Mese: gennaio 2025

Stagione Sinfonica RAI

Dmitrij Šostakovič, Scherzo n° 2 in Mi bemolle maggiore per orchestra op. 7

Dmitrij Šostakovič, Concerto n° 2 in Sol maggiore per violoncello e orchestra op. 126
I. Largo
II. Allegretto
III. Allegretto

Igor’ Stravinskij, Petruška, scene burlesche in quattro quadri
I. La fiera della settimana grassa
II. La stanza di Petruška
III. La stanza del Moro
IV. La morte di Petruška

Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI, Patrick Hahn direttore, Truls Mørk violoncello

Torino, Auditorium RAI Arturo Toscanini, 30 gennaio 2025

Petruška, burattino educato

In questi giorni sul palcoscenico del Regio, trasformato in un teatro di marionette, il Nemorino dell’Elisir d’amore di Donizetti diventa Pinocchio; all’Auditorium Toscanini, invece, per il 10° concerto della stagione dell’Orchestra Sinfonica Nazionale rivivono le vicende del burattino Petruška, innamorato della bella Ballerina che però gli preferisce il Moro, nelle musiche per balletto che Igor’ Stravinskij scrisse per la stagione 1911 dei Ballets Russes di Sergej Djagilev…

(il seguito su Le Salon Musical)

L’elisir d’amore

foto © Mattia Gaido

Gaetano Donizetti, L’elisir d’amore

★★★★☆

bandiera francese.jpg  ici la version française sur premiereloge-opera.com

Torino, Teatro Regio, 28 gennaio 2025

Il mondo di legno di Nemorino

Arriva dalla platea Nemorino: parka, borsa di plastica con bottiglie che finiranno nel frigorifero del suo laboratorio di burattinaio sporco di segatura e ingombro di ciocchi di legno. Sul fondo le marionette pronte per la consegna, sul tavolo di lavoro una marionetta femminile a cui mancano ancora pochi tocchi. Ma Nemorino ne è già innamorato: un po’ Geppetto, un po’ Pigmalione, il creatore si è invaghito della sua creatura. Ma non sarà inghiottito dalla balena, bensì dal suo onirico subconscio.

Burattinaio improvvisato, «non avendo trovato un suo posto nel mondo, [Nemorino] crea un suo mondo di legno», dice il regista Daniele Menghini, e tutta la vicenda del libretto di Felice Romani diventa così una soggettiva del giovane che si trova a fare i conti con l’amore per la prima volta. Da una parte c’è un uomo fragile, genuino e semplice, dall’altra personaggi caricaturali, farseschi, delle maschere, appunto. Nemorino quindi è l’unico essere umano, tutti gli altri sono burattini. Ma mentre la sua creatura di legno acquista sempre più le qualità umane della ragazza Adina, il giovane si trasforma invece in burattino, in Pinocchio. Ed ecco allora Dulcamara diventare Mangiafuoco, mentre una inquietante figura mezzo Grillo Parlante mezzo Fata Turchina passeggia sgranocchiando gli arti di legno del burattino che era stato portato in scena in una bara trasportata dai lugubri conigli della fiaba di Collodi. Però nel gioioso lieto fine Nemorino riacquista la sua totale umanità e scappa con l’amata passando nuovamente per la platea.

Spettacolo ricco – forse troppo – e carico di simboli quello del giovane e talentuoso Daniele Menghini di cui era stato molto apprezzato Un ballo in maschera al recente Festival Verdi. Arriva da un altro Teatro Regio, quello di Parma, questo Elisir d’amore e piace al pubblico, anche perché il regista riesce a conquistarselo con la sua sicura tecnica teatrale, talora anche troppo esibita, e immagini di grande suggestione. Niente villaggio campestre, covoni di fieno e mietitori: i costumi settecenteschi di Nika Campisi richiamano quelli delle marionette della Fondazione Grilli (a Parma erano quelli del Museo Giordano Ferrari) mentre le scenografie di Davide Signorini ricreano un mondo cupamente onirico che ricorda Freaks, il film di Browning, con una incombente gigantesca mano da cui pendono i fili delle marionette mentre le luci di Gianni Bertoli sottolineano l’artificialità dell’ambiente. 

Se la complessa drammaturgia messa in atto dal regista per una vicenda così semplice e immediata può non aver convinto tutti, non sembrano invece esserci state riserve sulla qualità dell’esecuzione musicale affidata a un sicuro concertatore quale Fabrizio Maria Carminati che della partitura ha dato una lettura corretta e precisa, esaltandone il tono patetico quando necessario con tempi comodi e con una bella ricerca di colore strumentale. A suo onore anche l’aver eseguito l’opera nella sua interezza aprendo i tagli di tradizione e ripristinando i da capo. Apprezzatissimi sono stati gli arguti interventi al fortepiano di Paolo Grosa con i suoi accenni al Don Pasquale o alle musiche del Pinocchio televisivo di Comencini.

Del quartetto di cantanti principali il migliore è il Belcore di Davide Luciano, grande proiezione ottenuta senza ispessire o strangolare la voce, eleganza di fraseggio e convincente presenza scenica. Non è da meno il simpaticissimo Nemorino di René Barbera, parte da lui spesso frequentata, dal bellissimo colore timbrico messo in luce, assieme alla grande tecnica, nelle due arie solistiche nel finale del primo atto e poi nella celeberrima «Una furtiva lagrima», che non è stata bissata solo perché, da grande artista qual è, non ha voluto eccedere nei facili effetti mantenendo una linea vocale di grande purezza. Paolo Bordogna si dimostra come sempre uno straordinario attore, ma il suo Dulcamara è inferiore alle aspettative per comicità, colore della voce e potenza. E spesso con ricorso al parlato.

Infine Federica Guida. A me non piacciono le Adine soubrette, ma qui il soprano palermitano sfoggia un temperamento eccessivo per il personaggio, con un timbro non molto piacevole, un’emissione sempre troppo forte e qualche grido di troppo. Convincente è la Giannetta di Albina Tonkikh del Regio Ensemble e ottimo il coro che non solo si dimostra eccellente musicalmente sotto la guida di Ulisse Trabacchin, ma sta migliorando sempre più la sua presenza scenica, qualità non sempre evidente nei cori italiani. Si era già notata nella Manon Lescaut di Auber – di cui si vorrebbe vedere Le Philtre, tratto dalla stessa pièce di Scribe, e un tempo molto popolare in Francia – e anche qui i movimenti e la gestualità, con il concorso dei bravi mimi-ballerini, sono risultati estremamente efficaci.

