Cesare Sterbini

Il barbiere di Siviglia

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Gioachino Rossini, Il barbiere di Siviglia

★★☆☆☆

Venezia, Teatro la Fenice, 3 febbraio 2018

Un Barbiere nato già vecchio

Nel presentare la loro nuova creazione per il Carnevale del 1816, il librettista Sterbini e il compositore Rossini non la smettono di chiedere comprensione per il loro atto audace, quello cioè di intonare nuovamente Il barbiere di Siviglia del venerato maestro Paisiello, pur con altro titolo: «La commedia del signor Beaumarchais […] si ripropone in Roma ridotta a dramma comico col titolo di Almaviva, o sia L’inutil precauzione all’oggetto di pienamente convincere il pubblico de’ sentimenti di rispetto e venerazione che animano l’autore della musica del presente dramma verso il tanto celebre Paisiello che ha già trattato questo soggetto sotto il primitivo suo titolo. […] Onde non incorrere nella taccia d’una temeraria rivalità coll’immortale autore che lo ha preceduto, [il Maestro Rossini] ha richiesto che Il barbiere di Siviglia fosse di nuovo interamente versificato, e che vi fossero aggiunte parecchie nuove situazioni di pezzi musicali, che eran d’altronde reclamate dal moderno gusto teatrale cotanto cangiato dall’epoca [1782] in cui scrisse la sua musica il rinomato Paisiello».

Ciononostante alla prima, come sappiamo, l’opera fu sonoramente fischiata per poi intraprendere però già dalla seconda replica la sua crescente e ininterrotta serie di successi con il titolo della pièce originale. Ora è l’opera che probabilmente ha avuto il maggior numero di esecuzioni ed è stabilmente ai primi posti tra quelle messe in scena più frequentemente nei teatri del pianeta, portando al di fuori del nostro paese la lingua italiana e divertendo i pubblici più diversi.

Scritta in sole tre settimane, pur nella sua perfetta unità stilistica, Il barbiere fu costruito su numerosi autoimprestiti: Sigismondo, Aureliano in Palmira, La cambiale di matrimonio, Il signor Bruschino fornirono qualche loro pagina. Anche la cantata giovanile Egle e Irene fu utilizzata per il terzetto tra Rosina, Almaviva e Figaro. Per non dire della sinfonia originale che fu subito sostituita da quella di Elisabetta regina d’Inghilterra e successivamente da quella dell’Aureliano in Palmira.

In questo lavoro Rossini da un lato riprendeva codici e luoghi teatrali consolidati – come i travestimenti, la lezione di canto, la satira di costume nel personaggio di Don Basilio – dall’altro infrangeva la tradizione con novità che lo rendevano estremamente moderno per l’epoca: la primadonna faceva la sua prima apparizione in scena con una sola battuta invece della solita cavatina e i grandi finali alternavano momenti di stallo con altri di grande agitazione, per non dire dell’uso originalissimo dei crescendo. Né mancavano riferimenti all’amato Mozart, citato da Figaro in «perché d’un che poco è in sé» (la Sinfonia concertante KV 320D) o l’aria della calunnia di Basilio che faceva il verso a quella della vendetta del Bartolo delle Nozze.

Nato nel 2002 l’allestimento di Bepi Morassi viene regolarmente riproposto dal teatro veneziano. Già allora veniva sottolineata la tradizionalità della lettura («spettacolo nato vecchio e già pensionabile […] passatista e collage di banalità»!) che il regista giustificava con l’ispirazione alla Commedia dell’Arte, compresa una marcata gestualità e un gioco attoriale ricco di ammiccamenti verso il pubblico per sollecitarne la risata. Seppure depurato di alcune delle «caccole […] della più vieta e provinciale tradizione» (Elvio Giudici) – non si è notato infatti il deretano di Berta che spunta dal paravento durante la “calunnia” (scena immortalata invece nel DVD della ripresa del 2008) – altre sono state aggiunte, come quando Figaro e il Conte danzano con un bastone con pomello d’avorio (manca solo il cappello a cilindro…) il duo «All’idea di quel metallo».

