Mese: Maggio 2018

Margherita d’Anjou

★★★★☆

Una gemma riscoperta: il Meyerbeer italiano

Quarta delle sei opere italiane, ma primo vero successo della carriera operistica di Jakob Meyer Beer, Margherita d’Anjou appartiene alla “prima fase” del compositore tedesco innamorato del nostro paese tanto da cambiare il nome in Giacomo Meyerbeer.

La damnatio memoriae cui venne sottoposto il nome di Meyerbeer da Wagner – che non gli riconosceva l’evidente debito del suo teatro – aveva portato a un totale disprezzo della sua opera malgrado il successo popolare dei suoi grand opéra. Non ultimi erano i sentimenti antisemiti, spesso neanche celati, nei giudizi astiosi nei suoi confronti.

Fortunatamente ora si guarda con meno pregiudizio alle sue creazioni e di quest’opera di riabilitazione fa la sua parte anche questa messa in scena del benemerito Festival della Valle d’Itria, che ogni anno ripesca dall’oblio del passato lavori quasi sconosciuti che poi si rivelano piccoli o grandi capolavori. E tale è infatti questa opera semiseria, su libretto di Felice Romani che, dopo il debutto nell’Imperial Regio Teatro alla Scala il 14 novembre 1820 con un cast di prim’ordine e riscuotendo un gran successo, fu rappresentata in Europa in francese e in tedesco prima di venire dimenticata. Questa di Martina Franca è la prima rappresentazione scenica in tempi moderni.