Accoglienza molto calorosa del pubblico con applausi particolarmente intensi per gli interpreti maschili. Nelle successive repliche si alterna un cast altrettanto prestigioso.

Giovanna d’Arco

foto © Roberto Ricci

Giuseppe Verdi, Giovanna d’Arco

Parma, Teatro Regio, 24 gennaio 2025

★★★★☆

La pulzella censurata

Frutto degli “anni di galera” – risultato di un lavoro frenetico: in meno di un mese Verdi aveva intonato il testo e iniziato a strumentare l’opera – Giovanna d’Arco al suo debutto il 15 febbraio 1845 al Teatro alla Scala ebbe uno schietto successo di pubblico, ma grosse riserve dalla critica. Dovettero passare 24 anni prima che il compositore ritornasse nel teatro milanese.

Nel libretto di Temistocle Solera i venticinque personaggi del dramma di Schiller Die Jungfrau von Orleans (La pulzella d’Orléans, 1801) erano ridotti a cinque, ma solo tre i principali. Se nel lavoro originario Giovanna d’Arco si innamorava di un nemico inglese, qui s’innamora nientemeno che del re francese Carlo VII e, come nel testo di Schiller, non si immola sul rogo, ma muore in battaglia. Nel testo del Solera viene esaltato un tema caro al compositore, quello del rapporto tra padre e figlia, dove Giacomo è l’invasato che all’amore paterno sovrappone il suo fanatismo religioso, mentre la figura di Giovanna viene investita di aspirazioni nazionalistiche che procurarono non pochi guai con la censura dell’epoca, essendo la vicenda una metafora della situazione politica del paese. La legittimazione divina delle istanze patriottiche fu il motivo per cui a Roma e altre città del sud Italia l’opera fu data con un titolo, Orietta di Lesbo, e personaggi diversi.

Allora la censura si accanì non tanto sull’aspetto politico della vicenda, quanto su quello religioso. Via, quindi, i riferimenti a «Iddio» e a «Maria» – il primo diventò «Cielo» la seconda «la Pia» – e furono visti con imbarazzo i riferimenti alla verginità di Giovanna e alla sua natura divina. Tanto che se nell’originale Giacomo chiedeva «Pura e vergine sei tu?», la domanda divenne l’incongrua «Non sacrilega sei tu?». Anche a Carlo toccò passare dalla semplice dichiarazione di «Te mia sposa, te regina, | Donna, Francia chiamerà» all’involontariamente ridicolo «Sol lo spirto mi concedi, | e all’incendio basterà». Non sfuggirono alla censura neppure i versi cantati dagli spiriti malvagi del prologo e «Non è brutto | qual per tutto | vien costrutto | Belzebù» diventarono gli infantili «O figliuola, | ti consola, | è una fola | Belzebù!».

Nel 2012 al Regio di Parma la ripresa della Giovanna d’Arco di quattro anni prima venne messa in scena ripristinando nel libretto le modifiche volute dalla censura. Incomprensibilmente questo non avviene questa volta in cui la settima opera di Verdi inaugura la stagione lirica del teatro. Eccesso di pruderie? Si pensava di scandalizzare l’elegante pubblico che affolla la sala in ogni ordine di posti? Mah.

Michele Gamba è sul podio della Filarmonica Arturo Toscanini e fin dalle note della sinfonia evidenzia la sua lettura di questo lavoro, certo non tra i migliori di Verdi, ma con una sua particolare atmosfera quasi cameristica, sia per il numero di personaggi sia per le dinamiche sonore. Sotto la bacchetta del 41enne direttore milanese si intuisce la raffinatezza compositiva del giovane bussetano che sceglie impasti sonori e armonie particolari atti a creare il mondo fantastico della pulzella d’Orléans con le sue visioni e i suoi sogni. Nettamente differenziate sono le due parti del brano strumentale introduttivo, la prima cupa e corrusca, la seconda pastorale, che Gamba estremizza quasi a sottolineare la doppia personalità di questo particolarissimo grand-opéra, lo suggerirebbero la vicenda e l’importante presenza del coro, ma che viene declinato invece quasi come un lavoro intimo. Una partitura in cui nei cori degli spiriti maligni sembra echeggiare un sardonico Offenbach mentre dall’altra anticipa certe atmosfere del futuro Macbeth. È un Verdi tutt’altro che grezzo quello che ci propone Gamba, con la sua concertazione attenta agli equilibri sonori tra buca e palcoscenico sul quale si esibiscono interpreti di eccellenza.

Nino Machaidze è una Giovanna di grande presenza scenica e vocale che esalta gli interventi solistici che Verdi le ha approntato, all’inizio con una cauta freddezza poi con maggiore partecipazione. La sua performance è un crescendo emotivo espresso con voce ferma che solo difetta nella dizione che le fa cambiare le vocali o rende non chiaro quello che dice. È straniera, si dirà, ma straniero è anche Ariunbaatar Ganbaatar, che viene dalla lontana Mongolia, eppure il suo Giacomo, oltre alla straordinaria proiezione vocale che fa sentire chiaramente anche i suoi bisbigli, esibisce una perfezione di dizione e uno scavo sulla parola che lascia sbalordito il pubblico che gli tributa le maggiori ovazioni della serata. Grande successo anche per Luciano Ganci, che con mezzi vocali generosi e sicuri delinea un Carlo più definito del solito. Francesco Congiu e Krzystof Bączyk danno voce ai personaggi minori di Delil e Talbot. Sotto la guida di Martino Faggiani il coro dà ottima prova nei suoi frequenti interventi.

Emma Dante arriva per la prima volta nel teatro parmense e ottiene un buon successo con una lettura consona alla vicenda ma che non tradisce la personalità della regista palermitana. Col fedele sostegno della efficace e visionaria scenografica di Carmine Maringola, i costumi di Vanessa Sannino e le luci di Luigi Biondi imbastisce uno spettacolo visivamente accattivante in cui la vicenda del conflitto interiore di Giovanna tra esaltazione mistica e affetti terreni viene sviluppata in maniera convincente. Come sempre il rosso è il colore dominante, anche nel drappo che dovrebbe ostentare invece il bianco e azzurro mariano. Rosso è l’abito della pulzella, che rimane sempre femminile anche in battaglia, rossi quelli delle figure demoniche che con le solite chiome agitate al vento – questa volta senza le catinelle d’acqua, però… – si trasformano in fiamme infernali. All’inizio la processione dei feriti richiama gl’immancabili pupi siciliani nei movimenti dinoccolati mentre i fiori sono un elemento simbolico sempre presente: nascono dalle ferite dei soldati, li troviamo negli archi e anche sulla croce. Un giaciglio di rose accoglierà nel finale il corpo esangue della pulzella. Un allestimento efficace ma cauto, che non propone una drammaturgia forte, ma che forse proprio per questo è stato apprezzato dal pubblico.