L’impianto scenografico comprende grandi drappi dipinti che incorniciano gli ambienti di Lauro Crisman: una piazzetta su cui si affaccia il palazzo di Bartolo e sul fondo la silhouette di Siviglia con la torre della Giralda per l’esterno, e per l’interno una camera dalle pareti damascate e ricoperte dei ritratti degli antenati e poi paraventi, anche rotanti, a profusione.

In buca Stefano Montanari, il direttore rock che la sera prima aveva debuttato nell’operetta in questo stesso teatro, impone un ritmo sostenuto ma non sacrifica i colori e i timbri di questa miracolosa partitura – esemplare è la resa del temporale, mai sentito con tanta vivezza – e asseconda il più possibile i cantanti in scena.

Nel 2002 ci fu un cast di eccezione (giusto per fare tre nomi: Anna Caterina Antonacci, Matthew Polenzani e Alfonso Antoniozzi). Il 3 febbraio 2018, anno delle celebrazioni nel centocinquantenario dalla morte del compositore, la situazione è piuttosto differente. Il migliore della serata si conferma il Bartolo di Omar Montanari che, pur non rinunciando a una vivace presenza scenica, mantiene una linea di canto di gran gusto ed è impeccabile nel sillabato del «Signorina, un’altra volta». La voce originale di Rosina nel 1816 fu quella di un contralto, la Geltrude Righetti-Giorgi, poi fu spesso quella di un soprano. Qui si è optato per il giovane mezzosoprano Laura Verrecchia che non spicca per le agilità richieste dalla parte ed esibisce un timbro caldo ma non particolarmente affascinante. Neanche il Conte di Giorgio Misseri convince e infatti non gli viene concessa l’esibizione del rondò «Cessa di più resistere». Peggio il Figaro di Bruno Taddia, dal timbro soffocato e dalla voce ingolata, con frequente ricorso al parlato nei recitativi. La carente parte vocale è compensata dal dinamismo scenico: nella produzione originale arrivava trafelato dal fondo della platea, qui esce da una buca con tanto di fumo e vestito di rosso come un luciferino deus ex machina. Peggio ancora, ahimè, il Basilio di Mattia Denti che non riesce a seguire il passo dell’orchestra e che dà della «Calunnia» una versione da dimenticare. Berta ipermarcata quella di Giovanna Donadini, habituée del ruolo in questa produzione.

Se quello che conta è il giudizio del pubblico pagante, il risultato è comunque positivo: i turisti in maschera che hanno affollato il teatro hanno applaudito con calore.

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Il barbiere di Siviglia

Gioachino Rossini, Il barbiere di Siviglia

★★★★☆

Parigi, Théâtre des Champs-Élysées, 16 dicembre 2017

(live streaming)

Il barbiere di Parigi, spettacolo elegante e geniale

La concorrenza tra i teatri lirici di Parigi è una cosa che molte città si sognano: a parte Vienna e Berlino nessun’altra ha un tale numero di sale che offrano l’opera. Il Théâtre des Champs-Élysées è uno di questi, con una programmazione che tiene validamente testa alla più blasonata Opéra National e questo Barbiere di Siviglia è l’occasione per sentire interpretato dal giovane e ormai ampiamente affermato Jérémie Rhorer un titolo che al di qua delle Alpi rischia di essere inflazionato mentre al di là non sembra così popolare per un pubblico che infatti applaude nei momenti sbagliati.

La critica francese non ha apprezzato molto l’allestimento minimalista di Laurent Pelly, che cura anche scene e costumi. Come nel suo Don Quichotte, enormi fogli di musica formano la scenografia. Non molto di più si vedrà e ogni oggetto in scena sarà caratterizzato dal motivo dei pentagrammi vuoti. Niente Siviglia, nessun elemento realistico (unici elementi iberici i copricapi da Guardia Civil dei coristi, che invece dei fucili sono armati di leggii), tutto è giocato sulla monocromia di una scenografia forse troppo stilizzata compensata però dall’abilità di Pelly a dar significato ad ogni segno musicale con particolari arguti e ben realizzati come sempre. Come quando i righi diventano le sbarre che ingabbiano l’insofferente ragazza, o le note nere che piovono durante il temporale o come quando dopo la scena della lezione l’intera parete di fondo, che rappresentava una pagina de L’inutil precauzione, si chiude con pianoforte e sgabello come un libro pop-up.