Atto primo. Sulla riva di un fiume è accampato l’esercito di Margherita d’Anjou, vedova di Enrico VI. L’esercito è guidato da Orner e Bellapunta. Si brinda in onore della sovrana e si inneggia al suo coraggio. Guardingo e clandestino, Carlo Belmonte entra nell’accampamento; un tempo egli era al servizio di Margherita, ma ora è passato dalla parte di Glocester dopo essere stato da lei esiliato. L’arrivo di Margherita risveglia in lui dolorosi ricordi. La Regina ringrazia i suoi e promette, se la vittoria sarà dalla loro parte, di sdebitarsi per tanta lealtà. Il suono di una fanfara annuncia l’arrivo del Duca di Lavarenne. Carlo approfitta del tumulto per esplorare il campo e giura vendetta contro la Regina che l’ha privato della patria e dell’onore, riducendo lui, un tempo cavaliere inglese, a partigiano dei ribelli e spia. Nel campo si presenta Michele Gamautte, medico, musicista e barbiere. È in compagnia di Eugenio, in realtà Isaura, moglie di Lavarenne, travestita da uomo per aver accesso all’accampamento. Lei e il marito sono separati da cinque anni e la donna teme che fui l’abbia dimenticata per Margherita. Michele prova a rassicurarla. Entra il Duca e aggiorna Margherita sullo stato della guerra: le province di Somerset e Scozia sono dalla sua parte e prossimo è il momento di attaccare Glocester. Margherita pende dalle labbra di Lavarenne e dinanzi a tanta lealtà offre a lui il suo cuore. lsaura è sconsolata mentre nel campo già si pregusta la vittoria. Bellavista annuncia la presenza di due francesi. Si fanno dunque avanti Michele e Isaura/Eugenio. Lavarenne e la Regina sono colpiti ciascuno per una ragione diversa dalla gentilezza d’aspetto del giovane Eugenio e Margherita lo nomina paggio di suo figlio. Da solo nella sua tenda, Lavarenne decide di rivelare alla Regina l’esistenza del suo matrimonio con Isaura, prepara un biglietto per Margherita e lo affida a Eugenio, chiedendo che lo recapiti alla Regina qualunque cosa gli accada in battaglia. Un colpo di cannone allerta Lavarenne. Di corsa giunge Michele, che sospetta la presenza di spie nel bosco. In realtà si tratta delle truppe comandate da Glocester, chiamate in soccorso da Carlo. La voce e la devozione di Eugenio colpiscono Lavarenne. lsaura vorrebbe rivelarsi al marito ma si trattiene: il momento non è propizio. Lavarenne sta per partire, lei lo trattiene con un’ultima richiesta che lui esaudisce: che il paggio combatta al suo fianco. Tra i due si stabilisce una profonda intesa. Nella foresta, Carlo fa rientro dai suoi e li informa della imminente sconfitta di Margherita e dell’esercito di Lavarenne. Michele, che si è avventurato nel bosco,viene scoperto dagli Scozzesi. Per salvarsi spaccia ogni sorta di abilità; loro lo accolgono come loro medico, mentre dall’oscurità del bosco emergono, uno alla volta, Lavarenne, Isaura e Margherita. Gli Scozzesi tendono una trappola alla Regina, la catturano e stanno per ucciderla quando Carlo, al quale lei implora aiuto, le si presenta innanzi. Vedendo la Regina avvilita, Carlo passa dal risentimento alla depressione e gli si prostra davanti, implora un atto di grazia. Poi invita gli Scozzesi a giurarle fedeltà. Uno squillo di tromba annuncia l’arrivo di Glocester. Per mettere in salvo la Regina, Carlo propone che si travesta da contadina scozzese e che si nasconda nella sua capanna insieme al figlio. Lì aspetteranno il momento più propizio per partire. Tutti pregano che la buona sorte vegli sulle proprie vite.
Atto secondo. Manca poco all’alba e i montanari si preparano a godere della bellezza del giorno che viene. Margherita si guarda intorno: tra quella gente e quella natura sembra regnare la felicità. E allora riflette sul valore di un trono: esso serve a poco se non riserva che dolori e anche la ricchezza è un dono inutile se il cuore non è appagato. La Regina è inquieta, pensa al figlio e teme che sia in pericolo, ma i montanari la rassicurano. Giunge Isaura (ancora travestita da Eugenio) e la informa che il Conte è al sicuro. Poi le porge il biglietto che Lavarenne le ha scritto il giorno prima: Lavarenne le dichiara che non potrà mai essere suo, poiché egli è sposo di Isaura; e non potendo stare con lei, intende andar a morir lontano. Isaura svela alla Regina la sua vera identità. Margherita la sollecita a correre da lui, prima che egli possa partire. Lavarenne è combattuto, il suo cuore è diviso tra Isaura e Margherita, ma comprende che è ancora innamorato di sua moglie. In una capanna, Michele sente bussare e manda Carlo ad aprile. Gli si presenta Glocester, in cerca di Margherita e suo figlio. Glocester è incuriosito da Michele, dal suo strano accento e sospetta che non sia un vero Scozzese. Michele si spaccia però per un giramondo che ha esercitato ogni tipo di virtù e racconta di avere moglie e un figlio. Quando Michele gli presenta Margherita e il suo bambino, Glocester non si lascia ingannare, sguaina la spada ma Michele si inginocchia e protegge il bambino col suo corpo. Glocester riesce comunque ad afferrare il bambino e quando arriva Lavarenne, Glocester minaccia di ucciderlo se qualcuno osa arrestarlo. Il Duca si sente in trappola, ma l’intervento di Michele e Carlo disarma Glocester. Bellapunta si congratula coi suoi per la vittoria. Michele tenta di convincere Isaura che riuscirà a riconquistare il cuore del suo amato. Isaura è rassegnat, e non crede alle sue orecchie quando Michele le annuncia che Lavarenne è tornato da lei, pentito e innamorato. Margherita benedice la loro unione nella gioia generale.

Nella sua messa in scena Alessandro Talevi non si preoccupa che l’opera non sia conosciuta e l’affronta con una lettura ironica e straniante che forse è l’unica possibile: come si può prendere infatti sul serio la fantasiosa commistione di Storia vera – o perlomeno presunta tale – e storie personali, travestimenti, agnizioni, subitanee e improbabili conversioni di una strampalata vicenda degna di un’opera barocca di cento anni prima? In questo lavoro di Meyerbeer la retorica del melodramma fa a meno dei nessi fra musica, plot ed eventi storici, essendo qui solo un pretesto per mettere in scena dei cantanti che esibiscano qualità canore in numeri musicali miscelati in modo spesso inedito.

