Felice Romani

Beatrice di Tenda

   

Vincenzo Bellini, Beatrice di Tenda

Parigi, Opéra Bastille, 15 febbraio 2024

★★★☆☆

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Dittature, torture e belcanto

False accuse, ingiusta reclusione, torture e infine morte: no, non parliamo di  Aleksej Naval’nyj la cui notizia della morte nel carcere siberiano è arrivata poche ore fa, ma di una vicenda del XV secolo in cui una donna ha subito la stessa sorte per mano di un tiranno, il marito in questo caso, nel penultimo lavoro di Vincenzo Bellini, Beatrice di Tenda.

Così Felice Romani, il librettista, presenta la vicenda che ebbe luogo nel castello di Binasco nel 1418: «Beatrice de’ Lascari, contessa di Tenda, vedova di Facino Cane, già tutore de’ figli di Giovanni Galeazzo Visconti primo duca di Milano, persuasa, o da ambizione o da amore che fosse, sposossi a Filippo Maria, il quale degli stati paterni non conservava che una tenue porzione; e a lui recò in dote, non solo il retaggio de’ suoi antenati, ma tutte le città e castella di cui Facino si era fatto signore. Cotal maritaggio pose le fondamenta della grandezza di Filippo, il quale regnò solo su tutta la Lombardia ed una parte del Piemonte; ma riuscì funesto a Beatrice». Un marito ingrato del fatto che la moglie gli abbia apportato fortune e potere, se ne vuole liberare per amore di un’altra, e lo fa nel modo più facile, accusandola di adulterio e tradimento. Una vicenda simile a quella dell’Anna Bolena che Donizetti aveva portato in scena due anni prima – e con la stessa cantante: Giuditta Pasta.

La produzione parigina, la prima del dramma di Bellini in tempi moderni, è sorprendentemente affidata a Peter Sellars alla sua prima regia in questo repertorio: fino ad oggi non ha mai affrontato l’opera italiana, che dichiara comunque di amare. Il regista legge la vicenda come un’accusa ai regimi dispotici di ieri e soprattutto di oggi: l’ambientazione è contemporanea con computer, cellulari e fucili kalashnikov. La scenografia di George Tsypin ricrea una corte rinascimentale tramite lamiere di metallo con cui riprodurre il labirinto e la topiaria di un giardino che della natura non ha che il colore verde e il fogliame nei trafori. La facciata del castello con particolari corinzi è anch’essa perforata, come per dire che i muri qui hanno orecchie e occhi. Durante il preludio vediamo infatti un tecnico installare una telecamera di sorveglianza, quella per spiare i movimenti di Beatrice e Orombello. I costumi di Camille Assaf non si distinguono per particolare originalità: il solito doppio petto per il tiranno, pelle nera per gli scagnozzi, il coro maschile in completi neri, quello femminile in sottoveste. Di James F. Ingall sono le luci plumbee che virano al rosso sangue per sottolineare la brutalità della tirannia di Filippo Maria Visconti durante il processo. Una regia ben lontana da quello che ci si aspettava e che, malgrado alcuni tocchi personali, è risultata deludente. Non tanto per la lettura forzatamente contemporanea, quanto per la non convincente realizzazione.

La tensione drammatica del lavoro di Bellini non è certo tra le più convincenti e la direzione di Mark Wigglesworth non fa molto per rendere più coinvolgente la vicenda: i tempi wagneriani fanno perdere coesione all’azione e lo smalto della partitura perde un po’ della sua lucentezza risultando tutto grigiastro. Sui tagli sembra  sia da attribuire a Sellars  la scelta di eliminare non solo intere scene – ben tre nel primo atto – ma anche singole battute: nella scena quinta del secondo atto «Io più non tremo. | Sol ch’io mora perdonato» sono omesse rendendo incomprensibile il seguente «da quest’angelo d’amor!». Eliminati anche tutti gli interventi del coro e di Anichino nelle scene finali. Sembra che né il regista né il direttore abbiano fiducia o abbiano compreso la particolare drammaturgia di Bellini e del  teatro del primo Ottocento italiano, con le sue riprese (qui talora tagliate), i versi ripetuti, le cabalette e un passo che non segue la verità scenica ma ha un suo peculiare andamento puramente musicale.

Anche la scelta dei due interpreti principali, peraltro ottimi e debuttanti nella parte, non sembra voler esaltare il lo stile belcantistico della Beatrice di Tenda: Tamara Wilson lascia i panni di Turandot, Senta, Isolde, Elsa von Brabant e Leonora per vestire quelli di Beatrice e il salto non è da poco. Anche nel passato una certa cantante era passata in pochi giorni da La valchiria ai Puritani, ma era Maria Callas… Il soprano americano assume il ruolo di “soprano drammatico d’agilità” dosando opportunamente l’imponente volume sonoro, affrontando con sensibilità legati e sfumature, sciorinando le agilità con relativa facilità, ma è nella fluidità delle variazioni che si sente che manchi qualcosa. Comunque riesce a definire efficacemente il personaggio nella sua integrità morale fuori del comune e che accetta il martirio e offre il suo perdono a tutti.

Anche Quinn Kelsey arriva da un repertorio più “pesante”: Rigoletto, Simon Boccanegra, Amonasro, e qui il baritono hawaiano talora ha tocchi di verismo fuori luogo, anche se la parte di Filippo, tormentata fino alla fine e non un semplice vilain, è delineata con intensità. Theresa Kronthaler aveva cantato la parte di Agnese del Maino a Martina Franca nella versione concertistica, là era risultata poco gradevole,  non solo come personaggio, è ovvio, ma anche vocalmente, ma ora l’impressione è maggiormente positiva soprattutto nel secondo atto ma come per gli altri in questa produzione si sente l’assenza di cantanti di lingua  italiana: anche se la dizione è accettabile, fa difetto la cantabilità tipica de repertorio repertorio belcantistico. Cantabilità che si ritrova solo in parte nei tenori, i fratelli samoani Pene e Amitai Pati, che per la luminosità e dolcezza del timbro e della linea vocale delineano con eleganza i caratteri di Orombello e Anichino. Molto bene il coro, spesso diviso tra maschile (cortigiani, giudici) e femminile (dame e damigelle) a cui sono stati tagliati, come s’è detto, gli interventi finali.

Il turco in Italia

photo © Clarissa Lapolla

Gioachino Rossini, Il turco in Italia

Martina Franca, Palazzo Ducale, 1 agosto 2023

★★☆☆☆

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Quando Il turco è politically correct e la regia lascia a desiderare

In questi giorni è di moda ambientare Rossini su una spiaggia: al Belcanto Opera Festival di Wildbad il regista Jochen Schönleber porta in scena le cabine dei “Bagni Gioachino” per Il signor Bruschino, mentre ad apertura del Festival della Valle d’Itria la regista Silvia Paoli trasporta la vicenda de Il turco in Italia sulle piagge pugliesi degli anni ’60, quelli del boom economico italiano, con una scenografia quasi uguale a quella di Wildbad. Pochi anni fa c’era stato anche L’elisir d’amore di Donizetti allestito da Damiano Michieletto sulla spiaggia del “Bar Adina”, prima a Bruxelles e poi a Macerata, ma con risultati ben diversi.

