Antonio García Gutiérrez

Le trouvère

Giuseppe Verdi, Le trouvère

Wexford, National Opera House, 17 ottobre 2025

(video streaming)

Verdi in francese a Wexford: un’occasione mancata

Scopo dei festival è soprattutto quello di presentare opere poco conosciute o versioni alternative di quelle presenti nei cartelloni dei grandi teatri. Lo aveva fatto il Festival Verdi di Parma nel 2018; ora è quello di Wexford a riproporre la versione francese de Il trovatore.

Le trouvère non è una semplice traduzione, ma una vera e propria rielaborazione che Verdi realizzò nel 1857, quattro anni dopo la prima romana, per adattare l’opera ai gusti e alle convenzioni dell’Opéra di Parigi. Il libretto fu tradotto da Émilien Pacini, ma la lingua francese comportò modifiche metriche e ritmiche per adattare le frasi al canto, con frequenti riscritture melodiche. L’opera resta divisa in quattro atti, ma Verdi ne riorganizzò parzialmente il contenuto. Alcuni recitativi sostituiscono i dialoghi secchi tipici dell’opera italiana, e diversi pezzi vennero tagliati o riscritti per rendere il dramma più “classico” e meno concitato rispetto all’originale italiano.

Verdi aggiunse ballabili, obbligatori secondo la tradizione del grand opéra francese: una suite di danze gitane, chiamata Ballet des Bohémiens, che occupa una parte consistente del terzo atto. Sono circa 250 battute in Fa maggiore, con episodi in 3/4 e 6/8, dove si alternano danze spagnole, bolero e una marcia gitana. L’orchestrazione è brillante, con tamburini, castagnette e flauti piccoli: un episodio puramente spettacolare ma di notevole fattura orchestrale, che anticipa il gusto “spagnolista” del Don Carlos e della Forza del destino.

Alcuni numeri vocali furono rielaborati in funzione dell’impostazione più lirica e meno virtuosistica del canto francese. Ad esempio, nel secondo atto, nell’aria di Azucena «Vois dans la flamme» («Stride la vampa»), la tonalità di Do maggiore resta la stessa, ma il cantabile è più elaborato, privo di vera cabaletta, e l’aggiunta di arpa e tromboni gravi rende le armonie più cupe e sfumate. Verdi rallenta i tempi e introduce pause più ampie fra le frasi per far risaltare il testo francese, ottenendo una visione più mistica e simbolica, invece di quella allucinata e popolare della versione originale.

Nel terzo atto, l’aria di Manrique «Puisqu’enfin me voilà» («Ah! sì, ben mio»), originariamente in Mi maggiore, viene alzata di un semitono a Fa maggiore per renderla più brillante. L’Andante è più lirico e meno ornato, con fraseggi distesi, mentre l’aggiunta di arpa e clarinetti addolcisce il colore. La linea melodica è quasi identica, ma con pause diverse per adattarsi alla nuova prosodia e con alcune variazioni di ritmo e un maggior numero di sillabe per battuta. Il tono intimo, italiano e affettuoso, diventa qui più solenne, da “romanza cavalleresca” alla francese.

Nel quarto atto, il Miserere conserva la stessa tonalità, ma con armonie più variate, tempi più lenti e finali prolungati. La riscrittura delle linee corali le rende più equilibrate nel fraseggio francese. La religiosità teatrale della versione italiana si trasforma in un misticismo più raccolto e atmosferico: Verdi ammorbidisce il contrasto fra scena sacra e dramma amoroso, seguendo la prassi francese del mélange dei registri.

Leggermente diverso musicalmente è il finale dell’atto quarto, «Plutôt mourir que vivre» («Prima che d’altri vivere»): la chiusa rapida e concentrata dell’originale diventa un finale esteso, più lento e patetico, con riprese orchestrali. Ma subisce anche una modifica drammatica importante: qui Léonore muore davanti a Manrique, e l’ultima battuta sottolinea più esplicitamente il riconoscimento del fratello da parte del carnefice.

Modificate o addirittura soppresse sono numerose cabalette. In «Tranquille est la nuit … D’un si doux feu que dire» («Tacea la notte placida … Di tale amor che dirsi») del primo atto, Verdi smussa il ritmo, sostituisce alcune figurazioni di semicrome con crome legate, riduce le ripetizioni e varia l’orchestrazione (più legni, meno ottoni). Il risultato è meno brillante e virtuosistico, più lirico e continuo, in linea con la declamazione francese. L’aria di Azucena del secondo atto «Dans la flamme» («Stride la vampa») perde la cabaletta «Condotta ell’era in ceppi»; così pure nel Miserere del quarto atto è eliminata la cabaletta sulle parole «Mira, di acerbe lagrime». Anche l’aria di Léonore nel finale «Sur l’aile enchanteresse» («D’amor sull’ali rosee») perde la cabaletta «Tu vedrai che amore in terra».

«Di quella pira» («Supplice infâme») di Manrique passa dal Do maggiore al Si♭ maggiore, e le due strofe simmetriche, ripetute con stretta, diventano una sola, con una transizione orchestrale più lunga. I timbri sono più amalgamati, con rinforzo dei legni e degli ottoni scuri, e manca il do acuto finale (non previsto da Verdi), per un esito più nobile che eroico. Qui la differenza è radicale: Le trouvère rinuncia all’effetto “patriottico” dirompente, concentrando la tensione sull’angoscia di un padre, non sul grido guerriero.

Verdi affrontò la revisione del Trovatore per Parigi non come un rifacimento, ma come un esercizio di lucidatura, un’operazione di cesello su un diamante già tagliato. «Rifinito, non rifatto», avrebbe detto lui stesso: e la formula coglie perfettamente lo spirito di Le trouvère. L’opera del 1857 non cancella quella del 1853, ma ne smussa le spigolosità, sostituendo all’istinto la logica, al furore la nobiltà del disegno. Le transizioni diventano più fluide, la coerenza tonale più rigorosa, i numeri chiusi si incastrano con un senso drammaturgico che guarda già al futuro. In breve: meno sangue, più cervello.

Il risultato è un Trovatore con la patina della cultura francese – elegante, orchestrato con una finezza quasi sinfonica – ma forse meno immediato, meno febbrile. Il fuoco verdiano non si spegne, ma si controlla, come un’incandescenza che il cristallo trattiene.

Proporre oggi la versione francese significa dunque accettare la sfida di misurarsi con un Verdi che si fa architetto del proprio impeto, un Verdi “classico” in senso quasi paradossale. È un’occasione preziosa per restituire pagine rare, scoprire sfumature nuove, riscoprire la teatralità attraverso un diverso equilibrio di passioni e misura. Peccato che la produzione vista al Festival di Wexford sembri non aver voluto davvero giocare questa partita.