Il tema del doppio travestimento – Isaura/Eugenio e Margherita/contadina scozzese – suggerisce al regista l’idea dell’ambientazione durante la London Fashion Week, con tanto di sfilate di moda, sia femminile che maschile, che fanno il verso a quelle di Vivienne Westwood con i fantasiosi e provocatori outfit di Madeleine Boyd inglobanti accessori medievali, unico richiamo al tempo storico in cui è calata la vicenda. Poi ci si sposterà nella spa di un elegante club di golf scozzese dove il coro canta le gioie campestri, «Che bell’alba! Che bel giorno!», in accappattoi bianchi, ma sempre sotto l’occhio di una telecamera, che trasforma in un reality show questo episodio della Guerra delle Due Rose. Margherita è una famosa “regina” della moda; Michele Gamautte la star di una rubrica televisiva di cuori solitari che si occupa delle vicende amorose del triangolo Isaura-Margherita-Lavarenne, quest’ultimo un cantante pop; il duca di Glocester (sic) un magnate della stampa e i nemici scozzesi dei punk in kilt e creste colorate. In scena ci sarà anche il lettino dello psicanalista su cui si sdraierà prima Lavarenne per confessare le sue pene, «Ah! sì. Pur troppo, io sono il più infelice, | che sulla terra esista!», e poi anche Margherita, esautorata del finale da Isaura, e destinata alla solitudine di una gabbia dorata: «La grandezza è inutil dono, se contento il cor non è». Che poi anche il figlio Edoardo, ruolo muto, si trastulli con le Barbie svela la non conformità di questa famiglia.

Impeccabile l’esecuzione musicale di Fabio Luisi che esalta l’orchestrazione “tedesca” nei suoi raffinati particolari strumentali così come la cantabilità “italiana”, il suo punto di forza. Il modello è ovviamente Rossini (soprattutto Tancredi e Italiana in Algeri) che ritroviamo nei concertati perfettamente risolti e nella vocalità, talora spericolata, dei personaggi.

Margherita (al debutto nel 1820 fu il soprano Clementina Pellegrini) ha trovato in Giulia de Blasis un’interprete che ha superato efficacemente le difficoltà della parte pur se con qualche imperfezione. Lo stesso si può dire per l’Isaura (allora alla Scala Rosa Mariani) di Gaia Petrone. Il personaggio del Duca di Lavarenne fu affidato da Meyerbeer al Tacchinardi (tenore di tecnica superba, dicono le cronache del tempo) e ciò la dice lunga sulle richieste vocali della parte, di notevole estensione, affrontata qui spavaldamente dal russo Anton Rositskiy che nella cabaletta dell’aria di ingresso arriva al mi naturale per poi seminare di do acuti gli altri suoi interventi. Il timbro non è tra i migliori, ma la dizione è eccellente e il tenore è perfettamente a suo agio nelle agilità. Ingolata la voce del basso ex baritono Laurence Meikle, australiano di bella presenza, qui nella parte di Carlo Belmonte (in origine il Levasseur), così pure il Riccardo duca di Glocester di Bastian Thomas Kohl. Michele Gamautte, «chirurgo francese, sciocco esagerante», trova in Marco Filippo Romano la giusta dose di comico abbinata a una vocalità potente e un timbro ricco.

In quest’opera numerose sono le pagine che dimostrano la genialità del compositore che a buon ragione dovremmo finalmente affiancare a Rossini, Bellini e Donizetti nella storia della musica italiana prima di Verdi: dall’assolo di violino in «Dolci alberghi di pace» della grande scena di Margherita del secondo atto, al sorprendente terzetto di bassi, all’inatteso rondò di Isaura, contralto che nel finale ruba la scena al personaggio titolare. Se i direttori artistici dei nostri teatri lirici fossero un po’ meno miopi si dovrebbero affrettare a mettere in scena questo lavoro per rendere un po’ meno scontate le loro  stitiche programmazioni.

La registrazione è distribuita su due dischi per un totale di 160 minuti. Nessun extra, ma in rete si può trovare un’intervista a Talevi sulla produzione.