La presente produzione di Martina Franca ha suscitato le critiche del Sottosegretario al Ministero della Cultura Vittorio Sgarbi il quale, senza aver visto lo spettacolo (!), ha dichiarato che è «arrivato il momento di garantire dignità e rispetto per i grandi musicisti, che si possono certamente interpretare, ma non ridicolizzare per un gusto fintamente popolare». La sua azione sembra far parte di una “crociata” parlamentare il cui obiettivo è cacciare via dall’Opera i registi infedeli, o quanto meno negar loro la possibilità di compiere, attraverso regie “eversive” o irrispettose degli autori, «autentici crimini operistici e artistici». Il tutto rientra nella tendenza restauratrice del nuovo governo che pare voler far rivivere il MinCulPop (Ministero della Cultura Popolare) dell’Era Fascista. Il sottosegretario ha lui stesso un passato registico non dei più tradizionali, anzi piuttosto discusso, ma si sa, la memoria e la coerenza non sono virtù dei politici.

Che poi lo spettacolo in questione in termini visivi abbia deluso le aspettative è tutta un’altra cosa: la messa in scena di Silvia Paoli fa acqua non per l’idea che sta dietro alla sua lettura, ma per come l’ha realizzata. Non scandalizzano le cabine della scenografia di Andrea Belli o i costumi da bagno anni ’60 di Valeria Donata Bettella, ma la regia senza qualità, il suo arruffianarsi il pubblico con i cantanti in platea o le gag risapute (le torte in faccia, il lancio di spaghetti, il personaggio colto al gabinetto…), le trovate incomprensibili (passi che Selim sia il leader di una rock band, ma che Prosdocimo sia un portalettere e Don Narciso un bagnino…), la rinuncia alla gestione delle masse corali (relegate in scatole nere ai lati del palcoscenico), il banale utilizzo dei figuranti. E il tutto visto secondo la più insopportabile political correctness: via gli zingari entrano gli hippies; tolti i riferimenti sessisti e razzisti, e via discorrendo. 

Sulla carta l’interesse di questa produzione era la versione musicale scelta dal Maestro Michele Spotti, ossia quella romana del 1815, quando l’opera fu ribattezzata dalla censura pontificia La capricciosa corretta. Queste le varianti principali della nuova versione: nel primo atto è omessa la cavatina di Don Geronio («Vado in traccia d’una zingara»); quella di Fiorilla («Non si dà follia maggiore») viene sostituita da «Presto amiche, a spasso, a spasso»; Don Narciso ha una nuova cavatina «Un vago sembiante»; nel secondo atto sono omessi coro e cavatina di Fiorilla («Non v’è piacer perfetto») e il duetto Fiorilla-Selim; viene reintrodotta la seconda aria di Don Geronio «Se ho da dirla avrei molto piacere» e tagliata l’aria di sorbetto di Albazar («Ah! sarebbe troppo dolce»); la scena e cabaletta finale di Fiorilla «Caro padre, madre amata» è molto più lunga e complessa. Circa metà dell’opera è dunque cambiata. Quasi una nuova opera. 

Non è solo l’abitudine alla vecchia versione a rendere meno appetibile quest’altra. I nuovi pezzi non sembra che abbiano una qualità musicale migliore o maggior efficacia drammaturgica: la prima aria di Fiorilla era molto più intrigante dell’invito alle amiche a passeggiare che l’ha sostituita; l’aria aggiunta a Don Narciso non modifica la fatuità del personaggio che non era presente nel libretto del Mazzolà da cui deriva quello del Romani – era stato inserito solo per la presenza alla Scala del giovane tenore Giovanni David appena ingaggiato dal teatro milanese. La scena di Fiorilla nel secondo atto porta invece a un certo disequilibrio per l’inusuale lunghezza e intensità espressiva: il personaggio assume qui una dimensione da eroina di opera seria piuttosto incongrua in questo contesto, anche se qui è affidata alla rivelazione dell’anno scorso quale Beatrice di Tenda, il soprano tarantino Giuliana Gianfaldoni, calorosamente sostenuta dal suo pubblico, che non ha deluso in questo ruolo comico con la presenza scenica e le agilità vocali che le sono riconosciute, ma il meglio l’ha proprio dato nella pagina di cui s’è detto, con preziose mezze voci, filati e suoni magistralmente sostenuti. Se curasse ancor di più la chiarezza della dizione sarebbe praticamente perfetta. Su un altro livello, comunque più che adeguato, si sono collocati il Don Geronio di Giulio Mastrototaro e il Selim di Adolfo Corrado, quest’ultimo salentino, forniti entrambi di due strumenti vocali dal timbro molto opportunamente differente e da una qualità attoriale comica che un’altra regia avrebbe sicuramente messo maggiormente in luce. Totalmente incomprensibile è il fatto che Prosdocimo sia un postino: l’idea che cerchi ispirazione per il suo dramma sbirciando nelle lettere che deve consegnare è al di là di ogni possibile accettabilità e logica. Il povero Gurgen Baveyan, già privo di una propria aria solistica, parte dunque totalmente svantaggiato con la sua cartella a tracolla nella parte che qualcuno ha definito “pirandelliana”: qui si perde totalmente il gioco di “teatro nel teatro” che è l’elemento intrigante di quest’opera. Proprio di Martina Franca è il giovane Manuel Amati, apprezzabile per la tecnica, meno per lo stile e il timbro un po’ nasale. Che la regista faccia del cicisbeo un bagnino è un altro elemento del tutto incomprensibile della sua lettura. Ekaterina Romanova come Zaida e Joan Folqué come Albazar completano il cast.

Alla guida dell’Orchestra del Teatro Petruzzelli è Michele Spotti, ma gli strumentisti non sembrano gli stessi ascoltati qui due giorni fa: più imprecisi, meno presenti. Sarà anche a causa delle folate di vento che entrano nel cortile del Palazzo Ducale, ma molte note si perdono, le citazioni mozartiane e il gioco raffinato di equilibri del direttore non sono sempre ben realizzati, i piani sonori dei cantanti, dell’orchestra e del coro rimangono distinti, poco comunicanti.

Ciò non ha fermato però il pubblico dal rispondere con cordiali applausi, indirizzati soprattutto ai beniamini locali.

Il turco in Italia

Gioachino Rossini, Il turco in Italia

Madrid, Teatro Real, 9 giugno 2023

★★★☆☆

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La prima volta del Turco in Spagna

Una rarità per il teatro spagnolo, Il turco in Italia sbarca al teatro Real di Madrid in una nuova la produzione di Laurent Pelly che andrà anche a Lione e a Tokyo.