Giulio Cesare in Egitto

Georg Friedrich Händel, Giulio Cesare in Egitto

Ravenna, Teatro Alighieri, 17 gennaio 2025

★★☆☆☆

(video streaming)

Giulio Cesare si arena a Ravenna

Il Giulio Cesare (senza in Egitto) inaugura la stagione lirica del teatro Alighieri di Ravenna che per il quinto anno consecutivo inizia con un’opera del repertorio barocco: nel 2020 fu il Serse di Händel, L’isola disabitata di Haydn nella stagione ’21-‘22, Il Tamerlano di Vivaldi nel ’23 e L’incoronazione di Poppea di Monteverdi nel ’24.

Tre secoli dopo, il complesso capolavoro di Händel conferma la sua difficoltà di esecuzione: 40 numeri chiusi per quasi quattro ore di musica, otto personaggi, un coro e un’orchestra imponente per l’epoca: due flauti dolci, flauto traverso, due oboi, due fagotti, quattro corni, tromba, archi e basso continuo (violoncello, contrabbasso, fagotto, clavicembalo) più un diverso ensemble in scena nel secondo atto. Nel Giulio Cesare Händel non fa ricorso ad auto-imprestiti: la musica è praticamente tutta originale e di grande qualità, la strumentazione molto ricca e differenziata in relazione ai personaggi e alle situazioni drammatiche, con momenti di grande suggestione emotiva e intensi recitativi accompagnati.

Due sono le versioni: 1724 e 1729. Ottavio Dantone utilizza la versione critica curata da Bernardo Ticci basata direttamente sul primo manoscritto autografo conservato alla British Library sul quale Händel aggiunse, nel corso della stesura, qualche variante o correzione. A capo della sua Accademia Bizantina e con Alessandro Tamperi primo violino, tolti alcuni momenti di sbandamento del corno, Dantone riesce a realizzare la straordinaria varietà di colori e timbri della partitura, ma alcune pagine sono sacrificate, molti sono i tagli spesso all’interno dei numeri, con pregiudizio delle forme musicali, o di interi brani con danni alla drammaturgia. La suddivisione in due parti invece dei previsti tre atti turba l’equilibrio dell’ascolto con una prima parte molto più lunga della seconda mentre tagli vengono effettuati anche all’organico strumentale (tre corni su quattro e tromba assente), mentre l’arpa, la tiorba e la viola da gamba, che dovrebbero dare un colore diverso alla musica “all’antica” per la scena di seduzione di Lidia/Cleopatra con strumenti sul palcoscenico (qui lasciati in buca), suonano anche per il resto dell’opera, rovinando l’effetto sorpresa della scena. Tra le scelte non ortodosse del direttore anche l’aver affidato al flautino invece che al violino la ripresa concertante di «Se in fiorito, ameno prato».

Tra i solisti vocali l’interpretazione più convincente è quella di Marie Lys, bel timbro, tecnica elegantemente impiegata e agilità eseguite con agio e gusto. Il Cesare di Raffaele Pe soffre di un’estensione limitata, difficoltà nelle agilità (gli è infatti risparmiata l’impervia «Qual torrente, che cade dal monte») e alcuni problemi di intonazione. Del tutto assente è l’intesa tra i due personaggi principali, ma qui la regia ha la sua colpa per aver voluto un Cesare pesantemente caricaturale. Stesso discorso per Filippo Mineccia, un Tolomeo che sembra uscito dal film Il vizietto, in manti svolazzanti d’oro o bordati di piume, per non parlare del fatto che per buona parte del primo atto deve cantare impiastricciato di panna: non manca infatti la gag della torta in faccia. Non stupisce quindi che la sua performance vocale non risulti al massimo, con momenti di evidente stanchezza. Delphine Galou presenta il caso di mezzi vocali limitati ma compensati da un certo temperamento drammatico atto a delineare una Cornelia particolarmente sofferta. Il figlio Sesto con la voce di Federico Fiorio risulta più infantile di quanto sia il personaggio mentre Davide Giangregorio mette in campo un Achilla espressivo ma non sempre stilisticamente controllato. Il quarto controtenore Andrea Gavagnin (Nireno) e il baritono Clemente Antonio Daliotti (Curro) completano il cast. 

Ci sono spettacoli in cui le intenzioni registiche sono lodevoli ma è poi la loro realizzazione che manca l’obiettivo e alla fine non convince. Questo è il caso del Giulio Cesare di Chiara Muti, che con le scenografie di Alessandro Camera, i costumi di Tommaso Lagattolla e le luci di Vincent Longuemare, mette in scena il capolavoro di Händel puntando alla simbologia, come afferma lei stessa: «mi muovo attraverso un gioco di simboli: chi riuscirà ad accaparrarsi la corona si garantisce l’immortalità. È Giulio Cesare, l’eroe, ed è suo il volto che come un puzzle si ricomporrà alla fine, ma anche lui di fronte all’amore si rivela fragile: di fronte a Cleopatra si trasforma in asino come Bottom all’apparizione di Titania in Sogno di una notte di mezza estate. Ma tra i rimandi shakespeariani emerge anche Sesto che allude alla figura di Amleto nell’ostinazione frustrata di vendicare il padre… un gioco di immagini e allusioni». Lo spazio scenico ideato dalla regista è atemporale – gli egiziani come usciti dalle pitture parietali delle tombe, i romani in orbace fascista – senza profondità e immerso nel buio con luci taglienti e pochi volumi formati da pezzi di teste di statue colossali che, in modo piuttosto irriverente per l’effigiato, fungono da praticabili. Velari neri si alzano ed abbassano per isolare il cantante al proscenio nei da capo delle arie, cosa vista e rivista e indice di mancanza di valide idee registiche. Ma è l’azione dei vari personaggi sia primari che secondari che difetta nel gioco teatrale, con invadenti figuranti ipercinetici e rumorosi che riempiono la scena con gesti inutili o gag ripetute.

Il video dello spettacolo è attualmente disponibile sul portale italiano Opera Streaming mentre dal vivo la produzione dopo Ravenna toccherà Modena, Piacenza, Reggio Emilia, Lucca e Bolzano.

