Giuseppe Giacosa

Tosca

Giacomo Puccini, Tosca

Roma, Teatro dell’Opera, 1 novembre 2025

(diretta video)

Le impressioni di Orlando Perera che ha seguito la diretta televisiva

Tosca su Rai Tre: diretta alla romana

La Tosca di Puccini, opera tra le più rappresentate al mondo, ti cattura sempre, anche quando non è al meglio. Infatti sono arrivato alla fine, senza cambiare canale, del non memorabile allestimento proposto in diretta l’altra sera su RAI Tre, dal Teatro dell’Opera di Roma, dove il magnifico lavoro pucciniano esordì il 14 gennaio 1900. Mi sono intruppato così, mio malgrado, nell’oltre mezzo milione di spettatori che secondo Auditel, hanno mediamente seguito la diretta RAI dalle 21,10 alle 23,30: grande successo di ascolti, non c’è dubbio. Ma vorrei lo stesso proporre qualche umile riflessione.

Tosca è l’opera “romana” per eccellenza, per i tre luoghi storici dove è ambientata, la chiesa di Sant’Andrea della Valle su corso Vittorio, Palazzo Farnese dietro Campo de’ Fiori, Castel Sant’Angelo vicino San Pietro. Questo però, più che romano, è parso, con tutto il rispetto, un allestimento “romanesco” nel senso deteriore del termine, pensando a certa filmografia di Alberto Sordi. Una sgradevole sensazione complessiva d’impreparazione e sciatteria, di superficialità, che ha coinvolto ahimè i cantanti e direttore d’orchestra, invano impacchettati con furbizie registiche TV da épater le bourgeois. Intendiamoci, chi scrive ha lavorato per quattro decenni in RAI, e sa bene quanto possa essere spietata la diretta.

Ma proprio qui sta il punto: conoscendo bene, immagino, i responsabili RAI questi pericoli, perché non si sono parati le terga esigendo impegno massimo, prove severe, attenzione ai cantanti? Perché un bravo giovane regista come Alessandro Talevi, della cui amicizia mi onoro, è stato trascinato in questo pantano, in cui evidentemente non ha potuto imporsi più di tanto? Di opere in diretta sulla RAI ne abbiamo viste tante, a partire dalle tradizionali e impeccabili prime alla Scala (tanto per fare un esempio la Tosca di Livermore del 2019 che fece un record di ascolti), per non parlare del format di Andrea Andermann delle opere-film in diretta, “nei luoghi e nelle ore” del libretto, prodotte per la RAI: sempre Tosca da Roma nel 1992, Traviata da Parigi nel 2000, Rigoletto da Mantova nel 2010 e Cenerentola dalle dimore sabaude di Torino nel 2012. Tutte andate benissimo.

Dunque l’esperienza c’era. Il problema è che qui si è fatta un po’ di confusione tra teatro, dove si svolgeva tutta la rappresentazione, ed esterni di alleggerimento. Il regista televisivo Fabrizio Guttuso Alaimo ha alternato immagini dal vivo con quelle di scena e se, pensando alla Mondovisione, ci poteva stare mostrare Roma e i monumenti del libretto in diretta, non si è proprio capito quel finale ibrido a Castel Sant’Angelo, con immagini di Cavaradossi sugli spalti all’alba, ma con tante auto che si vedevano passare, ripreso da un drone, alternate (e sfalsate) a quelle della scena. Non so cosa abbiano visto in teatro, e come abbiano preso l’evidente ritardo di sincrono: se Alaimo voleva un effetto di straniamento c’è riuscito, purtroppo. Andiamo con ordine: scene e costumi erano quelli della prima assoluta, disegnati dall’illustratore liberty Adolf Hohenstein: i bozzetti forniti direttamente dall’archivio storico Ricordi sono stati ripresi da Carlo Savi e Anna Biagiotti, con le luci firmate da Vinicio Cheli.

Analoga operazione venne compiuta nel 2021 con Bohème al Regio di Torino. Riesumazione interessante, ma la nostra percezione visiva è radicalmente mutata, poco da fare. Forse è stata utile soprattutto per rivalutare, al netto di taluni eccessi, i vituperati scenografi e light-designers contemporanei. Francamente i colori opachi, gli ambienti canonici, i costumi da museo hanno certo il profumo del passato, ma non ci ispirano molti rimpianti e comunque non hanno potuto risolvere un allestimento all’insegna dell’improvvisazione. Le scene storiche avrebbero semmai richiesto un’altrettanto accurata filologia registica.

Invece i personaggi davano una sensazione di sperdimento, di aggirarsi tra quelle quinte d’antan, come capitati lì per caso. Il perché l’ha spiegato la stessa protagonista Eleonora Buratto, intervistata nel primo intervallo: incredibile ma vero, non hanno fatto una sola prova con le scene montate, e lei aveva fretta di andare a vedere com’erano gli spazi di Palazzo Farnese nel secondo atto, per sapere come e dove muoversi. Nel finale poi, prima di buttarsi da Castel Sant’Angelo, è andata visibilmente a controllare che sotto ci fossero i materassi! Un disagio ai limiti del grottesco, che non poteva non riflettersi sulla tenuta drammatica dello spettacolo, e anche sulle voci.

La brava Buratto, oggi tra le Tosca più gettonate a livello mondiale, ha confermato una linea di canto ampia e luminosa, e una sicura capacità di espansione drammatica nel registro acuto: il canonico «Vissi d’arte» è stato risolto dignitosamente. Ma è parso curioso il suo atteggiamento durante l’applauso di prammatica: di solito le grandi interpreti, dopo tanta espansione emotiva, rimangono raccolte, tornano lentamente alla realtà, anche se il pubblico si sbraccia. Qui invece la simpatica cantante mantovana si è profusa in larghi sorrisi a destra e a manca, continuando a fare di sì con la testa, sembrava quasi concordare un bis con il direttore, che poi non c’è stato. Insomma, scena abbastanza imbarazzante. Del resto, forse in teatro non se ne sono accorti, ma i primi piani della ripresa televisiva, spietata appunto, l’hanno spesso mostrata molto tesa, con gli occhi sbarrati come chi non sappia cosa succederà nei prossimi minuti. Inevitabile una caduta di tensione. Anche per questo forse non è riuscita a conferire il necessario carisma a quel mistero di carnalità e tragedia di cui Floria Tosca è intessuta, tanto nel libretto di Illica e Giacosa, quanto e soprattutto nella musica di Puccini. Tosca è un personaggio tutto sopra le righe, non si può cantare con voce “per bene”, non bastano la musicalità, il controllo accurato dell’emissione. Ci vuole un tocco di eccesso isterico che Buratto in questo caso non sembra aver trovato: forse appunto le mancava la giusta concentrazione? Diamole questo credito.

Più sicuro di sé il prestante tenore cileno, ma cresciuto in New Jersey, Jonathan Tetelman, appena 34enne e già affermato a livello internazionale, un Cavaradossi dal colore radioso e dallo squillo possente, con un gran mantice di fiato. Voce splendente, bel ganzo, non c’è dubbio, ma anche qui c’è un ma. Secondo noi Tetelman deve guardarsi da quello che potremmo chiamare l’“effetto Ken”, inteso come fidanzato di Barbie. Ottima presenza scenica, ma facciotta po’ inespressiva a dirla tutta, patinato ma di spessore attoriale non sempre adeguato. Il personaggio del pittore Mario Cavaradossi, idealista e libertario, presenta anch’esso i suoi problemi, in qualche modo opposti a quelli dell’amante inquieta: tanto quella è in preda alle passioni, tanto lui è a rischio di un buonismo inconcludente, può ricordare alla lontana il Don Ottavio dapontiano. Ci vuole dunque un interprete capace di sfumature sofferte, che gli diano spessore: Tetelman sembra invece più vicino a quello che una volta si chiamava tenore di forza e il suo «E lucevan le stelle» alla fine è più gladiatorio, strappa-applauso, che commovente.