Se l’Adina dell’Elisir d’amore è attratta dalla lettura dei romanzi con filtri magici, qui Fiorilla è affascinata più prosaicamente dai fotoromanzi.  Il «naviglio» da cui sbarca Selim è un gigantesco “giornale di fumetti fotografico”, come venne chiamato dai suoi creatori Cesare Zavattini e Damiano Damiani nel 1947 il nuovo mezzo espressivo che tanto successo ebbe presso il pubblico femminile negli anni ’50 e ’60. E l’Italia del Turco è proprio di quell’epoca nella messa in scena del regista francese, dove infiniti dettagli arguti si inseriscono nello svolgimento di uno spettacolo estremamente piacevole. Le scene pop, disegnate dalla fedele Chantal Thomas e illuminate dal gioco luci dell’altrettanto collaudato Joël Adam,  prevedono come sfondo della scena la pagina ingigantita di un fotoromanzo, ma anche le casette e le siepi delle abitazioni di Geronio e Prosdocimo sono resi fotograficamente: è un mondo del tutto bidimensionale quello in cui si fanno realtà i sogni della giovane moglie annoiata in cerca di un’evasione romantica: prima nelle pagine delle riviste avidamente sfogliate, poi nell’apparizione di quell’attraente esemplare di maschio esotico che è Selim, tutto in bianco come lo sceicco di Fellini. Da quel momento realtà e finzione si mescolano in modo inestricabile e le battute in forma di fumetto entrano realmente in scena. L’incantesimo finirà quando Geronio getterà dalla finestra tutti quei fotoromanzi e Selim partirà, con la sua Zaida, a bordo di una pagina di fotoromanzo ora tutta stropicciata.

Nella regia di Pelly ogni personaggio è intelligentemente caratterizzato: Geronio, il «marito scimunito», è un omone buono ma un po’ noioso per gli standard di una sposa giovane e capricciosa;  il librettista Prosdocimo, in cerca di un «intrigo […] per un dramma intero», si presenta in ciabatte fruste e un accappatoio lercio; Don Narciso è un giovane imbranato e peggio vestito. Il desiderio di fuga di Fiorilla si rivela con la sua trasformazione: da casalinga in sciatto chemisier di cotone stampato a fiori, a elegante mannequin nel bellissimo abito nello stile dell’epoca disegnato dallo stesso Pelly. Come nei fumetti, cornici bianche o a zig zag inquadrano i personaggi in primo piano scendendo dall’alto. L’attenta recitazione rende sapida e infallibile dal punto di vista dei tempi la performance degli interpreti suddivisi in due cast entrambi prestigiosi. 

In quello del 9 giugno rifulge Lisette Oropesa, in una parte un po’ inconsueta per lei che frequenta più spesso il repertorio serio, ma oltre alle strepitose qualità vocali – agilità risolte con agio ed eleganza, fraseggio impeccabile, gamma omogenea e timbro fresco – dispiega una verve attoriale di gran livello che fa della sua Fiorilla un personaggio indimenticabile. Sullo stesso piano di eccellenza è il Selim di Alex Esposito, che inizia con una prodigiosa messa di voce su «Cara Italia». Ma i fiati saranno interminabili anche in seguito e la caratterizzazione del personaggio sarà efficace ma elegante.

Prosdocimo è Florian Sempey e questa volta il baritono francese non convince: ottimo attore, i suoni non sono belli, l’espressione eccessivamente caricata. Neppure il Don Narciso di Edgardo Rocha è quanto ci si aspettava e qui forse la fatica della penultima replica ha lasciato il segno e la performance vocale risulta sotto le sue possibilità. Buono invece il Geronio di Misha Kiria dalla bella sillabazione e dizione e ottima la Zaida di Paola Gardina, per di più di bella presenza scenica. Al simpatico Pablo García-López viene tolta l’unica aria di sorbetto di Albazar in quanto spuria in questa versione scelta da Giacomo Sagripanti che, anche al fortepiano, dirige l’orchestra del teatro con risultati non del tutto entusiasmanti. Accettabile la resa del coro, con qualche piccola imprecisione.

La sonnambula

Vincenzo Bellini, La sonnambula

Düsseldorf, Opernhaus, 15 marzo 2023

★★★★☆

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Bellini in purple

Ecco uno spettacolo che non sarebbe possibile presentare in un teatro italiano. Non per la drammaturgia di Anna Melcher che rende intrigante la tenue vicenda dalle innumerevoli fonti letterarie – il vaudeville La Somnambule (1819) di Eugène Scribe e Germain Delavigne; la commedia-vaudeville La Villageoise somnambule ou Les deux fiancés (1827) di Armand d’Artois e Henri Daupin; il balletto-pantomima La Somnambule ou L’arrivée d’un nouveau seigneur (1827) di Scribe e Jean-Pierre Aumer – ma perché nella scenografia e in gran parte dei costumi di questa produzione della Deutsche Oper am Rhein di Düsseldorf il tono dominante è il viola, tinta che sui nostri palcoscenici è bandita in quanto considerata in potere di portare sfortuna – e solo perché era il colore della Quaresima, periodo in cui in passato i teatri italiani dovevano rimanere chiusi.

In area tedesca tali fisime non hanno peso ed ecco quindi che il regista Johannes Erath e lo scenografo Berhardt Hammer riempiono il palcoscenico di divani e abiti viola. I costumi moderni suggeriscono una certa contemporaneità, ma particolari tirolesi come i Lederhosen confermano l’ambiente alpino. La scena è divisa orizzontalmente in due parti: in basso si svolge l’azione dell’opera vera e propria con un tavolo per il ricevimento nuziale perennemente presente in scena e attorniato da elementi imbottiti viola che fungono da divani; in alto si svolgono scene oniriche con una ballerina vestita dell’altrettanto onnipresente abito da sposa bianco e video di paesaggi invernali. Il coro svolge un ruolo centrale, perché formula le aspettative della società e si intreccia strettamente con i numeri musicali dei protagonisti: in un ambiente così chiuso come quello di un villaggio alpino sperduto tra le montagne, l’opinione degli altri esseri umani è importante e il controllo sociale asfissiante. Anche nella regia di Erath non possono mancare i doppi dei personaggi, ma qui almeno sono più accettabili e la semplice psicologia di Amina, Elvino & Co. acquista uno spessore maggiore nella lettura del 48enne regista tedesco ex violinista ed assistente di Graham Vick.

Rimpiazzo all’ultimo momento della titolare indisposta, Stacey Alleaume stupisce per l’agio con cui affronta il ruolo di Amina, dove le agilità sono importanti quanto la sensibilità, ma il soprano coloratura australiano supera pienamente la prova con acuti che raggiungono il do sopracuto e una presenza scenica efficace. Meno sorprendente la bella performance di Edgardo Rocha in una parte, quella di Elvino, che richiede una voce spinta verso il registro alto che il tenore uruguayano raggiunge con l’eleganza e lo stile che gli vengono riconosciuti da tempo. Una sorpresa invece per il Conte Rodolfo di Bogdan Taloș, basso rumeno di bel timbro, grande proiezione, rapinoso fraseggio e bella presenza scenica. Una Lisa particolarmente pungente è quella di Heidi Elisabeth Meier, precisa nelle agilità e buona attrice. Antonino Fogliani dirige l’orchestra dei Düsseldorfer Symphoniker con tempi e volumi sonori adeguati e accompagna con intelligenza i cantanti.

