astanti dinanzi al suo fanatismo sono interrotte dall’arrivo di un valletto, che annuncia la visita di una giovane beltà velata; Nevers si ritira per riceverla. Si tratta della sua promessa sposa, Valentine, figlia del conte di Saint-Bris, la quale, su consiglio della regina, lo implora di rompere il loro fidanzamento; egli, pur esterrefatto, non può che acconsentire. Il colloquio tra i due viene spiato dagli altri gentiluomini e Raoul si accorge con orrore che la sconosciuta è la donna da lui amata; ma, mentre si abbandona alla disperazione, si presenta un messaggero, il paggio Urbain per condurlo, bendato, a un appuntamento misterioso.
Atto secondo. Nei giardini del castello di Chenonceaux, residenza della regina Margherita. In compagnia delle sue ancelle ella innalza un canto alle bellezze della Turenna e ai piaceri d’amore, opposti alle lotte che insanguinano la Francia. A Valentine che sopraggiunge rivela che le ha chiesto di rompere il suo fidanzamento per permetterle di sposare Raoul, di cui la sa innamorata. Il coro e il ballo delle damigelle che si bagnano nel fiume preparano l’arrivo di Raoul in questa sorta di paradiso terrestre: le giovani en déshabillé si prendono gioco di lui, bendato, in una scena che sembrò immorale a Schumann. Nel duetto seguente Raoul, tornato a vedere, non nasconde il suo incanto dinanzi alla bellezza di Margherita che, da parte sua, resiste a stento al suo fascino. La regina annuncia al giovane che per lui si prepara un matrimonio che sancirà la tregua tra ugonotti e cattolici; Raoul giura eterna pace insieme a Nevers e a Saint-Bris, sopraggiunti nel frattempo, in un terzetto. Ma non appena Raoul scopre che la sposa è Valentine, da lui creduta l’amante di Nevers, si rifiuta di acconsentire, scatenando le ire dei presenti. L’atto termina con una drammatica stretta, dominata ancora una volta dal corale luterano intonato da Marcel.
Atto terzo. Parigi: sulle rive della Senna, nel Pré-aux-clercs. Il corteo nuziale di Valentine e Nevers, e la sfilata dei soldati ugonotti capitanati da Bois-Rosé, sono l’occasione per uno di quei grandi tableaux che hanno fatto la fortuna del grand opéra, e danno a Meyerbeer la possibilità di connotare musicalmente i due gruppi, tramite le litanie intonate dalle donne cattoliche e il ‘Rataplan’ intonato dai soldati ugonotti; a questi si aggiungono due zingare, per un’ulteriore nota di colore. Intanto Marcel presenta a Saint-Bris il cartello di sfida del suo padrone. Suona il segnale del coprifuoco: sulla scena, fattasi deserta, un assolo di clarinetto preannuncia l’apparizione di Valentine, angosciata per il tranello che i suoi vogliono tendere a Raoul in occasione del duello; la vista di Marcel la spinge a rivelargli la congiura, e di conseguenza il suo amore per il giovane. All’arrivo dei duellanti Marcel chiama in difesa del suo padrone un gruppo di soldati ugonotti; la lite che ne nasce è interrotta dall’arrivo di Margherita, cui Marcel rivela il tranello contro il suo padrone e addita Valentine a testimone. Raoul scopre così che la donna lo ama e che si era recata dal conte di Nevers solo per rompere il fidanzamento; ma scopre altresì che le nozze tra i due sono state celebrate quella stessa mattina. Una marcia nuziale annuncia l’arrivo dell’imbarcazione del conte, giunto a prendere la sua sposa.
Atto quarto. Valentine è sola nei suoi appartamenti e medita sul suo amore; improvvisamente appare Raoul, ma il loro colloquio è interrotto dal sopraggiungere di Saint-Bris, Nevers e altri gentiluomini cattolici, lì riuniti a elaborare un piano per massacrare i protestanti. Saint-Bris intona una melodia piena di forza e dignità per invitare gli amici alla strage, in nome di Dio e del re, ma Nevers, solo, si rifiuta di approfittare dell’inganno per battere i nemici e spezza la sua spada, dimostrando la sua nobiltà. Saint-Bris dà ordine che sia arrestato, mentre entrano in scena tre frati, accompagnati da uno stuolo di novizi, i quali benedicono i congiurati e distribuiscono loro delle sciarpe bianche recanti l’effigie della croce. Valentine tenta di fermare l’amato, che vorrebbe soccorrere i suoi confratelli ed è costretta a dirgli per la prima volta che l’ama. Un improvviso avvenimento esterno viene a interrompere l’idillio degli amanti: la campana che annuncia l’inizio della strage di san Bartolomeo. Nella stretta seguente, Raoul ribadisce il desiderio di battersi insieme ai suoi fratelli e, dopo aver trascinato Valentine dinanzi alla finestra per mostrarle i cadaveri sulle rive della Senna, fugge, abbandonandola semisvenuta.
Atto quinto. Gran ballo all’Hôtel de Nesle, dove gli ugonotti festeggiano il matrimonio di Margherita con Enrico di Navarra. Raoul irrompe alla festa, chiamando alle armi i suoi confratelli; egli descrive l’assassinio di Coligny e la strage per le strade insanguinate di Parigi. Questa scena venne quasi sempre tagliata negli allestimenti fuori di Parigi, sia per motivi di censura, sia per le difficoltà tecniche, cosicché più comunemente l’atto comincia in un cimitero protestante, con una cappella sullo sfondo; lì Raoul e Marcel, gravemente ferito, vengono raggiunti da Valentine, che spera ancora di salvare l’uomo che ama: gli reca una sciarpa bianca, protetto dalla quale potrà raggiungere gli appartamenti della regina. In cambio, tuttavia, Raoul deve abiurare la sua fede. Raoul rifiuta e Valentine, allora, in un crescendo di esaltazione, decide di abbracciare la religione protestante e chiede a Marcel di benedire la loro unione, mentre dall’interno della chiesa si odono le donne ugonotte intonare il corale luterano. Il grande terzetto che segue è una delle pagine più alte dell’opera. Si compone di tre momenti diversi: Marcel benedice i due amanti e chiede loro di ribadire la loro fede, mentre il coro intona nuovamente il corale; il giuramento degli sposi è interrotto da scariche di fucili e dal coro degli assassini, dai ritmi triviali, al quale si contrappone ancora una volta il corale; infine Marcel, trasfigurato in una estatica visione, intona con i due sposi all’unisono ‘Ein feste Burg’ per tre volte. Nell’ultima scena, in una strada di Parigi, i tre protagonisti ribadiscono coraggiosamente la loro fede di fronte agli assassini, tra i quali è Saint-Bris che riconosce troppo tardi l’amata figlia; l’arrivo di Margherita, orripilata a tale vista, pone fine al massacro.