Ma quello che ci ha deluso più di tutti è lo Scarpia del collaudatissimo Luca Salsi, che ha debuttato nel ruolo proprio all’opera di Roma nove anni fa, ottobre 2017 e che ricordiamo, tra le tante volte, in forma smagliante all’Arena di Verona nel 2023, nella Tosca della centesima stagione arenile, con la regia di Hugo de Ana. Qui purtroppo è parso anche lui poco concentrato, un po’ buttato via, come se questo Scarpia fosse per lui una pratica di routine. Figuriamoci. Il terzo protagonista di Tosca, al contrario degli altri due, è tutto d’un pezzo, il barone Vitellio Scarpia, crudele, libertino e corrotto capo della polizia borbonica, che deve soffocare la Repubblica Romana. Uno dei peggiori soggetti della storia del melodramma, persino a rischio caricatura, cui infatti Puccini dedica nel «Tre sbirri, una carrozza» del primo atto una delle pagine più complesse e musicalmente ardite di tutta la partitura, dove non è difficile cogliere dissonanze ed echi stravinskiani di folgorante modernità. Salsi lo canta senza esitazioni, ci mancherebbe, ma anche qui dando la sensazione della prassi, un lavoro da sbrigare, più che un impegno vocale e drammatico di prim’ordine. «Io sono un buono nella vita – spiega in un’intervista – ma poi mi calo nei personaggi da interpretare». Mah, gentile Salsi, dobbiamo dirle noi che non basta fare le facce da mangiafuoco per costruire un personaggio tanto scolpito? Diciamo che l’abitudine, e forse ancora una volta l’atmosfera raffazzonata dell’allestimento, non l’hanno aiutato.

A chiudere, purtroppo senza alleviare le perplessità, e non aggiungiamo altro per umana solidarietà, la direzione del povero Antonino Fogliani chiamato all’ultimo momento a sostituire Daniel Oren, “toscologo” di fama pluri-decennale, improvvisamente indisposto. Nulla ci leva dalla testa che questa indisposizione dell’ultima ora sia stato un diplomatico tirarsi fuori da un pastrocchio in cui non voleva – giustamente – mettere a repentaglio il proprio prestigio.

Che altro dire? Non vogliamo infierire anche sulla conduzione della diretta affidata a Cristiana Capotondi e Alessandro Preziosi. Della prima si è capito che non conosce assolutamente nulla di Tosca: intervistando Salsi nel primo intervallo gli ha fatto gli auguri per il secondo e terzo atto. Peccato che Scarpia venga notoriamente ucciso da Tosca alla fine del secondo atto e che quindi nel terzo non ci sia proprio. Più preparato Preziosi, un po’ a disagio anche lui nelle riprese esterne, ma tutto sommato ne è uscito bene. Non hanno aggiunto molto – e come potevano? – i cosiddetti vip intervistati dalla impacciata Capotondi: Federica Sciarelli, Noemi, Giuliano Sangiorgi dei Negramaro, Luca Barbarossa, e via cinguettando. Ma alla fine perché accanirsi tanto? Sui social prevale l’entusiasmo, oh che bello, oh che bravi! Quei 549mila dell’Auditel, quello share al 3,3 per cento non troncano ogni discussione? Per quanto mi riguarda, no.

Madama Butterfly

foto © Bettina Stoß

Giacomo Puccini, Madama Butterfly

Berlino, Philharmonie, 27 aprile 2025

(diretta streaming della versione da concerto)

I Berliner tornano a casa dopo Baden-Baden

Dopo le trionfali recite in forma scenica al Festspielhaus di Baden-Baden, i Berliner Philharmoniker tornano a casa loro e riprendono in due serate in forma di concerto Madama Butterfly. Stessa direzione musicale, quella del loro direttore Kirill Petrenko, e stesso cast vocale. Ghiotta occasione per riascoltare, con ancora maggior attenzione senza la “distrazione” visiva, un’interpretazione che ha stregato il pubblico, una delle più sconvolgenti degli ultimi anni.

In questa ripresa trasmessa in diretta streaming sul canale in abbonamento dei Philharmoniker, la Digital Concert Hall, complice una regia video attenta agli interventi strumentali, si ammira una volta di più la qualità dell’orchestra pucciniana messa in luce magistralmente dalla bacchetta di Petrenko, che pone in perfetto equilibrio la cura analitica dei particolari con il senso drammatico della vicenda facendo scoprire anche questa volta, come se fosse la prima, momenti di una partitura saldamente proiettata verso il futuro. Un esempio per tutti i valzerini intonati dagli archi nella scena di Yamadori e ancora alla fine del duetto di Cio-Cio-San con Suzuki, che sembrerebbero un evidente plagio del Rosenkavalier – se non fosse che l’opera di Richard Strauss è del 1911, sette anni dopo il lavoro di Puccini! Quei rubati, quegli indugi, quelle minime esitazioni Petrenko li inserisce anche nel coro a bocca chiusa, ponendo così sotto una nuova luce questa celeberrima e usurata pagina facendoci sentire ancora più palpitante l’attesa di Cio-Cio-San. La trasparenza di certe pagine rende più dirompenti i fortissimi orchestrali che giacciono sotto, come dormienti, in quest’opera di una drammaticità sconvolgente. E poi, che cosa dire della fluidità con cui dipana l’intreccio dei motivi ricorrenti, veri e propri Leitmotive, che innervano la partitura? Petrenko, inarrivabile interprete del repertorio tardo ottocentesco, riesce a rendere Puccini il più grande compositore di teatro di tutti i tempi con questa sua Butterfly, esaltando però anche la scrittura sinfonica delle pagine puramente strumentali, rese in maniera inarrivabile dai Berliner con il suono caldo degli archi, gli interventi da pelle d’oca del primo violino, la pienezza degli ottoni, la morbidezza dei legni, il rullo spietato dei timpani. Ogni elemento dell’orchestra meriterebbe di essere citato per lo splendido lavoro individuale che apporta all’insieme.

Soprano, tenore, mezzosoprano, baritono: Puccini riesce a dare nuova vita al tradizionale quartetto di voci, creando un’opera di grande modernità. Anche in questa esecuzione “oratoriale” si rimane stupefatti davanti alla personalità degli interpreti. Di Eleonora Buratto non si può che ripetere le lodi di una parte che ha già interpretato a New York nel 2022 e a Parigi l’anno scorso, così che ora quanto ne esce fuori è un distillato di eccellenza vocale piegato alle forme espressive più varie, dove il tono infantile e civettuolo, o quello drammatico o passionale ricevono perfetta soluzione. I dettagli dinamici sono evidenziati magistralmente non solo nelle scontate pagine di «Un bel dì vedremo» o di «Tu, tu, piccolo iddio», ma anche in ogni suo altro intervento, come i duetti con Pinkerton nel primo atto e poi con Suzuki nel secondo. Anche i momenti di gusto verista sono risolti con grande senso teatrale per accentare la drammaticità del momento, ma sempre tenendo presente la bellezza della linea musicale.

Nella recita di Baden-Baden in cui ero presente, Teresa Iervolino aveva fatto annunciare di essere indisposta e infatti la sua performance non aveva avuto la giusta intensità che qui invece si è rivelata nella sua totalità, donando a questa parte l’importanza drammaturgica che ha: Suzuki, con la sua rassicurante presenza, è il personaggio che cerca inutilmente di riportare la giovane padrona alla realtà. CoI suo timbro sontuoso e le qualità ben note di belcantista, Il mezzosoprano di Bracciano riporta un meritatissimo successo personale.

Se sulla scena il Pinkerton di Jonathan Tetelman, anche lui in una parte affrontata con frequenza nel recente passato, con le sue generose doti vocali sembrava aver fin troppo sottolineato il carattere fatuo e arrogante dello Yankee, a un secondo ascolto si ammira il lavoro di cesello fatto dal tenore americano, come nell’aria «Addio fiorito asil» dove inserisce un Si bemolle in diminuendo non espressamente previsto in partitura, ma bellissimo, o dove con mezze voci e cantabili suadenti riesce a rendere ancora più fascinoso il personaggio.

La voce di baritono è affidata da Puccini al console Sharpless, che il greco Tassis Christoyannis carica di una grande umanità, sincera empatia, fraseggio elegante ed espressivo. Esemplare il Goro di Didier Pieri, che riesce a delineare il viscido personaggio senza eccessive sottolineature e utilizzando solo mezzi musicali e vocali efficacissimi, senza risolvere nel parlato come talora accade. Perfetto anche il resto del cast con Il mezzosoprano Lilia Istratii (Kate Pinkterton), il baritono Aksel Daveyan (il principe Yamadori, i bassi Giorgi Chelidze e Jasurbek Khaydarov (rispettivamente lo zio Bonzo e il commissario imperiale). Prezioso l’apporto del Rundfunkchor di Berlino.