Stagione Sinfonica RAI

Franz Schubert / Luciano Berio, Rendering per orchestra
I. Allegro
II. Andante
III. Allegro

Gustav Holst, The Planets op. 32 per coro femminile e orchestra
Mars, the Bringer of War, Allegro
Venus, the Bringer of Peace, Andante
Mercury, the Winged Messenger, Vivace
Jupiter, the Bringer of Jollity, Allegro giocoso
Saturn, the Bringer of Old Age, Adagio
Uranus, the Magician, Allegro
Neptune, the Mystic, Andante – Allegretto

Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI, John Axelrod direttore, Coro femminile del Teatro Regio di Torino, Ulisse Trabacchin maestro del coro

Torino, Auditorium RAI Arturo Toscanini, 16 gennaio 2025

Novecento inglese e italiano

In questi giorni nel cielo notturno si può ammirare un raro allineamento planetario: ora ne sono visibili sei (da sinistra a destra sopra il disco lunare si possono vedere Marte, Giove, Urano, Nettuno, Venere e Saturno), ma il 28 febbraio saranno ben sette i pianeti allorché si aggiungerà Mercurio.

Per una strana coincidenza, dopo settant’anni dall’ultima volta – il 15 novembre 1952 sotto la direzione di Sir John Barbirolli – anche all’Auditorium Toscanini c’è un allineamento di pianeti: quello dei sette movimenti della suite orchestrale op. 32 di Gustav Holst.

Nel 1619 Johannes Kepler nel quinto capitolo del suo Harmonices Mundi trattava dell’armonia dei moti dei pianeti e della loro risonanza orbitale. Secondo Kepler, la ‘musica delle sfere’ è il mezzo che connette geometria, cosmologia, astrologia e la musica degli accordi e scoprì che il rapporto fra la massima e la minima velocità angolare dei pianeti nella loro orbita approssima una proporzione armonica: quella della Terra misurate dal Sole varia di un semitono (cioè è in rapporto 16:15, come fra le note mi e fa); Venere invece varia di meno, avendo un rapporto fra queste velocità di 25:24. Per tutte le coppie di pianeti vicini (eccetto una: la coppia Marte-Giove), i rapporti fra le rispettive velocità angolari approssimano intervalli musicali consonanti. Su queste premesse un articolo dell’American Scientist del 1979 presentava la realizzazione sonora tramite sintetizzatore dei “temi” musicali abbinati ai distinti pianeti e ne veniva stampato anche un disco.

Niente di tutto ciò nella suite che il compositore inglese presentava in forma privata il 29 settembre 1918 alla Queen’s Hall di Londra sotto la bacchetta di Sir Adrian Boult, una composizione in cui mancava Plutone, che sarebbe stato scoperto nel 1930 e recentemente declassato a pianeta nano. Nel suo lavoro non c’è alcuna correlazione tra astrofisica e musica. I riferimenti di Holst sono all’astrologia o alle caratteristiche degli dèi dell’olimpo: Marte portatore di guerra, Venere di pace, Mercurio messaggero alato e così via. Nella loro ingenuità e superficialità i titoli sono solo il pretesto per sette pezzi di carattere che mettono in luce l’abilità strumentale del compositore. Maestria orchestrale  esaltata dalla bacchetta di John Axelrod, habitué sempre gradito dell’OSN e protagonista del nono concerto della stagione.

Ecco allora l’andamento marziale e tonitruante del primo pezzo, che era già composto nel 1914 e quindi non faceva riferimento alla carneficina che si sarebbe compiuta negli anni seguenti. Con il suo ritmo ossessivo e i clangori di ottoni e timpani sembra evocare una incontrollata macchina minacciosa e seminatrice di morte. Tutt’altra atmosfera, ovviamente, per Venere dove legni, arpa e celesta delineano una melodia fredda, non sensuale come ci si aspetterebbe dalla dea dell’amore. La vivacità ritmica connota l’arrivo di Mercurio con uno Scherzo veloce e leggero mentre Giove porta in orchestra una gioiosa allegria ricca di temi popolari.

Il movimento più originale della suite è l’Adagio, dedicato a Saturno, “portatore della vecchiaia”, che alterna un solenne corale dei tromboni a momenti di un Fortissimo piuttosto lugubre. Il “mago” Urano è un altro Scherzo, questa volta grottesco, dominato da un tema nelle note sol, mi bemolle, la, si che nella notazione tedesca (G, Es, A, H) rappresentano una sorta di firma del compositore: GuStAv H. All’ascolto però l’andamento zoppicante dei fagotti richiama un altro mago: quello dell’Apprenti sorcier, lo scherzo sinfonico del 1897 di Paul Dukas.

L’ampio organico orchestrale della suite di Holst comprende strumenti inusuali come il flauto basso, l’oboe basso, la tuba tenore (o eufonio), l’organo, sei corni, quattro trombe e due cori femminili fuori scena che si ascoltano nell’ultimo pezzo dedicato a un mistico Nettuno, quando dalle porte aperte verso il foyer dell’auditorium entra un freddo siderale assieme alle voci vocalizzanti del coro femminile del Teatro Regio. Un effetto particolarmente efficace.

Nella prima parte del concerto Axelrod ha presentato Rendering con cui Luciano Berio nel 1990 omaggiava Franz Schubert assumendo come struttura del suo lavoro la Sinfonia in Re maggiore lasciata incompiuta dal compositore viennese. Nei suoi tre movimenti Berio mantiene intatte le parti originali di Schubert inserendo la propria partitura solo in presenza di lacune, come scrisse infatti a suo tempo: «Erano anni che mi veniva chiesto, da varie parti, di fare “qualcosa” con Schubert e non ho mai avuto difficoltà a resistere a quell’invito tanto gentile quanto ingombrante. Fino al momento, però, in cui ricevetti copia degli appunti che il trentunenne Franz andava accumulando nelle ultime settimane della sua vita in vista di una Decima Sinfonia in Re maggiore (D 936 A). Si tratta di appunti di notevole complessità e di grande bellezza: costituiscono un segno ulteriore delle nuove strade, non più beethoveniane, che lo Schubert delle sinfonie stava già percorrendo. Sedotto da quegli schizzi, decisi dunque di restaurarli: restaurarli e non ricostruirli». Il titolo allude infatti al lavoro di ricostruzione di un progettista per ricreare l’immagine finale, lavoro che ora viene affidato alla computer grafica con la conversione mediante apposito software del profilo di un’immagine bidimensionale in un’immagine dall’aspetto realistico e percepibile come tridimensionale grazie al calcolo della prospettiva e all’aggiunta di colori, luci e ombreggiature. Più semplicemente, Berio allora si proponeva di «seguire, nello spirito, quei moderni criteri di restauro che si pongono il problema di riaccendere i vecchi colori senza però celare i danni del tempo e gli inevitabili vuoti creatisi nella composizione (com’è il caso di Giotto ad Assisi). Gli schizzi, redatti da Schubert in forma quasi pianistica, recano saltuarie indicazioni strumentali ma sono talvolta stenografici; ho dovuto quindi completarli, soprattutto nelle parti intermedie e nel basso. La loro orchestrazione non ha posto problemi particolari. Ho usato l’organico orchestrale dell’Incompiuta (due flauti, due oboi, due clarinetti, due fagotti, due corni, tre tromboni, timpani e archi) e nel primo movimento (Allegro) ho cercato di salvaguardare un ovvio colore schubertiano. […] Nei vuoti tra uno schizzo e l’altro ho composto un tessuto connettivo sempre diverso e cangiante, sempre Pianissimo e ‘lontano»’, intessuto di reminiscenze dell’ultimo Schubert (la Sonata in si bemolle per pianoforte, il Trio in si bemolle con pianoforte, ecc.) e attraversato da riflessioni polifoniche condotte su frammenti di quegli stessi schizzi. Questo tenue cemento musicale che commenta la discontinuità e le lacune fra uno schizzo e l’altro è sempre segnalato dal suono della celesta».