L’elisir d’amore

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Gaetano Donizetti, L’elisir d’amore

★★★☆☆

Bruxelles, Cirque Royal, 18 settembre 2015

(video streaming)

L’Elisir balneare di Michieletto

Ideata per il Palau de les Arts di Valencia dove è stata rappresentata nel 2012 (ma è passata anche a Madrid e Palermo), la messa in scena “balneare” di Damiano Michieletto si trasferisce a Bruxelles, ma non al teatro de la Monnaie, chiuso per restauri, bensì al Cirque Royal: infatti la scenografia realizzata da Paolo Fantin per il regista veneziano si sviluppa ora su un palcoscenico circolare sul quale si affacciano i posti della vecchia sala poligonale (un icosagono, ossia con venti lati) concepita nel 1878 dall’architetto Wilhelm Kuhnen per ospitare la Troupe Équestre Royale Belge Renz. Da qui viene trasmessa la recita del 18 settembre.

Nemorino/bagnino entra in scena/spiaggia con gl’infradito e portando degli ombrelloni che lascia maldestramente cadere a terra mentre gli orchestrali, anch’essi in tenuta da spiaggia, di fianco al “Bar Adina” dipanano le note saltellanti dei legni nel preludio in Do che precede il coro introduttivo. Quando entra Adina l’allegra brigata si immobilizza e due fasci di luce evidenziano Nemorino e l’oggetto della sua prima cavatina «Quanto è bella, quanto è cara» prima della lezione di stretching.

Il secondo atto inizia in discoteca: con una torta nuziale gonfiabile per lo schiuma-party di addio al nubilato di Adina. Le trovate di Michieletto sono opportunamente dosate ma senza posa per questo suo divertentissimo spettacolo a suo modo goliardico, ma coerente e godibilissimo, come dimostra l’entusiasmo del pubblico alla fine della rappresentazione.

I due poli tra cui si svolge l’opera di Donizetti, l’umoristico e il patetico, sono rispettati anche in questa ironica messa in scena che non tradisce l’assunto del lavoro, ma quelli che si perdono in questa coloratissima e ipercinetica visione sono la toccante semplicità e il carattere naïf della vicenda: i “villici” sono qui coatti da spiaggia, il libro di Adina è una rivista di gossip, il “magico licore” una bustina di pastiglie colorate e così via. Nonostante il libretto venga allegramente re-interpretato, i personaggi mantengono comunque la loro caratterizzazione: Belcore è un borioso Comandante Schettino che alla fine viene arrestato dopo che un cane anti-droga ha annusato il suo zaino; Dulcamara è il trucido spacciatore di una bibita energetica in lattina oltre che di altre sostanze non meglio specificate; Giannetta è la barista del locale di Adina che riceve per telefonino la notizia dell’eredità di Nemorino. La delicata materia di cui è fatto questo giovanile capolavoro donizettiano appena sopporta letture stravolgenti e non è un caso che una delle migliori rese de l’Elisir d’amore sia quella tradizionalissima di Schenk.