Madama Butterfly

foto © Monika Rittershaus

Giacomo Puccini, Madama Butterfly

Baden-Baden, Festspielhaus, 15 aprile 2025

★★★★

bandiera francese.jpg  ici la version française sur premiereloge-opera.com

Una Butterfly deluxe è il regalo d’addio dei Berliner Philharmoniker a Baden-Baden

Kirill Petrenko dirige a Baden-Baden una Madama Butterfly rivelatrice, asciutta e modernissima, con i Berliner Philharmoniker in stato di grazia. Eleonora Buratto è una Cio-Cio-San intensa e dignitosa, Jonathan Tetelman un Pinkerton vigoroso e sprezzante. L’allestimento di Davide Livermore, ambientato nel Giappone postbellico del 1978, unisce eleganza visiva e commozione. Trionfo finale con dodici minuti di ovazioni.

Con i suoi 2500 posti il Festspielhaus di Baden-Baden, tranquilla città termale del Baden-Württemberg occidentale, è il più grande teatro d’opera della Germania – l’unico altro teatro tedesco che abbia più di duemila posti è infatti il Nationaltheater di Monaco di Baviera. Ricostruito sul sito della vecchia stazione ferroviaria, di cui utilizza l’edificio principale per la biglietteria, il guardaroba e un ristorante mentre la parte nuova si sviluppa dietro in tutta la sua modernità, ospita ogni anno a Pasqua un festival di cui fa parte una produzione teatrale che quest’anno prevede Madama Butterfly diretta da Kirill Petrenko alla guida dei suoi Berliner Philharmoniker.

Com’era prevedibile, la lettura del capolavoro pucciniano da parte del direttore russo risulta non solo magistrale, ma per certi versi illuminante e rivelatrice. La partitura è liberata fin dall’inizio di ogni presunta sdolcinatezza, di sentimentalismo, di “puccinismo”: ascoltiamo la musica moderna del XX secolo, tagliente, snella e drammaturgicamente efficacissima. Petrenko mette in luce pagine che si rivelano quasi inedite, come gli struggenti valzerini alla Rosenkavalier nella scena del principe Yamadori, sette anni prima del lavoro straussiano! o, addirittura, certi momenti che anticipano The Turn of the Screw di Britten, ossia l’inciso di «Malo, malo» all’inizio dell’interludio dopo il coro a bocca chiusa. Ma anche senza spingere troppo in là il gioco dei richiami musicali, è indubbio che la partitura della Butterfly (1904) contenga straordinari elementi di modernità svelati in una esecuzione cameristica che riserva i pochi picchi dinamici ai momenti salienti del tragico finale o dell’apparizione dello zio Bonzo o dell’untuoso sensale Goro, quando Butterfly si difende dalle sue beffe nel secondo atto.

La musica di Butterfly ha una violenza di fondo che esplode in vere e proprie eruzioni strumentali, come nella scena d’amore del secondo atto, quando l’orchestra spara un lancinante fortissimo o quando dopo i timpani sembrano insinuare col loro tragico battito il fatto che Pinkerton non tornerà più. E poi il suicidio di Cio-Cio-San anticipato dal lamento dell’oboe nel cupo preludio. Altrimenti il suono è perfettamente amalgamato e rotondo, le fioriture esotiche nei loro giri pentatonici stupendamente ricreati, così come i delicati inserti dei fiati che sembrano provenire da un unico strumento, non c’è nulla che si sfilacci e gli archi, perfettamente fusi, assumono ogni rubato nella loro linea all’unisono. Questo è l’ultimo anno dei Berliner a Baden-Baden, il dodicesimo. Dall’anno prossimo tornano al Festival di Pasqua di Salisburgo. Miglior regalo d’addio non potevano fare.

Eleonora Buratto e Jonathan Tetelman sono già stati assieme nella Tosca diretta da Harding con l’Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia in una registrazione da poco pubblicata, ora si ritrovano per questa Butterfly e la loro interpretazione anche questa volta lascia il segno. La Buratto è passata da tempo da soprano lirico a soprano drammatico mantenendo però la purezza della linea del canto e la sensibilità interpretativa. Il suo timbro, allo stesso tempo scuro ma scintillante, la sua tessitura di ampio respiro e l’ammaliante legato ricreano musicalmente ogni sfaccettatura emotiva di questa donna coraggiosa che non perde mai la dignità e la sua imponente presenza scenica.

Il personaggio spregevole di Pinkerton è punito da Puccini drammaturgicamente, facendolo apparire molto nel primo atto, per niente nel secondo e pochissimo nel terzo, e qui nell’appena credibile aria di pentimento «Addio, fiorito asil» aggiunta solo in una versione successiva. A questo proposito, nell’attuale fase politica, la prima versione di Butterfly, dove lo scontro fra la cultura giapponese e quella americana è più netto e più forte la denuncia del colonialismo, sarebbe un modello perfetto per la critica all’America. Chissà se oggi Puccini otterrebbe il visto per entrare negli USA…

Jonathan Tetelman non fa nulla per rendere moralmente più accettabile il suo personaggio, ma utilizza il suo splendido strumento vocale e la prestanza fisica per rendere plausibile l’innamoramento della giovanissima giapponese per l’aitante yankee. Specializzatosi nel repertorio italiano, il tenore cileno-americano accetta la sfida con una prestazione esuberante, acuti abbaglianti tenuti anche più a lungo di quanto sia previsto in partitura sottolineando così la strafottenza e superficialità del personaggio.

Eccellenti gli interpreti secondari con un bravissimo Tassis Christoyannis quale Sharpless, il sempre efficace Didier Pieri come Goro, Giorgi Chelidze zio bonzo e lo Yamadori di Aksel Daveyan. Annunciata come indisposta, Teresa Iervolino ha comunque convinto lo stesso come Suzuki. Perfetto il Coro Filarmonico Ceco di Brno diretto da Petr Fiala.

Per la prima volta in un teatro tedesco, Davide Livermore ha ideato un allestimento che, anche senza abbandonare la sua cifra stilistica, risulta fondamentalmente tradizionale – c’è il Giappone, ci sono i kimono, i ciliegi in fiore… – e lineare nella narrazione. È però ambientato nel 1978, quando il figlio di Cio-Cio-San parte dall’America e arriva in Giappone per ritrovare le sue radici, la madre e la sua vicenda nel secondo dopoguerra, quando gli USA erano impegnati ad aiutare la ricostruzione del paese sconfitto. Con lui ha portato solo i disegni infantili che vediamo proiettati sugli schermi, e qui incontra la vecchia Suzuki, interpretata, come il figlio di Butterfly, da artisti di Butoh. Assieme rivedono i momenti passati come in un lungo flashback, un espediente che non interferisce in alcun modo con la fruizione della storia, ma aggiunge un elemento di commozione in più. Livermore non rinuncia certo all’apporto dei video della D-Wok con immagini di Nagasaki, di alberi in fiore, di cieli nuvolosi, del cerchio rosso del sole, delle montagne immerse nella nebbia, mentre Giò Forma crea una scenografia semplice ma efficace: una struttura che ruota o si ritrae nello sfondo, la «casa a soffietto» che nel terzo atto diventa una gabbia-prigione per la farfalla Cio-Cio-San che vediamo come in un teatro d’ombre cinesi.

Neppure i giochi di prestigio sono assenti nella regia di Livermore: uno solo, ma bellissimo e fulmineo, quando, come negli spettacoli di Brachetti, il vestito di Butterfly cambia in un istante dietro la bandiera a stelle e strisce che cade dall’alto. È il momento della svestizione per la prima notte d’amore, una scena risolta con molta eleganza dal regista che mette un alter-ego di Cio-Cio-San tra le braccia di Pinkerton, preservando così la purezza dell’amore della ex-geisha. La bandiera che nei video vediamo fluttuare stracciata nell’acqua nel finale diventa il sudario della donna suicida.

Con i costumi di Mariana Fracasso e le luci di Fiammetta Baldiserri la messa in scena conquista il cuore del pubblico e Livermore firma uno spettacolo che si rivela tra i suoi migliori. Gli oltre dodici minuti di standing ovation al termine per i creatori della parte musicale, con il sipario che si chiude e si riapre più volte dietro l’insistenza degli applausi, dimostrano la gratitudine per questo bellissimo regalo di Pasqua.