Uno spettacolo che meriterebbe fosse portato in Italia. Ma quel viola…

Chiara e Serafina

   

foto © Gianfranco Rota

Gaetano Donizetti, Chiara e Serafina

Bergame, Teatro Sociale, 19 novembre 2022

  Qui la versione italiana

Festival Donizetti de Bergame : redécouverte du rarissime Chiara e Serafina

En fouillant dans le répertoire lyrique du passé, on découvre parfois des trésors ; parfois en revanche, on a la confirmation de la raison expliquant la disparition d’un opéra des affiches des théâtres… C’est précisément le cas de Chiara e Serafina, ou Il pirata de Donizetti. La raison n’en incombe pas cependant à la musique qui serait dépourvue de beauté ; c’est plutôt le caractère décousu de l’œuvre qui pose problème, avec une histoire confuse et des personnages plus incohérents les uns que les autres. Les deux actes sont déséquilibrés, le premier étant presque deux fois plus long que le second et les événements sont tellement enchevêtrés les uns aux autres qu’il est bien difficile d’en comprendre le sens…

  la suite sur premiereloge-opera.com

Chiara e Serafina

   

foto © Gianfranco Rota

Gaetano Donizetti, Chiara e Serafina

Bergamo, Teatro Sociale, 19 novembre 2022

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Non è una «decisissima rivincita», ma Chiara e Serafina merita comunque di essere conosciuta

Talvolta scavando nel repertorio operistico passato escono fuori dei tesori, talaltra viene confermato il fatto che se un’opera è scomparsa dai cartelloni una ragione c’era, ed è proprio questo il caso della donizettiana Chiara e Serafina, ossia Il pirata, non perché la musica non sia bella, ma perché si tratta di un lavoro sconclusionato, dalla vicenda confusa e con personaggi uno più inconsistente dell’altro. Già dalla trama si capisce chiaramente come i due atti siano per di più squilibrati, con un primo atto lungo quasi il doppio del secondo e con un aggrovigliarsi di vicende tale da rendere arduo intenderne il senso.

Atto I. Don Alvaro, padre di Chiara e Serafina, è un capitano di vascello, catturato dai pirati mentre navigava da Cadice a Maiorca assieme alla figlia maggiore Chiara, e da dieci anni ridotto in schiavitù. Alla corte di Don Fernando, uomo molto potente, segretamente suo nemico, la sua sparizione è stata fatta apparire come un tradimento, ottenendo un pretesto per condannarlo in contumacia e facendo sì che Don Fernando fosse nominato tutore della giovane Serafina che, nel frattempo, è cresciuta in età e bellezza, e ora Don Fernando progetta di sposarla per mettere le mani sulla sua fortuna. Ma Serafina ama Don Ramiro, figlio del podestà di Minorca. Quest’ultimo la chiede in sposa a Don Fernando che, non sapendo cosa addurre per opporsi al matrimonio, deve mettere in atto uno stratagemma. Questo antefatto è raccontato da Agnese, custode del castello. Don Meschino, ricco villano, è innamorato di Lisetta, figlia di Agnese, e la chiede in sposa. La giovane rifiuta, e in quel mentre si scatena una tempesta. Don Alvaro e Chiara arrivano all’improvviso, preoccupati per la sorte di Serafina. Chiedono aiuto a Lisetta e ad Agnese, ma senza rivelare le loro identità. Nottetempo, sbarca il pirata Picaro, antico servitore di Don Fernando, alla ricerca di lavoro sulla terraferma. Don Fernando gli offre una ricompensa se riuscirà a impedire il matrimonio di Serafina e Don Ramiro. Picaro si traveste da Don Alvaro e si presenta ai due innamorati nel giardino del castello: Serafina crede di aver ritrovato il padre disperso e si lascia convincere a rimandare le nozze. Arriva Chiara, travestita da mendicante: Serafina non la riconosce. Chiara e il vero Don Alvaro confondono Picaro, che si pente e promette di accompagnarli da Serafina, ma poi fugge.
Atto II. I pirati, alla ricerca del loro capo, penetrano nel castello e catturano Don Meschino, Chiara e Lisetta, ma arriva Picaro che, tolto il travestimento, libera i prigionieri. Le due sorelle si riabbracciano, Don Ramiro giura amore eterno a Serafina. Tutti credono che Chiara sia fuggita con i pirati, ma ella torna alla fine assieme a Picaro.

In breve, si tratta della storia di Don Alvaro e della figlia Chiara naufraghi su una spiaggia di Maiorca ma finalmente liberi dopo dieci anni di prigionia in seguito alla cattura dei pirati. I due sono soccorsi e  ospitati nel castello abbandonato di Belmonte. Sulla spiaggia sbarcano poi alcuni pirati, tra cui Picaro, servo di Don Fernando che è nemico di Don Alvaro e lo ha fatto condannare in contumacia con false accuse. Picaro si accorda con quest’ultimo per impedire il matrimonio di Serafina, l’altra figlia di Don Alvaro che Don Fernando vuole sposare «per mangiar l’eredità». Alla fine di varie vicissitudini la verità verrà a galla e tutto si appianerà.

Andato in scena alla Scala il 26 ottobre 1822, il lavoro del venticinquenne compositore bergamasco fu un fiasco: non cadde subito, tenne la scena ancora per dieci repliche, ma poi scomparve per due secoli. La colpa fu principalmente del libretto di Felice Romani che aveva tratto la vicenda da La citerne, un mélodrame di René-Charles Guilbert de Pixérécourt del 1800. Un esemplare di quel teatro dei boulevards destinato a un pubblico socialmente diversificato, leggi incolto, interessato al registro patetico e all’epilogo moraleggiante che soddisfaceva il bisogno di giustizia degli spettatori, quello appunto delle pièces à sauvetage come è Chiara e Serafina che la stampa milanese dell’epoca prese di mira: «il nuovo spartito di Donizetti […] avrebbe potuto forse discretamente reggersi, se colle dette lungaggini e ripetizioni, il poeta e il maestro non si fossero mostrati di troppo allo scoperto». Ma è la scelta della fonte il maggior elemento di critica: «i melodrammi francesi non son d’indole da raffazzonare per la scena italiana» a causa delle «lungaggini nojose e le goffe ripetizioni».

Come portare dunque in scena, duecento anni dopo, questo pastrocchio drammaturgico? La strada scelta dal regista, scenografo e costumista Gianluca Falaschi e dal suo team – Andrea Pizzalis per i movimenti coreografici, Emanule Agliati per le luci e Mattia Palma per la drammaturgia – è quella di trattare il titolo donizettiano come se fosse una Savoy Opera, come The Pirates of Penzance di Gilbert & Sullivan, adottando il kitsch visivo delle vecchie produzioni della D’Oyly Carte Opera Company con i suoi colorati scenari di cartapesta, costumi sgargianti e coristi e figuranti che rubano la scena, o come il nostrano teatro di varietà degli anni ’40, con la differenza che il finale “felici-bum-tà!” qui è l’interminabile rondò di Chiara.