Direzione ben poco ispirata di Thomas Rösner cui per di più non giova la posizione con l’orchestra dietro i cantanti e causa di temporanee scollature.

Come sempre precisa nelle agilità e sicura negli acuti Olga Peretjat’ko è un’Adina dalla voce talora tagliente, ma sempre aderente al belcanto e rende molto bene l’interpretazione del suo personaggio che passa dall’altezzosità iniziale alla tenerezza amorosa del finale. Dmitry Korčak è convincente come personaggio, ma vocalmente un po’ tutto uguale e dagli acuti sforzati e anche se generalmente corretto il suo Nemorino non è dei più memorabili. Certo non la «Furtiva lacrima» con quei perigliosi sbandamenti di intonazione. Aris Argiris è a suo modo un efficace Belcore, ma la voce è sfibrata, non omogenea e del tutto senza fascino. Meglio vocalmente Simón Orfila dalla strana dizione (sembra un Ruggero Raimondi andaluso) con cui caratterizza il suo Dulcamara.

Piuttosto precaria la captazione delle voci (che si aggiunge all’acustica infelice della sala) e nonostante la possibilità di poter scegliere la qualità del video, anche alla massima possibile (720p) l’immagine rimane di bassa qualità. D’accordo che è gratis, però…

L’Africaine

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★★★★☆

«Qu’elle est blanche!»

L’Africana: titolo quanto mai fuorviante, giacché la protagonista è indiana. L’incongruenza con la vicenda deriva dal susseguirsi di interventi sul libretto originario, che prevedeva che la vicenda fosse ambientata nella Spagna di Filippo III e incentrata su uno sconosciuto navigatore spagnolo diretto nelle Americhe il quale avrebbe fatto naufragio sulle coste africane. I successivi rimaneggiamenti dovuti alla morte del librettista finirono col far perdere la coerenza fra titolo e trama.

Già nel 1837 Meyerbeer aveva firmato un contratto con Eugène Scribe per la composizione di un Vasco da Gama, ma il compositore preferì dedicarsi alla lavorazione del suo Prophète e il progetto languì. Ripreso alla fine del ’41 fu continuamente elaborato fino al ’45 e momentaneamente archiviato. Meyerbeer ritorna all’opera solo negli ultimi anni di vita. Nel ’63 termina la strumentazione, ma l’anno dopo il musicista muore e la partitura viene completata da François-Joseph Fétis ed è nella sua versione che L’Africaine debutta il 28 aprile 1865 all’Opéra. Le vicissitudini dell’opera sono state ampiamente descritte da Tommaso Sabbatini sul programma di sala della ripresa alla Fenice nel 2013.

Atto I. L’azione si svolge agli inizi del XVI secolo. A Lisbona si svolge un Consiglio della Corona, composto dall’ammiraglio Don Diégo, dal nobiluomo Don Alvar, dal grande Inquisitore, da vescovi e nobili e presieduto dal potente Don Pédro. L’argomento è la conquista di nuove terre oltremare al regno del Portogallo, secondo i desideri del re stesso. Incombe sul consiglio la sfortunata spedizione verso il Capo delle Tempeste (divenuto poi Capo di Buona Speranza) diretta dall’ammiraglio Bartolomeu Dias, scomparso con tutti i componenti della spedizione in un naufragio. Inaspettatamente, si apprende che la sfortunata spedizione ha avuto un superstite in Vasco da Gama, del quale è innamorata Inès, figlia dell’ammiraglio Don Diégo, che lo aveva creduto morto. Vasco viene introdotto al consiglio e perora caldamente l’invio di una seconda spedizione, magnificando le possibilità di conquista di terre favolose e a riprova delle sue affermazioni, presenta due schiavi catturati durante la spedizione del Dias e scampati anch’essi alla cattiva sorte: Sélika, regina di una popolazione indigena ed il suo servo Nélusko. Ma il consiglio respinge le proposte del da Gama che attacca per questo il Grande Inquisitore e viene fatto imprigionare con i suoi due schiavi.
Atto II. In prigione Sélika, che si è innamorata di Vasco, si offre, in cambio del suo amore, di condurre il navigatore alle terre agognate, delle quali è regina. Tutto ciò con gran scorno di Nélusko, innamorato di lei, che medita vendetta. Ne ha l’occasione allorché Inès ottiene la scarcerazione di Vasco, il quale dimentica l’indigena per la sua antica fiamma che però l’ammiraglio Don Diégo ha promesso in sposa al potente Don Pédro il quale, impossessatosi delle carte nautiche del da Gama, ha armato un veliero con lo scopo di doppiare per primo il Capo delle Tempeste e conquistarsi così la gloria.
Atto III. Siamo nei pressi del Capo delle Tempeste. Sul veliero sono imbarcati anche Inès, Sélika e il vendicativo Nélusko che, all’approssimarsi della grande prova, prega il dio del mare affinché faccia affondare l’imbarcazione. Don Pédro e Nélusko restano tuttavia entrambi delusi al comparire di un altro veliero portoghese, comandato da Vasco da Gama che ha già doppiato il capo e che giunge a offrir loro aiuto. Don Pédro ordina ai suoi di eliminare l’intruso, ma interviene Sélika in sua difesa minacciando di uccidere Inès: Vasco ha salva la vita ma Sélika viene condannata a morte. Buon per lei che sopraggiunga un’orda di indiani, i quali attaccano i portoghesi e li massacrano, riconoscendo poi in Sélika la loro regina.
Atto IV. Durante le celebrazioni di festa per il ritorno della regina (finalmente i balletti!), gli indiani scoprono che un portoghese è scampato al massacro dell’equipaggio: Vasco da Gama. Per salvarlo Sélika dichiara che egli è suo sposo, invitando Nélusko a testimoniare la veridicità della sua affermazione: il povero servo, combattuto fra amore e gelosia finisce con l’assecondare la sua regina. Finalmente salvo, Vasco giura eterno amore a Sélika.
Atto V. Ma Inès era sfuggita al massacro e da un drammatico colloquio con Sélika, quest’ultima si rende conto che non può opporsi all’amore dei due portoghesi e quindi ordina che vengano imbarcati entrambi affinché possano tornare in patria. Affacciatasi ad un promontorio, la sfortunata Sélika osserva l’amato andarsene definitivamente, quindi si toglie la vita annusando profondamente i fiori di un albero velenoso locale.