Il problema non è tanto nei ballabili – inevitabili nel gusto dell’Opéra e spesso una trappola per registi contemporanei: Robert Wilson, a Parma, ne aveva fatto un pugilato metafisico, tanto assurdo quanto memorabile. Ben Barnes, al Wexford, opta per un approccio più narrativo: il Comte de Lune si addormenta nella sua tenda e sogna la Guerra Civile spagnola del 1936, periodo in cui l’azione è trasposta. Sul fondo scorrono filmati d’epoca in bianco e nero, mentre tre danzatrici eseguono passi più allusivi che simbolici. L’idea non è priva di fascino, ma si esaurisce presto, come un flash di memoria più che una vera chiave interpretativa.

È però sul piano musicale che le scelte lasciano perplessi. Se si decide di eseguire Le trouvère, che senso ha eseguire «Di quella pira» esattamente come nella versione italiana compresa la puntatura di tradizione? E non è l’unico caso: altre cabalette sono bellamente ripristinate. Il ritorno di queste consuetudini tradisce il senso stesso dell’operazione: Verdi aveva lavorato proprio per abbandonare quel linguaggio e adattarsi alla misura francese. La direzione di Marcus Bosch poi non aiuta: corretta ma poco ispirata, incapace di restituire la nuova tavolozza timbrica. L’orchestra, di per sé onesta, mostra limiti di precisione e colore.

Il cast si colloca nel solco della tradizione wexfordiana: voci giovani, entusiasmo più che blasone. Lydia Grindatto è una Léonore di bel timbro, intensa ma non sempre a fuoco; Eduardo Niave dà al suo Manrique una verve da spadaccino, più che da trovatore; Kseniia Nikolaieva disegna un’Azucena di linea irregolare; Giorgi Lomiseli offre un Comte de Lune vocalmente non memorabile. La dizione francese resta un campo minato per tutti.

Nell’ambientazione, il duca diventa un ufficiale fascista e Manrique un partigiano idealista. La scenografia di Liam Doona, costruita su uno spazio grigio, modulabile con luci e pochi elementi, riesce però a evocare efficacemente il senso di un mondo distrutto e desolato.

Il trovatore

foto © Roberto Ricci

Giuseppe Verdi, Il trovatore

Parma, Teatro Regio, 24 settembre 2023

★★★☆☆

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Un Trovatore di luci e ombre al Festival Verdi di Parma

Dopo l’interruzione degli anni ’90, il Festival Verdi è stato reintrodotto nel 2001 in occasione delle celebrazioni del centenario della morte del compositore e da allora ha proposto cinque diverse produzioni de Il trovatore, l’ultima nel 2018 con la versione francese (Le trouvère) diretta da Roberto Abbado e con la regia di Bob Wilson. Mettere in scena quest’opera a Parma è una bella sfida: qui ognuno si sente il depositario dell’eredità di Verdi e poche produzioni sono uscite indenni dalle intemperanze del temuto loggione

Complice un budget ridotto che ha tarpato le ali al metteur en scène e le sostituzioni rispetto al cast inizialmente previsto, il dramma spagnolo di García Gutiérrez – «bellissimo, immaginoso e con situazioni potenti», scriveva il musicista a Cammarano, il librettista e seconda proposta del Festival Verdi 2023 – non ha convinto il pubblico, che ha sì applaudito ma non con l’entusiasmo con cui quest’opera così esaltante viene generalmente accolta, e ha suscitato anche qualche contestazione.

Nei consueti spazi del Teatro Regio, Francesco Ivan Ciampa dirige con passione ma attenzione verso i cantanti una delle partiture più trascinanti del teatro dell’Ottocento, un’opera fatta quasi tutta di numeri chiusi, la maggior parte forniti di cabaletta, un ritorno alla tradizione dopo l'”esperimento” del Rigoletto. Il trovatore è un’opera scura, notturna: «Allor mezzanotte appunto suonava», racconta Ferrando nella prima scena de “Il duello”, la prima delle quattro parti in cui è suddivisa l’opera; «Tacea la notte placida», canta Leonora nella seconda; «Tace la notte! Immersa | nel sonno, è certo la regal signora» dice il Conte di Luna nella terza; è notte quando il Conte e i suoi seguaci si apprestano a rapire la fanciulla nella scena terza de “La gitana”; è notte oscura all’inizio de “Il supplizio” nella torre del palazzo di Aliaferia (scena prima) e poi nell’«orrido carcere» (scena terza).

Bandita quella del sole, l’unica luce è il fuoco della tremolante lanterna di Leonora, della «perigliosa fiamma» paventata da Ines, della «terribil vampa» di Azucena, della pira evocata da Manrico, del rogo minacciato dal Conte («Come albeggi | la scure al figlio, ed alla madre il rogo!») passando per le braci raccontate da Ferrando. E la musica di Verdi è tutto un baluginare di lampi nell’oscurità che il Maestro Ciampa realizza con vivezza e con tempi che però talora possono mettere in difficoltà qualche strumentista dell’Orchestra del Comunale di Bologna. La sua lettura è trascinante, impetuosa, piena di contrasti, molto teatrale. Ciampa utilizza l’edizione critica di David Lawton che ripulisce la partitura di certe libertà “di tradizione” restituendone una versione più prossima all’originale.

S’è detto delle sostituzioni di ben tre cantanti (gli interpreti di Eleonora, del Conte di Luna e di Ferrando), cosa che non ha ben predisposto parte del pubblico che è sembrato prevenuto e pronto alla contestazione. Franco Vassallo, che ha sostituito l’inizialmente previsto Markus Werba, è ritornato nelle vesti del Conte dopo la versione francese vista qui al Teatro Farnese e ha confermato la grande proiezione vocale e l’intensità di espressione, a scapito talora dell’eleganza e nobiltà del personaggio, là con Bob Wilson più opportunamente stilizzato, qui leggermente sopra le righe. Però «Il balen del suo sorriso», vigorosamente intonato e con ben realizzati colori, è stato salutato da grandi applausi a scena aperta. Al posto di Eleonora Buratto, Francesca Dotto ha delineato una Leonora certamente corretta ma dalla voce un po’ sottile e poco timbrata. I momenti migliori sono risultati quelli più lirici dove legati e mezze voci hanno convinto comunque il pubblico, specialmente nell’aria «Tu vedrai che amore in terra» con cabaletta ripetuta, quando il regista isola l’azione e ne sottolinea l’aspetto melodrammatico accendendo le luci in platea e facendo scendere uno specchio incorniciato da un sipario drappeggiato, un effetto volutamente teatrale ma né originale né molto necessario. Terza sostituzione, stavolta di lusso, è quella di Ferrando: Marco Spotti, ammalatosi durante le prove, qui trova in Roberto Tagliavini un ammirevole sostituto che rende avvincente il lungo racconto iniziale.