A capo dell’orchestra di strumenti d’epoca de Le Cercle de l’Harmonie Jérémie Rhorer imposta tempi vivaci e cura particolarmente l’aspetto timbrico della partitura come nella pagina orchestrale del temporale punteggiata dall’intervento coloristico degli strumenti. La sua è una lettura molto fresca e stimolante di una musica che ogni volta sorprende per la sua genialità.

Michele Angelini è un Lindoro/Almaviva di bella presenza scenica e sicuri acuti, a suo agio nelle agilità e nelle variazioni con cui infarcisce il suo lungo intervento finale che in quel momento lo fa diventare protagonista assoluto tra l’impazienza del Figaro trucido, capelli a treccia e note tatuate sulle braccia, di Florian Sempey, lo stesso Figaro che era passato inosservato in quel bailamme del Barbiere di Livermore. La Rosina di Catherine Trottmann, che sostituisce l’originariamente prevista Kate Lindsey, è un mezzosoprano dalla voce poco timbrata e monocorde, fisicamente minuta ma scenicamente vivace. Qualche piccola difficoltà con la lingua ma vocalmente eccellenti e attori strepitosi sono il Bartolo di Péter Kálmán e soprattutto il Basilio di Robert Gleadow. Anche Annunziata Vestri come Berta si dimostra formidabile caratterista.

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Il barbiere di Siviglia

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 Gioachino Rossini, Il barbiere di Siviglia

★★☆☆☆

Roma, Teatro dell’Opera, 11 febbraio 2016

(diretta TV)

Almaviva ha perso la testa

Il barbiere di Siviglia è di scena a Roma. Non al Teatro Argentina, dove duecento anni fa furono proprio i romani a decretare il maggior fiasco nella carriera di Rossini, bensì all’Opera ex Costanzi – con esiti neanche troppo diversi da quelli della burrascosa serata del 20 febbraio 1816: allora tirarono un gatto, stavolta in scena ci sono già un ratto e un orso.

Durante l’ouverture un video in stile gilliamesco, tributo alla grafica surreale dei Monty Python (1) che si rivelerà la cosa migliore della serata, il rasoio di Figaro serve a mozzare le teste di vari tiranni, da Luigi XVI a Sadam Hussein, passando per Stalin, Franco e Mussolini – e qui qualche nostalgico di quest’ultimo in teatro ci doveva essere (2) poiché sono partiti subito degli sparuti intempestivi dissensi che poi però sono diventati una valanga alla fine dello spettacolo quando il regista è salito sul palcoscenico.

Ma andiamo per ordine. La testa la perde subito anche il conte d’Almaviva, sotto la lama di una ghigliottina, così come succede ad altre comparse che affollano acefale la scena assieme a un Bartolo in sedia a rotelle, un Lindoro travestito da jettatore, un orso che flirta con Berta, un topo radiocomandato e tant’altro. Chi pensava che con Dario Fo si fosse raggiunto il massimo delle invenzioni teatrali nella messa in scena di quest’opera, qui si deve ricredere perché Davide Livermore supera di gran misura il maestro: tra videografica e personaggi reali è una continua serie di gag da farsa o da cinema muto, siparietti, ‘a parte’ e numeri di prestigio suggeriti dal mago Alexander.

Dall’Ancien Régime nel primo atto si passa nel secondo a un secolo dopo e infine ai giorni d’oggi. Le diverse ambientazioni sono realizzate tramite le immagini dello studio D-wok, da tempo presente nelle regie di Livermore. I mirabolanti costumi di Gianluca Falaschi, in un bianco e nero che ricorda quello del suo Ciro in Babilonia, e i trucchi pesanti trasformano i personaggi della commedia di Beaumarchais in maschere caricaturali. L’umorismo del libretto di Sterbini viene quasi annientato dalle continue immissioni di trovate e trovatine in un horror vacui che la ripresa video cerca faticosamente di catturare e che causano spesso scollature tra scena e buca. Idee buone per almeno tre spettacoli sono qui stipate in modo tale da far quasi dimenticare la musica che Donato Renzetti si ostina a eseguire con brio senza che sul palco qualcuno riesca a seguirlo. L’unica che in parte tiene testa a quello che avviene davanti e dietro, a dritta e a manca, sopra e sotto è Chiara Amarù, che esprime una Rosina di buona musicalità e padronanza vocale, ma quasi tutti gli altri sembrano sopraffatti, pur in ruoli che hanno già portato in scena diverse volte. Così è per Edgardo Rocha, pallido riflesso di suoi precedenti Conti d’Almaviva, Florian Sempey, qui Figaro senza carattere o Ildebrando D’Arcangelo, troppo impegnato con la gag ripetuta del braccio finto per riuscire a dare una qualche verità al personaggio di Basilio. Degli altri interpreti si salva forse solo il Bartolo di Simone del Savio nonostante l’eccesso di caratterizzazione richiestogli.