Tra i personaggi improbabili e caricaturizzati di questa commedia di genere semiserio, il lestofante Picaro è figlio del Figaro di Beaumarchais/Mozart ma soprattutto di Sterbini/Rossini, corsaro per necessità che sogna «un mestier… d’impunità» come quello dell’usuraio, del giocatore, dello speziale che «nell’acqua fresca | trova doppie e perle pesca» e per il quale «i sartori, i calzolari | van del paro coi corsari». Da opera buffa anche nel nome, quasi maschera da commedia dell’arte, è poi Don Meschino. Ma ci sono anche l’ambiziosa e fatua Lisetta, l’intrigante Agnese e lo stucchevole Don Ramiro. Tutti questi personaggi hanno i lineamenti deformati, naso e mento aguzzi, e un trucco marcato mentre i pirati portano una maschera; gli unici che si presentano col loro viso al naturale sono Chiara e il padre Don Ramiro, i personaggi seri. Ma il momento della verità arriva per tutti: quando sono prigionieri della cisterna, di fronte a una triste fine, essi si tolgono la parrucca e mostrano la loro umanità, ma anche la finzione del teatro. Fa parte di questo gioco di finzioni il fatto che i vecchi Don Alvaro e Don Fernando qui siano interpretati dallo stesso cantante.

Si diceva all’inizio che la musica di Chiara e Serafina non è brutta, tutt’altro, è bellissima, ma è quais troppa… Dopo la sinfonia i tredici numeri musicali sono zeppi di cavatine, duetti, concertati e cori dalla ricca scrittura: è un Donizetti generoso e bulimico che inonda la scena di temi e spunti melodici in quantità, arie piene di agilità, finali frenetici. Il tutto frutto di un’attività condensata nei dodici giorni che andarono dal momento in cui ricevette il libretto, il 3 ottobre, alla consegna della partitura, il 15 ottobre. E con appena undici giorni di prove! La qualità della musica è dimostrata dal fatto che il compositore ne utilizzò alcune pagine nel Don Pasquale (la cabaletta della cavatina di Chiara), nell’Anna Bolena (il finale primo) e ne L’elisir d’amore (l’introduzione). Evidenti sono poi i riferimenti, Rossini e Mercadante soprattutto, in una scrittura che alterna comico e patetico talora in modo spiazzante. Di tutto ciò è ben consapevole il Maestro Sesto Quatrini che si è fatto carico della concertazione musicale di questo lavoro del tutto inedito con una direzione serratissima ma precisa. L’orchestra Gli Originali e il coro dell’Accademia della Scala hanno accolto con entusiasmo la proposta ma hanno dimostrato a momenti una certa inesperienza, che nel caso della compagine strumentale si è rivelata in piccole imprecisioni e precarie intonazioni, soprattutto per i fiati, probabilmente dovute all’utilizzo di strumenti d’epoca. In generale comunque la tenuta orchestrale c’è stata, l’equilibrio tra buca e cantanti si è salvato, la concertazione dei giovani cantanti non ha registrato problemi e si è svolta con fluidità.

Per un’indisposizione è venuto a mancare l’unico interprete blasonato della distribuzione vocale e Pietro Spagnoli (Don Meschino) è stato sostituito, comunque in modo soddisfacente, da un solista dell’Accademia di perfezionamento per cantanti lirici del Teatro alla Scala da cui provengono anche tutti gli altri interpreti. Alla recita del 19 novembre hanno dunque partecipato: Giuseppe de Luca (Don Meschino, basso), Matias Moncada (Don Alvaro/Don Fernando, basso), Fan Zhou (Serafina, soprano), Greta Doveri (Chiara, soprano), Hyun-Seo Davide Park (Picaro, baritono), Valentina Pluzhnikova (Lisetta, contralto), Mara Gaudenzi (Agnese, mezzosoprano), Andrea Tanzillo (Spalatro, tenore), Luca Romano (Gennaro, basso). Senza raggiungere punte di particolare eccellenza tutti i giovani hanno dimostrato una spiccata personalità vocale e vivace presenza scenica abilmente coordinata dal regista. Sono da ricordare almeno le due interpreti del titolo: Greta Doveri (Chiara), soprano dal bel timbro, che nella scena terza del primo atto esordisce con giusto accento nella cavatina «Queste romite sponde» e poi conclude l’opera nell’interminabile rondò finale «Prendi, o padre; il tuo gran nome» di cui Falaschi costruisce un’esilarante parodia e Fan Zhou (Serafina), voce sottile ma ferma, che nella sua aria del secondo atto «Fra quest’ombre, in questo orrore» esibisce una sicurezza stupefacente nelle impervie agilità scritte da Donizetti sulle parole «Ah! che spezzarmi | io sento il cor».

Difficilmente rivedremo rappresentata a teatro quest’opera in futuro, ma siamo grati al Festival Donizetti di averci fatto conoscere un lavoro acerbo ma pieno di musica bellissima, la stessa delle opere della maturità, quando però sarà inserita in contesti drammaturgici più maturi. E saranno allora i capolavori che conosciamo.

Norma

Vincenzo Bellini, Norma

★★★☆☆

Brescia, Teatro Grande, 30 settembre 2022

Tre diverse Norme inaugurano la stagione bresciana

Inutile nasconderlo: è una delusione quando in una produzione viene a mancare quello che poteva essere l’elemento più interessante. È quello che è successo con lo spettacolo inaugurale della breve stagione lirica del Teatro Grande di Brescia. Nella parte di Norma era atteso il soprano Lidia Fridman – ruolo in cui aveva già debuttato anche se per una sola sera al Regio di Torino sostituendo la titolare – ma questa volta è toccato a lei: un’indisposizione non le ha permesso di essere presente alla prima dopo le prove e l’anteprima per gli studenti. Tanta era la curiosità di vedere sulla scena questa tragédienne che si era fatta notare nella Ecuba di Manfroce, ma bisogna invece accogliere con simpatia e ammirazione chi è accorsa al suo posto in un ruolo così impegnativo. Impeccabilmente preparata, Martina Gresia porta a termine l’impegno con esiti felici e in quella che è forse l’aria che ha avuto nel passato le concorrenti più temibili, parliamo ovviamente di «Casta diva», scivola via molto bene e con i giusti accenti. Qualche legato più “legato” sarebbe stato meglio, ma la stoffa c’è, c’è la sensibilità e l’attenzione alla parola, anche se il personaggio di questa Medea celtica è a tratti debole sulla scena, anche a causa della regia.