Il trittico popolare di Verdi è centrato su tre figure di emarginati della società: la prostituta Violetta, il gobbo Rigoletto e l’«abietta zingara» Azucena, la quale nelle prime intenzioni dell’autore doveva dare il titolo all’opera. Si capisce quindi l’importanza della parte che alla prima romana del 1853 fu affidata a Emilia Goggi-Marcovaldi, grande cantante belliniana scomparsa precocemente all’età di 39 anni nel 1857. «Dopo quella della Malibran […] la più bella voce che ci sia occorso sentire» scriveva la Rivista musicale il 1 luglio 1840. Qui veste i panni della «fosca vegliarda» Clémentine Margaine, l’Amneris dell’Aida di Michieletto di Monaco, che è risultata l’interprete più apprezzata per la sua emissione sicura, il timbro particolare, il grande temperamento e l’equilibrio tra belcanto ed espressione drammatica. E infine Manrico, per interpretare il quale è stato chiamato il giovane Riccardo Massi, dotato di statura imponente e voce importante, ma l’interpretazione non convince, il tono è o stentoreo o lamentevole, l’articolazione della parola non incisiva, il fraseggio un po’ piatto e non bastano i do di «Di quella pira» a salvare una performance che non ha suscitato maggiori contestazioni solo perché queste si sono concentrate sul regista.

Davide Livermore è risultato troppo trasgressivo per una parte del pubblico, troppo tradizionale per l’altra! Sì, questo può succedere per una personalità come quella del regista torinese che ormai ha definito un suo stile che talvolta diventa stilema, come in questa produzione che non sembra comunque delle sue migliori. Abituato alle prime della Scala, il budget più contenuto del festival parmense ha un po’ compromesso la sua ispirazione, qui più sobria ma meno convincente del solito. Ambientato nell’ormai solito universo distopico di un paesaggio urbano devastato dalla guerra civile, i due mondi del Conte e Leonora e quello degli emarginati Manrico e Azucena sono nettamente distinti: grattacieli luccicanti formano quello dei nobili, un ambiente circense inquietante come il film Freaks quello degli zingari. La costumista Anna Verde disegna completi scuri e divise militari per il primo, sgargianti ma stracciati i costumi per i giocolieri e clown del secondo – tra i quali un mangiafuoco che aggiunge la sua dose di fiamme a quelle già previste dal libretto. Sul led wall del fondo si vedono le immagini digitalizzate della D-Wok: una gigantesca Luna, l’interno del tendone che prima si vedeva in lontananza nella periferia, un cavalcavia, un ponte in fiamme, l’interno di un ospedale allestito in una fabbrica abbandonata, l’esterno di un edificio carcerario, l’interno del carcere medesimo. E poi il cielo sempre minaccioso, con nubi nere come il fumo, pioggia di lapilli o cenere postnucleare, fiamme e magma incandescente. Nella scenografia di Giò Forma l’unico elemento reale è un imponente traliccio il cui utilizzo si rivela poco necessario ma il cui spostamento tra una scena e l’altra costringe a lunghi minuti di attesa a sipario abbassato che diluiscono la tensione e che aumentano di quasi mezz’ora la lunghezza dello spettacolo.

In definitiva si tratta di una lettura piuttosto tradizionale nella drammaturgia e nella gestione dei personaggi, che non guadagnano maggiore spessore psicologico nella attualizzazione, ma urta il pubblico per gli elementi contemporanei dei fucili, delle pistole, dei telefonini e delle sigarette, non tanto perché incongrui con l’ambientazione originale, ma perché diventati dei cliché di cui si può fare onestamente a meno.

Il trovatore

Giuseppe Verdi, Il trovatore

★★★☆☆

Macerata, Arena Sferisterio, 1 August 2020

(semi-staged performance)

 Qui la versione italiana

Il trovatore proves a masterpiece even without staging

With Il trovatore, Verdi dealt another blow to the moral standards of his time. Two years earlier he had staged a hunchback and a dissolute monarch and a few months later it was the turn of a grande horizontale. Here we have a gypsy, an outcast by society and only an alleged madness makes Azucena an acceptable protagonist – originally the opera was to be entitled The Gypsy.

In the case of Rigoletto and La traviata the censorship requested the backdating of the events to weaken the shock…

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Il trovatore

Giuseppe Verdi, Il trovatore

★★★☆☆

Macerata, Arena Sferisterio, 1 agosto 2020

(esecuzione in forma oratoriale)

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Anche senza allestimento scenico Il trovatore si conferma il capolavoro che è

Con Il trovatore Verdi assestava un altro colpo alla morale borghese del tempo: due anni prima aveva portato in scena un gobbo e un monarca depravato (Rigoletto) e pochi mesi dopo sarebbe stato il turno di una prostituta (Traviata), ma qui abbiamo una reietta emarginata da sempre dalla società, una zingara. Solo una presunta pazzia la rende accettabile quale protagonista – originariamente l’opera si doveva infatti intitolare La zingara, tanto per far capire l’importanza del personaggio.

Nel caso di Rigoletto e Traviata la censura aveva preteso che le vicende fossero retrodatate per attenuarne l’impatto, per Il trovatore invece l’ambientazione più esotica (la Spagna del XV secolo) e folcloristica (i variopinti e vivaci zingari) rendevano più digeribile al pubblico borghese una vicenda irrazionale, in cui un dramma famigliare si inseriva in una guerra civile in corso. Il libretto di Salvadore Cammarano era stato tratto da El trovador, drammone romantico di Antonio García Gutiérrez, che fu a suo tempo il più grande successo di tutta la storia del teatro spagnolo.

Ma non è solo il soggetto a rompere con la tradizione, lo è anche la musica. È stata attribuita a Caruso la battuta per cui Il trovatore sia facilissimo da mettere in scena: basta avere un soprano, un mezzosoprano, un tenore e un baritono adeguati! Che poi ci siano anche le scenografie non è così essenziale – e in certi casi sarebbe meglio che non ci fossero per non trasformare la rappresentazione in Una notte all’opera dei fratelli Marx!

A Macerata, che nella pandemia è riuscita a salvare, riducendolo, il suo Festival all’Arena Sferisterio, Il trovatore viene eseguito in forma oratoriale: il distanziamento sociale è salvo e il dramma si dipana con la forza della sola musica. E che musica! Il lavoro di mezzo della “trilogia popolare” ha un carattere scuro, notturno, una notte illuminata solo dai bagliori del fuoco, il fuoco dei bivacchi e delle devastazioni della guerra, ma anche il fuoco di roghi umani. L’atmosfera è claustrofobica e la parola che ricorre più spesso nel libretto è “cielo”, in tutte e due le sue accezioni: non c’è speranza di rasserenamento in terra, ma solo una lontana consolazione ultraterrena.