Si capisce quanto Livermore si sia divertito ad allestire questo suo Barbiere, ma la mano pesante non ha incontrato il gradimento del pubblico che ha ravvisato nella sua lettura un ritorno indietro di oltre quarant’anni, quando la messa in scena di questo “dramma comico” non era aliena da sguaiatezze, lazzi e cachinni di una cattiva tradizione spazzata via dall’opera di pulizia effettuata in orchestra – e conseguentemente in scena – da un Claudio Abbado in primis. C’era voluta la sua autorevole sensibilità per togliere al teatro di Rossini le superfetazioni incongrue accumulate in decenni e che qui invece sembrano essere ritornate prepotentemente in auge per mano di un regista moderno che ha dato altrove prove di grande intelligenza. Ed è sintomatico che l’anteprima riservata ai giovani abbia invece riscosso successo: un pubblico avvezzo alla ridondanza visiva e alla videografica – e digiuno di musica, per lo meno di questa musica – sembra abbia apprezzato il bailamme in scena.

La serata è stata trasmessa in diretta da RAI 5 e l’ineffabile presentatrice ha da subito dimostrato la sua competenza interpellando prima dello spettacolo un signore barbuto tra il pubblico: «Lei che ha interpretato come tenore quest’opera molte volte…». «Veramente, mai!» ha risposto Plácido Domingo.

(1) E di Terry Gilliam sarà un prossimo spettacolo dell’Opera di Roma, il Benvenuto Cellini di Berlioz.
(2) È sintomatico il fatto che non sia mai stata cancellata la dedica al Duce sopra il boccascena!

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Il barbiere di Siviglia

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★★★☆☆

Un Barbiere un po’ troppo affollato

Una delle opere più popolari e seconda solo alle Nozze di Figaro mozartiane – anche queste tratte dalla trilogia del Beaumarchais – in quanto perfetto meccanismo teatrale. Sembra im­possibile che la prima sia terminata fra i fischi, ma il fatto è che Rossini aveva lan­ciato una sfida da taluni ritenuta oltraggiosa nel voler riprendere su libretto di Cesare Sterbini lo stesso soggetto che era stato messo in musica con enorme successo 34 anni prima da un Paisiello che il 20 febbraio 1816, data della prima del­l’opera di Rossini, era ancora vivo.