L’interesse per questa operazione forse è venuto un po’ meno col tempo, ma il pubblico ha apprezzato comunque la scelta del direttore Axelrod che ha insistentemente indicato la partitura di Berio quale destinataria degli applausi. Un segno di grande signorilità da parte del simpatico direttore texano ora trapiantato in Europa e grande amante dei vini e della cucina italiana. 

Les contes d’Hoffmann

Jacques Offenbach, Les contes d’Hoffmann

Londra, Royal Opera Covent Garden, 15 gennaio 2025

★★★★☆

(diretta streaming)

Il viaggio della memoria di Michieletto arriva a Londra

Un’operazione di rebranding a tutti gli effetti quella effettuata dal maggior teatro inglese che ha cambiato nome e logo, con tanto di grafica aggiornata: la Royal Opera House diventa dunque Royal Ballet & Opera, un’operazione di marketing per attirare nuovi spettatori grazie al balletto le cui star sono molto seguite sui social e attirano i giovani, elemento fondamentale per il ricambio generazionale del pubblico. Ma anche nuovi sponsor nei settori della moda e del lusso. Ora tutte le ricerche di roh.org sono automaticamente reindirizzate su rbo.org. Poco cambia sulla programmazione, che ha sempre visto il balletto fare la parte del leone nei cartelloni del teatro al Covent Garden.

Coprodotto con Venezia, Lione e Sydney, sono ora in scena Les contes d’Hoffmann di Jacques Offenbach nell’allestimento di Damiano Michieletto visto alla Fenice all’inaugurazione della sua stagione lirica 2023-24. Qui c’è modo di ascoltare un cast del tutto diverso – a parte Alex Esposito che si rivela come sempre stupefacente nella parte demoniaca declinata nei personaggi di Lindorf, Coppélius, Docteur Miracle, Dappertutto e qui anche Stella… – e la direzione di Antonello Manacorda, impedito allora a Venezia da problemi di salute e sostituito da Frédéric Chaslin. Rispetto alla concertazione greve e routinière del francese, quella di Manacorda brilla per trasparenza, senso del colore strumentale e senso teatrale. La versione scelta è quasi completa e si basa sugli studi più aggiornati, con quasi un’ora di musica in più rispetto a Venezia, con pagine che si ascoltano raramente. Con i due intervalli lo spettacolo arriva alle quattro ore che scorrono veloci per la qualità degli interpreti e la festa per gli occhi offerta dal regista. 

Dopo aver detto tutto il bene possibile di Alex Esposito, della sua stupefacente presenza scenica e del suo ricchissimo strumento sonoro, si rimane sull’eccellenza per lo Hoffmann di Juan Diego Flórez dalla voce freschissima, gli acuti smaglianti, il fraseggio elegante e la perfetta dizione. Le doti attoriali sono quelle che sono, la gestualità è limitata e di maniera, ma il personaggio riesce comunque ben delineato nel suo passaggio dall’adolescenza del primo amore sui banchi di scuola, all’amore sofferto della maturità a quello disincantato e cinico successivo. Le tre fasi sono centrate sulle tre figure femminili qui interpretate da tre diverse cantanti. Non del tutto convincente l’Olympia di Olga Pudova, tecnicamente impeccabile nei picchiettati e nella acrobatica coloratura, ma dal timbro troppo scuro e dall’eccesso di vibrato. La parte di Antonia sembra scritta per Permettere a Ermonela Jaho di esprimere con l’intensità che le riconosciamo la sofferta parte della giovane morente. Perfettamente in parte nel suo sensuale outfit in lamé dorato, la Giulietta di Marina Costa-Jackson soffre di una certa asprezza di espressione. Corrette, ma non molto di più, la Musa di Christine Rice (anche voce della madre di Antonia) e il Nicklausse di Julie Boulianne. Christophe Montagne caratterizza con ironia le parti di Andrès e del maestro di ballo Cochenille. Efficace lo Spalanzani di Vincent Ordonneau, commovente ma con solo un filo di voce il Crespel di Alastair Miles.

La seconda visione dell’allestimento permette di apprezzare ancora più la regia di Michieletto, ripresa da Eleonora Gravagnola, che centra in pieno il caustico spirito hoffmaniano magnificamente reso dal suo miracoloso team: Paolo Fantin per le scene (geniali i buchi del soffitto e il tableau vivant del secondo atto con le ballerine), Alessandro Carletti per le luci (fantasiosamente non naturalistiche), Carla Teti per i costumi (le fate verdi come l’assenzio, la fée verte, del primo atto e l’atmosfera Eyes Wide Shut del terzo). A questi si aggiungono le argute coreografie di Chiara Vecchi, gli irriverenti diavoletti con copricapezzoli di brillantini rossi, i ballerini con le teste di topo.

Nel finale felliniano tutti i personaggi si uniscono nel celebrare il genio dell’arte ed è un momento di grande intensità emotiva. Michieletto ci ha abituati ad aspettarcelo alla fine dei suoi spettacoli.

