foto © Roberto Ricci
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Giuseppe Verdi, Giovanna d’Arco
Parma, Teatro Regio, 24 gennaio 2025
★★★★☆
La pulzella censurata
Frutto degli “anni di galera” – risultato di un lavoro frenetico: in meno di un mese Verdi aveva intonato il testo e iniziato a strumentare l’opera – Giovanna d’Arco al suo debutto il 15 febbraio 1845 al Teatro alla Scala ebbe uno schietto successo di pubblico, ma grosse riserve dalla critica. Dovettero passare 24 anni prima che il compositore ritornasse nel teatro milanese.
Nel libretto di Temistocle Solera i venticinque personaggi del dramma di Schiller Die Jungfrau von Orleans (La pulzella d’Orléans, 1801) erano ridotti a cinque, ma solo tre i principali. Se nel lavoro originario Giovanna d’Arco si innamorava di un nemico inglese, qui s’innamora nientemeno che del re francese Carlo VII e, come nel testo di Schiller, non si immola sul rogo, ma muore in battaglia. Nel testo del Solera viene esaltato un tema caro al compositore, quello del rapporto tra padre e figlia, dove Giacomo è l’invasato che all’amore paterno sovrappone il suo fanatismo religioso, mentre la figura di Giovanna viene investita di aspirazioni nazionalistiche che procurarono non pochi guai con la censura dell’epoca, essendo la vicenda una metafora della situazione politica del paese. La legittimazione divina delle istanze patriottiche fu il motivo per cui a Roma e altre città del sud Italia l’opera fu data con un titolo, Orietta di Lesbo, e personaggi diversi.
Allora la censura si accanì non tanto sull’aspetto politico della vicenda, quanto su quello religioso. Via, quindi, i riferimenti a «Iddio» e a «Maria» – il primo diventò «Cielo» la seconda «la Pia» – e furono visti con imbarazzo i riferimenti alla verginità di Giovanna e alla sua natura divina. Tanto che se nell’originale Giacomo chiedeva «Pura e vergine sei tu?», la domanda divenne l’incongrua «Non sacrilega sei tu?». Anche a Carlo toccò passare dalla semplice dichiarazione di «Te mia sposa, te regina, | Donna, Francia chiamerà» all’involontariamente ridicolo «Sol lo spirto mi concedi, | e all’incendio basterà». Non sfuggirono alla censura neppure i versi cantati dagli spiriti malvagi del prologo e «Non è brutto | qual per tutto | vien costrutto | Belzebù» diventarono gli infantili «O figliuola, | ti consola, | è una fola | Belzebù!».
Nel 2012 al Regio di Parma la ripresa della Giovanna d’Arco di quattro anni prima venne messa in scena ripristinando nel libretto le modifiche volute dalla censura. Incomprensibilmente questo non avviene questa volta in cui la settima opera di Verdi inaugura la stagione lirica del teatro. Eccesso di pruderie? Si pensava di scandalizzare l’elegante pubblico che affolla la sala in ogni ordine di posti? Mah.
Michele Gamba è sul podio della Filarmonica Arturo Toscanini e fin dalle note della sinfonia evidenzia la sua lettura di questo lavoro, certo non tra i migliori di Verdi, ma con una sua particolare atmosfera quasi cameristica, sia per il numero di personaggi sia per le dinamiche sonore. Sotto la bacchetta del 41enne direttore milanese si intuisce la raffinatezza compositiva del giovane bussetano che sceglie impasti sonori e armonie particolari atti a creare il mondo fantastico della pulzella d’Orléans con le sue visioni e i suoi sogni. Nettamente differenziate sono le due parti del brano strumentale introduttivo, la prima cupa e corrusca, la seconda pastorale, che Gamba estremizza quasi a sottolineare la doppia personalità di questo particolarissimo grand-opéra, lo suggerirebbero la vicenda e l’importante presenza del coro, ma che viene declinato invece quasi come un lavoro intimo. Una partitura in cui nei cori degli spiriti maligni sembra echeggiare un sardonico Offenbach mentre dall’altra anticipa certe atmosfere del futuro Macbeth. È un Verdi tutt’altro che grezzo quello che ci propone Gamba, con la sua concertazione attenta agli equilibri sonori tra buca e palcoscenico sul quale si esibiscono interpreti di eccellenza.
Nino Machaidze è una Giovanna di grande presenza scenica e vocale che esalta gli interventi solistici che Verdi le ha approntato, all’inizio con una cauta freddezza poi con maggiore partecipazione. La sua performance è un crescendo emotivo espresso con voce ferma che solo difetta nella dizione che le fa cambiare le vocali o rende non chiaro quello che dice. È straniera, si dirà, ma straniero è anche Ariunbaatar Ganbaatar, che viene dalla lontana Mongolia, eppure il suo Giacomo, oltre alla straordinaria proiezione vocale che fa sentire chiaramente anche i suoi bisbigli, esibisce una perfezione di dizione e uno scavo sulla parola che lascia sbalordito il pubblico che gli tributa le maggiori ovazioni della serata. Grande successo anche per Luciano Ganci, che con mezzi vocali generosi e sicuri delinea un Carlo più definito del solito. Francesco Congiu e Krzystof Bączyk danno voce ai personaggi minori di Delil e Talbot. Sotto la guida di Martino Faggiani il coro dà ottima prova nei suoi frequenti interventi.
Emma Dante arriva per la prima volta nel teatro parmense e ottiene un buon successo con una lettura consona alla vicenda ma che non tradisce la personalità della regista palermitana. Col fedele sostegno della efficace e visionaria scenografica di Carmine Maringola, i costumi di Vanessa Sannino e le luci di Luigi Biondi imbastisce uno spettacolo visivamente accattivante in cui la vicenda del conflitto interiore di Giovanna tra esaltazione mistica e affetti terreni viene sviluppata in maniera convincente. Come sempre il rosso è il colore dominante, anche nel drappo che dovrebbe ostentare invece il bianco e azzurro mariano. Rosso è l’abito della pulzella, che rimane sempre femminile anche in battaglia, rossi quelli delle figure demoniche che con le solite chiome agitate al vento – questa volta senza le catinelle d’acqua, però… – si trasformano in fiamme infernali. All’inizio la processione dei feriti richiama gl’immancabili pupi siciliani nei movimenti dinoccolati mentre i fiori sono un elemento simbolico sempre presente: nascono dalle ferite dei soldati, li troviamo negli archi e anche sulla croce. Un giaciglio di rose accoglierà nel finale il corpo esangue della pulzella. Un allestimento efficace ma cauto, che non propone una drammaturgia forte, ma che forse proprio per questo è stato apprezzato dal pubblico.
⸪














