Tutto questo è ben chiaro a Vincenzo Milletarì, trentenne di origini siciliane (il cognome non mente mai…) ma educazione nordeuropea, il quale affronta l’impresa con grande coscienziosità, fin dalla sistemazione dell’orchestra: gli strumentisti sono sul palcoscenico, a debita distanza l’uno dall’altro tanto da occupare buona parte dello sterminato spazio – tra l’arpa all’estrema sinistra e le percussioni a destra ci saranno cinquanta metri o forse anche più, con un evidente effetto stereofonico, inedito in un teatro d’opera – e la loro disposizione è solo in parte quella consueta, giacché i violoncelli sono in fila indiana sulla destra davanti a viole e contrabbassi, i legni occupano il centro, i corni sono a sinistra e gli altri ottoni a destra.

Il gesto di Milletarì è ampio e evidente, gli attacchi precisi, il direttore segue il respiro e le pause dei cantanti con grande attenzione e il risultato è un Trovatore forse meno sanguigno del solito, ma tutto un trascolorare notturno che mette in evidenza l’inconsueta sobrietà di timbri di questa partitura. Ampio lo spettro delle agogiche scelte dal giovane direttore: a oasi di placida calma lunare si succedono momenti di concitazione che però non trascendono mai in effetto bandistico. Nelle lettere scambiate col librettista il compositore lamentava i tanti pezzi isolati «che m’hanno piuttosto l’aria di pezzi da concerto che d’opera». Ecco, forse Milletarì non riesce dare al tutto unitarietà di intenzioni, ma la sua lettura ha comunque un ritmo narrativo sostenuto da una grande tensione.

Il trovatore è una successione di scene formate quasi tutte da introduzione, aria e cabaletta in cui si dimostra quanto Verdi dovesse a Donizetti, e questi a sua volta quanto dovesse a Mozart. Le arie di Leonora sono eredi dirette delle eroine donizettiane ma anche della Contessa delle Nozze. A dipanare le struggenti melodie di «Tacea la notte placida» e di «D’amor su l’ali rosee» il soprano Roberta Mantegna, la stessa Léonore apprezzata a Parma nella versione francese, sfoggia fiati e filati egregi, un’emissione ben controllata e agilità eseguite con agio. Luciano Ganci non fa molto per rendere di maggior spessore il personaggio eponimo, ma ne sostiene vocalmente la baldanza e, seppure abbassata di tono, supera a vele spiegate il promontorio de «Di quella pira», che poi per molti è l’essenza stessa del Trovatore e dell’opera verdiana e romantica. Veronica Simeoni, sostituta dell’ultimo momento, presenta una Azucena giovane, non la solita megera dalla voce cavernosa. Magari qualche accento è un po’ verista e «Ai nostri monti» non così onirico come si vorrebbe, ma il personaggio è saldamente delineato. Serata no, invece, per Massimo Cavalletti, Conte di Luna dai suoni sforzati e non sempre felicemente intonati. Irriconoscibile e molto più convincente del Masetto della sera prima, è il Ferrando di Davide Giangregorio il cui racconto nella scena iniziale dell’opera è pieno di intenzioni e colori.

Piuttosto banali e sostanzialmente inutili le proiezioni di cieli nuvolosi o lunari sul muro dello Sferisterio: bastavano le luci della sera e i proiettori a creare quell’atmosfera che stava comunque tutta quanta nella musica.

Il trovatore

Giuseppe Verdi, Il trovatore

★★★☆☆

Monaco, Nationaltheater, 5 luglio 2013

(live streaming)

«Di qual tetra luce»

Come si può mettere il scena Il trovatore senza farlo diventare la caricatura dei Marx Brothers? L’assurda e macchinosa vicenda se la decostruisci perde senso, tanto vale allora prenderla sul serio come fa Olivier Py alla Bayerische Staatsoper. La sua lettura “new gothic” si avvale del complesso apparato scenografico del fedele Pierre-André Weitz che si occupa anche dei costumi – quindi è suo il gilet di paillettes di Manrico!

Su una piattaforma rotante un’imponente struttura metallica piena di macchinari e ruote ad ogni giro mostra qualcosa di diverso: una locomotiva, un bosco di alberi scheletriti, un teatrino, uno schermo cinematografico, un crocefisso in fiamme, una camera da letto, una serie di facciate di case… Con gran profusione di neonati sanguinolenti, manichini maschili e femminili, fantasmi della zingara arsa sul rogo, mimi,  ballerini/e, comparse varie, lo spirito è quello del drammone a fosche tinte di Gutiérrez. Le luci di Bertrand Killy rendono ancora più vividi, al limite dell’espressionismo, le immagini delle quattro parti in cui è suddivisa l’opera. Al più si può criticare Py per mettere esplicitamente in scena quello che viene solo raccontato (la pantomima della zingara al rogo) o di sottolineare quanto viene cantato («Non può nemmeno un dio» afferma il Conte di Luna spezzando un crocefisso), ma la turgida vicenda qui ha una sua forza che nonostante tutto non vira nel grottesco malgrado il continuo trambusto e affollamento in scena.

Coerente con la sovrabbondante scelta registica è la direzione di fuoco di Paolo Carignani, con strette impetuose e ritmi incalzanti accanto a languidi cantabili. Alla sua concertazione si adegua un cast di grande livello nei due personaggi principali. Lo scavo psicologico è impresa impossibile nel caso di Manrico, ma Jonas Kaufmann riesce comunque a trasmettere una naturale empatia per il suo personaggio: parte a gambe larghe come il tipico tenore/eroe da melodramma (e il suo «Deserto in terra» è un tantino stentoreo), ma presto gioca la carta dell’introversione e della malinconia, cosa che gli riesce sempre molto bene e qui il meglio lo dà nelle mezze voci nei suoi duetti con Leonora e con la madre, dove i pianissimi e le smorzature sono una lezione di elegia liederistica. Comunque, quando viene il momento della “pira” – qui abbassata di mezzo tono, ma con la ripresa – lo squillo non manca e fa venir giù il teatro dagli applausi. Vocalmente sontuosissima, stilisticamente ineccepibile e dai fiati prodigiosi è Anja Harteros, una Leonora qui cieca. Questa sua menomazione dà ancora maggiore risalto al suo destino funesto che inizia con un amore impossibile, prende in considerazione la clausura in convento e culmina nel suicidio con veleno. Spiega inoltre il suo scambio di persona nella prima parte, la sua domanda «Sei tu dal ciel disceso, | o in ciel son io con te?» nella seconda e il suo lamentare «Di qual tetra luce | il nostro imen risplende!» nella terza. Se talora le prove verdiane della Harteros hanno avuto un che di algido, qui invece gli slanci hanno un fuoco sorprendente e il personaggio acquista una particolare vivezza, molto apprezzata dal pubblico. Voluminoso ma monocorde Alekseij Markov così che il personaggio del Conte di Luna rimane solo rozzamente sbozzato. Non memorabile il Ferrando di Kwangchul Youn. Meglio i comprimari Ines e Ruiz, affidati rispettivamente a Golda Schultz e Francesco Petrozzi.