Madama Butterfly

Giacomo Puccini, Madama Butterfly

Aix-en-Provence, Théâtre de l’Archevêché, 13 luglio 2024

(diretta streaming)

★★★★☆

Il Giappone lontano di Puccini

In inglese “to put your foot in” significa fare un errore imbarazzante. È quello che letteralmente fa Pinkerton fin dal primo momento quando sotto lo sguardo della costernata Suzuki che porta un vassoio di acqua ci mette dentro il piede pensando serva a lavarlo. Non sarà l’ultima gaffe che il goffo yankee compirà verso la cultura del paese che lo ospita in questa messa in scena di Andrea Breth della Madama Butterfly a Aix-en-Provence.

Autore non dei più frequentati in questo festival – bisogna arrivare al 2019 per trovare qui un titolo di Puccini, la Tosca “decostruita” di Christophe Honoré, anche allora con Daniele Rustioni sul podio – non poteva mancare nel centenario della sua scomparsa. La regista tedesca mette in scena la “tragedia giapponese” come un Kammerspiel ambientato nei tempi e nei luoghi dell’azione originale, ma con un forte accento sulla psicologia dei personaggi e sulle loro interazioni. Proprio per esaltare le singole personalità, il coro non è presente in scena, dove invece ci sono dei figuranti muti con maschere giapponesi molto espressive nella loro stilizzazione. Efficace la semplice scenografia di Raimund Orfeo Voigt che ricrea con pochi mezzi la casa “a soffietto” sviluppata in orizzontale e davanti alla quale su un tapis roulant scorrono lentamente certi personaggi come figure di un carillon. Con i costumi di Ursula Renzenbrink e le luci di Alexander Koppelmann la drammaturgia lineare e “tradizionale” lascia spazio alle voci, alla musica raffinatissima di Puccini e al geniale testo di quei due scapigliati Illica e Giacosa che giocano con somma arguzia e intelligenza con le parole, come con le terzine di rime baciate di Sharpless – fortunato-toccato-sbocciato, assai-mai-Butterfly, giudizio-sposalizio-precipizio, scede(!)-fede-crede – o con Pinkerton, che interrompe la sua aria «Dovunque al mondo il yankee vagabondo» per chiedere al console che cosa vuole bere, e così «sprezzando i rischi» fa rima con wisky (sic)!

La lentezza dei movimenti, la staticità della figura di Cio-Cio-San inginocchiata che si pettina come nelle incisioni giapponesi di donne alla toilette, l’utilizzo di mimi e delle maschere del teatro Nō, il volo delle gru, tutto tende a sottolineare la distanza tra i due mondi della vicenda, la stessa che separava Puccini dal Giappone della sua epoca e che Andrea Breth evidenzia utilizzando una visione di quel paese secondo le immagini che circolavano a fine secolo.

Il direttore musicale dell’opera di Lione Daniele Rustioni, sul podio dell’orchestra del teatro che è anche coproduttore dello spettacolo, fornisce una lettura sensibile ed accurata della partitura, esaltandone senza troppe smancerie i momenti lirici e realizzando con precisione i passaggi contrappuntistici. Il secondo e il terzo atto sono eseguiti di seguito: il coro a bocca chiusa si collega direttamente al preludio del terzo atto formando una pagina sinfonica di grande bellezza ed emotività. 

In uno dei suoi rôle fetiche più convincenti, Ermonela Jaho, che festeggia proprio durante questa produzione il suo 50° compleanno, incarna una Cio-Cio-San di sconvolgente intensità. Da giovane ragazza fremente di innocente trepidazione, a donna ferma nella sua convinzione del ritorno dell’amato, alla coerenza con cui affronta il suicidio, così come aveva fatto il padre, la Jaho esibisce sicura tecnica ma soprattutto trasmette una forte idea del personaggio, come quando canta «Un bel dì vedremo» in pianissimo, ma con un filo di voce di grande proiezione. Il tenore inglese Adam Smith non esibisce grandi mezzi vocali, ma riesce a rendere Pinkerton ingenuo e goffo, non arrogante e quindi meno odioso del solito. Non ricorre al canto di forza, anzi utilizza piani e pianissimi e nel duetto raggiunge momenti di dolcezza veri ed emozionanti. Insomma, meglio così che un Pinkerton berciante e stentoreo. La Suzuki di Mihoko Fujimura si rivela migliore attrice che cantante, dalla dizione per di più poco comprensibile. Lionel Lhote è un signorile Sharpless dal fraseggio elegante mentre giustamente autorevoli sono lo zio bonzo di Inho Jeong e il Commissario Imperiale di Kristján Jóhannesson. Semplicemente perfetto il Goro di Carlo Bosi. Due ex allievi dell’Académie d’Aix-Marseille, Kristofer Lundin e Albane Carrère, danno vita al Principe Yamadori e a Kate Pinkerton.

Lo spettacolo è disponibile in video streaming sul circuito ArteTv.

Tosca

Giacomo Puccini, Tosca

Amsterdam, Muziektheater, 12 aprile 2022

 ★ ★ ★ ★ ★

(video streaming)

Kosky e Viotti assieme per Puccini

La straordinaria teatralità della Tosca di Sardou-Illica-Giacosa-Puccini incontra quella altrettanto geniale di Barrie Kosky alla Nationale di Amsterdam dove prende avvio la prima di tre produzioni che vedono il regista australiano e lo svizzero Lorenzo Viotti affrontare assieme Puccini. Dopo questa Tosca, seguiranno Turandot e Il trittico, una per stagione. Per ora il risultato è stupefacente sia a livello visivo che musicale.

Kosky non stravolge la vicenda originale dell’opera, ma ne dà una sua lettura che riduce all’essenziale questo thriller che anticipa la tecnica cinematografica, il nuovo mezzo espressivo che proprio in quegli anni iniziava a imporsi, cinque anni dopo che la locomotiva dei fratelli Lumière aveva fatto sobbalzare sulle sedie gli spettatori parigini. «Parto sempre dalla musica», dice Kosky in un’intervista, «Che cosa scatena? A cosa mira Puccini con la sua musica? Con Tosca, ho percepito un’astuta consapevolezza della modernità dell’opera. Tosca ha debuttato nel 1900, letteralmente all’inizio del XX secolo. L’opera non guarda indietro, ma avanti nella sua psicologia, nella sua combinazione di violenza, erotismo e sadismo. […] Ha aiutato enormemente la decisione di ambientare l’opera in un contesto contemporaneo piuttosto che in un contesto storico o in una sorta di passato operistico immaginario» e infatti il modo in cui Barrie Kosky prende il più grande thriller del teatro musicale e lo trasporta nel presente funziona alla grande. Il regista prima di tutto butta via tutta la zavorra della storia dello spettacolo: nella scenografia di Rufus Didwiszus il gigantesco palcoscenico rimane completamente vuoto, Angelotti irrompe da un buco nel pavimento sugli accordi brutali dell’inizio – e il sagrestano ne scoperà stizzito i detriti. L’interazione dei tre protagonisti si svolge in un ambiente spoglio, liberato da convenzioni e cliché: niente Madonna, niente crocifisso. Solo il cavalletto del pittore, i pennelli, i colori e un mazzo di fiori adornano questo vuoto. Della chiesa vediamo solo il pavimento e il vuoto lascia spazio a un gioco psicologico di massima densità che rende grandi le piccole e intelligenti sfumature di Kosky. Il regista trova spazio anche per la poesia: quando Scarpia dal mazzo estrae un fiore blu e ne gode il profumo, manda un segno segreto a Tosca, che in chiesa veste di blu innocenza…

Per il “Te Deum” del finale primo, Rufus Didwiszus espande la sua scatola nera fino a una pala d’altare vivente: i coristi passano la testa attraverso un gigantesco trittico pittorico che ora appare nella parete di fondo. Questo non solo ha un effetto teatralmente intenso, ma fa apparire le creature come sofferenti, uscite dall’inferno come proiezioni della mente di Scarpia: sono le vittime del carnefice o i torturati di altri assassinî della storia dell’uomo?