Atto I. Quadro primo. Su ordine del conte d’Almaviva, Fiorello ha radunato una piccola orchestrina sotto la finestra di Bartolo, dietro la quale è tenuta nascosta la bella Rosina. Il conte raggiunge il suo servitore e intona una romantica serenata, con cui spera di guadagnarsi l’attenzione e l’amore della ragazza. Invano: è costretto a licenziare la sua banda, che si allontana rumorosamente dopo aver ricevuto il compenso, quando si materializza per strada un curioso personaggio. È Figaro, barbiere in Siviglia, che canta la sua gioia di vivere e le proprie insostituibili qualità professionali. Il conte, che già da tempo conosce Figaro, lo mette a parte del suo impossibile amore per la ragazza che ha incontrato al Prado. Ma oggi è un giorno fortunato: Figaro può essergli utilissimo, perché già svolge un certo numero di mansioni per conto di Bartolo, il tutore di Rosina. Mentre stanno parlando, quest’ultima getta dal balcone un biglietto per l’innamorato sottostante. Malgrado il pronto intervento di Bartolo, il messaggio riesce ad arrivare al conte, che le risponde con una canzone appassionata, accompagnandosi alla chitarra: si dichiara innamorato di lei ma, perché non sia il titolo nobiliare ma solo l’affetto sincero a muovere la ragazza, si cela sotto il finto nome dello studente Lindoro. Poiché la ragazza non può rispondere dal balcone, il conte decide di andare a conoscerla personalmente proprio a casa sua, nella tana del lupo: a Figaro il compito di escogitare un piano di successo. Il barbiere, stimolato dal generoso compenso promesso, elabora una strategia originale per far incontrare i due amanti, eludendo la sorveglianza occhiuta del tutore: il conte dovrà travestirsi da soldato di un reggimento di passaggio a Siviglia, con il pretesto di un ordine di alloggio presso Bartolo e, perché le sue mosse sembrino meno calcolate, dovrà fingere di essere ubriaco. Orgoglioso l’uno del proprio ingegno (nonché entusiasta per la promessa di «oro a bizzeffe» da parte del conte), animato dalla speranza più viva l’altro, i due si lasciano dandosi appuntamento alla bottega di Figaro.
Quadro II. A casa di Bartolo, Rosina ripensa lusingata all’irruzione del giovane Lindoro nella sua vita: è decisa a tutto pur di coronare il reciproco desiderio e la paventata, probabilissima opposizione del tutore non potrà nulla per contrastarla. Arriva Figaro per parlarle, ma deve nascondersi per il sopraggiungere di Bartolo, allarmato dall’iniziativa del barbiere. Intuito che si sta tramando qualcosa di poco chiaro, il tutore decide di affrettare i tempi per le nozze che ha progettato con la sua pupilla. Avvisa perciò Don Basilio della decisione, e riceve da questi ulteriori motivi di preoccupazione: è stato visto a Siviglia il conte d’Almaviva, di cui è noto l’interesse per Rosina; l’unico modo per debellare la sua insidiosa concorrenza è rovinarne la reputazione calunniandolo. Rimasto solo, Figaro avverte Rosina del destino che l’aspetta, ma la ragazza non si dà per vinta, anzi gli chiede informazioni su quel bel giovane che ha visto dal balcone e Figaro lo spaccia per suo cugino, innamoratissimo di lei. Quando il barbiere le chiede di vincere la timidezza e inviare un biglietto a Lindoro, la finta innocente lo prende dalla tasca già bell’e pronto. La stesura del biglietto non è sfuggita però al sospettoso Bartolo, che ha notato l’inchiostro sul dito della ragazza, un foglio mancante e la penna temperata: le chiede invano una confessione e, infuriato perché Rosina lo considera tanto credulone, minaccia di chiuderla in camera a chiave la prossima volta che dovrà assentarsi. Poco dopo, quando la cameriera Berta va ad aprire alla porta, si trova di fronte una scena bizzarra: un soldato ubriaco che avanza con la spada sguainata. Tra un’infinità di mosse febbrili d’inaudita confidenza (insulti, abbracci), il conte consegna a Bartolo l’ordine di alloggiarlo a casa sua. Arriva intanto Rosina, che il tutore vorrebbe allontanare: il finto soldato le si rivela come Lindoro e cerca di consegnarle un biglietto. Intanto Bartolo ha trovato l’esenzione dall’alloggio: inutilmente, perché il conte minaccia battaglia e ne descrive il piano con grandi movimenti che occultano il passaggio del biglietto a Rosina. Bartolo però ha visto tutto, ma Rosina è ancora più abile e riesce