Il corsaro

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photo © Mirella Verile

Giuseppe Verdi, Il corsaro

Piacenza, Teatro Municipale, 6 maggio 2018

★★★☆☆

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Verdi si rivolge a Byron per la sua opera romantica

Chi è stanco di rivisitazioni e attualizzazioni può trovare nei teatri di provincia italiani confortanti allestimenti di tradizione, come questo de Il corsaro, l’opera di Verdi che neanche due mesi fa a Valencia era stata ambientata dalla regista Nicola Raab con Lord Byron in scena e la vicenda partorita dalla sua mente febbrile stimolata da alcol e droghe.

Più lineare la produzione del 2004 del regista Lamberto Puggelli, scomparso meno di cinque anni fa, che Grazia Pulvirenti Puggelli ha riproposto nel bel Teatro dell’Opera di Piacenza come omaggio alla memoria del marito. L’allestimento è stato proposto più volte nel corso degli anni ed è anche stato oggetto di una registrazione su disco.

Nelle intenzioni del regista è il mare evocato dal libretto a determinare la tensione drammatica di quest’opera romantica: «è un’opera che sa di mare, dove si sente il mare, come il Simon Boccanegra» ha lasciato scritto nei suoi appunti il regista e in scena c’è infatti la tolda di una nave. Le scenografie di Marco Capuana lasciano molto spazio al vuoto e alle luci di Andrea Borelli che assieme ai costumi di Vera Marzot puntano al nero (come le vele dei pirati) e al rosso (il cielo al tramonto, i bagliori dell’incendio, le vele degli ottomani). Qui le vele coincidono col sipario e i cordami con i tiranti del palcoscenico, quasi una metafora del teatro della vita del poeta/Corrado, eroe smanioso e insofferente della calma domestica che lascia la moglie per lottare contro la dominazione ottomana, salva dall’incendio dell’harem le donne, viene fatto prigioniero, fugge e ritorna, troppo tardi, alla fedele Medora dopo aver respinto l’offerta d’amore della bella Gulnara, la prediletta del pascià che lei ha ucciso nel terzo atto.

La tolda della nave fa da risonanza agli «animi illimitati» dei personaggi di Byron che vengono dipinti da una musica ora appassionata ora lirica nei tre atti in cui si sviluppa la vicenda mirabilmente condensata da Verdi in poco più che un’ora e mezza. I quattro personaggi non saranno psicologicamente molto definiti, ma risultano teatralmente efficaci.

Il primo che vediamo in questo allestimento è quello della sfortunata Medora che durante il breve preludio attraversa la scena con una lampada in mano quasi come un fantasma. La ritroveremo poco dopo nella stupefacente aria «Non so le tetre immagini», accompagnata dall’arpa che esalta il carattere inquieto di un canto che sa di rassegnazione, quasi presago del tragico finale in cui la donna, credendo Corrado morto, assume del veleno poco prima che il marito ricompaia così da morire fra le sue braccia. Serena Gamberoni, pur con un eccesso di vibrato, delinea con sensibile partecipazione il personaggio. La linea di canto è fluida nei passaggi di agilità, il fraseggio delicato e musicale, i colori della voce dipingono una malinconia quasi astratta, la presenza scenica è convincente.

In Corrado abbiamo il giovane Iván Ayón Rivas, pupillo di Juan Diego Flórez di cui condivide la nazionalità peruviana. Il carattere da eroe perduto e maledetto sommariamente definito dal librettista Francesco Maria Piave viene reso dal tenore con slancio e generosità di mezzi vocali con acuti spinti al massimo e con un canto molto aperto che trascura talora i momenti di più delicata musicalità della parte. Il sincero entusiasmo e la potenza sonora con cui ha eseguito la sua performance hanno compensato la mancanza di particolari sottigliezze interpretative e una presenza scenica ben lontana dalla figura di eroe romantico o di aitante pirata che ci si potrebbe immaginare, ma hanno soggiogato il pubblico che ha risposto con entusiasmo alla sua prova.

La sensuale Gulnara è resa con temperamento da Roberta Mantegna il cui timbro di voce un po’ metallico all’inizio rende il personaggio esoticamente seducente, ma dopo un po’ stanca e si preferirebbe un’emissione più dolce. Tecnicamente comunque il giovane soprano tiene testa alle complessità della parte dalla scena dell’harem in cui fa conoscere il suo indomito carattere («o vile musulman, tu non conosci […] qual alma io chiuda in petto!»), al risveglio dell’amore per il suo salvatore, al momento in cui lusinga Seid per salvare l’amato mentre negli “a parte” medita vendetta, all’infuocato duetto con Corrado prima di uccidere il pascià, al lancinante terzetto finale cui si unisce Medora morente.