Nessun Palazzo Farnese nel secondo atto. Per Kosky siamo nella cucina dell’elegante loft di design di Scarpia. Alla parete sono appesi coltelli affilati: il carnefice ama preparare lui stesso il sashimi di salmone fresco, che mangia crudo e a fette sottili. Inoltre, c’è del vino bianco ben freddo, che serve anche alla signora con la quale sta concludendo un affare. La camera delle torture è sotto, vi si accede tramite una botola nel pavimento. Da lì uscirà Spoletta con un fazzoletto insanguinato contenente le dita della mano destra di Cavaradossi (un macabro finger food…) con ancora un anello che Scarpia sciacqua sotto il getto d’acqua del lavello e si infila soddisfatto. Il trash si mescola allo humour nero per dipingere la crudeltà dell’uomo che ha smesso il doppiopetto e alterna blandizie e minacce per arrivare al suo scopo con la preda. La sua uccisione da parte di Tosca avviene tradizionalmente con uno dei coltelli e non manca neppure l’atto di posare una croce sul suo cadavere come ultimo gesto di pietà della donna: era quella appesa alla catenina che Tosca portava al collo. «Vissi d’arte» è sempre considerata una pausa nel confronto snervante che si sta svolgendo sul palcoscenico, ma qui Kosky la fa sembrare totalmente credibile con Tosca che si rivolge a Scarpia per dargli un’ultima possibilità di pietà. Ma invano.

La terrazza di Castel Sant’Angelo del terzo atto qui è uno spazio nudo davanti a una parete di latta ondulata che ruota su sé stessa per mostrare una struttura a scale su cui si dispongono i militari per l’esecuzione del pittore e su cui sale Tosca per sfuggire loro e poi gettarsi nel vuoto. La struttura ruota un’ultima volta e le note finali sono sui corpi inermi e quasi affiancati dei due amanti.

Uno spettacolo come questo non avrebbe la forza che ha se la direzione musicale prendesse un’altra strada, ma qui l’intesa tra regista e maestro concertatore è totale: Lorenzo Viotti dimostra fin dove ci si può spingere con questa grandiosa partitura, osa tempi incredibilmente lenti che rafforzano ulteriormente la tensione di questo thriller ed esprime chiaramente l’audacia armonica, i commenti dei singoli strumenti e l’enorme modernità di Puccini. In due mesi di prove Viotti ha meticolosamente lavorato con i cantanti dando significato a ogni rubato e a ogni sfumatura. L’Orchestra Filarmonica Olandese dimostra che ogni momento è un tesoro: il delicatissimo assolo di clarinetto in «E lucevan le stelle» di Cavaradossi, sussurrato in pianissimo, è un esempio dei momenti di eccezionalità di quasi ogni battuta.

Il giovane tenore Joshua Guerrero ha sensibilità e baldanza, magari non una proiezione possente, ma sa usare bene le sue doti vocali. Neanche Malin Byström ha lo spessore vocale di certe Tosche del passato, lei proviene da Mozart e dal bel canto e la sua linea vocale non ha nulla di verista, ma proprio per questo la sua performance, unita alle capacità attoriali, è ancora più convincente. Notevole anche lo Scarpia di Gevorg Hakobyan, baritono armeno di grande personalità. In questa produzione così curata dal punto di vista dei personaggi si fanno notare per vivace presenza scenica il sagrestano di Federico de Michelis, l’Angelotti di Martijn Sanders, lo Spoletta di Lucas van Lierop, lo Sciarrone di Maksym Nazarenko e il carceriere di Alexander de Jong. 

Lo spettacolo è stato registrato e commercializzato su DVD Naxos.

Tosca

 

foto © Luna Simoncini

Giacomo Puccini, Tosca

★★★☆☆

Macerata, Arena Sferisterio, 22 juillet 2022

 Qui la versione italiana

Tosca dans l’Amérique maccarthyste

Le contexte historique précis de l’opéra de Sardou dans le livret de Giacosa et Illica – précis jusqu’à la date du 17 juin 1800, immédiatement après la bataille de Marengo, dont l’issue a consolidé le pouvoir de Napoléon – constitue la toile de fond d’une affaire de passions amoureuses qui voit finalement la mort violente des trois personnages. Cette toile de fond historique a souvent été abandonnée par certains réalisateurs, qui ont préféré situer l’histoire à des époques différentes comme celles du fascisme (Jonathan Miller), certains étant allés jusqu’aux « Années de plomb » (Barbara Wysocka) ou à notre propre contemporanéité (Calixto Bieito). Valentina Carrasco choisit l’Amérique maccarthyste du début des années 1950, mais conserve les références historiques puisque celles-ci font l’objet d’un film en costumes tourné à cette époque et dont la chanteuse Floria Tosca est l’une des interprètes…

la suite sur premiereloge-opera.com

Tosca

 

foto © Luna Simoncini

Giacomo Puccini, Tosca

★★★☆☆

Macerata, Arena Sferisterio, 22 luglio 2022

bandiera francese.jpg  Ici la version française

Tosca, la donna che  visse due volte

Inaugurazione all’Arena Sferisterio del Macerata Opera Festival con Tosca, un nuovo allestimento che era in standby da due anni a causa delle vicende pandemiche e che solo oggi ha visto la luce.

Il puntuale contesto storico dell’opera di Sardou nel libretto di Giacosa e Illica – preciso fino alla data, il 17 giugno 1800, subito dopo la battaglia di Marengo il cui esito consolidava il potere di Napoleone – fa da sfondo a una vicenda di passioni amorose che alla fine vede la morte violenta di tutti e tre i personaggi. Questo quadro storico è stato spesso dribblato da certi registi che hanno preferito ambientare la vicenda in tempi diversi come quelli del Fascismo (Jonathan Miller), c’è chi si è spinto agli Anni di Piombo (Barbara Wysocka) o alla nostra contemporaneità (Calixto Bieito). Valentina Carrasco sceglie l’America maccartista dei primi anni ’50 della caccia alle streghe del comunismo, ma mantiene i riferimenti storici in quanto questi sono il soggetto di un film in costume che viene girato all’epoca e in cui la cantante Floria Tosca è una delle interpreti.

In scena abbiamo a sinistra la roulotte di Scarpia, che è produttore della casa cinematografica ma anche agente di controllo delle “attività antiamericane” – vedremo infatti l’arresto del sagrestano “regista” e di altri lavoratori del film e si spiega così anche l’arresto dell’attore Cavaradossi – a destra il set cinematografico con la ricostruzione degli ambienti nei colori saturi del technicolor, mentre la realtà è grigia, in bianco e nero, come gli spezzoni documentari che vengono proiettati o le scene riprese in tempo reale da una telecamera mobile. E qui ci sono cose inutili come la vista delle torture a Cavaradossi – con l’involontario (?) omaggio a Buñuel del rasoio e dell’occhio di Un chien andalou – e altre più intriganti, come la ripresa fatta da Scarpia del «Vissi d’arte» di Tosca, o di humour nero, come quando Tosca finisce lo stesso Scarpia a colpi di cinepresa dopo averlo debitamente accoltellato: il voyeur viene punito con la sua stessa arma. Con il video è realizzato anche il teatrale suicidio della donna: dopo la fucilazione – vera, finta? qui comunque l’attore ci rimette la pelle! – Tosca scompare dietro la gigantografia di Castel sant’Angelo, sullo schermo la vediamo salire delle scale di legno e poi precipitare nel vuoto (questa volta chiaro omaggio allo Hitchcock di Vertigo, in italiano La donna che visse due volte) per poi giacere priva di vita sul palcoscenico.

L’espediente del “teatro nel teatro” talora funziona a fatica e non è sempre drammaturgicamente efficace: alcune cose sono inutili (la relazione di Scarpia con l’attrice che interpreta la marchesa Attavanti, con conseguente prole), altre sono inspiegabili. È condivisibile l’idea di «conservare epoca e arredi senza essere in quell’epoca e in quei luoghi, di avere quadro, cappella e acquasantiera senza essere in chiesa» come dice la regista intervistata da Jacopo Pellegrini sul programma di Sala, ma è la realizzazione che non sempre convince. Soprattutto è il primo atto il meno riuscito, il secondo e il terzo funzionano meglio. Scarsa la regia attoriale, con i cantanti lasciati a loro stessi senza una precisa indicazione interpretativa. Lo scenografo Samal Blak dissemina lo sterminato palcoscenico di oggetti significativi e Peter van Praet si occupa del gioco luci con efficacia. Silvia Aymonino disegna opportunamente i due generi di costumi: quelli settecenteschi com’erano visti dalla Hollywood degli anni ’50, e gli abiti di quella stessa epoca.