La lettura di Elena Barbalich è infatti pretenziosa ma non sempre ben realizzata. Nelle note la regista veneziana spiega che «l’amore di Norma e Adalgisa per Pollione rappresenta per me quasi una lacerante nostalgia nei confronti di una dimensione che sta scomparendo e che permane sulla scena solo in forma di simbolo totalmente svuotato, rappresentando quel mondo classico che aveva dominato con Napoleone, ma che noi ricondurremo astrattamente a possibili evocazioni di altre epoche». Ecco quindi Oreveso/Wotan, compresa la benda sull’occhio, e un impianto scenografico simbolico ed elegantemente realizzato da Tommaso Lagattolla, che cura anche i costumi, dove il cerchio della Luna si materializza e diventa una grande struttura circolare e luminosa che include o separa i personaggi. In uno spazio per lo più vuoto, il paesaggio dello sfondo è realizzato come una stropicciata superficie tridimensionale realizzata al computer.  Determinante è il ruolo delle luci di Marco Giusti, dalle oniriche atmosfere lunari ai bagliori rossi del rogo finale, ma proprio per questo si nota la mancanza di una maggiore cura attoriale sugli interpreti che si atteggiano spesso a divi del muto nonostante la lettura futuristica data dalla regista. Non convincono poi alcuni particolari legati ai figli di Norma, prima messi a dormire in una specie di vetrina tonda e illuminata dai neon e poi inerti cadaveri nel finale. Norma li ha dunque uccisi?

Tornando agli interpreti vocali, del Pollione di Antonio Corianò, ascoltato assieme alla Fridman nell’Aroldo verdiano di Rimini,  si può dire che ha voce generosa ma dal timbro po’ troppo penetrante, l’accento è eroico ma gli acuti sono tirati e la fatica si fa sentire: il giovane tenore arriva al termine dell’opera un po’ stremato. Adalgisa dalla voce di colore particolarmente scuro, soprattutto in confronto al timbro chiaro della Gresia, è quella di Asude Karayuz mentre l’Oroveso di Alessandro Spina si dimostra vocalmente autorevole ma non memorabile. Il tutto è tenuto magistralmente assieme dalla bacchetta di Alessandro Bonato, ventisettenne veronese di affermata carriera che dimostra una maturità invidiabile nel risolvere le difficoltà di una partitura che aveva lasciato interdetto il pubblico della prima milanese il 26 dicembre 1831. L’Orchestra dei Pomeriggi Musicali risponde con precisione e dovizia di colori alle richieste del giovane direttore che punta a una lettura non esteriore ed effettistica, ma preferisce  sottolineare la cantabilità di pagine straconosciute e affrontate altrove con rozza baldanza, qui invece giustamente riproposte nella loro delicatezza e trasparenza. Sostanzialmente efficaci anche se non sempre ineccepibili gli interventi del coro diretto da Massimo Fiocchi Malaspina. Il folto pubblico, elegante come sa essere in provincia, ha decretato il successo della serata con generosi applausi agli artisti.

Aggiornamento: Martina Gresia si è ammalata dopo la prima e sul palco della replica domenicale è salita una terza Norma!

Beatrice di Tenda

Vincenzo Bellini, Beatrice di Tenda

Martina Franca, Cortile Palazzo Ducale, 26 juillet 2022

 Qui la versione italiana

Superbe version concertante de Beatrice di Tenda à Martina Franca !

Beatrice di Tenda : c’est le titre du XIXe siècle choisi par Sebastian Schwarz, directeur artistique du Festival della Valle d’Itria, pour son tour d’horizon de l’opéra au fil des siècles, et disons tout de suite que du point de vue musical, c’est le choix le plus heureux pour cette édition du Festival della Valle d’Itria, celui en tout cas qui est le plus apprécié du public, et pas seulement pour le charme indéniable du bel canto, mais aussi pour la qualité des interprètes.

Ce n’est certes pas le titre le plus populaire du compositeur catanais : avant-dernier opéra de la courte carrière de Bellini, il souffre de prendre place entre ses deux plus grands chefs-d’œuvre : Norma (1831) et I puritani (1835). Beatrice di Tenda fut créée le 16 mars 1833 à La Fenice avec peu de succès, après une gestation agitée…

la suite sur premiereloge-opera.com

Beatrice di Tenda

Vincenzo Bellini, Beatrice di Tenda

Martina Franca, Cortile Palazzo Ducale, 26 luglio 2022

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Il penultimo Bellini in forma di concerto entusiasma il pubblico

Si stenta a credere che Michele Spotti abbia sostituito con pochissimo preavviso (due giorni!) il previsto Fabio Luisi e che per di più nell’intervallo abbia vuto un malore con conseguente chiamata, rivelatasi per fortuna inutile, di un’ambulanza, tanta è la sicurezza con cui dirige l’orchestra del teatro Petruzzelli di Bari nella belliniana Beatrice di Tenda eseguita in forma concertistica.

È il titolo ottocentesco scelto da Sebastian Schwarz, direttore artistico del Festival della Valle d’Itria, per la sua carrellata dell’opera nei secoli e diciamo subito che dal punto di vista musicale è l’ascolto più felice dell’attuale Festival della Valle d’Itria, quello più apprezzato dal pubblico, e non solo per il fascino innegabile del bel canto, ma per la qualità degli interpreti messi in campo.

Titolo non dei più frequentati del compositore catanese, e penultimo della sua breve carriera, soffre del fatto di essere schiacciato tra i due massimi capolavori Norma (1831) e I puritani (1835). Beatrice di Tenda va infatti in scena il 16 marzo 1833 alla Fenice con scarso successo dopo una gestazione travagliata causata dal ritardo di Felice Romani nel consegnare la seconda parte del libretto o dal fatto che Bellini aveva cambiato idea sul soggetto che gli era stato proposto. Su queste due opposte giustificazioni partì la battaglia legale che pose fine alla collaborazione del compositore col poeta, collaborazione iniziata con Il pirata e andata avanti senza interruzioni fino a quel momento per ben sette opere. Il libretto della sua ultima opera, I puritani, fu affidato infatti a Carlo Pepoli.

Beatrice si affianca alle altre donne ingiustamente perseguitate fino alla morte da mariti infatuati di un’altra, accecati dalla gelosia o condannate dalla ragion di stato, come le eroine dei drammi storici di Donizetti. E molto simile alla vicenda dell’Anna Bolena del bergamasco è quella di Beatrice Lascaris di Ventimiglia contessa di Tenda: adducendo false accuse di adulterio e cospirazione, il marito Filippo Maria Visconti – ultimo duca di Milano definito dal librettista «giovane dissoluto, simulatore, ambizioso» – invaghito della sua dama di compagnia Agnese e sospettoso di un certo Orombello che ronza attorno alla moglie, non trova di meglio che denunciare la donna e il supposto amante e farli giustiziare dopo averli torturati. Diversamente da Anna Bolena, che comunque ha amato Percy, Beatrice è sposa del tutto fedele e innocente delle attenzioni di Orombello, dettate queste dalla pietà più che dalla passione. Diversa anche dalla ambiziosa Giovanna Seymour è Agnese del Maino, innamorata non corrisposta di Orombello, vendicatrice consapevole della rovina di Beatrice, salvo poi pentirsene troppo tardi. La sofferenza per i sudditi schiacciati dal giogo dei Visconti e il rimpianto di aver portato in dote una grande ricchezza a un marito crudele solo gli altri elementi che distinguono la figura di Beatrice, donna integerrima che anche sotto tortura trova la forza di non cedere e confessare colpe che non ha commesso, cosa che non succede all’uomo che invece parla pur di evitare i tormenti. Nell’opera le eventuali titubanze del marito cedono di fronte alle notizie che i sudditi fedeli di Beatrice stanno marciando in sua difesa. Il che lo convince ad affrettare l’iniqua sentenza e Beatrice muore come una santa al martirio al di là delle bassezze terrene.