Senza particolari profondità psicologiche è anche il personaggio di Seid, ma Simone Piazzola riesce a dare una certa dignità anche a questo “cattivo” con un canto che ha una sua eleganza e con una bella presenza scenica, anche se la voce non ha una particolare sonorità e la dizione è un po’ impastata.

Ritroviamo il parossismo degli affetti di questo lavoro popolare di Verdi nella direzione energica di Matteo Beltrami. La concertazione del direttore genovese è convincente per la scelta dei tempi, un po’ meno per quella dei volumi di suono: nella riccamente decorata sala ottocentesca del Municipale, tra orchestra, coro e solisti si ingaggia talora una gara di decibel che porta il livello sonoro a limiti quasi insopportabili dalla mia poltrona in terza fila. A parte questo, è comunque evidente l’intesa con i cantanti. La concertazione delle voci è sempre accurata, la resa orchestrale soddisfacente e ottima la performance del coro del teatro con attacchi precisi e buona intonazione.

Věc Makropulos

Leoš Janáček, Věc Makropulos (L’affare Makropulos)

direzione di Pinchas Steinberg

regia di Luca Ronconi

Torino, Teatro Regio, 9 dicembre 1993

Doppietta Makropulos

Venticinque anni fa Torino si era dedicata in pieno all’Affare Makropulos con una doppietta molto stimolante: in scena al teatro Regio il lavoro di Leoš Janáček in lingua italiana (cosa che oggi sarebbe impensabile!), al Carignano la pièce teatrale di Karel Čapek da cui l’opera è tratta.

Nelle parole di Luca Ronconi, il regista di entrambi gli allestimenti, «il progetto nasceva insieme, proprio con l’idea di mettere in scena il testo in prosa e l’opera. È stato molto interessante lavorare contemporaneamente a questi due spettacoli, nell’opera si va più sul metafisico, è più incentrata sulla protagonista, Emilia Marty, e ci sono meno personaggi rispetto alla commedia; il testo di Čapek ha invece uno spirito più paradossale. Avevo due straordinarie protagoniste, molto seducenti, come Mariangela Melato per la commedia e Rajna Kabaivanska per l’opera, c’era una bella competizione amichevole tra le due, l’una è andata a vedere lo spettacolo dell’altra. Il lavoro di Janáček più che melodramma è teatro musicale». Due prime donne per interpretare l’enigmatica figura di Elina Makropulos, un solo regista, ma due diversi scenografi: Margherita Palli al Regio e Carlo Diappi al Carignano. Carlo Diappi disegna anche i costumi anni ’20 dei cantanti, tra cui José Cura (Albert Gregor), Laura Cherici (Kristina) e Ugo Benelli (il vecchio Hauk-Sendorf).

Un impianto scenografico in diagonale quello della Palli con una pista che attraversa delle librerie oblique e minacciosamente incombenti che formano un’atmosfera surreale: «È difficile raccontare, in poche righe, l’infallibile esattezza dell’allestimento […] Al taglio essenziale della musica corrispondono le geometrie sghembe e i lunghi piani sui quali i personaggi giungono da irreali distanze in un mondo convulso e frantumato. E in esso si muovono: caratteri diversi, disegnati con straordinaria varietà e precisione, e tuttavia legati, come marionette, al filo di un destino manovrato da altri. Tra di essi, guidata da un’implacabile volontà e tuttavia già segnata dalla morte, si erge la fatale protagonista, bellissima e cadente, avida di vita e logorata dai secoli». (Dino Villatico)

«Nel punto cruciale, quando assume la sua età smisurata, la protagonista si rappresenta in una transizione rapinosa: in fondo, si libera dall’orrore della morte quando rivela l’orrore del suo corpo in disfacimento; e muore in una sequenza indimenticabile, come una grande farfalla notturna, una tragica marionetta che sente il suo corpo disperato liberarsi dai lacci e tiranti che la tenevano su con un necromantico artificio». (Giorgio Pestelli)