Filarmonica del TRT

Francis Poulenc, Stabat Mater per soprano, coro misto e orchestra FP 148
I. Stabat mater dolorosa (Très calme)
II. Cujus animam gementem (Allegro molto – Très violent)
III. O quam tristis (Très lent)
IV. Quae moerebat (Andantino)
V. Quis est homo (Allegro molto – Prestissimo)
VI. Vidit suum (Andante)
VII. Eja mater (Allegro)
VIII. Fac ut ardeat (Maestoso)
IX. Sancta mater (Moderato – Allegretto)
X. Fac ut portem (Tempo di Sarabanda)
XI. Inflammatus et accensus (Animé et très rythmé)
XII. Quando corpus (Très calme)

César Franck, Sinfonia in re minore FWV 48
I. Lento – Allegro non troppo
II. Allegretto
III. Allegro non troppo

Orchestra e Coro del Teatro Regio Torino

James Conlon direttore, Masabane Cecilia Rangwanasha soprano

Torino, Teatro Regio, 14 gennaio 2025

Armonia

Due musicisti francesi di due secoli diversi ma accomunati dalla religiosità: mistica e devozionale quella di César Franck (1822-1890), di una spiritualità più sofferta quella di Francis Poulenc (1899-1963).

Il secondo concerto della stagione dell’Orchestra del Teatro Regio di Torino inizia infatti con lo Stabat Mater che Poulenc presentò al Festival di Strasburgo il 3 giugno 1951, composizione dedicata alla memoria del compagno Christian Bérard con cui aveva condiviso l’esperienza della rinnovata fede cristiana. L’avvicinamento alla fede cattolica aveva preso corpo a metà nel 1936 anche allora per la morte in un incidente stradale dell’amico compositore Pierre-Octave Ferraud. Poulenc aveva trovato inaspettatamente conforto in una visita al Santuario di Rocamadour dove, davanti alla statua in legno nero della Vergine, si era prodotto un cambiamento destinato a mutare il resto della sua vita: quella sera stessa il compositore, che fino ad allora non aveva scritto musica sacra di alcun genere, iniziò le Litanies à la Vierge Noire. Sarebbero poi seguiti la Messa in Sol maggiore (1937), i Quatre motets pour un temps de pénitence (1939), l’Exultate Deo e il Salve Regina (1941), le Quatre petites prières de Saint François d’Assise (1948).

Le dodici brevi sezioni in cui è suddiviso il testo di Jacopone da Todi sono strutturate ciascuna con carattere, orchestrazione, tonalità e tempo a sé stanti. I continui scarti e mutamenti non inficiano comunque l’unità di concezione del lavoro che inizia con un contemplativo “Stabat Mater” monocromatico, quasi minimalista nella struttura armonica e ritmica. Con l’Allegro molto del “Cujus animam” inizia un crescendo sonoro che, dopo il clima sospeso e meditativo dell'”O quam tristis”, sfocia nel brioso “Quae moerebat”, che difficilmente potrebbe essere ricondotto al pianto funebre di una madre – così come avviene nello Stabat Mater di Pergolesi – e lo stesso accadrà più oltre con il giubilante “Eja Mater”. L’incertezza tonale del pezzo raggiunge il massimo nelQui est homo”, seguito da un silenzio dopo il quale finalmente entra la voce solista del soprano nel “Vidit suum”, il primo di tre interventi di portata fondamentale per il carattere del brano. Il secondo sarà il bachiano “Fac ut portem”, indicato con ‘tempo di Sarabanda’, una pagina che anticipa certe atmosfere de Les dialogues des Carmélites di cinque anni dopo. Il trascinante “Inflammatus” e il solenne “Quando corpus” concludono questo «requiem senza disperazione», che con le reiterate frasi ascendenti del soprano su “Paradisi Gloria” sembra chiedere intercessione per il compositore più che per l’amico scomparso.

Ricco di sfumature espressive e di contrasti drammatici, l’intreccio di passaggi lirici e passionali è reso con grande sensibilità da James Conlon, per la prima volta sul podio dell’Orchestra del TRT. Il direttore americano riesce a far risaltare i diversi piani prospettici dei policromi pannelli sonori creati da Poulenc grazie alla maestria della compagine orchestrale e del bravissimo coro istruito da Ulisse Trabacchin. Molto apprezzati gli interventi del soprano Masabane Cecilia Rangwanasha dal timbro sontuoso e dalla intensa forza espressa nelle sue frasi.

Clima totalmente diverso quello della seconda parte con la Sinfonia in re minore, l’unica di César Franck, scritta nel 1886-88. Composizione che chiaramente si ricollega a Bruckner, anche lui organista come Franck. I contemporanei infatti non l’apprezzarono perché troppo poco francese e legata al modello beethoveniano (nella struttura e nella costruzione ciclica) e al detestato wagnerismo. «Un’affermazione d’incompetenza spinta fino ad una dogmatica lunghezza» fu il feroce giudizio di Gounod. Oggi possiamo collocare questa composizione tra le opere del decadentismo europeo, in bilico tra patetismo lacrimoso e oratoria solennità. L’uso della sensualità cromatica e timbrica di Wagner sembra accettato come modo di espressione di una religiosità intensa e sofferta e da qui l’ambiguità di questa composizione che vuole essere espressione di religiosità ma che si trova invece molto vicina al patetico čajkovskijano. Il questa visione ciclica alla Liszt, il materiale sonoro si ripete quasi ossessivamente, con i temi iniziali ripresi nel finale e il direttore Conlon riesce a esprimere il carattere di questa musica senza troppo preoccuparsi dei suoi risvolti spirituali: quella che esce fuori è una lettura trascinante che mette in luce il colore scuro della partitura e l’alternarsi di slanci e ripiegamenti fino all’esultante finale accolto con calore di applausi dal folto pubblico accorso ad ascoltare queste pagine del più rinomato repertorio francese. C’è forse nella scelta lo zampino del sovrintendente Mathieu Jouvin? Ben venga, se la qualità delle proposte è questa.