La Azucena di Py è alcolizzata, prestigiatrice – la dimensione meta-teatrale della rappresentazione ha un tocco per il pubblico rimasto in sala durante l’intervallo, allorché Elena Manistina esegue il classico trucco del corpo segato e separato in due parti e il corpo è quello di Jonas Kaufmann che si presta simpaticamente al siparietto – e madre morbosamente attaccata al “figlio” tanto da sfiorare con lui un rapporto sado-masochistico e incestuoso (d’altronde è il figlio del suo acerrimo nemico…). Grande presenza scenica quella di Elena Manistina, ma il meglio la sua voce lo dà nel registro basso, essendo mancante in quello acuto così che un passaggio viene eliminato. E sono molti i tagli di tradizione inopportunamente effettuati in questa esecuzione.

Il trovatore

Giuseppe Verdi, Le trouvère

★★★☆☆

Parma, Teatro Farnese, 29 September 2018

 Qui la versione in italiano

Robert Wilson’s lunar Trouvère

Parma’s Verdi Festival presents less frequented versions of the composer’s output. After opening with Macbeth in its 1847 original edition, it is now the turn of Le trouvère, the Parisian version of Il trovatore, adapted for Paris in 1857.

Obviously, Verdi had to add a ballet in Act 3 that was requested in the French capital, but Azucena’s role underwent some changes too, with 24 extra bars to her tale when she tries to raise the Count’s compassion. Act 4 was also modified: Leonora is deprived of her cabaletta, thus shifting the dramaturgical balance of the opera towards Azucena…

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Il trovatore

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Giuseppe Verdi, Il trovatore

★★★☆☆

Londra, Royal Opera House, 31 gennaio 2017

(live streaming)

Il tank del Conte di Luna

Non sempre l’attualizzazione fa bene a un’opera: trasformare una faida famigliare di inizio ‘400 in una guerra moderna con tanto di carri armati e mitragliatrici, trasportando quindi la vicenda – con annessi e connessi di trovatori, duelli al pugnale, roghi di streghe, fughe in convento, serenate e liuti – ai giorni nostri, non trasforma Il trovatore in qualcosa di più logicamente ammissibile di quanto sia, né rende più accettabile l’assurda vicenda di infanticidio e vendetta narrata dal Gutiérrez, messa in rima dal Cammarano e musicata da Verdi.

David Bösch e lo scenografo Patrick Bannwart non usano la mano leggera nel trasferire la storia del giovane combattuto tra l’amore per l’infelice amata e l’affetto per la donna che crede essere sua madre in paesaggi, presumibilmente balcanici, devastati da guerre civili, divisi da fili spinati e teatro di crudeltà gratuite e incongrue. Ovunque è devastazione nella messa in scena del regista tedesco, un mondo tutto grigio ravvivato solo dai colori sgargianti dei costumi degli zingari, una troupe di circo felliniano che si muove su veicoli improvvisati, con Azucena su una roulotte disseminata di lugubri bambolotti. Il regista ha infantili cadute di gusto come quando Leonora incide L♡M sul tronco di un albero spoglio, o la bottiglietta di veleno che porta appesa al collo con una catenina, i bianchi fiori di carta sugli alberi scheletriti, le ingenue proiezioni video. Questa è la terza ripresa della produzione di Bösch alla Royal Opera House e molti particolari di quella originale sono stati abbandonati o modificati – un selfie col prigioniero, farfalle sfarfallanti, la testa di Manrico che rotola come una palla… – ma la messa in scena ancora non convince e la regia attoriale è sempre latitante.

Non si contesta invece l’aspetto musicale della rappresentazione. Star indiscussa della serata è ancora una volta Anita Rachvelishvili, fatta segno di meritate ovazioni. Debuttante nel ruolo, si è subito dimostrata un’Azucena memorabile: pur con tutta la potenza vocale in possesso, è nelle mezze voci del suo racconto allucinato, nella mesta dolcezza di «Ai nostri monti», nel soffocato grido finale «Era tuo fratello!» che va ricercata la grandezza di un’artista che tramuta in oro tutto quello che fa, contendendo spesso i riflettori ai protagonisti titolari – che si tratti della sua Amneris in Aida, Ljubaša ne La sposa dello zar o Končakovna nel Principe Igor. Per non parlare delle sue indimenticabili Carmen o Dalila.

Non che il ruolo del titolo non sia affidato a un illustre interprete, ma qui (magia dell’opera) il figlio Manrico ha il doppio degli anni della madre Azucena! Gregory Kunde è vocalmente il miracolo che conosciamo: il nobile fraseggio, l’espressività della parola, gli acuti luminosi – Kunde non ci priva neppure delle puntature di tradizione della «pira», anche se qui un po’ corte – ma è scenicamente che si fa fatica a riconoscere il giovane e irruente Manrico, qui travestito da hippy, nell’affascinante uomo di mezza età che porta con orgoglio i suoi anni.

Molto festeggiato dal pubblico anche l’altro interprete femminile, il soprano armeno Lianna Haroutounian che dipinge una Leonora dal bel timbro, eccellente dizione e con frasi splendidamente legate in cui è la liricità a prevalere, meno l’agilità richiesta dal compositore nell’aria «D’amor sulle ali rosee» con quei trilli un po’ schiacciati.

Conte di Luna è qui un terzo cantante di area orientale, l’ucraino Vitaliy Bilyy dalla generosa e bella vocalità. Assiduo del ruolo, ne «Il balen del suo sorriso», un suo cavallo di battaglia, ha infiammato il pubblico londinese, ma è forse quello che più ha sofferto della mancanza di regia sugli interpreti e il personaggio rimane rigido e indefinito.

Ancora un altro ucraino per Ferrando, cui presta la possente voce Alexander Tsymbalyuk, l’intenso Boris Godunov di Calixto Bieito.

In questa ripresa il direttore Richard Farnes prende il posto del nostro Noseda alla guida dell’orchestra reggendo bene il confronto: tempi non trascinanti ma complessivamente giusti, buona resa dei colori e delle frasi musicali, rispetto per la voce di cantanti. Ma qui c’è il sospetto di una amplificazione, cosa difficile da verificare in una sala cinematografica con il volume a pieni decibel.