Nel 1988 al War Memorial Opera House di San Francisco viene registrata questa storica ed unica edizione in DVD dell’opera. Interpreti straordinari danno vita ai personaggi. Sélika è una sontuosissima e spettacolare Shirley Verret: timbro limpido, fraseggio duttilissimo e pieno di colori, presenza affascinante. L’amato Vasco è un Plácido Domingo insuperabile in questa parte che sembra sia stata scritta per lui. Entrambi avevano già debuttato nei ruoli nello stesso teatro nel 1972.

Ruth Ann Swenson, dal timbro luminoso e dalla grande agilità vocale, delinea una Inès di riferimento. Con qualche problema di intonazione, Justino Díaz riesce però a dare carattere al suo Nélusko, forse il personaggio più riuscito de L’Africaine. Pregevole la direzione di Maurizio Arena.

Messa in scena tradizionale e coerente di Lofti Mansouri, ma il palcoscenico del teatro di San Francisco si dimostra troppo piccolo per la vicenda, in cui una folla di personaggi si accalca in pochi metri quadrati.

I costumi sono al di fuori di qualunque logica: va bene che grand opéra oblige, ma Inès sfoggia incongrui abiti vittoriani e Sélika, che è stata in balia di un tifone su un «canot fragile» prima di essere catturata come schiava, è agghindata da subito come un’imperatrice e così si perde l’effetto di quando si presenta da regina durante le celebrazioni per il suo ritorno in patria.

Immagine in 4:3 ripresa da Brian Large con la solita professionalità, ma l’illuminazione non è l’ideale per le telecamere di allora. Una sola traccia stereo e sottotitoli anche in italiano.

L’occasione fa il ladro

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★★★☆☆

Non solo a Pesaro si possono vedere chicche rossiniane

La ridente cittadina di Schwetzingen, a due passi da Heidelberg, ha un festival di musica che dal 1952 presenta opere contemporanee in prima mondiale (Sciarrino, Rihm, Henze, Egk…) così come rarità del passato (Legrenzi, Haydn, Paisiello, Händel…). Il suo delizioso e minuscolo teatro, inaugurato nel 1753 con Il figlio delle selve di Ignaz Holzbauer, ha ospitato tra il 1989 e il 1992 quattro delle cinque farse in un atto di Rossini, tutte dirette da Gianluigi Gelmetti e messe in scena da Michael Hampe. L’ultima è questa «burletta per musica di Luigi Previdali con musica del rinomato sig. maestro Rossini», tratta dalla commedia Le prétendu par hasard, ou L’occasion fait le nom di Scribe, «da presentarsi per la prima volta nel Teatro Giustiniani in San Moisè nell’autunno del 1812».

L’occasione fa il ladro, ossia Il cambio della valigia è uno dei suoi nove lavori che in poco più di due anni, dal debutto come diciottenne compositore con La cambiale di matrimonio nel novembre 1810 al Signor Bruschino nel gennaio 1813, fecero riempire le sale di quel circuito teatrale che aveva il suo centro proprio nel San Moisè veneziano e ramificazioni a Milano, Bologna, Ferrara e Roma.