La realizzazione musicale è affidata al direttore musicale dell’Associazione Arena Sferisterio e decano interprete di quest’opera, ossia Donato Renzetti, che dà una lettura precisa e analitica del lavoro di Puccini con tempi dilatati che permettono sì di assaporare le qualità di una partitura modernissima – lo spettrale fruscio dei piatti durante «E lucevan le stelle» qui ha un effetto mai notato prima – ma difetta di tensione narrativa. Mancanza voluta e cercata dal maestro concertatore, che nel programma dichiara la necessità di «non lasciarsi prendere la mano da un eccesso di drammaticità» che qui però manca quasi totalmente. Nella sua lettura si scoprono raffinatezze armoniche e strumentali, ma non si viene presi dalla musica e per un’opera come Tosca non è cosa trascurabile. Dopo un attacco avventuroso degli ottoni, l’Orchestra Filarmonica Marchigiana riesce a mantenere un suono omogeneo e trasparente per il resto dell’esecuzione sotto la guida di Renzetti più attento però a quello usciva dalla buca che da quello che proveniva dal palcoscenico.

Nessuna grande rivelazione tra gli interpreti: Carmen Giannattasio è una Floria Tosca vocalmente efficace, a parte un vibrato un po’ largo, e rende molto bene «Vissi d’arte», ma è la personalità che manca, non c’è la teatrale presenza del personaggio. Lo stesso si può dire del Cavaradossi di Antonio Poli: bello il suo attacco di «E lucevan le stelle», però il cantante dopo le finezze vocali termina la romanza con il singulto di una cattiva tradizione mentre non particolarmente fascinoso è il suo  «Recondita armonia». Claudio Sgura è un autorevole Scarpia anche se un filino monocorde. Niente più che passabili gli interpreti secondari. Buona la resa del Coro lirico marchigiano “Vincenzo Bellini” istruito da Martino Faggiani e dei Pueri Cantores “D. Zamberletti” istruiti da Gianluca Paolucci. L’emozione di Sofia Cippitelli (pastorello) qui è resa realistica dal fatto che la regia presenta la scena come il provino cinematografico di una giovane.

Applausi non particolarmente calorosi per lo spettacolo, qualcosa di più per i tre interpreti e il maestro concertatore, ma il pubblico elegante della prima non sembra sia stato particolarmente coinvolto.

La bohème

Giacomo Puccini, La bohème

Roma, 8 aprile 2022

★★★★☆

(trasmissione televisiva)

Una Bohème in stile nouvelle vague conclude la trilogia televisiva di Martone

Per la terza opera del suo progetto teatrale/cinematografico Mario Martone, dopo Il barbiere di Siviglia e La traviata, affronta l’opera di Puccini. Ci sono state sì innumerevoli trasposizioni/versioni cinematografiche de La bohème, ma questa produzione è qualcosa di nuovo col suo inedito mix di teatro e cinema finora raramente tentato.

Sull’opera leggiamo che cosa ha scritto Dino Villatico: «[come] nel Falstaff […] l’opera non si spezza in singoli momenti formali, ma si presenta come una successione ininterrotta di conversazione tra i personaggi. Puccini coglie la novità e il compimento di una tradizione alla quale nemmeno lui voleva rinunciare. Nasce così La bohème, un’opera di perfetta conversazione ininterrotta tra i personaggi, con i suoi momenti lirici che però non spezzano la continuità. Sarebbe infatti sbagliato considerarli, come spesso si fa, arie o romanze: sono il momento lirico del dialogo, la sviluppo musicale necessario di ciò che precede e la premessa ugualmente necessaria di ciò che segue. Il dialogo – e non duetto! – tra Rodolfo e Mimì che chiude il primo atto ne è un esempio mirabile. La situazione – i due restano al buio, cercano la chiave, si parlano – non conosce un solo attimo di sosta, e ciò che sembra un arrestarsi dell’azione – non cercano più la chiave – è solo uno svilupparsi del sentimento dei due che si scoprono alla fine innamorati, l’azione dunque si trasferisce dai gesti esterni all’interiorità dei personaggi. Quella sorta di concertato finale che chiude il dialogo, con le voci degli amici fuori scena, è un riportare l’azione interiore al movimento indispensabile dei due innamorati che escono per raggiungere gli amici. La continuità drammaturgica è raggiunta, ma senza soffocare lo slancio lirico dei sentimenti nei momenti in cui il sentimento deve effondersi. Tutto ciò, questa continuità musicale dell’azione, è manna per un regista. Tanto più per un regista che voglia trarne un film».

Ed è quello che fa Mario Martone abbandonando il teatro Costanzi e portando il dramma di Mimì all’interno dei laboratori e raccolta scene, attrezzi e costumi del Teatro dell’Opera di Roma, tra officine di scenografia e pittura, depositi di costumi, attrezzeria scenica e falegnameria. Martone non mette solo in scena un dramma musicale, fa qualcosa di assai più complesso: «mette in scena un dramma musicale, fa teatro e facendo teatro fa un film, un film che è la rappresentazione di come si mette in scena un dramma musicale senza fare vero e proprio teatro, ma in realtà poi costruendo un’azione teatrale al quadrato, che è anche un film che mostra come si fa un film che non è cinema, ma è teatro che si fa cinema… Il film, così, appare come una riflessione su come si fa o si può fare oggi un film d’opera», ancora nelle parole di Villatico. Ed proprio il soggetto de La bohème, un gruppo di giovani che credono di poter cambiare il mondo, a prestarsi a una nostalgica rievocazione della nouvelle vague cinematografica. Gli esterni, che mescolano vedute di Roma e di Parigi, rimandano infatti a quella stagione rivista con nostalgia e tristezza. Che è il senso profondo del lavoro di Puccini.

Nei grandi spazi vuoti c’è posto anche per l’orchestra, che s’inserisce più volte nella rappresentazione. Michele Mariotti, che aveva destato meraviglia nella bellissima produzione bolognese con Graham Vick del 2018, qui ripete il miracolo a capo dell’orchestra del Teatro dell’Opera di Roma con la sua lettura sensibilissima, fresca e pulita. Le dinamiche sono precise e gli scoppi orchestrali mai debordanti, sempre calibrati e le finezze orchestrali della partitura magnificamente rispettate e rese grazie a un’orchestra che ha raggiunto un eccellente livello.

Il neo direttore musicale dell’ente lirico romano è più volte inquadrato in primi piani che mettono in evidenza la realtà di un’esecuzione musicale e non di una finzione realistica che racconti una vicenda: «niente è realistico, gli ambienti non sono quelli del libretto, ma è il laboratorio, i vari spazi del laboratorio, le sue terrazze. E tuttavia, il realismo cacciato via dalla porta, rientra dalla finestra dei primi pieni dei volti dei personaggi o meglio degli interpreti». Il tenore Jonathan Tetelman è un Rodolfo giovane e bello, ma dall’aria giustamente introversa. Utilizza con disinvoltura i cospicui mezzi vocali, talora forse troppo generosamente, con acuti solidi e luminosi, ma sa piegare la voce in un fraseggio ricco di colori e intenzioni. Non sempre ineccepibile è la dizione, con qualche doppia persa per strada. Federica Lombardi è una Mimì convincente per presenza vocale e attoriale anche se talora il soprano drammatico ha la meglio sul soprano lirico, dando però così maggior profondità al personaggio, che da timida e «gaia fioraia» diventa una vera giovane di oggi. Marcello trova in Davide Luciano un interprete di grande espressività mentre due poderose voci di basso sono quelle di Roberto Lorenzi (Schaunard) e Giorgi Manoshvili (Colline). Linea vocale non molto pulita quella di Valentina Naforniţă (Musetta), dove affiorano spesso suoni di gola e aspri. Senza fastidiose forzature comiche sia il Benoît di Armando Ariostini, sia l’Alcindoro di Bruno Lazzaretti.

Tutto sommato questo terzo pannello del trittico martoniano per la televisione convince meno degli altri due: l’idea è intrigante e ben realizzata, ma il continuo passaggio tra la “realtà” e la “finzione” talora sconcerta, come sconcertavano Truffaut, Resnais o Godard. Ma qui l’operazione è ancora più arrischiata, perché l’ambientazione non è quella contemporanea, come era quella dei registi della nouvelle vague francese, ma quella ai loro tempi, ossia gli anni ’60, come suggeriscono i costumi di Anna Biagiotti, il tipo di recitazione e la fotografia. E molto alla Truffaut è la scena della “Barrière d’Enfer” con la troupe cinematografica ripresa da lontano con le macchine della neve artificiale, che fa venire alla mente il suo film La nuit américaine (Effetto notte, 1973).