Prima interprete di Beatrice di Tenda – come della Sonnambula e della Norma, di Imogene ne Il pirata e Romeo ne I Capuleti e Montecchi – fu Giuditta Pasta, la più celebre cantante lirica dell’Ottocento assieme a Maria Malibran. Opera le cui rappresentazioni si fecero sempre più sporadiche nell’Ottocento, è solo negli anni sessanta del secolo scorso che Beatrice di Tenda ritornò in auge grazie a interpreti del calibro di Joan Sutherland e Leyla Gencer. Sul palcoscenico allestito nel cortile del Palazzo Ducale di Martina Franca coglie la sfida del confronto Giuliana Gianfaldoni, giovane soprano tarantino dalla elegante figura che cesella le note dell’eroina belliniana con sicurezza, con attacchi in piano che sfumano in un pianissimo e in un altro ancora “più” pianissimo di stupefacente bellezza. La cantante si compiace di filati e mezzevoci stupefacenti facendo del personaggio una figura fuori da questo mondo. Teresa Kronthaler è un’Agnese forse anche troppo sgradevole, mentre Celso Albelo, che assomiglia sempre più vocalmente ad Alfredo Kraus, non impone il personaggio che rimane piuttosto sbiadito. Magnifico invece il Filippo Maria Visconti di Biagio Pizzuti, splendido timbro, fraseggio preciso, parola scolpita e colori cangianti per un personaggio molto sfaccettato. Il suo momento più tormentato quello della firma della sentenza, dove su un bellissimo accompagnamento orchestrale esprime il suo inutile rimorso («Ah! nel mondo maledetto | condannato in ciel sarò»). Nella parte di Anichino e Rizzardo del Maino si è distinto Joan Folqué. Un po’ troppo a briglia libera è sembrato il coro, che ha un importante ruolo in questo lavoro.

E infine Michele Spotti, il giovane direttore che non solo ha salvato la produzione, ma dà un’interpretazione sensibilissima della partitura: ripristinati i tagli di tradizione, utilizza dinamiche sempre efficaci che esaltano la bellezza di certe pagine come il sublime terzetto e negli altri pezzi di insieme che in quest’opera superano in numero le arie solistiche. Il pubblico ha risposto con grande entusiasmo nei suoi confronti e in quelli dei due interpreti principali.

Davide e Gionata

Julius Kronberg, David and Saul, 1885

Marco Emanuele, Davide e Gionata

Torino, Polo del Novecento, 28 giugno 2022

La prima opera gay in italiano

Le forti amicizie virili non sono mai mancate nei melodrammi: pensiamo ad Achille e Patroclo nell’Iphigénie en Aulide, o ancor di più Oreste e Pilade nell’Iphigénie en Tauride di Gluck; Zurga e Nadir ne Les pêcheurs de perles di Bizet; Dalibor e Zdenek nel Dalibor di Smetana; Carlo e Rodrigo nel Don Carlos di Verdi… Sul tema dell’amore omosessuale quale soggetto principale della vicenda ricordiamo invece il recente Lessons in Love and Violence (2019) di George Benjamin tratto dall’Edward II di Christopher Marlowe. E proprio col titolo Edward II ci sono anche il lavoro di Francesco Cilluffo del 2006 e quello di Andrea Lorenzo Scartazzini, Deutsche Oper 2017. Un caso a sé sarebbe poi quello delle opere di Benjamin Britten.

Nel lontano 1688 fu rappresentata a Parigi la “tragédie biblique” David et Jonathas di Marc-Antoine Charpentier. Ora, sullo stesso soggetto Marco Emanuele presenta la sua ultima opera, Davide e Gionata, che può essere considerata la prima opera a soggetto GLBTQ scritta in italiano. L’occasione è la giornata di approfondimento al Polo del Novecento sul movimento omosessuali credenti a cinquant’anni dalla nascita a Torino del F.U.O.R.I.

Su libretto dello stesso compositore, che vi ha inserito versi di altri autori (1), quest’ultimo lavoro di Emanuele ha a modello, così come era successo con la sua precedente Mirra, l’opera belcantistica di primo Ottocento con recitativi, pezzi chiusi, cabalette, strette e concertati, qui con in più qualche incursione nel Settecento di Vivaldi e nel Novecento di Piazzolla.

Due giovani si amano, ma il loro amore è osteggiato dal padre. Quante storie come questa si incontrano nel melodramma, ma qui i due giovani sono dello stesso sesso e per la prima volta i versi sono del tutto espliciti: «Amo te solo | te solo amai; | tu fosti il primo | tu pur sarai | l’ultimo oggetto | che adorerò». La vicenda è liberamente tratta dagli episodi biblici del Primo libro di Samuele.

Atto I. Il re Saul, un tempo amato, ha perso la fiducia del popolo. Ha esiliato Davide, intimo di suo figlio Gionata. Costretto a sposarsi, questi vive sotto il controllo del padre, che nella prima scena si consulta con il capo delle guardie, preoccupato dalla tristezza del figlio: teme che non possa essere lui il suo successore. Su indicazione di Abner vuole presentargli un’indovina, che farà rinascere virilità e coraggio in lui. Gionata accetta, per non deluderlo, ma pensa ancora a Davide. Davide torna di nascosto nei pressi del palazzo. Sente che è arrivato il momento di non nascondere l’amore per Gionata. Sorpreso da Abner, lo informa del fatto che i Filistei stanno per attaccare. Nonostante il servizio reso alla comunità, Abner lo tratta con sarcasmo e gli dice che ormai Gionata si dedica a moglie e figli. Davide pensa di essere stato dimenticato. Abner informa Saul del ritorno di Davide. In preda a follia, Saul minaccia di uccidere il pastore, possibile rivale politico. Gionata lascia il palazzo, attirato da una forza a cui non può resistere, e va nel deserto. Davide ha raggiunto l’accampamento d’Israele e all’alba intona un saluto alla natura. Ha sognato di riavvicinarsi a Gionata e gli sembra di sentire la sua voce: ma è proprio lui! È il momento di dichiararsi amore reciproco. Nulla potrà separare i due amanti.
Atto II. Per evitare la vergogna ed eliminare un rivale politico, Saul vuole uccidere Davide. Chiede ad Abner di occuparsene. Meglio affidargli la guida dell’esercito e farlo uccidere da mano amica, gli consiglia il militare, promettendo una risoluzione felice della vicenda. Abner raggiunge l’accampamento per comunicare a Davide che è stato nominato capo dell’esercito. Gionata non si fida del tutto, ma spera che suo padre possa essere davvero cambiato. Nella tenda Saul sogna di rivolgersi a Davide, accusandolo di rubargli il figlio. Gionata lo ascolta e ha un gesto di tenerezza nei confronti del padre fragile e invecchiato. Ma Saul si risveglia e lo caccia con parole violente. All’accampamento, Gionata mette in guardia Davide, che non lo ascolta e vuole combattere. Allora Gionata gli chiede di scambiarsi le armature prima di andare in battaglia. Durante lo scontro Gionata muore, colpito dallo stesso Saul, convinto di uccidere Davide. Quando si rende conto di quello che è successo, il re è disperato: tutto è finito.