Nella sinfonia introduttiva una sezione lenta precede lo scoppio di un temporale che deriva da La pietra del paragone e che finirà nel Barbiere. Una carrozza attraversa tra i lampi un paesaggio scuro e poi ci troviamo al riparo in una locanda dove un uomo mangia allegramente e il suo servo, impaurito dagli elementi scatenati, approfitta degli avanzi. Non ricorda la scena di un certo lavoro di Mozart? Come se non bastasse anche il motivo del personaggio in scena richiama quello del Commendatore al suo ingresso in casa di Don Giovanni, a dimostrare la profonda cultura musicale di Rossini.

Un doppio scambio di persone è il motore della vicenda. Il conte Alberto scambia la sua valigia con quella di Don Parmenione e quest’ultimo assume l’identità dell’altro per presentarsi alla promessa sposa di cui si è innamorato vedendone il ritratto. La suddetta Berenice cambia invece il suo ruolo con quella della cameriera Ernestina per testare l’incognito spasimante. Alla fine tutto finirà con un doppio matrimonio delle due felici coppie. Ah, il ritratto era poi quello della sorella del Conte Alberto portato in dono alla futura sposa.

Gian Luigi Gelmetti anche qui dimostra la sua perfetta adesione al dettato rossiniano che il cast asseconda solo in parte. Alessandro Corbelli, nella parte del servo Martino, è quello che esce con più onori: timbro, musicalità, vivacità, tutto è eccellente. Degli altri ricordiamo solo Monica Bacelli, Ernestina briosa, ma niente più.

Con un impianto scenico simile a quelle delle altre farse allestite qui, la regia di Hampe non fa altro che dirigere entrate e uscite dei vari personaggi.

Immagine in 4:3 e nessun extra.

Un ballo in maschera

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Giuseppe Verdi, Un ballo in maschera

★★★★★

Bologna, Teatro Comunale, 14 gennaio 2015

Che fine ha fatto «l’oltraggio a Verdi»?

Il fatto che avesse fatto scandalo alla Scala quando fu presentato nel luglio 2013, con tanto di lancio dal loggione di volantini (neanche fossimo in Senso di Visconti) inneggianti allo scempio di Verdi e di un recensore (Paolo Isotta) «profondamente indignato», è il motivo che mi ha fatto prendere il treno per vedere diciotto mesi dopo lo spettacolo nell’altro teatro che l’ha prodotto, il Comunale di Bologna.

La vicenda originale di Scribe del re Gustavo III di Svezia, spostata dal librettista per ragioni di censura prima in Pomerania e poi a Boston, rimane nel Nuovo Mondo per Damiano Michieletto, ma attualizzata ai giorni nostri con Riccardo candidato politico alle elezioni americane.

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Qui finalmente l’ouverture è suonata a sipario abbassato, cosa sempre più rara negli allestimenti contemporanei. Si inizia bene. Mariotti fin da subito ha colori e tempi giusti e lo dimostrerà anche in seguito guadagnandosi un successo personale che va ben al di là del fatto di giocare in casa. La prima scena ci introduce dunque nel quartier generale di Riccardo: la sala stampa del suo partito affollata di segretarie, bodyguard, attivisti, intervistatori. Nella bella scenografia  di Paolo Fantin la sala in vetro e plafoniere fluorescenti è messa di sghimbescio e staccata dalle pareti su cui vengono proiettati sbuffi di vapore. Con questi semplici mezzi si ottiene un bell’effetto di profondità visiva grazie anche al gioco di luci di Alessandro Carletti. Accanto alle sagome in cartone del candidato campeggia la scritta «RICCARDO INCORROTTA GLORIA», citazione della sua cinica battuta: «Bello il poter non è, che de’ soggetti | le lacrime non terge, e ad incorrotta | gloria non mira», che rivedremo in una fantasmagoria al neon nel finale. Qui facciamo la conoscenza di Oscar: la sua ambiguità sessuale in quest’opera non ha alcuna rilevanza (non è mica il Cherubino de Le Nozze di Figaro!) e non scandalizza quindi che Michieletto ne faccia una donna addetta alle PR. Anche se in giacca e pantaloni è l’unica donna del suo staff tutto al maschile (colpa di Verdi: il coro iniziale è solo maschile!).