Come sempre il sonoro della ripresa televisiva non è dei migliori e appiattisce timbri e dinamiche dell’orchestra. La trasmissione è stata presentata da Corrado Augias che ha esordito dicendo che «nel romanzo originale di Murger siamo alla fine dell’Ottocento». Peccato che la vicenda sia ambientata negli anni ’40 e che il re – «Luigi Filippo! | m’inchino al mio re!» – sia morto nel 1850…

La bohème

foto Andrea Macchia @Teatro Regio Torino

Giacomo Puccini, La bohème

Torino, Teatro Regio, 13 febbraio 2022

Orlando Perera è andato a vedere la Bohème del Regio, in scena finalmente dal vivo. Queste le sue impressioni.

Torna la Bohème col profumo d’un tempo

Che si ricordi, mai opera al Regio di Torino ebbe vita tanto travagliata come questa Bohème storica. Calamità pandemiche e dissesti di bilancio si sono sommati in una miscela devastante. Era in cartellone per il marzo del 2020, e il Covid ha bloccato tutto. Si è provato a riproporla nell’autunno, quando pareva aprirsi qualche spiraglio per i teatri, sia pure a ranghi ridotti, ma la Commissaria Purchia, mandata nel frattempo da Roma, ha detto no per ragioni di costi. Arriva il 2021, e si decide di recuperare l’allestimento almeno in streaming, senza pubblico in sala, sul canale Classica HD di Sky, il 1° febbraio – 125esimo anniversario dalla prima assoluta in questo stesso teatro, direttore un 29enne Arturo Toscanini – e poi a pagamento fino all’8 febbraio sul sito del Regio (per inciso l’opera è ambientata in inverno, da Natale a febbraio appunto). Peccato che gravi problemi tecnici si frappongano e che il debutto smart debba essere rinviato di quattro giorni. Anche il sistema di pagamento on-line mostra qualche crepa e non facilita gli utenti. Finalmente i più tenaci riescono a farsi un’idea di questo spettacolo che vanta per le scene il recupero dei bozzetti originali 1896 di Adolf Hohenstein conservati nell’Archivio Storico Ricordi. Il direttore a sua volta è in qualche modo storico, lo stesso Daniel Oren che aveva diretto la Bohème del centenario il 1° febbraio 1996, con il duo Pavarotti/Freni quali Rodolfo/Mimì. Ma su questo spettacolo virtuale rimando alle recensioni uscite un anno fa, per occuparmi, dopo due anni di vuoto, del debutto fisico, con il pubblico in sala (tanto), di un’opera che con Traviata e Carmen si gioca il primato fra i titoli più rappresentati al mondo. Preciso che per ragioni mie non ho assistito alla prima, ma alla pomeridiana domenicale con la seconda compagnia di canto. Tra l’altro, rispetto al 2021 tutto il cast è cambiato, dal direttore al coro dei bambini del secondo quadro.

Per questo, e per non infierire sulle debolezze del nuovo organico di cui dirò dopo, preferisco puntare l’attenzione sull’aspetto rimasto invariato, e in fondo più interessante, cioè l’allestimento. Regia prudente, per non dire convenzionale del duo Paolo Gavazzeni e Piero Maranghi, che forse avrebbero dovuto curare maggioramente i gesti e le posizioni dei protagonisti, talvolta un po’ sperduti sulla scena. Divertente e giustamente animato però il secondo quadro. Il coro dei bambini che saltellano attorno al carretto dei giocattoli («Ecco Parpignol…col carretto tutto fiori»), per i quali è stato ripristinato per fortuna il coro di voci bianche di Claudio Fenoglio, e la festosa “Ritirata Militare”, che sfila trionfalmente sul palco sono i momenti più felici della regia. Scene e costumi ripresi rispettivamente da Leila Fteita e Nicoletta Ceccolini sui disegni tardo-ottocenteschi di Hohenstein, che hanno suscitato reazioni contrastanti. Visti dal vivo hanno certo un impatto molto diverso dallo schermo Tv o dal monitor del PC, i colori pastello ne sono esaltati, il velo che pare avvolgere la vicenda in una luce fané si può apprezzare solo così. Chi ne ha parlato come vecchiume stantio, e chi se n’è commosso, aggiungendo nuove lacrime a quelle di prammatica. Vediamo di fare ordine. Hoenstein, russo d’origine naturalizzato tedesco, pittore, scenografo, figurinista, è stato uno dei massimi interpreti del Liberty europeo nelle arti figurative, fondatore della cartellonistica italiana (fu tra l’altro maestro di Marcello Dudovich). I quattro quadri (anzi tre perchè l’ultimo riprende notoriamente il primo) disegnati per Bohème dopo più di un secolo conservano un’eleganza formale e una suggestione che non si discutono. Ma soprattutto una riconoscibilità immediata, come riportassero alla luce qualcosa che senza sapere abbiamo dentro di noi, quasi a sfogliare un vecchio album di foto di famiglia (del resto, non è questa la bellezza della musica di Puccini, o di Verdi?). Romantiche cartoline di una Parigi 1830 “circa”, con i luoghi canonici dove si consuma «la vita gaja e terribile» dei giovani protagonisti, descritta da Henri Murger nel romanzo Scènes de la vie de bohème che ha ispirato i librettisti Illica e Giacosa. La soffitta con il finestrone a destra, ritratta da Hohenstein con colori caldi, a lume di candela, alla Delacroix. Il Quartiere Latino e il Cafè Momus, che esisteva davvero, peccato che si trovasse non qui, ma dall’altra parte della Senna, sulla Rive Droite, in rue des Prêtres-Saint-Germain l’Auxerrois. Tant’è vero che nella ripresa attuale la via è meglio identificata rispetto al bozzetto di Hohenstein. E pazienza per la topografia. La Barriera d’Enfer sotto la neve del terzo quadro, che invece è ancora lì, a due passi dal cimitero di Montparnasse, anche se oggi si chiama Place Denfert-Rocherau. A ben guardare Bohème è una delle poche opere, con Tosca, Traviata, Rigoletto e poche altre, dove i luoghi del libretto sono reali. Non è un caso se i bozzetti di Hohenstein sono rimasti un punto di riferimento per innumerevoli allestimenti successivi, anche recenti. Da Zeffirelli, teatro alla Scala, 1979, in quella che rimane per me una Bohème di riferimento, direttore Carlos Kleiber, con Pavarotti/Cotrubas, alla citata Bohème del centenario qui al Regio con la regia di Giuseppe Patroni Griffi. Per i centovent’anni, nel 2016, arrivò invece la scena distopica del catalano Alfons Flores, per la regia di Alex Ollé direttore artistico della Fura dels Baus, dove un’enorme struttura tecno dominava il palco con effetti a dir poco stranianti. Se qualcuno mi chiede da che parte sto, mi pare sia chiaro. Ancora una volta si ripropone l’irrisolto dilemma: ma l’opera bisogna farla sempre allo stesso modo? Se non la adeguiamo al gusto attuale, non si rischiano l’effetto-museo e il rigetto delle giovani generazioni? Interrogativi irrisolti, che si ripropongono ogni volta di fronte al cosiddetto teatro di regia. Caso più recente il verdiano Macbeth di Davide Livermore che ha inaugurato la Scala lo scorso 7 dicembre, bersagliato anch’esso di polemiche. Questa Bohème rappresenta, degnamente secondo chi scrive, il gusto della tradizione, il sapore romantico e l’effusione delle passioni sotto l’ombra della morte, dettati dalla musica impetuosa di Puccini. Un contesto di valori ancora saldi e non fluidi, fondati ad esempio su una cura minuziosa dei particolari, della ricca attrezzeria di Bohème che hanno un ruolo scenico e musicale di prim’ordine. Dalla cuffietta rosa donata da Rodolfo a Mimì nel secondo quadro, al cappotto sdrucito, sulla strada del monte dei pegni, la «vecchia zimarra» di Colline alla fine dell’opera. Forse i miei capelli bianchi sono cattivi consiglieri, lo ammetto, ma per me tutto questo ha un suo preciso luogo della mente, che non può essere tradito. Siamo tutti saturi di regie e ambienti nazi-tech. Per quanto mi riguarda, lode dunque alla scelta scenica fatta dal Regio per segnare il suo ritorno alla vita.