a sostituire il biglietto di Lindoro con la nota del bucato. Pianti della ragazza, insulti reciproci, una sciabola sguainata, l’arrivo di Don Basilio e infine quello di Figaro: il barbiere avvisa che la confusione è stata notata all’esterno e molta gente è ormai radunata sulla strada; cerca così di ridurre alla ragione i contendenti e soprattutto di richiamare alla moderazione il conte. È troppo tardi, però: le forze dell’ordine si presentano alla porta per chieder conto del baccano. Ognuno cerca di spiegare le proprie ragioni all’ufficiale in comando, che alla fine decide di arrestare il conte. Questi però con un gesto autorevole trattiene i soldati e consegna all’ufficiale un foglio che rivela la sua identità, impedendo così il proprio arresto e gettando tutti – tranne Figaro – nell’incredulità più totale.
Atto secondo. Bartolo, scoperto che nessuno al reggimento conosce il soldato importuno, sospetta si sia trattato di una spia del conte d’Almaviva; ha appena iniziato a ragionare sull’accaduto quando riceve un’altra visita, da parte del sedicente Don Alonso, maestro di musica sostituto di Don Basilio. Il petulante personaggio non convince però il dottore: è infatti ancora il conte, con un altro travestimento suggeritogli da Figaro. Per guadagnarsi la fiducia del tutore – e convincerlo della propria importanza per i suoi piani nuziali – il conte è costretto a mostrargli il biglietto che Rosina ha scritto a Lindoro. All’arrivo della ragazza inizia a darle lezione di canto; questa, che l’ha riconosciuto all’istante, si esibisce nel rondò «dell’Inutil precauzione», inframmezzandolo di dolci parole d’amore per il suo Lindoro. A questa incomprensibile musica moderna Bartolo contrappone un’aria della sua gioventù, interrotta dall’arrivo di Figaro. Il barbiere cerca dapprima di distrarre Bartolo, imponendogli di rasarlo, quindi gli ruba la chiave della finestra che dà sulla strada. Sul più bello arriva però Don Basilio, cui la notizia della propria malattia giunge come un fulmine a ciel sereno. Con un gioco frenetico di messaggi passati di soppiatto, il conte convince Bartolo a non parlare a Don Basilio del biglietto mostratogli, mentre una borsa di denaro è sufficiente a persuadere l’intrigante maestro di musica a darsi veramente malato e lasciare la scena. Ripresa la rasatura di Bartolo, i due amanti prendono a discorrere finalmente senza impedimenti: ma il sospettoso tutore riesce ugualmente, nonostante la copertura di Figaro, a cogliere i due mentre progettano l’evasione di Rosina, rovinando così anche questo nuovo piano del barbiere. Rimasta sola, Berta, la vecchia cameriera, riflette sulla confusione destata dall’amore, questo «male universale» che non lascia insensibile neppure lei. Bartolo intanto, scoperto che Don Basilio non sa nulla dell’impostore Don Alonso, mostra a Rosina il biglietto che la ragazza ha mandato a Lindoro, insinuando che il suo amato non sia che un intermediario del conte d’Almaviva, inviato a sondare il cuore della ragazza. Rosina, furibonda per l’inganno, decide per vendetta di sposare il tutore. Dal temporale che segue emergono, fradici per la pioggia e avvolti nei loro mantelli, Figaro e il conte, entrati dalla finestra per rapire Rosina. Di fronte alla furia della ragazza, il conte rivela la propria identità: esplode finalmente la gioia dei due amanti e Figaro gode del successo dei propri piani. Mentre la fuga viene ritardata da continue dichiarazioni d’amore, il barbiere nota allarmato due figure che stanno entrando in casa e invita gli amanti a fuggire quanto prima. La scala per la fuga è stata però rimossa e i tre vengono sorpresi da Don Basilio e da un notaio, chiamati da Bartolo per celebrare il suo matrimonio. Poco male: con il regalo di un anello e sotto la minaccia di una pistola, Don Basilio viene convinto a testimoniare per una diversa coppia di sposi, Rosina e il conte. Quando Bartolo giunge, accompagnato da un magistrato e dai soldati per far arrestare gli intrusi, non può che arrendersi al fatto compiuto; duramente apostrofato dal conte, deve ammettere la stoltezza ultima di aver tolto la scala per impedire la fuga dei complici, ottenendo così l’effetto contrario di spingerli alle nozze: proprio «un’inutil precauzione»! Tutti si uniscono a celebrare il trionfo di questo amore contrastato.