Il secondo quadro ci trasferisce in un altro ambiente tipico della società americana attuale con i suoi innumerevoli predicatori televisivi: l’esibizione della santona Ulrica, che “guarisce miracolosamente” paralitici e non vedenti. Oramai la political correctness è entrata anche nei teatri d’opera ed è difficile al giorno d’oggi sentire i versi originali del libretto del Somma «S’appella | Ulrica, dell’immondo | sangue dei negri». Qui sono diventati «S’appella | Ulrica, del futuro | divinatrice». Se non il senso almeno la metrica è rispettata. L’“orrido campo” del secondo atto è il retro della scalinata su cui si erano assiepati i seguaci della santona. Ci si lamenta sempre che i moderni registi non tengano conto del testo, ma qui Michieletto dimostra invece una certa fedeltà ai versi del libretto, come ad esempio quando Amelia si chiede «Chi piange?» effettivamente è apparsa una prostituta che si lamenta sotto le percosse del suo magnaccia, lo stesso che deruberà Amelia di gioielli e pelliccia. E la donna sarà costretta a vestirsi con il soprabito lucido della ragazza, diventando così puttana lei stessa. Certo non tutto è letterale: qui la luce non è quella della «luna leggermente velata» bensì, molto più prosaicamente, quella dei fari della BMW su cui arriva Riccardo e il dileggio dei congiurati è spinto, ma cosa ci si può aspettare da una banda di maschiacci in libertà in piena notte in un posto malfamato?

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Il coup de théâtre ideato da Verdi nel terzo atto con quella «musica di dentro», fuori scena cioè, ripresa in fortissimo dall’orchestra nel momento in cui il «gran cortinaggio» scopre la festa da ballo è stato spesso realizzato con un sipario interno che si apre a mostrare «la vasta e ricca sala da ballo splendidamente illuminata e parata a festa» con grandioso effetto teatrale. Ma in questo Ballo in maschera il ballo in maschera semplicemente non c’è! L’ambiente è sempre quello della convention elettorale, ma Michieletto non rinuncia all’effetto teatrale: l’ufficio di Riccardo è lentamente scivolato nel fondo e il palcoscenico viene festosamente riempito dalla moltitudine di simpatizzanti, ognuno con la sua sagoma di cartone del candidato, mentre dall’alto scende un’enorme insegna luminosa con il suo motto elettorale in uno sfavillio di luci.

E come la mettiamo con le maschere? Sono le stesse sagome con la loro uniformità dietro le quali si nascondono i vari personaggi. Il finale poi è un piccolo colpo di genio del regista. Nell’opera è spesso lungo l’addio di chi è stato colpito a morte e nelle condizioni in cui è in realtà il moribondo non avrebbe la forza di intrattenerci per cinque minuti. Qui Riccardo muore sul colpo ed è il suo il spirito (d’altronde un po’ di paranormale nel secondo atto l’abbiamo avuto…)  a cantare quello che ha scritto sul foglio mentre contempla il proprio cadavere.

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Termina così con grande intensità emotiva questo intelligente allestimento del capolavoro verdiano, una delle migliori regie del giovane regista veneziano. Della partecipe ed entusiasmante direzione di Mariotti s’è già detto: l’orchestra del Comunale risponde con precisione alla sua bacchetta e avrebbe meritato di salire tutta sul palco a ricevere le ovazioni del pubblico. Ovazioni doverosamente distribuite anche sul cast vocale. Il patto col diavolo sottoscritto da Gregory Kunde sembra funzionare perfettamente: la sua voce è sempre fresca e potente, l’eleganza del fraseggio impareggiabile, le sfumature infinite, gli acuti precisi e luminosi. Con questo cantante ogni volta bisogna ripetere le stesse lodi. Magnifica la prova del Renato di Luca Salsi: se alla radio stranamente la sua prestazione nella prima era sembrata sotto tono, dal vivo i dubbi sono completamente svaniti e la sua interpretazione è risultata ampiamente convincente. Le figure di Amelia e Ulrica sono state sostenute rispettivamente da Maria José Siri ed Elena Manistina, non a livello dei compagni maschili, ma comunque apprezzabili. Un po’ troppo gridato e dalle ornamentazioni imprecise invece l’Oscar di Beatrice Díaz. Bene le parti dei sardonici congiurati.

Che soltanto in Italia si abbia un «dibattito sulla legittimità di attualizzare l’opera [che] non esiste in nessun altro paese del mondo» (lo dice il sovrintendente Stéphane Lissner, lo stesso che però sei anni prima aveva osteggiato il Candide di Carsen perché «non in linea con il teatro») è indice da una parte del fatto che il melodramma da noi è ancora una cosa che ci tocca nel vivo (e ciò è un bene), ma dall’altra è anche indice della chiusura culturale sterilmente conservatrice che pervade a tutti i livelli la nostra invecchiata società italica.

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A Bologna tutto è filato liscio con un trionfo finale per tutti. D’accordo che intanto sono passati quasi due anni e che alcuni particolari della messa in scena sono stati limati, ma il problema vero è che alla Scala esiste un gruppo di autoproclamatesi vestali della tradizione del melodramma (vestali però come quelle di Lakmé, «qui n’ont rien à garder!») per le quali qualunque idea nuova è una provocazione e un crimine di lesa maestà. Contemporaneamente c’è poi un altro gruppo di teste calde che vanno a teatro «a prescindere», dice Alberto Mattioli, e sono come gli hooligans che vanno allo stadio non per vedere la partita, ma solo per fare casino. Questi due gruppi condividono i piani alti del teatro durante le prime, poi spariscono.