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Simon Boccanegra

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Giuseppe Verdi, Simon Boccanegra

Venezia, Teatro La Fenice, 22 novembre 2014

★★★★★

(video streaming)

Serata inaugurale memorabile per La Fenice

Per la stagione della Fenice, anche se è da poco trascorso l’anno del bicentenario verdiano, il compositore di Busseto riceve l’onore di una doppia inaugurazione con due sue opere: il 22 novembre è il Simon Boccanegra, la sera dopo toccherà a La traviata. Entrambe le opere hanno avuto il debutto nella città lagunare a quattro anni di distanza.

Due sono le versioni del Boccanegra. Il 12 marzo 1857 a Venezia andò in scena la prima versione su un libretto che il compositore aveva personalmente steso in prosa affidandone poi la versificazione a Francesco Maria Piave e, a sua insaputa, a Giuseppe Montanelli. Il risultato fu un testo oscuro e cervellotico che scatenò le critiche. Il Basevi, musicologo del tempo, affermò di averlo dovuto leggere sei volte prima di riuscire a venirne a capo. Nonostante i cantanti di prim’ordine, la serata delude Verdi: «Jeri sera cominciarono i guai: vi fu la prima recita del Boccanegra che ha fatto fiasco quasi altrettanto grande che quello della Traviata. Credeva di aver fatto qualche cosa di passabile ma pare che mi sia sbagliato. Vedremo in seguito chi avrà torto». Le sei repliche non bastarono a raddrizzare le sorti di un lavoro dall’intreccio tortuoso e pervaso da una tinta musicale troppo uniforme.

Una revisione della partitura suggerita da Ricordi non incontrava l’interesse di Verdi che solo dopo l’Aida prese in considerazione la proposta che Arrigo Boito gli presentava per la musica del suo nuovo Boccanegra. Con questo nuovo libretto andò in scena alla Scala il 24 marzo 1881 sotto la direzione di Franco Faccio e ottenne un buon successo.

Derivata dal solito Gutiérrez (Simón Bocanegra, 1843), originariamente in quattro atti. l’opera venne riscritta in un prologo e tre atti con la sostituzione di un intero quadro (il secondo dell’atto primo), l’eliminazione del preludio (in luogo del quale Verdi compose una memorabile introduzione strumentale), la sostituzione del duetto tra Gabriele e Fiesco (atto primo), la composizione di una nuova scena per il personaggio di Paolo (atto terzo) e inoltre un immenso numero di modifiche, tagli, ritocchi, inserzioni. In un tempo molto limitato e sotto la costante supervisione di Verdi Boito apportò le modifiche necessarie al vecchio libretto e avanzò personalmente alcuni validissimi suggerimenti. Per ovvie ragioni (distinguere i nuovi versi dai vecchi sarebbe stato ben difficile) preferì tuttavia non firmare il libretto.