Particolare la scelta delle voci, come spiega lo stesso Emanuele: «Per i due protagonisti ho pensato a voci dal timbro chiaro, diverse per estensione: due controtenori, dei quali uno canta più in registro sopranile (il più giovane, Davide) e uno in registro da contralto (Gionata). Questo per richiamare l’opera barocca, in cui gli eroi sono interpretati dai castrati, e per richiamare il belcanto italiano e l’opera seria di Rossini, in cui gli innamorati sono spesso una coppia di voci femminili (soprano/contralto). Se Abner è il tradizionale cattivo, il basso vilain, come Assur nella Semiramide di Rossini, per il re Saul […] ho pensato a una cantante donna che canta e recita en travesti». La scelta dei registri ha anche altre più profonde implicazioni: «I miei modelli non sono tanto i giovani eroi del melodramma rossiniano, ma alcune grandi attrici del teatro di prosa, come Sarah Bernhardt, che hanno interpretato parti maschili come Amleto, Werther o Lorenzaccio. Ma soprattutto vorrei rompere con la tradizione di voci maschili che interpretano personaggi di potere e anziani, cioè vorrei decostruire la figura del Padre tipica delle opere di Giuseppe Verdi. Il registro acuto del personaggio maschile del padre di Gionata, il re Saul, permetterebbe di assegnare il personaggio allo stesso cantante – o alla stessa cantante – che interpreta il personaggio di Davide, o comunque di creare una specie di rispecchiamento: tra l’altro i due personaggi non si incontrano mai in scena. L’idea è quella di creare un cortocircuito: sono in un certo senso due rivali, uno ombra dell’altro. La sovrapposizione delle figure dell’amante e del Padre allude al triangolo delle relazioni affettive: Gionata è innamorato del Padre, oltre che di Davide; e “muore”, in senso reale e simbolico, per dimostrare a entrambi e a sé stesso di essere all’altezza della mascolinità normativa».

Quattro le voci e otto gli strumenti: flauto, clarinetto, quartetto d’archi, clavicembalo e fisarmonica,  diretti con precisione e senso della musica dal maestro Simone Lattes. Ed è la fisarmonica a farsi sentire per prima nella Sinfonia con un mi grave tenuto per ben ventidue battute sotto gli svolazzi del violoncello, poi dei violini e dei legni in un Presto che introduce alla prima scena dove in un recitativo il personaggio di Abner commenta fra sé il comportamento del re Saul in preghiera nella grotta della Pitonessa. Nel duetto che segue abbiamo le voci estreme del basso Giuseppe Gerardi, voce di grande proiezione che avrebbe però  bisogno di un maggior controllo per essere più efficace, e del soprano Marina Degrassi, nell’impegnativo ruolo del re disorientato dalle inclinazioni amorose del figlio inutilmente accasato e con prole. I venti numeri musicali dei due atti in cui è diviso il lavoro, anche se non costruiscono una vera e drammatica tensione narrativa, costituiscono una varietà di momenti musicali ognuno caratterizzato da uno stile musicale suo proprio. È il caso ad esempio della cavatina rossiniana di Davide, il giovane controtenore Luca Parolin («No, non vedrete mai | cambiar gli affetti miei») o della “canzone” con cui Davide «esce dalla tenda e saluta il risveglio della natura cantando e accompagnandosi con il salterio» («Cantate al mio gioir, onde correnti»).

In un’opera da camera come questa, che fa l’occhiolino alla grande opera seria settecentesca, non poteva mancare la classica aria “di tempesta” «Fra l’orror della tempesta | che alle stelle il volto imbruna» (il cui testo ricorda l’aria di Arbace nell’Artaserse di Vinci «Vo solcando un mar crudele | senza vele e senza sarte | freme l’onda, il ciel s’imbruna»), ma qui inopinatamente la musica è quella di un tango con tanto di fisarmonica che rifà il bandoneón di Piazzolla!

La scena quinta del secondo atto è la più toccante: il vecchio re Saul nel dormiveglia e in preda a visioni è osservato con tenerezza dal figlio Gionata, che non riesce a cancellare l’amore per il padre nonostante che egli voglia ostacolare il suo per Davide. E qui ascoltiamo il controtenore Angelo Galeano, già ammirato nella Mirra, intonare con grande sensibilità, ottimo fraseggio e varietà di colori l’aria “del sonno” «Mentre dormi, Amor fomenti | il piacer de’ sonni tuoi» su versi del Metastasio e già intonata da Licida nell’Olimpiade di Vivaldi e poi di Pergolesi. Affidati a Saul sono i due ultimi numeri di Davide e Gionata: l’aria “di follia” «Ah! L’aria d’intorno | lampeggia, sfavilla: | ondeggia, vacilla | l’infido terren» che echeggia gli esametri dell’analoga aria del Saul di Felice Romani («Il fato è compiuto… | ho tutto perduto… | squallor mi circonda | spavento, terror») e il lamento finale «Ah che nel dirti addio | mi sento il cor dividere, | parte del sangue mio, | viscere del mio sen», quando Saul riconosce nel cadavere il figlio ucciso nella convinzione si trattasse di Davide.

Così si conclude l’opera di Marco Emanuele che auspico possa trovare prima o poi una realizzazione scenica dopo quest’esecuzione in forma di concerto. La cura e la passione messe in questa partitura, l’attenta strumentazione, il gusto del pastiche e il piacere all’ascolto che ne deriva lo meriterebbero. E così credo l’abbia pensato anche il folto pubblico che ha applaudito con molto calore gli artefici dell’esecuzione e l’autore.

(1) Metastasio (vari libretti); Felice Romani (Saul); Stefano Landi (La morte di Orfeo) per l’aria di Davide (I, 5); Carlo Goldoni (Il quartiere fortunato, che Marco Emanuele ha messo in musica come opera da camera in un atto) per l’aria di Abner (II, 1); Luis Cernuda (Placeres Prohibidos) per l’aria di Gionata (II, 8); Giovanni Testori (Quanto è giusta la morte) per la scena finale.