Un ballo in maschera

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★★★☆☆

Gustave III ou Le bal masqué (1833) dramma di Eugène Scribe già musicato da Daniel Auber (Le domino noir, 1837) e da Mercadante (Il reggente, 1843) è la scelta di Verdi per il lavoro che deve debuttare per la stagione del carnevale 1858 a Napoli.

Una vendetta in domino, il titolo scelto dal librettista Antonio Somma che ambienta la vicenda non più in Svezia ma in Pomerania, viene sottoposto al vaglio della censura che rigetta il soggetto: nel gennaio dello stesso anno Napoleone III era sfuggito a un attentato e non era proprio il caso di mettere in scena un regicidio! Ecco allora che il re Gustavo diventa un governatore e dalla Svezia si varca l’Oceano per arrivare a Boston e l’opera di Verdi vede in ritardo la luce, non più a Napoli bensì a Roma l’anno successivo, febbraio 1859.

Piena di pagine musicali di sommo fascino, Un ballo in maschera esprime una felice sintesi tra stili eterogenei e nuovi elementi stilistici ed è considerato il primo capolavoro della maturità del compositore.

Atto primo. Quadro I. Il Conte Riccardo è il saggio e illuminato governatore della colonia inglese del Massachusetts sotto il regno di Carlo II. La scena si apre nel suo palazzo, dove il Conte riceve una serie di notabili tra i quali, ben nascosto, si cela un piccolo gruppo di congiurati guidati da Samuel e Tom, che sta tramando contro di lui. Intanto il fido paggio Oscar si occupa dei preparativi di un ballo in maschera che di lì a qualche giorno sarà ospitato nel palazzo e porge al Conte una lista degli invitati tra i quali figura Amelia, moglie del creolo Renato, segretario ed amico carissimo di Riccardo. Questi ama segretamente la donna, ma è troppo fedele al proprio amico per tentare di sedurla. Successivamente un giudice chiede a Riccardo di firmare l’atto di condanna all’esilio della maga Ulrica, ma Oscar tenta di dissuaderlo poiché la donna potrebbe vendicarsi facendo ricorso alle sue arti; il governatore, scettico, decide di recarsi travestito da pescatore nel suo antro. Quadro II: l’abituro della maga Ulrica. Ulrica, al termine di un rituale, diventa consapevole che qualcosa di molto grave sta per accadere. Arriva Riccardo travestito da pescatore e accompagnato da Oscar e da un gruppo di amici; per mettere alla prova le capacità magiche di Ulrica, il governatore fa predire a turno la ventura di ciascuno di loro, per burlarsi di lei realizzando immediatamente i vaticini con degli astuti stratagemmi. A un certo punto giunge una donna che chiede di essere ricevuta da sola: si tratta di Amelia, la quale, divisa fra l’amore e il dovere coniugale, chiede alla maga una pozione che le renda la pace perduta. Ulrica le consiglia di recarsi a mezzanotte in un campo malfamato nei dintorni di un cimitero, dove potrà raccogliere un’erba magica. Riccardo, di nascosto, ascolta la confessione di Amelia e gioisce nel sapere che la donna ricambia il suo amore. Una volta andata via Amelia è Riccardo stesso a farsi predire il futuro. La maga riconosce la sua nobiltà sotto mentite spoglie, e gli fa una profezia infausta: tra i suoi amici ce n’è uno o più d’uno che tramano contro la sua vita; colui che lo ucciderà sarà anche la prima persona che gli stringerà la mano. Riccardo, per ulteriore dileggio, si aggira tra i presenti chiedendo loro di stringergli la mano, ma nessuno osa farlo. L’arrivo di Renato e la sua amichevole stretta di mano sembrano tuttavia fugare ogni dubbio: Riccardo dichiara che questi è il suo amico più fidato, e non oserà mai ucciderlo. A quel punto Riccardo rivela la sua vera identità a Ulrica e le concede la grazia e la invita ad ammettere che sia una ciarlatana; la maga, pur riconoscente nei suoi confronti, non può ritirare il vaticinio.
Atto secondo. Campo malfamato nei dintorni del cimitero di Boston. Amelia si è recata di notte presso il cimitero, nel campo indicatole da Ulrica, per raccogliere l’erba magica; mentre la cerca, piange il suo amore disgraziato. Riccardo la raggiunge e, durante un colloquio serrato, le strappa la confessione del suo amore. La passione sta per travolgere i due innamorati, quando di lontano si vede sopraggiungere Renato, sulle tracce dei congiurati che stanno per tendere un agguato al Conte. Renato non riconosce la moglie, che si è coperta il volto con un velo, ed esorta l’amico a fuggire. Riccardo accetta dopo aver ottenuto da Renato la solenne promessa che riaccompagnerà la donna velata fino alle porte della città, senza mai rivolgerle la parola. Sopraggiungono i congiurati che, delusi nel trovare il segretario in luogo del governatore, vorrebbero vendicarsi uccidendo la sua misteriosa amante. Renato si oppone mettendo la mano alla spada e Amelia, per evitare il duello, lascia cadere il velo. La vista della moglie lascia Renato impietrito e desta l’ilarità nei congiurati, che scherzano pesantemente sulla situazione. Renato decide di lavare quest’onta col sangue di Riccardo, così convoca i congiurati nella sua casa per allearsi con loro e favorire l’uccisione del Conte. Quindi riconduce Amelia in città, non prima di averla minacciata di morte.
Atto terzo. Studio del governatore di Boston. Al sorgere del nuovo giorno Renato affronta Amelia e le dice che solo il sangue potrà lavare l’onta. La donna accetta il suo destino ma implora Renato di poter abbracciare per un’ultima volta loro figlio: nel vedere quella scena straziante, Renato decide di non uccidere sua moglie, ma solo Riccardo. Poco dopo Samuel e Tom, i congiurati, giungono a casa di Renato, ancora stupefatti del cambio repentino dell’uomo, che conferma di voler partecipare all’attentato. Si tira a sorte chi dovrà vibrare il colpo fatale e Amelia è costretta a estrarre il nome dell’assassino: il prescelto è Renato. Successivamente giunge Oscar con l’invito per il ballo in maschera, e Renato afferma che vi andrà assieme ad Amelia, la quale, avendo compreso le intenzioni del marito, tenterà in ogni modo di salvare il suo amato. Nel frattempo Riccardo, meditando nel suo studio sulla fedeltà di Renato, ha deciso di rinunciare ad Amelia ed intende rimpatriare Renato in Inghilterra assieme alla moglie: mentre firma il decreto arriva Oscar con un biglietto consegnatogli da una donna misteriosa, ove sta scritto che durante il ricevimento la sua vita sarà messa in pericolo. Riccardo decide di presenziare comunque al ballo per rivedere un’ultima volta la sua amata. Il ballo in maschera ha dunque inizio: Renato tenta di capire quale sia il travestimento di Riccardo, e con uno stratagemma riesce a carpire l’informazione da Oscar. Nel frattempo Riccardo viene avvicinato da Amelia, che lo implora di fuggire. Riccardo rifiuta, ma le confessa di aver firmato l’ordine per la sua partenza. Mentre si accingono all’addio, giunge Renato e pugnala a tradimento il Conte. Oscar accusa Renato del delitto ma il Conte, agonizzante, fa liberare l’amico e, fattolo avvicinare, gli confessa di aver amato Amelia ma di averne rispettato l’onore, e gli mostra il dispaccio firmato. Mentre Renato contempla le conseguenze dell’erronea vendetta, Riccardo muore, pianto da tutti i presenti.