Al Teatro Argentina di Roma erano confluiti quella sera per dar battaglia sia i seguaci del vecchio musicista pugliese sia gli impre­sari del tea­tro concorrente, il Valle. La prima si rivelò dunque un fiasco, osteggiata rumorosamente e funestata da una serie impressionante di incidenti in scena, sotto gli occhi amareggiati di Rossini che dirigeva dal cembalo. Le repliche successive decreta­rono invece il successo dell’opera che finì per oscu­rare la pre­cedente versione di Paisiello e da allora è tra le più rappre­sentate al mon­do. Nelle ultime cinque stagioni è stata data ben 465 volte (fonte operabase.com).

Proprio la sua immediata popolarità ha indotto sia l’autore sia altri compositori a scrivere pezzi alternativi per le varie repliche: l’aria 8b (al posto di «A un dottor della mia sorte») «Manca un foglio» (Bartolo) scritta da Pietro Romani; l’aria 11b (al posto di «Contro un cor che accende amore») «La mia pace, la mia calma (Rosina); l’aria 14b (posta prima del temporale) «Ah, s’è ver, in tal momento» (Rosina) composta per Joséphine Fodor, interprete della parte a Venezia nel 1819; per la replica al Teatro Contavalli di Bologna nell’estate del 1816, Rossini, su suggerimento di Geltrude Righetti-Giorgi, interprete della parte, riadattò l’aria «Cessa di più resistere» (Almaviva) per il personaggio di Rosina.

Molti sono poi gli autoimprestiti: l’ouverture dell’opera proviene dall’Aureliano in Palmira, prima di essere riutilizzata poi anche nell’Elisabetta, regina d’Inghilterra; l’introduzione «Piano pianissimo» proviene dal Sigismondo (Introduzione «In segreto a che ci chiama»); la serenata «Ecco, ridente in cielo» proviene dall’Aureliano (Coro «Sposa del grande Osiride»); la cabaletta «Io sono docile» proviene dall’Elisabetta (Cabaletta «Questo cor ben lo comprende»); la cabaletta «Fortunati affetti miei!» proviene da La cambiale di matrimonio (Cabaletta «Vorrei spiegarvi il giubilo»); l’aria «Ah il più lieto e più felice» sarà riutilizzata ne Le nozze di Teti e Peleo (Aria «Ah, non potrian resistere») e nell’opera La Cenerentola (Aria «Non più mesta accanto al fuoco»).

Innumerevoli sono le registrazioni e solo in DVD disponibili nel nostro paese se ne contano più di una dozzina. Questa è la coprodu­zione del Teatro Real di Madrid con il São Carlos di Lisbona ed è stata registrata nella capitale spagnola nel 2005.

Quasi più fedele al titolo originale dell’opera, Almaviva o sia l’i­nutil precauzione, l’interprete principale di questa produ­zione è il Conte dell’eccelso Juan Diego Flórez che dalla prima serenata (con accompagna­mento di chitarra suonata dal maestro Gelmetti stesso) al tour de force del rondò del finale dà una lezione di stile e di belcanto quasi ineguagliabile oggi. D’altronde anche alla prima del 1816 questa parte era stata affidata al mitico tenore Manuel García.

Nel ruolo del titolo un elegante (forse troppo?) Pietro Spagnoli che ha ripulito di tutti i manierismi della tradizione la sua interpreta­zione restituendoci un Figaro tutt’altro che clownesco, che però il pubblico di Ma­drid non premia con particolare entusiasmo. María Bayo è una Rosina con temperamento, sicura nelle agilità e precisa nel fraseggio, ma non sempre gradevole nella voce e nei primi pia­ni. Regge comunque bene la scena e si pre­mia aggiungendo alla sua parte nel second’atto un’aria, «Ah, s’e­gli è ver», che Rossini avrebbe scritto due anni dopo la prima e che mai viene eseguita, ma che dà alla cantante l’opportunità di sfoggiare ulteriori agili­tà.

Il lato umoristico della vicenda è di appannaggio degli altri perso­naggi. Praticò disegna un divertente Bartolo e non fa rimpiangere troppo il sommo Enzo Dara in questa stessa parte. Ancora più istrionico il Don Basilio di Ruggero Raimondi che rende qui sop­portabile e quasi surreale la sua particolare di­zione («Che comparir lo foccia un uomo infome … La calonnia è un venticello, on’aorit­ta … on tremuoto, on temporale … »).

Menzione a parte per la Berta di Susana Cordón che si rivela gu­stosa caratterista e brava cantan­te nella sua unica, talora omessa, aria «Il vecchiot­to cerca moglie».

Della conduzione di Gianluigi Gelmetti si apprezza la verve e la trasparenza, anche se il maestro non è sempre perfettamente coa­diuvato dai musicisti dell’orchestra spagnola e stacca talora tempi un po’ rilassati e non sempre è in accordo col passo dei cantanti.