Per la ripresa dello spettacolo alla Scala nel 2009 – ovviamente nella lingua originale – ecco due giudizi del tutto antitetici. Quello di Enrico Girardi: «La ripresa di un allestimento di anni e anni prima è sempre una prova del nove. Gli spettacoli così così naufragano, quelli nati già vecchi diventano improponibili, quelli buoni invecchiano bene, quelli ottimi possono persino migliorare. Ed è questo il caso del Caso Makropulos di Leoš Janáček nell’edizione prodotta nel 1993 a Torino[…] Le scene di Margherita Palli sono paradossalmente ‘fedeli’ […] ma sghembe. Sembra una messinscena in 3D ma di prima del digitale. Perfetta per questa musica e per questa drammaturgia […] anche perché ‘interpretata’ da una gestualità e una recitazione congrue a tal contesto. In ciò sta il punto di forza di questa ripresa: un cast che fa del canto e dello stare in scena un tutt’uno, cantanti che sanno quel che stanno dicendo e perché dirlo in quel modo». Ecco invece quello di Elvio Giudici: «Lo spettacolo di Luca Ronconi, nato nel ’94 (sic) a Torino, è parecchio invecchiato: una delle sue consuete megacostruzioni, stavolta librerie strapiombanti di sbieco su una passerella ad angolo retto librata in aria, che poi sta lì e non serve a niente, mentre il ben più decisivo lavoro sui personaggi è solo sbozzato»!

Mariangela Melato e Riccardo Bini nello spettacolo di prosa

La favorite

Gaetano Donizetti, La favorite

★★★☆☆

Firenze, Teatro del Maggio Musicale, 22 febbraio 2018

(live streaming)

Amore sacrilego e conflitto tra corona e chiesa nell’intimo grand opéra di Donizetti

Se è complessa la storia compositiva di questo lavoro Donizettiano, non lo è da meno la vicenda delle sue rappresentazioni, con le varie traduzioni dell’originale francese. Quest’ultimo si è imposto finalmente anche qui in terra italica, come in quest’ultima produzione proveniente da Barcellona che per la prima volta viene presentata a Firenze. Giusta e sacrosanta l’idea di optare per la versione originale, che si impone nettamente rispetto alla traduzione italiana, ma qui il francese dei coristi è piuttosto approssimativo e nei solisti le parole talora sono inventate e le frasi incomprensibili.

Il solo con una dizione accettabile è Mattia Olivieri, re Alphonse dalla linea elegante, il canto espressivo e molto sfumato. È la sorpresa della serata e col suo mantello rosso rappresenta una presenza scenica necessaria in tutto quel nero e grigio. Léonor de Guzman è interpretata con intensità dal mezzosoprano Veronica Simeoni, bel fraseggio, timbro piacevole, ma le note estreme sono un po’ intubate. Celso Albelo è come sempre vocalmente strepitoso e per una volta scenicamente efficace nella figura un po’ imbelle  di Fernand. Balthasar nobile ma non di grande carattere quello di Ugo Guagliardo. Ottimo il coro del teatro impegnato in pagine magari non essenziali ma piacevoli.

C’è subito aria da grand opéra nelle note dell’ouverture, che richiama i temi che ascolteremo nel corso del lavoro. Fabio Luisi debutta da operista nel teatro di cui sarà a breve il direttore musicale e opta per un buon equilibrio tra pomposità francese e cantabilità italiana, senza una sbavatura, mettendo in luce la preziosa strumentazione donizettiana (si trattava di un debutto parigino, il compositore doveva dare il meglio di sé) accompagnando con cura i cantanti in scena. Ovviamente i ballabili sono tagliati, il che rende ancora più atipico questo lavoro ibrido.