Nel 2011 il ‘Festival Verdi’ del Regio di Parma si inaugura con la ripresa della storica messa in scena del 1989 di Pierluigi Samaritani con quello scenografico scorcio di scalinata monumentale e vetrata sullo sfondo da cui entra una luce fredda che esalta i colori squillanti dei costumi, anche questi del Samaritani. Questi costruisce uno spettacolo visivamente prezioso che ha come riferimento il seicento spagnolo dei quadri di Velázquez e dei pittori fiamminghi. Anche «l’orrido campo» del secondo atto è una citazione pittorica, “L’abbazia nel querceto” di Caspar David Friedrich, mentre una natura morta con strumenti musicali, alla maniera del Baschenis, occupa lo studio di Renato nel terzo atto e una scenografia barocca con le sue prospettive dipinte ospita la scena del ballo in maschera. Inesistente però è la regia di Massimo Gasparon sugli interpreti.

La direzione di Gianluigi Gelmetti dà giusto respiro ai cantanti pur assestandosi su un registro forte senza molti colori. Il debutto di Francesco Meli nel ruolo di Riccardo conferma la sua pregevole vocalità fatta di un timbro solare e ottimo fraseggio. Così pure la consorte, Serena Gamberoni, un Oscar molto gradevole. Altro debutto nel ruolo e nel temibile teatro parmigiano quello del soprano Kristin Lewis, un’Amelia un po’ titubante e dalla dizione non perfetta, ma dalle buone potenzialità. Elegante e vocalmente esatto il Renato di Vladimir Stoyanov, il più festeggiato a sipario aperto con un’ovazione e richiesta di bis dopo la sua aria del terzo atto. L’Ulrica di Elisabetta Fiorillo ha un bel timbro scuro ma un vibrato che sfocia spesso nel traballante.

Come è solito nei dischi della collezione ‘Tutto Verdi’ della Unitel Classica è contenuto come bonus un documentario di introduzione all’opera.