Molto belle le scene di Llorenç Corbella che crea dal nulla il puzzle della strada di Siviglia o della casa di Bartolo. Così come i costumi tutto è in un elegante bianco e nero che solo verso la fine esplode in colori rutilanti.

La regia di Emilio Sagi è molto attenta alla recitazione degli interpreti, ma riempie eccessivamente la scena di figuranti e danzatori. Tutto avviene sempre davanti a una pletora di personaggi che si muovono e in­teragiscono in maniera inutile e fasti­diosa con i can­tanti. A volerci ricor­dare poi che siamo in Spagna si accennano in continuazione passi di se­villana e flamenco, quando sarebbe basta­to, e avrebbe fatto ancora più effetto, il fe­stosissimo finale con la partenza in mongolfiera dei due innamo­rati – un amore volatile e destinato a non durare a lungo visto quel che succederà nel secon­do capitolo della trilogia di Beau­marchais.

Come extra un film un po’ inutile di quasi un’ora con ampi estratti dell’esecuzione e il riassunto della vicenda fatto dagli interpreti. Più interessante il backstage di sedici minuti in cui si vede l’idea­zione  dello spettacolo.

Sottotitoli in cinque lingue diverse, ma non in italiano, la lingua in cui è scritta l’opera! Shame on DECCA!

Torvaldo e Dorliska

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★★★★☆

 

Opera trascurata opportunamente riproposta

Nel 2006 il benemerito Rossini Opera Festival (1) inaugura la sua stagione con quel “dramma semiserio” Torvaldo e Dorliska che aveva debuttato nel 1815 al Valle di Roma su libretto dello Sterbini (lo stesso del Barbiere) e basato sulla medesima vicenda della Lodoïska musicata da Luigi Cherubini sul libretto francese di Fillette-Loraux (1791) e della Lodoiska di Simon Mayr (1796) sul libretto italiano di Gonella De Ferrari.

La storia, ambientata nel XVI secolo in un non ben precisato paese europeo, narra del tirannico duca d’Ordow che ama, non corrisposto, la giovane Dorliska che tiene prigioniera nel suo castello. Il cavaliere Torvaldo giunge per salvare l’amata sposa e con l’aiuto del guardiano Giorgio riesce alla fine nell’impresa grazie anche all’insurrezione dei sudditi oppressi dal bieco patrizio.

La partitura dell’opera verrà saccheggiata dallo stesso Rossini per le opere seguenti, ma riutilizza essa stessa brani di lavori precedenti, a cominciare dalla sinfonia. Il tipo dell’opera è quello della pièce à sauvetage (quella del Fidelio per intendersi) con inserimento però di un ruolo buffo, così come avverrà con La gazza ladra due anni dopo.

La direzione di Víctor Pablo Pérez non aggiunge molto pepe alla musica ed è compito della regia di Mario Martone cercare di movimentare la vicenda e coinvolgere maggiormente il pubblico anche tramite una passerella oltre la buca dell’orchestra, i cantanti in platea e gli “a parte” rivolti agli spettatori.

Dei due protagonisti principali Francesco Meli è quello con maggior merito per le sue mezzevoci, la bellezza del fraseggio e gli acuti, però del grande Bergonzi (cui è spesso accostato) non ha solo l’accento ma anche la staticità scenica! La Dorliska di Darina Takova ha voce un po’ corta e manca di autentico accento drammatico. Praticò si conferma ottimo caratterista, ma la voce è ormai stremata e la parte è quasi più parlata che cantata. Nel grande ruolo del perfido duca (un progenitore di Scarpia nella regia di Martone) Pertusi svetta per forza espressiva e linea del canto.

Efficace la ripresa video dello spettacolo di Tiziano Mancini, ma senza sottotitoli. Nei due dischi non ci sono extra.

(1) A quando un analogo Vivaldi Opera Festival? Il VOF avrebbe una scelta ancora più ampia di opere! Ma chi lo dovrebbe fare? Venezia dove il prete rosso è nato e ha composto la maggior parte dei sui lavori? Vienna dove il musicista si era trasferito negli ultimi anni e che ne ha accolto le spoglie? Oppure Torino con il suo ingente fondo di manoscritti delle raccolte Foà e Giordano?