Peccato per la messa in scena di Ariel García Valdés: è del 2002 ed era brutta già allora. Ripresa da Derek Gimpel è totalmente priva di una regia per dare significato ai movimenti dei cantanti e delle masse. La scenografia consiste in uno scoglio nero in mezzo al palcoscenico, ovviamente rotante per suggerire i luoghi dell’azione, ma per nessuno di questo risulta idoneo: certo non per il convento del primo atto, non per la galleria da cui si ammira l’Alcazar dell’atto secondo, tanto meno per l’Alcazar del terzo o il chiostro del convento del quarto. Sarebbe piacevole il gioco di luci che colorano il fondo di Dominique Borrini, ma sono brutti gli occhi di bue che seguono i personaggi come in uno spettacolo di rivista. I costumi di Jean-Pierre Vergier rasentano il ridicolo  per le parrucche delle donne e per gli abiti degli uomini: gonna pantalone e cache sex rigonfio, soprattutto quello del re. Ecco dove si concentra il potere…

La musica che si è ascoltato risuonerà a luglio in altra veste: a Londra è prevista l’esecuzione in forma di concerto de L’ange de Nisida, lo sfortunato lavoro che per il fallimento del teatro parigino cui era destinato non poté mai andare in scena e venne frettolosamente rielaborato per il Théâtre de l’Académie Royale de Musique diventando appunto La favorite.

La donna del lago

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Gioachino Rossini, La donna del lago

★★★☆☆

Losanna, Opéra, 22 aprile 2018

(live streaming)

Il contraltista del lago

Che succede quando il regista non crede all’opera che mette in scena e la vede come unico pretesto per esibire la sua mirabolante vocalità? Che lo spettacolo gira a vuoto e non coinvolge, come succede con questa Donna del lago secondo Max Emanuel Cenčić.

Nulla è preso sul serio: tutto è maliziosamente sfasato, decontestualizzato, messo in ridicolo. Elena è una Madame Bovary persa nella lettura di The Lady of the Lake, il romanzo di Scott da cui è tratta la vicenda, che si “immerge” in un quadro onirico e licenzioso di un elegante lupanare del tardo secondo impero con giochi d’azzardo, donnine svestite, uomini in cilindro, pratiche sadomaso. Questa sarà la scena unica in questo allestimento dell’opera di Rossini che si avvale delle scene e dei costumi, peraltro magnifici, di Bruno de Lavenère, con il lago che appena si intuisce nei video di Étienne Guiol. Molti i décalage operati dal regista: i personaggi hanno maschere animalesche, l’annuncio di Serano dell’avanzamento del nemico avviene al tavolo di una roulette, Rodrigo è minacciato da un satiro infoiato, il duello è una scazzottata oggetto di scommesse e nell’ultimo quadro è ancora Rodrigo, redivivo, che serve il tè alla moglie destatasi dall’incubo. Chissà che idea si saranno mai fatti gli spettatori di questo capolavoro mai presentato a Losanna.

Come aveva fatto Franco Fagioli nella Semiramide di Nancy, anche il contraltista Cenčić riserva per sé un personaggio, quello di Malcom, che in originale fu un contralto en travesti, Rosmunda Pisaroni della prima del 24 ottobre 1819 al San Carlo di Napoli. Non c’è coloratura o ornamento che non venga gloriosamente realizzato da Cenčić, livrea di cameriere e benda nera su un occhio. Lena Belkina veste i panni che furono di Isabella Colbran come Elena, «loclinia vergine» che qui però si porta a letto il re e amoreggia col domestico. Nella prima parte il timbro un po’ aspro delinea una donna tutt’altro che sognatrice e romantica mentre nella seconda il soprano sfoggia le sue brillanti agilità con sicurezza. Rodrigo trova in Juan Francisco Gatell la giusta linea di canto ma gli acuti sono tirati. Giacomo/Uberto (Giovanni David alla prima storica) ha nel liederista Daniel Behle mascherato da Napoleone III un elegante interprete che però ha qualche difficoltà nelle agilità e sembra stremato in «O fiamma soave» e nel successivo duetto con Elena. Daniel Golossov presta il bel timbro severo a Duglas d’Angus. Rilievo insolito hanno i personaggi secondari di Albina e Serano, qui gli efficaci Delphine Gillot e Tristan Blanchet.

Con un coro non proprio inappuntabile dagli attacchi imprecisi e sbandamenti di intonazione, alla guida dell’Orchestre de Chambre dell’Opéra de Lausanne George Petrou applica alcuni tagli ai recitativi e sfodera una direzione piena di energia.