Le vicende si svolgono nel 1339 (Prologo) e 1363. Siamo a Genova, di notte, in una piazza sulla quale si affaccia il Palazzo Fieschi. Il nuovo doge sta per essere eletto e in città si scontrano il partito plebeo, capeggiato dal popolano Paolo Albiani, e il partito aristocratico, legato al nobile Jacopo Fiesco. Paolo confida al popolano Pietro di sostenere l’ascesa al trono dogale di Simone Boccanegra, un corsaro che ha reso grandi servigi alla Repubblica genovese, e di attendersi in cambio potere e ricchezza. Giunge Simone, angosciato perché da molto tempo non ha più notizie di Maria, che gli ha dato una figlia e che per questo è tenuta prigioniera nel palazzo gentilizio del padre Jacopo Fiesco. Paolo convince il recalcitrante Simone ad accettare la candidatura facendogli intendere chiaramente che, una volta eletto doge, nessuno potrà più negargli le nozze con Maria. Pietro chiede al popolo di votare per Simone e avverte che dal palazzo dei Fieschi giungono dei lamenti di donne. Tutti si allontanano. Jacopo Fiesco esce sconvolto dal palazzo: Maria è morta. Sopraggiunge Simone che, ignaro di quanto è accaduto, supplica Fiesco di perdonarlo e concedergli Maria. Quando il patrizio gli pone come condizione la consegna della nipote, egli confessa che la bambina fu da lui affidata ad un’anziana nutrice in un paese lontano, ma poi la nutrice morì e la bambina scomparve. Svanita ogni speranza di riappacificazione, Fiesco finge di allontanarsi ma di nascosto osserva Simone, che entra nel palazzo in cerca della donna che scopre morta. Proprio in quel momento il popolo acclama Simon Boccanegra nuovo doge. Tra il prologo e il primo atto trascorrono venticinque anni e accadono molti fatti: il doge Simone esilia i capi degli aristocratici e Fiesco, per sfuggirgli, vive in esilio sotto il nome di Andrea Grimaldi. Anni prima, la famiglia Grimaldi aveva trovato una bambina nel convento in cui era appena morta Amelia, loro figlia. L’avevano adottata dandole il nome della figlia morta; ma questa orfana, all’insaputa di tutti, altri non è che la vera figlia di Maria e Simone. Trascorsi venticinque anni, Amelia ama riamata un giovane patrizio, Gabriele Adorno, l’unico in realtà a sapere che Jacopo Fiesco e Andrea Grimaldi sono la stessa persona. Gabriele e Jacopo congiurano contro il doge plebeo.
Atto I. Quadro primo. In giardino Amelia attende Gabriele in riva al mare, immersa nei confusi ricordi della sua fanciullezza e quando il giovane la raggiunge lo supplica di non partecipare alla cospirazione contro Simone. Pietro annuncia l’arrivo del doge e Amelia, temendo che egli venga a chiederla in sposa per il suo favorito, Paolo Albiani, supplica Gabriele di prevenirlo affrettando le nozze. Rimasto solo con Gabriele, Andrea Grimaldi (ossia Jacopo Fiesco) gli rivela che Amelia è in realtà un’orfanella a cui lui e i Grimaldi hanno dato il nome della vera figlia dei Grimaldi e lo benedice. Squilli di trombe annunciano l’entrata del doge, che porge ad Amelia un foglio: è la concessione della grazia ai Grimaldi. La fanciulla, commossa, gli apre il suo cuore confessandogli di amare un giovane aristocratico e di essere insidiata dal perfido Paolo, che aspira alle sue ricchezze. Infine gli rivela di essere orfana. Simone, sentendo la parola orfana, la incalza con le sue domande e confronta un suo medaglione con quello che la fanciulla porta al collo: entrambi recano l’immagine di Maria; agnizione, padre e figlia si abbracciano felici. Al ritorno di Paolo, Simone gli ordina di rinunciare ad Amelia e il perfido uomo, per vendicarsi, organizza per la notte successiva il rapimento di Amelia. Quadro secondo. Nella Sala del Consiglio nel Palazzo degli Abati il Senato è riunito e il doge chiede il parere dei suoi consiglieri: egli desidera la pace con Venezia, ma Paolo e i suoi chiedono la guerra. Dalla piazza giungono i clamori di un tumulto e, affacciandosi al balcone, Simone scorge Gabriele Adorno inseguito dai plebei. Pietro, temendo che il rapimento di Amelia sia stato scoperto, incita Paolo a fuggire, ma il doge lo precede ordinando che tutte le porte siano chiuse: chiunque fuggirà sarà dichiarato traditore. Poi, incurante delle grida della folla contro di lui, fa entrare il popolo. La folla irrompe trascinando Fiesco e Gabriele, il quale confessa di aver ucciso il plebeo Lorenzino che aveva rapito Amelia per ordine di un «uom possente». Supponendo che costui sia Simone, si slancia contro di lui per colpirlo. Sopraggiunge Amelia, si frappone supplicando il padre di salvare Adorno e raccontando di essere stata rapita da tre sgherri, di essere svenuta e di essersi ritrovata nella casa di Lorenzino. Poi, fissando Paolo, dice di poter riconoscere il vile mandante del rapimento. Scoppia un tumulto, patrizi e plebei si accusano a vicenda, Simone rivolge all’assemblea e al popolo un accorato discorso, invocando pace. Gabriele gli consegna la spada ma il doge la rifiuta e lo invita a rimanere agli arresti a palazzo finché l’intrigo non sia svelato. Si rivolge quindi a Paolo, di cui ha intuito la colpevolezza, e lo invita a maledire pubblicamente il traditore infame che si nasconde nella sala. Paolo, inorridito, è in tal modo costretto a maledire sé stesso.
Atto II. Nella stanza del doge, nel Palazzo ducale di Genova, Paolo chiede a Pietro di condurre da lui i due prigionieri, Gabriele e Fiesco, e versa una fiala di veleno nella tazza di Simone. Non contento, chiede a Fiesco, l’organizzatore confesso della rivolta, di assassinare il doge nel sonno e, davanti al suo sdegnato rifiuto, lo fa riportare in cella e insinua in Gabriele il sospetto che Amelia si trovi in balia delle turpi attenzioni di Simone. Quando giunge Amelia, il giovane l’accusa di tradimento con il doge, di cui uno squillo di tromba annuncia l’arrivo. Gabriele si nasconde, Amelia in lacrime confessa al padre di amare l’Adorno e lo supplica di salvarlo. Simone, combattuto fra i doveri della sua carica e il sentimento paterno, la congeda. Beve quindi un sorso dalla tazza, notando che l’acqua ha un sapore amaro, e si assopisce. Gabriele esce dal suo nascondiglio e si slancia contro di lui per colpirlo, ma ancora una volta Amelia glielo impedisce. È il momento della rivelazione: il doge si risveglia, ha un violento scontro verbale con Gabriele, che l’accusa di avergli ucciso il padre, e infine gli svela che Amelia è sua figlia. Il giovane implora Amelia di perdonarlo e offre al doge la sua vita. Di fuori giungono rumori di tumulti e voci concitate: i cospiratori stanno assalendo il Palazzo. In segno di riconciliazione il doge incarica Gabriele di comunicare loro le sue proposte di pace e gli concede la mano di Amelia.
Atto III. Siamo all’interno del Palazzo ducale. La rivolta è fallita, il doge ha concesso la libertà ai capi ribelli, solo Paolo è stato condannato a morte. Mentre si reca al patibolo, egli rivela a Fiesco di aver fatto bere a Simone un veleno che lo sta lentamente uccidendo e ascolta con orrore le voci che inneggiano alle future nozze di Amelia e Gabriele. Giunge Simone, che sta cercando refrigerio al malessere che già lo pervade respirando l’aria del mare. All’improvviso gli si avvicina Fiesco che gli annuncia che la sua morte è vicina. Da quella voce inesorabile, dopo averlo osservato bene in volto, Simone riconosce con stupore l’antico nemico, ch’egli credeva morto, e con un gesto magnanimo decide di rivelargli che Amelia è sua nipote. La commozione invade l’anima del vecchio patrizio, che troppo tardi comprende l’inutilità del suo odio. Un abbraccio pone fine alla lunga guerra. Quando il corteo degli sposi torna dalla chiesa, Simone invita la figlia a riconoscere in Fiesco il nonno materno, benedice la giovane coppia e muore dopo aver proclamato Gabriele nuovo doge di Genova.

Come si fa normalmente, la versione scelta da Myung-Whun Chung a capo dell’orchestra del teatro veneziano è quella definitiva del 1881. In questo allestimento la regia e le scene sono firmate da Andrea de Rosa e i costumi da Alessandro Lai. Suggestivo il prologo immerso nel buio, la madonnina illuminata dal cero, il mare scuro, i costumi neri e quell’unica macchia chiara che è il cadavere di Maria. Nell’atto primo l’aurora porta finalmente un po’ di luce che filtra attraverso un’elegante bifora gotica che incornicia il fondo del mare realizzato con proiezioni video di Pasquale Mari che cura anche le suggestive luci. La scena unica si arricchisce ogni volta di altri elementi architettonici per suggerire i diversi ambienti, ma sempre presente sarà l’elemento liquido cui anela Simone, ma che gli resta precluso dal ruolo di potere che ha dovuto accettare suo malgrado. La regia è attenta alla interazione dei personaggi, ai loro sguardi, alla sobria gestualità.

Cast di grande livello. L’appena trentenne Simone Piazzola è Simone, debuttante nella parte e a suo agio nella sofferta maturazione tra il prologo e il primo atto, perfetto. Maria Agresta e Francesco Meli, entrambi vincitori del Premio Abbiati 2014, prestano le loro voci per i giovani Amelia e Gabriele, Giacomo Prestia è ormai il Fiesco di riferimento, Julian Kim il perfido ma complesso Albiati.

Ottima prova quella del concertatore e direttore d’orchestra Myung-Whun Chung: incalzante ma attento alle sfumature e ai colori dell’orchestrazione ha lasciato un ricordo memorabile della sua lettura ed è quello che ha avuto le maggiori ovazioni dal pubblico.

Il trovatore

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★★★☆☆

Un’edizione tutt’altro che memorabile

Secondo sportello del trittico popolare, dopo il Rigoletto del 1851 e precedente di pochi mesi La Traviata del 1853, è la meno eseguita delle tre, seppure altrettanto familiare al pubblico dell’opera.