Lingotto Musica

Johannes Brahms, Concerto per violino e orchestra in Re maggiore op. 77
I. Allegro ma non troppo
II. Adagio
III. Allegro giocoso

Ludwig van Beethoven, Sinfonia n° 7 in La maggiore op. 92
I. Poco sostenuto – Vivace
II. Allegretto
III. Presto
IV. Allegro con brio

Orchestra Dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia

Myung-Whun Chung direttore, Sergey Khachatryan violino

Torino, Auditorium Giovanni Agnelli, 10 gennaio 2025

Solista, direttore, orchestra: tre eccellenze per Brahms e Beethoven

Dopo il secondo movimento del Concerto di Brahms si poteva finire lì e andare a casa soddisfatti: il sublime era stato toccato, non c’era bisogno d’altro. Il violino di Sergey Khachatryan aveva cantato le meravigliose frasi dell’adagio con un suono puro, un legato magico, pianissimi di sogno per un canto struggentemente nostalgico…

(il seguito su Le Salon Musical)

Stagione Sinfonica RAI

Leone Sinigaglia, Le baruffe chiozzotte op. 32, Ouverture per orchestra

Pëtr Il’ič Čajkovskij, Variazioni su un tema rococò per violoncello e orchestra op. 33
Variazione I. Tempo del tema
Variazione II. Tempo del tema
Variazione III. Andante
Variazione IV. Allegro vivo
Variazione V. Andante grazioso
Variazione VI. Allegro moderato
Variazione VII. Andante sostenuto
Variazione VIII e Coda. Allegro moderato con anima

Camille Saint-Saëns, Sinfonia n° 3 in do minore op. 78
I. Adagio – Allegro moderato – Poco adagio
II. Allegro moderato – Presto – Maestoso – Più allegro – Molto allegro

Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI, Andrea Battistoni direttore, Anastasia Kobekina violoncello

Torino, Auditorium RAI Arturo Toscanini, 9 gennaio 2025

Tre pezzi non facili

Non è particolarmente evidente il filo che unisce i tre pezzi che Andrea Battistoni, il nuovo Direttore Musicale del Teatro Regio di Torino, ha presentato per l’ottavo concerto della Stagione dell’Orchestra Sinfonica Nazionale Rai: un impaginato unito quasi solo dalla brillantezza strumentale di tre compositori molto diversi.

Leone Sinigaglia, torinese nato nel 1868, è ricordato ora per le sue trascrizioni di canti popolari, ma in vita fu apprezzato come esponente della scuola sinfonica e cameristica italiana, quasi in competizione con quella del melodramma allora predominante. Appartenente a una famiglia dell’alta borghesia ebraica, sofferse le persecuzioni razziali divenendo vittima del fascismo e la sua esistenza si concluse in maniera tragica quando nel 1944, al momento dell’arresto da parte della polizia nazista che occupava Torino, una sincope ne causò la morte. La brillantissima ouverture de Le baruffe chiozzotte, opera diretta da Toscanini alla Scala nel 1907, è una pagina molto vivace dove si intrecciano temi tra cui uno tratto da una canzone popolare che si sente per la prima volta nell’oboe, viene ripreso dai primi violini e ritorna poi nel vivacissimo finale.

Altrettanto brillante il secondo pezzo in programma, le Variazioni su un tema rococò di Čajkovskij, un lavoro del 1876 che dimostra l’infatuazione del musicista russo per la musica del XVIII secolo, cosa che si ritroverà 22 anni dopo nel pastiche del secondo atto de La dama di picche. L’orchestra risponde con il suo rutilante colore strumentale sotto la direzione di Battistoni, ma un pizzico di leggerezza e ironia in più non sarebbe guastato. Ironia che non manca invece nella interpretazione della giovane e prodigiosa violoncellista Anastasia Kobekina, che affronta con slancio la sfida virtuosistica offerta dalla scrittura della parte solistica, dovuta in grande misura allo stesso destinatario del pezzo, Wilhelm Fitzenhagen. La sua trascinante performance rivela una tecnica impeccabile sublimata nella gioia fisica di fare musica, una dimostrazione di gaudio musicale particolarmente apprezzata dal pubblico che alla simpatica artista strappa due fuori programma, il secondo del quale (Bach) più adatto alle “corde” dello strumento utilizzato: uno Stradivari del 1698.

Un intervento strumentale solistico è previsto anche per l’ultimo pezzo in programma, la Sinfonia n° 3 di Camille Saint-Saëns del 1886 e dedicata a Franz Liszt, ma qui l’organo ha solo una parte di riempimento armonico e brevi interventi tematici nel secondo movimento. In pratica è una delle tastiere utilizzate in questa composizione, essendo l’altra quella di un pianoforte a quattro mani. L’organista è Luca Benedicti, uno dei maestri della OSN. Il lavoro di Saint-Saëns soffre di una certa ampollosità che la direzione del giovane direttore non riesce a mitigare, ma il pubblico è comunque conquistato e tributa calorosi applausi agli artefici dell’esecuzione.