Sul piano musicale si poteva fare meglio. Sempre si può fare meglio, e da un secondo cast, in un’edizione travagliata, non si può pretendere un’esecuzione di riferimento. Ho detto che non voglio infierire e mantengo la parola. I due protagonisti, il giovane poeta Rodolfo e la tenera ricamatrice Lucia chiamata Mimì (la Bohème è una storia tutta di giovani poveri e innamorati, per questo ci seduce tanto), Rodolfo e Mimì dunque sono notoriamente chiamati quasi subito alla prova, con due arie celeberrime appaiate, «Che gelida manina» e «Sì, mi chiamano Mimì». Una volta si sarebbero dette arie di sortita, perché in esse i personaggi si presentano l’un l’altro e al pubblico. In realtà sono due arie d’amore, apparentemente semplici ma irte di difficoltà nel fraseggio e nei repertini salti al registro acuto. Il do di petto che Puccini assegna a Rodolfo sulla parola «speranza» il giustamente impaurito Matteo Lippi, 38enne tenore genovese, lo abbassa di almeno un tono, e pazienza. Dove mostra la corda è però nel fraseggio secco e frettoloso che penalizza la smagliante partitura pucciniana. Meglio la Mimì di Francesca Sassu, giovane soprano sardo, dalla voce calda e morbida, è capace di arrampicarsi senza inciampare sugli acuti colmi di passione e di malinconia del personaggio. Come si usa dire, bene gli altri, come la sfrontata Musetta di Cristin Arsenova e il Colline di Bozhidar Bozhkilov con la sua toccante Vecchia Zimarra. Impeccabile come sempre, anche per le qualità attoriali, Matteo Peirone nel doppio ruolo di Benoît e di Alcindoro. 

Sul podio uno specialista del repertorio italiano come Pier Giorgio Morandi, già oboista alla Scala, poi assistente di Riccardo Muti, approdato infine a fama internazionale. Si sente che Puccini è nel suo cuore, il che lo aiuta nell’impervia, ricchissima orchestrazione dell’opera, dove accanto a un’inesauribile gamma di tinte musicali, si deve governare il frequente susseguirsi dei Leitmotiv, che il maestro di Torre del Lago ha mutuato direttamente da Wagner. Curioso che l’insuccesso della prima torinese del 1896 sia stato decretato a quanto pare proprio dalla fazione wagneriana… In ogni caso prova superata per Morandi, sempre tenuto conto dei difficili confronti che la popolarità dell’opera rende inevitabili.

Non resta che sperare, con qualche fondata fiducia, che la stagione del Regio prosegua finalmente con regolarità, magari sotto la guida di un nuovo sovrintendente che chiuda la parentesi mai esaltante del commissariamento. Apprezzabile la decisione assunta dal Consiglio d’Indirizzo di invitare gli eventuali candidati a una manifestazione d’interesse per questa carica oggi piuttosto ingrata, per il depauperamento subito dalla struttura gestionale e tecnica del teatro. Sommessamente osiamo sperare che per questa scelta non si faccia torto ai talenti che la città sicuramente già possiede.

    

La bohème

Giacomo Puccini, La bohème

★★★☆☆

Torino, Teatro Regio, 29 gennaio 2021

(video streaming)

Operazione nostalgia: a Torino la Bohème venuta dal passato

In tempi di pandemia i teatri italiani si rifugiano nel classico e nella tradizione ancor più che nei tempi normali: per il suo primo spettacolo in forma scenica dopo la chiusura per emergenza sanitaria la Scala ha riesumato uno spettacolo di quarant’anni fa, il Così fan tutte di Michael Hampe (1); il Regio di Torino, ancora commissariato, si spinge ancora più in là nel tempo e propone La bohème, l’opera di Puccini che aveva visto la sua creazione esattamente qui – beh, nel “vecchio” Regio. E proprio “quella” Bohème.

Doveva andare in scena nel marzo della scorsa stagione, ma il Covid-19 l’ha fatta annullare. Poi si è pensato di riprenderla in autunno, quando c’è stato uno spiraglio per i teatri con il pubblico ammesso a ranghi ridotti, ma il Commissario Straordinario, che nel frattempo era stato mandato da Roma, ha preferito tenere chiuso il teatro. Arriva il 2021 e si decide allora di aprire finalmente la nuova stagione recuperando lo spettacolo annullato per metterlo in onda il 1° febbraio, esattamente nel 125° anniversario della storica prima. Lo spettacolo viene registrato a porte chiuse il 29 gennaio e trasmesso subito dopo sulla rete con l’idea di renderlo poi disponibile in streaming come video on demand sugli schermi di tutti i computer, ma un problema tecnico ne impedisce la trasmissione per la delusione degli appassionati e ci vogliono ben quattro giorni per risolvere il problema. Un cervellotico sistema di vendita dei biglietti on line costringe poi il sottoscritto alla visione dello spettacolo solo l’11 febbraio.

Due registi, Paolo Gavazzeni e Piero Maranghi, una curatrice delle scene, Leila Fteita, e un’altra dei costumi, Nicoletta Ceccolini, danno vita a una Bohème che si basa sui bozzetti scenici originali di Adolf Hohenstein del 1896, disegni custoditi dall’Archivio Storico Ricordi e qui fedelmente riprodotti nei laboratori del teatro torinese. Scenografie che in verità non si discostano molto da quelle che vediamo ancora oggi in miriadi di Bohème in giro per il mondo, ossia una Parigi di metà Ottocento nostalgicamente riprodotta: la soffitta col finestrone sui «tetti bigi», il dehors del Café Momus nel Quartier latin con le luci calde dei lampioni e sul fondo le cupole del Sacré Coeur (piuttosto incongrue visto che la basilica dista sette chilometri al di là della Senna…) o la neve che imbianca la Barrière d’Enfer nel terzo quadro. Scene che fanno una certa tenerezza nella loro romantica ingenuità e i cui colori pastello probabilmente rendono meglio dal vivo, ma tant’è, ora è così, accontentiamoci di vederle sullo schermo.

Sul piano della regia vera e propria non c’è da aspettarsi nulla di nuovo: i due registi non prendono spunto dal distanziamento per proporre qualcosa di diverso e «Che gelida manina!» e «Vi starò vicina!» sono enunciati con gli interpreti a metri di distanza. Per il resto atteggiamenti e gesti sono quelli soliti, solo un po’ più impacciati, con i cantanti che non staccano un momento gli occhi dal direttore. Licenziato dal Commissario il Coro di voci bianche, il «Vo’ la tromba, il cavallin!…» viene “piagnucolato” da una fanciulla ben cresciuta, così come hanno superato l’età da marito quelle che formano la «turba di ragazzi che segue saltellando allegramente e circonda il carretto dei giocattoli» di Parpignol.

L’interesse maggiore di questa produzione va dunque alla componente musicale, affidata alla consolidata bacchetta di Daniel Oren che torna ancora una volta a quest’opera di Puccini con una stupefacente lettura della partitura, con tempi e rallentandi sorprendenti e dove le pagine più sinfoniche sembrano preparare gli slanci melodici che formano la struttura portante di quest’opera. I pianissimi e i colori strumentali sono di tale bellezza che quasi danno fastidio le voci…

Si scherza, ovviamente. La Mimì di Maria Teresa Leva è esattamente quello ci vuole: una voce di grande freschezza e liricità che emoziona giustamente nei momenti più toccanti in cui rivela grande sensibilità. Più guascone il Rodolfo di Iván Ayón Rivas, sempre troppo forte e che soprattutto negli acuti spinge molto sul fiato e difetta di naturalezza. Ottima anche l’altra interprete femminile, Hasmik Torosyan, Musetta fascinosa e dalla voce tecnicamente ben salda e perfettamente modulata. Massimo Cavalletti accusa anche questa volta in Marcello problemi di emissione e qualche incertezza di intonazione. Tommaso Barea è un efficace Schaunard mentre Alessio Cacciamani (Colline) è un giovane cantante che aspettiamo in futuro confermare il suo talento.

Superlativa la prova dell’orchestra: consola scoprire che questi mesi di forzata inattività non ne hanno minimamente intaccato la qualità.

(1) Impietoso il giudizio di Elvio Giudici su quello spettacolo: «Allestimento nato vecchio già quarant’anni fa, oggi inguardabile se non come reliquia fossile beninteso oh quanto “elegante”: quella “parola orrenda “ come direbbe Azucena, e purtuttavia stella polare dell’avanguardia della peggiore retroguardia teatrale, osannata da quanti perseverano nel ritenere vituperevole ogni scavo drammaturgico in favore d’un metafisico, asettico Bello Ideale che riduce una delle più dure, spietate, illuministicamente del tutto contemporanee descrizioni dei sentimenti umani a coccolezzi e moine da biscuit viennese più indigesto della giulebbosa Sacher…»