Il libretto di Cammarano e Bardare è tratto da quel drammone romantico El trovador (1836), opera prima del fecondo Antonio García Gutiérrez, che fu il più grande successo della storia del teatro spagnolo. La vicenda è la cosa più strampalata che ci si possa inventare, con quella folle di Azucena che scambia il proprio figlio per quello dell’odiato conte e lo getta nel fuoco, con le conseguenze che si possono immaginare. L’opera di Verdi supera tutte queste assurdità con la sua vitalità, le sue trascinanti melodie e i ritmi incalzanti e da subito eclissò il dramma spagnolo che da allora non fu mai più rappresentato se non come curiosità archeologica.

Atto primo. Il duello. Ferrando narra agli armigeri del conte di Luna la storia di un zingara, condannata al rogo per stregoneria, la cui figlia, per vendicarsi, aveva rapito uno dei due figli del conte – un bambino ancora in culla – e l’aveva bruciato. Nella scena successiva una nobile dama, Leonora, narra a Ines, sua cameriera e confidente, di amare uno sconosciuto cavaliere, incontrato in un torneo, il quale viene nottetempo a trovarla, accompagnando con il liuto i canti con i quali si annuncia. Nella terza scena compare il conte di Luna, figlio dell’omonimo conte al quale era stato rapito il bambino; ama Leonora ed è quindi rivale dello sconosciuto trovatore. Quando questi giunge, il conte di Luna lo sfida a rivelare il proprio nome e l’altro (tenore) dichiara d’ essere Manrico, seguace dell’eretico Urgel. I due si allontanano per battersi.
Atto Secondo. La gitana. Su un monte della Biscaglia alcuni zingari, intenti al lavoro, cantano battendo ritmicamente i martelli sulle incudini. Azucena si tiene in disparte con Manrico, al quale narra che una zingara, bruciata perché accusata di stregoneria, le aveva chiesto, prima di morire, di vendicarla. Quella zingara era sua madre e Azucena aveva rapito un bambino, figlio del conte di Luna, con l’intento di bruciarlo. Ma, frastornata, aveva gettato tra le fiamme il proprio figlioletto e non il bambino rapito. Manrico è sorpreso e turbato, ma Azucena lo rassicura: se non fosse sua madre non avrebbe curato amorosamente le ferite da lui riportate in una vittoriosa battaglia. Ma perché, quando il conte di Luna era piombato su di lui con i suoi, non l’aveva ucciso? E perché, quando si erano battuti in duello, lo aveva risparmiato? Manrico non sa spiegarselo. Gli era parso che una misteriosa voce giungesse dal cielo, imponendogli di non colpire. Azucena gli fa allora giurare che, se in futuro dovesse ancora battersi con il conte, non avrà pietà. Giunge poi un messo e narra che Leonora, credendo morto Manrico, sta per farsi suora. Manrico, ignorando le preghiere di Azucena, che gli ricorda le ferite dalle quali non è ancora guarito, balza a cavallo e piomba sul conte di Luna, che si accingeva a rapire Leonora: l’arrivo di Manrico sventa il suo piano.
Atto terzo. Il figlio della zingara. Sfilano gli armigeri del conte di Luna, il quale assedia Castellor, difesa da Manrico e dai suoi; subito dopo è catturata una zingara sorpresa in attitudine sospetta. In lei Fernando riconosce chi che aveva rapito e dato alle fiamme il fratellino del conte. Torturata, Azucena invoca l’aiuto del figlio Manrico, ciò che rende ancor più feroce Luna. La successiva scena si svolge in Castellor. Manrico e Leonor sono sul punto di sposarsi allorché Ruiz avverte Manrico che il conte di Luna ha già fatto accendere le pira sulla quale Azucena sarà bruciata. Manrico, disperato, decide una sortita per salvare la madre.
Atto quarto. Il supplizio. Leonora si aggira nottetempo nei pressi del palazzo dove il conte ha imprigionato Manrico, da lui catturato in battaglia. Al suo orecchio giunge la voce di Manrico, che, invocando la morte, le invia l’estremo saluto e il Miserere di un coro di prigionieri. Leonora promette allora al conte il proprio corpo in cambio della salvezza di Manrico. Il finale dell’opera è ambientato nella prigione che rinchiude Manrico e Azucena, che alterna momenti di delirio ad altri di sopore. Sopraggiunge Leonora e annuncia a Manrico che è libero; ma quando Manrico apprende a quali condizioni, inveisce contro di lui, ravvedendosi tuttavia quando Leonora, che continua a esortarlo alla fuga, gli rivela d’essersi avvelenata. Il conte di Luna trova Leonora morente e ordina che Manrico sia giustiziato. A esecuzione avvenuta, Azucena, morente, gli rivela che Manrico era suo fratello, da lei rapito bambino.

Proveniente da Chicago, nel 2009 approda al MET questa produzione di David McVicar che prende del tutto sul serio l’assurda vicenda (sarebbe infatti facile cadere nella farsa di A night at the Opera dei fratelli Marx!) e ne dà una versione estremamente tradizionale, quasi didascalica, unica libertà l’ambientazione, che dal quindicesimo secolo è trasposta all’inizio del diciannovesimo, durante la guerra d’indipendenza spagnola (1808-1814), con i visi contratti dei Desastres de la guerra di Goya dipinti sul sipario. Le scenografie di Charles Edwards sono giustamente cupe e condensano tutte le numerose scene in cui si sviluppa la vicenda su una piattaforma girevole che di volta in volta mostra l’accampamento degli zingari, il cortile del castello, il chiostro, la prigione, con grande vantaggio alla fluidità dell’azione scenica e alla comprensione della vicenda. Entrambe le interpreti femminili hanno problemi di dizione: la Azucena di Dolora Zajick canta con i denti serrati e si capisce meno della metà di quello che dice (ah, quelle parole scolpite nel bronzo di Fedora Barbieri…). Qualcuno poi avrebbe dovuto avvisarla che deve cantare «Mi vendica!», non «Mi vendico!» come ripete per ben tre volte. Anche la Leonora di Sondra Radvanovsky ha difetti analoghi, per di più ha un’intonazione non molto stabile e un vibrato eccessivo. A dispetto del cognome sono entrambe americane e di casa al MET, da qui gli applausi fragorosi loro tributati dal generoso pubblico.

Russo è ovviamente Dmitrij Hvorostovskij. Il suo è un conte di Luna di gran classe ma gelido. L’unico con la nazionalità “giusta” è il Manrico di Marcelo Álvarez – vabbè è argentino. Elegante nel suo costume (si capisce subito che è il fratello del conte…) e vocalmente in forma è l’unico con il declamato “italiano” adatto all’opera e lo squillo potente, anche se la sua «Pira» è abbassata di un semitono e senza ripresa. Direzione spavalda, ma talora scoordinata, di Marco Armiliato, che ha sostituito all’ultimo momento James Levine.

Come extra le interviste della Fleming agli interpreti durante gli intervalli della trasmissione live.