A proposito della vicenda dell’organo della RAI, ecco quanto scrive Orlando Perera: «L’altra sera all’Auditorium RAI si è fortemente risollevato in me (e non solo in me, a quanto leggo), il rammarico per un’irrisolta magagna, datata vent’anni fa. Parlo dello smantellamento del grande organo a quattro tastiere e centodieci registri costruito dalla ditta Tamburini di Crema nel 1952, quando venne inaugurata la nuova sala progettata da Aldo Morbelli e Carlo Mollino sul sedime dell’ottocentesco teatro Vittorio Emanuele di via Rossini. Nel 2005 la RAI – che per quasi quarant’anni è stata come si sa la “mia” azienda e la mia amata “casa”, non lo dimentico – la RAI decise dunque di ristrutturare la vecchia sala, che dopo quasi mezzo secolo cominciava a palesare più di un problema. Con la sala si pensò di revisionare anche l’organo, affidando l’incarico all’organaro Ruffatti, di Albignasego in provincia di Padova, che ovviamente smontò lo strumento, e lo tolse dal suo vano sul fondo dell’Auditorium per lavorarci sopra. Il bello venne quando, terminati i lavori edilizi e anche quello di Ruffatti, si trattò di rimettere l’organo al suo posto. Lo spazio non c’era più, l’incavo originario era in buona parte occupato da un grosso condotto di condizionamento e anche le dimensioni erano cambiate. Nessuno dei progettisti aveva pensato all’organo. In merito, consiglio di leggere su internet la memoria dello stesso Fernando Ruffatti intitolata “La morte dell’organo Tamburini della RAI di Torino”. Dibattiti e discussioni a non finire, per giungere poi alla decisione tanto salomonica, quanto per noi infelice, di lasciare l’organo smontato nel magazzino dove si trovava, e di salvare la faccia, o meglio la facciata, rimontando solo le canne esterne e la scritta Auditorium RAI Torino, necessaria non certo per gli spettatori che sanno benissimo dove si trovano, ma per le riprese televisive. Vero è che un grande organo non è indispensabile in un auditorium sinfonico, ma ricordo ad esempio di averne visto uno grandioso nella sala della prestigiosa Gewandhaus di Lipsia. Il repertorio di questo genere raramente prevede in organico tale strumento monumentale, anche se i casi di sinfonie e suite per organo non mancano. Vedi autori minori come Ferdinando Provesi (1770-1833) insegnante di Verdi e Giuseppe Arrigo (1838-1913), ma anche Ottorino Respighi e Amilcare Ponchielli. Per non parlare della scuola francese, César Franck e Jean Guillou. Ugualmente vero che si tratta in genere di partiture per organo solo. […] Ciò detto, e per tornare a bomba, ecco dove l’altra sera è cascato l’asino (absit iniuria). L’appena nominato nuovo direttore musicale del teatro Regio, il 38enne veronese Andrea Battistoni, già enfant-prodige della bacchetta, ha scelto proprio la Terza Sinfonia di Saint-Saëns per il suo ritorno sul podio della Sinfonica RAI, dopo oltre otto anni. Anni in cui è sicuramente maturato e ha approfondito la sua capacità di analisi musicale. Lo si è sentito nei primi due pezzi in programma. […] Dato a questi due titoli ciò che gli spetta, chiaro che, per primo chi scrive, l’attesa era appunto per Saint Saëns, e per vedere come sarebbe stato risolto il problema dell’organo, affidato a un eccellente tastierista come Luca Benedicti (ricordo una sua notevole esecuzione delle Variazioni Goldberg al clavicembalo, anni fa all’Accademia di Agricoltura). Battistoni in un’intervista pre-concerto aveva assicurato che l’organo elettrico avrebbe garantito un’ottima performance, ma purtroppo non siamo d’accordo con lui, né chi scrive, né altri autorevoli colleghi, né gli appassionati sui social. Il risultato è stato a dir poco deludente. La voce dell’organo flebile e incolore, l’inadeguatezza dell’impianto di amplificazione hanno purtroppo messo in evidenza i limiti retorici e a rischio di kitsch di una partitura scritta con mano maestra, ci mancherebbe, ma strana e ambigua. Chi come me si era andato a sentire la registrazione di riferimento per questo brano, con Von Karajan alla guida dei Berliner e Pierre Cochereau all’organo di Notre Dame, ha trovato il confronto penosamente impari. Purtroppo il nostro Battistoni, al quale auguriamo la miglior fortuna per la direzione musicale del Regio, non ha forse fatto quello che si doveva fare, mettere cioè una persona di fiducia in sala per un opportuno sound-check. Forse è mancato il tempo, ma forse neanche questo sarebbe servito, perché di fatto appunto all’Auditorium RAI manca l’organo, e questa sinfonia è meglio non programmarla più. Salvo naturalmente rimettere al suo posto il Tamburini. Chissà se esistono ancora i colti mecenati che si prendono queste brighe?»

Anime salve

Accademia dei folli, Anime salve 

Sansicario, Teatro Sansipario, 2 gennaio 2025

Viaggio in alta quota

Anime salve è il titolo dell’ultimo album in studio di Fabrizio De André. Pubblicato nel 1996, è il suo testamento musicale ed etico.

Un viaggio nel mondo del cantautore genovese è quello proposto dall’Accademia dei Folli, variegato gruppo torinese formato da attori provenienti dalla Scuola dello Stabile e da musicisti del Conservatorio e del Centro Jazz di Torino, compagnia di musica-teatro fondata nel 2000 che ha al suo attivo numerosi spettacoli presentati anche dal Teatro Stabile e che da sempre porta sulla scena le note dei grandi cantautori – Giorgio Gaber, Tom Waits, Bruce Springsteen, Bob Dylan, B.B. King, Leonard Cohen, Fred Buscaglione.

Nel 2014 è nato il suo primo omaggio a Fabrizio De André, “Attenti al gorilla”, e ora nella stazione sciistica dell’Alta Valsusa presenta il suo più recente tributo, un viaggio in alta quota nel mondo delle figure femminili, degli emarginati, degli oppressi raccontati con la pietas del cantautore genovese.

Con la voce intrigante e la capacità affabulatoria di Carlo Roncaglia, gli struggenti interventi del fisarmonicista MatteoCastellan, il giovane Andrea Cauduro alle chitarre, il ricco sottofondo del basso di Enrico De Lotto, le molteplici percussioni di Fabio Romano e Matteo Pagliardi, alcune delle più intense canzoni di ‘Faber’ vengono riproposte in un arrangiamento di grande gusto che esalta la bellezza e ricercatezza della musica, una cosa che si è irrimediabilmente persa nell’offerta pop di oggi.

Il viaggio che i sei artisti hanno proposto a un pubblico attento e partecipe non poteva iniziare se non dal mare, da quelle stradine strette che scendono dalle scoscese alture liguri verso le spiagge di sassi. Non poteva mancare quindi “Creuza de mä”, dall’omonimo album del 1984. Dopo il medio oriente di “Il sogno di Maria” (La buona novella, 1970) e il nuovo continente di “Il fiume Sand Creek” (L’indiano, 1981, dalle memorie di un guerriero Cheyenne), si rientra in patria con le vicende di “Bocca di rosa” e di “Via del campo” (Volume I, 1967), dedicate alle donne sfruttate e messe al bando dalla ipocrita morale borghese.

Con le sapide reinvenzioni dei musicisti dell’Accademia rivivono le figure dell’assassino de “Il pescatore” o dei reclusi in carcere del suicida Miché (Volume 3, 1968) e del Don Raffaé mafioso col suo caffè (Le nuvole , 1990). Ma è pur sempre l’amore, declinato nelle sue diverse forme, uno dei temi primari del mondo di De André: che sia la cinica “Ballata dell’amore cieco” (Canzoni, 1974) dove «un uomo probo […] s’innamorò perdutamente d’una che non lo amava niente», o «l’amore che vieni, amore che vai» (Volume 3, 1968). E poi c’è la particolare religiosità “laica” dell’autore espressa nella stupenda “smisurata preghiera” che chiude il suo Anime salve. O il destino che “volta la carta” (Rimini, 1978) dove «Madama Dorè ha perso sei figlie tra i bar del porto e le sue meraviglie». Il lato surreale è espresso invece da “Se ti tagliassero a pezzetti” (L’indiano) o da “Dolcenera” (Anime salve).

Non un semplice concerto, lo spettacolo di Carlo Cornaglia e dei suoi pregevoli musicisti costruisce una drammaturgia intrigante dove le canzoni sono protagoniste assolute, seppure ricreate con personalità e un pregevole gusto musicale.

Una volta di più riscopriamo così l’assoluta contemporaneità – e necessità – dell’arte di De André. Grazie, Accademia dei folli.